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LE STELLE

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TOM BULLOUGH

IL BAMBINO CHE INVENTò

LE STELLE

Traduzione diFedeRiCa meRani

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Titolo originale dell’opera: Konstantin Copyright © Tom Bullough, 2012 All rights reservedThe author’s right to be identified as the author of the work has been assertedFirst published in Great Britain in the English language by Penguin Books Ltd

La traduzione di pagina 91 è tratta dal sito www.liber.it a cura di Gemello Gorini.

Realizzazione editoriale: Elàstico, Milano

ISBN 978-88-566-2237-9

I Edizione 2014

© 2014 - EDIZIONI PIEMME Spa, Milano www.edizpiemme.it

Anno 2014-2015-2016 - Edizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

Stampato presso ELCOGRAF S.p.A. - Stabilimento di Cles (TN)

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Dicembre 1867

Kostja scendeva di buon passo la sponda dell’Oka ghiacciata, vispo e leggiadro nella spessa pelliccia di montone come un passero nel suo piumaggio invernale. Sul fiume, le orme dei boscaioli tagliavano di netto il manto nevoso verso nord, puntando dritte ai tronchi di pino sparsi lungo la riva ai piedi della foresta. Ko-stja correva e si lasciava scivolare sul ghiaccio vivo. Con un braccio in fuori per tenersi in equilibrio e la gavetta di zuppa che luccicava tra la camicia e il montone, dal folto delle betulle uscì alla luce dicembrina senza veder muovere altro sotto il cielo azzurro pallido che la pro-pria lunga ombra ondeggiante.

La neve sulla riva nord aveva formato una crosta, dopo l’ultimo transito di cavalli e di uomini in calzari di betulla, e il ragazzo risalì agile e svelto il pendio. Si arrampicò tra le centinaia di tronchi incappucciati di bianco che, in attesa di essere trascinati a est assieme al ghiaccio in frantumi e di coprire a suon di reboanti gorgoglii le trecentocinquanta verste fino alle segherie di Nižnij Novgorod, erano ancora gelati quanto il bo-sco retrostante. Gli ampi solchi induriti e scintillanti che avevano lasciato nella neve alta, tra i nudi sterpi di lillà e gli esili frassini, convergevano tutti su una breccia nella muraglia dei pini.

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Quell’inverno, come tutti a Rjazan’ sapevano, era stato emesso il divieto di abbattere alberi entro cinque verste di distanza dal fiume.

Anche un adulto avrebbe impiegato un’ora per rag-giungere a piedi la spianata dei taglialegna, ma Kostja ar-rivò nella foresta quasi al trotto, seguendo i pennacchi del proprio fiato. All’ombra dei grossi alberi innevati, il freddo era più pungente che mai sulle sue guance rosa e paffute, sulla bocca seria e risoluta e su quei neri occhi tatari che aveva ereditato dalla madre. Premendo la ga-vetta contro il ventre sottile, alzò gli occhi solo una volta, quando il sole penetrò tagliente tra i rami intricati e mutò il loro manto di neve in un torrente di luce.

Dopo aver percorso forse un paio di verste, giunse davanti a una striscia rosso vivo sulla neve battuta. Si fermò e, tastandola con lo stivale di feltro, la scoprì vi-schiosa. Spiccava nel candore uniforme. Gli si allun-gava di fronte serpeggiante, mista a bioccoli di pelo, inarcandosi sulle orme dei cavalli. Alzata la testa, Ko-stja si trovò davanti un alto cane arruffato, il cui folto manto luccicante di ghiaccioli era di un colore tale che, fosse stato appena qualche passo più indietro, si sa-rebbe confuso con il bianco grigiastro dei tronchi.

Sul viottolo stretto ai piedi degli alberi tappezzati di ombre, Kostja udì il palpito del proprio cuore, l’an-simare del proprio respiro, il fruscio di una cascata di neve scivolata dall’alto delle chiome, ma in sotto-fondo, a parte questi lievi rumori, null’altro, solo il grande silenzio indifferente del bosco. Distratta-mente, si chiese perché quel cane si fosse allontanato tanto da Korostovo, il paese dove senz’altro abitava. Nell’odore della zuppa di cavolo fiutò il suo acre lezzo animale. Vide tra gli artigli grandi e palmati la lepre mezzo divorata. Vide le orecchie appuntite, le spalle

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muscolose, le zanne affilate come coltelli tra le nere labbra sottili.

Vide il silenzio nei suoi occhi di brace.

La fascia disboscata dagli uomini di Korostovo si estendeva parallela all’Oka: un grosso squarcio di al-beri spezzati e cielo aperto, dove donne con il fazzoletto in testa e bambini in abiti rammendati raccoglievano i rami sotto i pochi pini deformi o inservibili, i tigli e i sorbi ora esposti al sole invernale. Colonne di fumo si levavano dai falò dei tagliaboschi come fossero gli spet-tri degli alberi abbattuti. Piccolo e tremante, Kostja se ne stava impalato all’imboccatura del sentiero, con la visiera del berretto di lana blu calata sugli occhi. A sud gli uomini lavoravano senza sosta, le asce che risuona-vano nell’aria gelida. Kostja li osservò aprire una tacca sopra la radice di ogni albero e un’altra più in alto, dalla parte opposta. Li osservò affondarvi il cuneo a martel-late mentre la cima cominciava a vacillare e, appena i rami si schiantavano a terra in una stridente esplo-sione di schegge, avventarsi sul tronco e inciderne la corteccia per il lungo con movimenti rapidi ed esperti, scuoiandolo come un animale.

Trascorsi diversi minuti, dopo che molte donne eb-bero interrotto il proprio lavoro per additare e chiamare il ragazzo, da sud accorse il caposquadra dal bordo della foresta. La grossa sagoma scura di Eduard Ignatevič si profilò avvolta in un lungo pastrano nero e sormontata da un nero cappello di feltro sopra i corti capelli cor-vini e la barba brizzolata. Persino con la mazza che gli pendeva dalla manona guantata, Eduard Ignatevič po-teva sembrare tanto un guardaboschi quanto un prete.

«Konstantin?» Si tolse gli occhiali di tasca e li in-forcò. «Che ci fai qui?»

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Kostja si levò la gavetta da sotto il cappotto e gliela porse con le mani tremanti, mentre dal coperchio si le-vava un esile ricciolo di vapore.

«Konstantin» ripeté il padre battendo le palpebre, ma conservando il timbro di voce basso e regolare ti-pico dei polacchi. «Lascia che ti spieghi una cosa molto importante che ti ho già spiegato in passato ma che, evidentemente, non hai compreso a dovere. In città l’uomo è un essere pensante. Ovvero un essere dotato d’intelletto. Con una casa, un focolare e affidabili ri-sorse di cibo, è capace di andare oltre il contingente, di dimenticare la propria fisicità e dedicarsi alle attività mentali. Senza la città non avremmo i libri, il telegrafo, la ferrovia. Perché nel bosco, l’uomo non è altro che un animale senza artigli né pelliccia. Da solo nella foresta, d’inverno, può considerarsi in grave pericolo. Mi sono spiegato?»

Eduard Ignatevič aprì il portasigarette di latta, ac-cese un fiammifero e sbuffò una nuvola di fumo che luccicò alla luce del sole acquattato tra le chiome degli alberi a sud. Kostja sbatté gli occhi per trattenere le la-crime e annuì brevemente, mentre il padre lo guidava tenendogli la mano sulla schiena verso un vicino falò con accanto un pino che pareva venuto a piangerlo e che aveva un ramo avvizzito quasi alla sommità del tronco, dove un fulmine l’aveva colpito.

«Come sai,» continuò «lo zemstvo ha imposto il di-vieto di abbattere alberi a Rjazan’ a partire dalla fine di questa settimana, per cui ho un sacco di lavoro da fare. Quindi gradirei che ti preparassi un letto di braci, ti scaldassi la zuppa e la bevessi una volta che è calda.»

«Ma...» disse Kostja.«Niente ma.»«Ma, padre, l’ho portata per te!»

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«Konstantin» rispose Eduard Ignatevič, stavolta con una lieve incrinatura della voce. «Mi prendi per un idiota? Credi che venga nel bosco ogni giorno senza cibo a sufficienza?»

«Ma... Mama era preoccupata che dovessi lavorare di nuovo dopo il tramonto. Dice che è l’inverno più ge-lido che si ricordi e che ti sarebbe venuta fame!»

Il padre si girò al grido di uno dei boscaioli.«Ebbene,» disse «qualunque cosa ti abbia detto tua

madre, di certo non avrebbe mai voluto che venissi fin qui. Anzi, sarebbe fuori di sé dalla preoccupazione se dovesse scoprirlo. La questione è molto semplice. Tu stai tremando, indice che cerchi di non perdere calore. È importante che tu non prenda freddo, perciò devi bere la zuppa, restare vicino al fuoco e aspettare il mio ritorno.»

Nonostante il calore del falò, un velo di ghiaccio aveva già coperto le piccole lenti tondeggianti dei suoi occhiali.

Quella notte aveva nevicato di nuovo e, nel freddo grigiore del mattino, via Voznesenskaja si presentava bianca e pulita sotto le nuvole basse, i salici frondosi e il rosso, l’azzurro e il verde delle isbe. Le imposte erano di nuovo aperte. Donne in scialle e grembiule sgombravano i vialetti davanti alla porta di casa, il loro fiato visibile nell’aria mentre si scambiavano commenti sui venticinque gradi sottozero, sull’anello che una di loro aveva visto attorno alla Luna, sul topo che un’al-tra aveva trovato nella scarpa. Tutte, a quanto pareva, avevano qualche oscuro presagio da riferire, anche se a Kostja, in piedi davanti ai gradini di casa con il suo slit-tino, la città sembrava uguale identica a com’era stata in qualunque altro inverno che ricordasse.

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Kostja abitava in una casa di legno con le pareti az-zurre azzurre, tre finestre rettangolari bordate di inta-gli a guisa di pizzo e gronde che spuntavano dal tetto di lamiera come la sottoveste di una gran signora. Nella neve accanto alla porta, c’era quel che restava di una trebbiatrice inventata da Eduard Ignatevič e che non aveva mai funzionato a dovere. Dal tozzo comignolo di mattoni, un filo di fumo azzurrognolo puntava a ovest verso il terrapieno della ferrovia che, giunta a Rjazan’ due anni e mezzo prima, a detta della madre di Kostja, un giorno avrebbe raggiunto località vagheggiate come Voronež e Rostov sul Don, proprio sulle rive del Mar Nero!

«Ignat!» strillò Kostja.La porta d’ingresso si aprì e il fratello schizzò fuori

dal cucinino buio dove i dieci membri della famiglia Ciolkovskij passavano la notte da ottobre ad aprile.

«Badate di non prendere freddo, voi due!» gli gridò dietro la madre.

«Sì, mama!»Ignat era un paio di veršok più basso di Kostja, un

cosetto pelle e ossa di nove anni, con due occhioni az-zurri e un’ombra in luogo degli incisivi che aveva perso da poco. Da tempo inseparabili, visto l’anno scarso di differenza, i due bambini s’incamminarono senza fiatare lungo la scia di una troika passata proprio quel mattino. Alzarono entrambi il berretto di lana per sa-lutare un vicino che stipava il fieno dalla porta della stalla e aveva un paio di polli che gli becchettavano bri-ciole immaginarie tra i piedi e, a mano a mano che pas-sarono davanti alle casette variopinte, chiamarono gli amici con fischi assordanti.

«Andrej!»«Viktor!»

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«Nikolaj!»«Venite a scivolare con noi!»Via Mjasnickaja conduceva a nord verso il centro

della città e i due fratelli non ci misero molto a rag-giungere i confini entro cui aveva infuriato l’incendio del 1837. Lì cominciavano gli edifici più alti, in pietra e mattoni e dalle tenui sfumature rosa e gialle. Il circolo dei mercanti, dove uomini in pelliccia d’orso erano ra-dunati a discutere, o l’ospedale, da cui Kostja distin-gueva vagamente provenire le grida di qualche sventu-rato paziente. Superata la slitta di un izvozčik alla guida di un cavallo fumante, giunsero in piazza Novobazar-naja, dove una squadra di contadini spazzava i mar-ciapiedi di legno dei giardini innevati, e lì si tennero più vicini possibile a un uomo che vendeva piroški, fa-gottini di carne dal profumo così delizioso che valevano ben bene una visita.

«Ti immagini se...» attaccò Kostja.«Kostja!»«Lo so, lo so. È che non ce l’ho una copeca da darti.»«Hai una moneta da venti copeche, però! Ne sono

sicuro!»«Be’, quella non te la do di certo!»«Allora non ti ascolto.»«E dai, Ignat!»«Hai detto che mi avresti dato una copeca ogni volta

che sarei stato costretto ad ascoltare una delle tue sto-rie.»

Per un istante camminarono in silenzio.«Ti traino fino a piazza Sobornaja» rispose Kostja.

«Ci stai?»Ignat si sedette sullo slittino e raccolse le ginocchia

al petto.«Alé, cavallo!» gridò.

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«Bene.» Kostja tese la corda e partì. «Immagina se tutto a Rjazan’ fosse grande quanto noi. Se fosse tutto piccolissimo, noi saremmo grandissimi, giusto? La gente ci arriverebbe con gli occhi sì e no all’orlo de-gli stivali, mentre noi potremmo vedere oltre i tetti delle case. Potremmo guardare dritto dentro le torri del fuoco, e figurati se le sentinelle non ci rimarrebbero di sasso al vedere le nostre facce!» Kostja se la rise di cuore. «E farebbero pure meglio a trattarci bene, per-ché avremmo una forza tale che, se volessimo, non ci metteremmo niente a staccare la torre da terra e a sca-gliarla nel fiume!»

«Più veloce!» Ignat lanciò una palla di neve sulla schiena del fratello e Kostja iniziò a correre, le grosse case di stucco che scivolavano loro accanto senza sosta. Nell’aria gelida, giunse da nord il fischio del treno del mattino, che annunciava il quarto d’ora alla partenza.

«Tanto, nel mio mondo non ci sarebbe alcuna gra-vità, per cui potremmo staccare da terra senza sforzo qualunque cosa volessimo. Nel mio mondo, potrei coprire intere verste con un salto, forare le nuvole e sbucare dritto nell’etere. Se volessi andare a Mosca, mi basterebbe correre e spiccare un salto e ci volerei all’istante. I passeggeri del treno mi vedrebbero schiz-zare accanto come una palla di cannone! Porterei un vestito nuovo per la mamma, una bella penna stilogra-fica per nostro padre e una mucca intera per sfamarci tutti quanti...»

«E a me cosa porteresti?» chiese Ignat.«Ti porterei uno slittino grande quanto una kibitka,

con i sedili di velluto rosso e una campana sul davanti, in modo che tutti sappiano del tuo arrivo!»

Giunto in piazza Sobornaja, dove un ufficiale in man-tello e bottoni di ottone correva da un ufficio governa-

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tivo all’altro, Kostja si fermò sotto un lampione. Era tutta la mattina che gli pareva di avere qualcosa in gola e, come cercò di liberarsene con un colpo di tosse, av-vertì un improvviso capogiro e dovette sedersi su una panchina, di fronte al viale che puntava verso il campa-nile del Cremlino.

La miglior discesa per slittini di tutta Rjazan’ era la sponda del fiume Trubež, vicino alla cattedrale della Dormizione, le cui quattro cupole blu punteggiate di stelle parevano il cielo notturno visto dall’esterno. Il fiume in sé era un nonnulla, un rivolo, a paragone della grande Oka serpeggiante, ma sulla riva sud si ergeva una sorta di scogliera sulla quale, nei giorni d’inverno, non era raro trovare una combriccola di ragazzini che si lanciavano giù a rotta di collo su vanghe e vecchie porte, strillando e roteando sul ghiaccio.

«Kostja!» gridò uno. «È vero che ieri sei andato alle spianate di Korostovo?»

«Puoi giurarci!» rispose Ignat.«Cosa? Da solo?»«Allora le avrai buscate, no?»«Il padre non li picchia mai, quei fortunelli...»«Io le avrei prese eccome, invece!»«Ah, i polacchi!»Possedere un vero slittino era motivo d’orgoglio

per Kostja. Se l’era fabbricato da solo e, sebbene con-sistesse in poco più di due assi dalla punta ricurva e di una terza che fungeva da sedile, Kostja aveva in-chiodato quattro cunei agli angoli interni come rin-forzo, incerato i pattini e decorato le fiancate con i tas-selli di vetro colorato che aveva trovato nel cortile dei mosaicisti di icone. Avanzò deciso tra la folla salutando gli amici e beandosi dei loro complimenti e, giunto alla sponda, valutò i solchi e le impronte nella neve fresca.

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Si sedette, puntò i talloni a terra, aspettò che Ignat gli si infilasse in mezzo alle gambe e poi spinse lo slittino fino al bordo, si sporse in avanti e alzò i piedi.

Per quanto si fossero tutti e due lanciati da quel pen-dio innumerevoli volte, la prima discesa della giornata continuava a mozzar loro il fiato. Sembrava di cadere, tanto ti mancava di colpo la terra sotto i piedi. Kostja si aggrappò alla corda, al fratello e ai lati dello slittino. Poi strizzò gli occhi per ripararli dal vento pungente e dagli spruzzi di neve e, appena toccarono il lembo com-preso tra la sponda e il fiume, si sentì sbalzare in aria as-sieme al fratello.

Atterrarono, per puro caso, su entrambi i pattini e schizzarono sul ghiaccio oltre la banchina dove d’estate attraccavano i battelli a vapore, oltre i pescatori acco-vacciati ognuno accanto al proprio foro con sega, filo e bottiglia, oltre lo spaurito cavallo di un contadino im-precante e le ultime impronte degli altri ragazzi, per poi raggiungere la riva opposta a velocità sufficiente da ri-salire l’argine di mezzo aršin.

Scosso dalle risate, Kostja rimase con i piedi all’insù e la testa sul ghiaccio, il viso in fiamme e berretto, bra-che di lino e montone ammantati di neve. Oltre le cu-pole sormontate di croci del Cremlino e i faggi sche-letrici protesi come radici tra le nuvole, uno sbaffo di fumo nero sovrastava la città. Un istante dopo, dal treno si levò lungo e triste il fischio che annunciava i cinque minuti alla partenza e, proprio come gli altri ragazzi di-stinguevano un uccello dal suo canto, Kostja individuò dal suono una motrice 0-3-0: una locomotiva merci a le-gna con tre coppie di ruote motrici e priva di assi por-tanti, instabile in velocità, ma adatta a quel clima in-vernale. Sebbene il colletto gli si stesse già riempiendo di ghiaccio, Kostja seguitò a fissare il fumo nel cielo,

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quell’emblema di potenza. Pensò al rombo dei pistoni, al vapore che correva lungo le fiancate dei vagoni. S’im-maginò di viaggiare verso nord, veloce come un cavallo al galoppo, seguendo i cavi del telegrafo fin dentro Ko-lomna, Voskresensk e Ljubercy, dritto fino a Mosca.

Quel pomeriggio, Kostja si sedette al tavolo della cu-cina a fissare l’angolo delle icone, dove i tronchi di le-gno delle pareti si incrociavano come dita. Di regola, la matematica gli piaceva. Ne adorava la musica, l’imme-diatezza con cui i risultati gli balzavano alla mente. Solo quel giorno i numeri avevano un che di oscuro, di sfug-gente, di ombroso per via di quel fastidio alla gola, di quel dolore alla testa e, quando le sue due sorelle mi-nori arrivarono da fuori con le braccia cariche di ghiac-cioli, Kostja rabbrividì con tale violenza alla folata di aria fredda proveniente dalla porta che il gesso coprì di sbaffi la lavagna.

«“La matrigna sapeva molto bene...”» lesse Ignat se-duto al suo fianco, scorrendo con il dito le Fiabe di Afa-nas’ev.

«Sì?» lo incitò la mamma.Ignat aspirò aria dal buco che aveva tra i denti. «“La

matrigna sapeva molto bene che... nel fitto del bosco c’era una casupola sca... scal...”»

«Scandisci lettera per lettera.»«S-c-a-l-c-a-g-n-a-t-a.»«E come si legge?»«Scal...? Scalcagnata!»«Bravissimo!»«“Una casupola scalcagnata che poggiava su zampe

di gallina. E in quella casupola viveva un’orribile vec-chia strega di nome Baba Jaga!”»

Anche alla luce ovattata dal ghiaccio sui vetri, Marija

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Ivanovna sembrava sfinita. Si intravedevano delle ru-ghe tra le sopracciglia inarcate, attorno agli occhi allun-gati e agli alti zigomi tatari. Indossava un abito di lana grigia che, per quanto pulito e stirato, le pendeva largo dai seni gonfi di latte e, mentre riponeva nel baule cinto di ferro il trattato di filosofia cui il marito lavorava per un’ora tutte le sere, i fili d’argento le luccicarono tra i folti capelli neri.

«Mama?» la chiamò Kostja non potendone più. «Mama, ho sete.»

La madre drizzò la schiena reggendosi il petto con un braccio. «Hai già finito le addizioni, Kostja?»

«Non... non ancora, mama.»«Allora berrai appena le avrai terminate.»«Ma, mama...»Fuori, presso il pozzo gelato, Maša e Fekla can-

tavano una canzone che la mamma aveva loro inse-gnato in una delle lunghe serate invernali, la storia del principe e della bella contadina trovatella. C’era sem-pre più confusione in casa, quando Eduard Ignatevič era al lavoro. Spesso era la stessa Marija Ivanovna a cantare e, quando Kostja non doveva affrontare pro-blemi come 136 ÷ 8 o 157 x 5, la accompagnava ar-meggiando tra un passatempo e l’altro: i pupazzi e i trenini che fabbricava con la colla e il cartone, o gli scarafaggi che catturava con Ignat e faceva gareggiare lungo un’asse del pavimento particolarmente distan-ziata dalle altre.

Quel giorno, però, il canto non faceva che alimen-tare il mal di testa.

«Konstantin!» In piedi alle sue spalle, Marija Iva-novna fissava lo scarabocchio di gesso sui numeri pre-cisi e tondeggianti scritti da lei stessa. «Si può sapere che hai fatto?»

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«Mama» rispose lui in tono commiserevole. «Non mi sento bene.»

«Hai tirato una riga sulle mie addizioni!»«No, mama! Non l’ho fatto apposta!»«Santo cielo, Konstantin!»Dal ripiano sopra la stufa, il piccolo si mise a pian-

gere.Marija Ivanovna si coprì il viso con le mani, respi-

rando affannosamente. «Ieri... Tu non hai idea... Kon-stantin, ti ho detto un’infinità di volte di non adden-trarti nella foresta, no? Ti ho detto tutto dei pericoli, del rischio di perdersi, dei briganti, della Baba Jaga, e tu cosa fai? Te ne vai nel bosco da solo, nel cuore dell’inverno!»

«Ma, mama...»«E ora ti chiedo di fare dieci addizioni che sei perfet-

tamente in grado di svolgere e tu non solo non ci provi nemmeno, ma chissà perché ci tiri pure una croce so-pra!»

«Non mi sento bene, mama...»«Che cosa ti ho detto quando sei uscito di casa sta-

mattina, eh?»«Mi hai detto di non prendere freddo, mama» ri-

spose avvilito Kostja.«Appunto, di non prendere freddo» ripeté la madre.

«E tu naturalmente hai preso freddo!»Accanto a lui, Ignat sedeva in silenzio con il dito

sulla pagina, guardandoli di sottecchi. Nel vestibolo, tra i barili di cavolo e cetriolo sott’aceto, i trenini e le case giocattolo costruiti dallo stesso Eduard Ignatevič quando i figli maggiori erano piccoli e aveva ancora il tempo per simili svaghi, le bambine stavano rientrando, gli stivali che risuonavano sul pavimento vuoto, le voci acute e penetranti.

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«Santo cielo, Kostja. Sul serio, che cosa devo fare con te? Non ti rendi conto che questi sono tempi duri per noi? Qui per tuo padre non c’è più lavoro! Capi-sci che significa? Tra cinque giorni partirà per Vjatka. Ci toccherà imballare tutto quanto e dire addio a tutti i nostri amici per spingerci dall’altra parte del paese e...» Lasciò la frase in sospeso, con le mani rosse e screpo-late chiuse a pugno sul ventre. «Be’, tuo padre non ap-proverà le botte, ma io ci sono cresciuta, e ti giuro che se continui di questo passo ti calo i pantaloni, ti metto a testa in giù e te le do di santa ragione!»

«Ho visto un lupo!» sussurrò Kostja.Accanto a lui sull’ampio pagliericcio, Ignat ebbe un

sussulto. Sotto le palpebre tremolanti, i suoi occhi fiam-meggiarono alla luce della grossa stufa ravvivata dal vento.

«Cosa...?» chiese, assonnato.«Nel bosco ho visto un lupo!»Kostja si sentiva vigile e leggero, come se stesse so-

gnando. Il male alla testa e alla gola era passato. Pro-vava un vago fastidio alle ossa, ma era come se le sue stesse membra appartenessero a qualcun altro. Per il resto aveva pieno controllo di sé. Si trovava al caldo e al sicuro nella propria solida casetta con tanto di fuoco e cibo a disposizione, nonostante la tempesta di neve che ululava e graffiava le imposte per far breccia all’interno.

«Perché non me l’hai detto?»«Avevo paura.»«Se è una delle tue solite fantasie...»«No! È vero!» esclamò Kostja alzando la voce.«Sst!»Dietro il volto ansioso di Ignat, dipinto dalle fiamme,

Marija Ivanovna sospirava a ogni respiro, con il capo ri-

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volto all’angelo custode alla propria destra, ad Anna, Fekla, Maša e alla tenda rischiarata dal fuoco che divi-deva la cucina ogni notte. Visibile a stento attraverso il lino sottile, Eduard Ignatevič era disteso tra Aleksej e Dmitri e bisbigliava in polacco. Sotto la lampada a che-rosene, san Nicola Taumaturgo, san Giovanni il Divino, la Madonna del Pianto e Cristo Pantocratore parevano sospesi nell’aria, i loro volti segnati parimenti dalla sag-gezza e dalla sofferenza.

«E com’è andata?» chiese Ignat. «Come mai non ti ha mangiato?»

Raggiunto dal deliquio e dalla spossatezza come dall’ombra di una nuvola in corsa, Kostja fece per ri-spondere e invece scivolò di nuovo nel sonno.

Ivan Ivanovič Lesovsky era un brav’uomo, un po-lacco, amico di Eduard Ignatevič, ma quando si avvi-cinò a Kostja quella seconda sera, alla luce tremolante della candela, assunse un’aria spaventosa, diabolica. Alto e robusto, aveva le spalle coperte di neve, occhiaie scure sotto gli occhi e due baffetti fini fini che gli spun-tavano dalle guance imberbi come piccole corna. Ve-dendolo lì impalato di fianco al letto, con il viso inta-gliato nel buio, Kostja si rintanò fin quasi agli occhi sotto le coperte.

«Allora, ragazzo mio.» Aveva una voce profonda, quasi dell’oltretomba. «Sai dirmi cosa c’è che non va? Hai mal di gola?»

«Conosci il dottor Lesovsky, vero, Kostja?» Seduta accanto a lui, Marija Ivanovna lo accarezzava scostan-dogli i capelli madidi dalla fronte. Posò una candela sulla sedia di fianco al letto, e sul viso del medico le om-bre si accorciarono e il ghiaccio che gli incrostava i baffi luccicò. Vedendolo assumere di colpo un’espressione

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preoccupata, Kostja lasciò che la madre gli abbassasse di nuovo la coperta sotto il mento.

«Hai mal di gola, passerotto?»Kostja annuì e tossì un grumo colloso.Il dottore sorrise. Gli posò una mano sulla fronte,

estrasse un orologio d’oro dalla tasca del panciotto e gli piazzò due lunghe dita pelose sull’interno del polso. Canticchiando, guardò la lancetta più lunga compiere il giro del quadrante.

«Centoquaranta» sentenziò. «E quaranta, quaranta e mezzo di febbre, a occhio e croce. Non stai affatto bene, vero, ragazzo mio?» Poi, rivolto a Marija Ivanovna, ag-giunse: «Da quanto è in questo stato?».

«Ha iniziato a lamentarsi... ieri, Ivan Ivanovič.»«E perché non mi avete chiamato subito?»«Be’...» Marija Ivanovna si mise ad accarezzarlo con

più veemenza. «Vedete, Ivan Ivanovič, aveva giocato nella neve. Pensavo si fosse preso solo una frescata...»

Il medico sollevò la candela e gli ispezionò bocca e guance. Le ombre gli percorsero le pieghe del viso e i forellini sparsi sul grosso naso rosso.

«Allora, ragazzo mio. Bisogna proprio che ti dia un’occhiata alla gola, per cui dovremo farti scendere dal letto. Non sentirai niente, sta’ tranquillo. Pensi di farcela?»

Debole e macilento nella sua lunga camicia bianca, Kostja sporse le gambe dal materasso. Aiutato dalla ma-dre, si alzò mentre il dottore lo avvolgeva nella coperta e lo metteva a sedere in braccio alla mamma.

«Bravo il mio Kostja» mormorò lei. «Bravo il mio passerotto...»

Appena Ivan Ivanovič gli sfiorò con le dita i lati del collo, il ragazzo strillò e fece per rannicchiarsi contro la coperta, ma aveva le braccia immobilizzate e sua ma-

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dre, persino sua madre, gli bloccava la testa perché non potesse ritrarsi. Il medico si piegò su di lui con la can-dela in mano e, come gli infilò tra le labbra il freddo cucchiaio di metallo, Kostja si sentì affettare la lingua a colpi di rasoio. Uno strato di muco fetido e purulento gli rivestiva la gola. Il lume trasalì al soffio del suo alito. Il viso del dottore parve contorcersi e schiumare come l’Oka mossa dai gelidi venti autunnali, una fiamma per ogni occhio, per ogni ghiacciolo che gli pendesse goc-ciolante dai baffi. Al che, conscio di essere stato ingan-nato, Kostja si scosse e si divincolò in preda a grida di terrore.

Più tardi, quando fu di nuovo libero di muoversi, giacque abbandonato sul grande letto con la testa incli-nata verso destra, come la madre l’aveva lasciato. Sotto le palpebre chiuse, gli occhi tremolavano impercetti-bilmente. Era una minuscola sagoma semitrasparente con un’intensa chiazza di colore su ogni gota, come una contadinella il giorno di Pasqua.

«Marija Ivanovna» disse paziente il dottore. «Capi-rete bene che nelle vostre condizioni non potete arri-schiarvi a stargli vicino. Non potete stare con lui, Ko-stja non può stare con gli altri bambini e nessuno potrà rimanere in questa casa finché non sarà pulita a fondo. Bisognerà sfregare i pavimenti, imbiancare le pareti, la-vare e disinfettare indumenti e lenzuola. Vi manderò il custode dall’ospedale con il permanganato di potassio da sciogliere in quattro secchi d’acqua e lasciare negli angoli della casa per almeno una settimana...»

«Posso offrirti del te, Ivan?» chiese Eduard Ignatevič con la voce tesa e profonda.

Dietro le palpebre, Kostja aleggiava sospeso tra il sonno e la veglia, con le dita che a scatti si contraevano

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sotto la coperta, mentre un rantolo fuoriusciva dalla bocca spalancata e un rivolo di saliva scendeva lungo la gota formando una chiazza scura sul candido lino.

«Ho perso sei bambini, pan doktor! Sei! Non potrei sopportare di perderne un altro!»

Kostja non sentì il padre che gli metteva i pantaloni, gli stivali, il berretto di lana e il montone e lo avvolgeva nella coperta. Si destò solo al freddo pungente della strada, dove grossi fiocchi bianchi cadevano dall’im-mensità dello Spazio, scintillando alla luce ritagliata dalla sagoma di sua madre, al lume che pendeva dalla slitta il cui cocchiere aveva pastrano e cappello coperti di neve e il cui cavallo attendeva tremante fra le stan-ghe. L’alito di Eduard Ignatevič era caldo e inodore. La sua barba, ispida contro la pelle morbida del viso di Ko-stja. Le sue braccia, due giunti di forza sotto la schiena e le gambe del figlio. Allo schioccare della frusta sopra la groppa del cavallo, Kostja cacciò un lamento e vide i fiocchi di neve scendere turbinando dal buio come le stelle dalle loro case quando cadono.

Ben nota era alla Vergine la stradaChe la portava a Rjazan’!

Accanto alla taverna, figure dal faccione deforme ballavano nella neve roteando le braccia al suono delle fisarmoniche.

Si udì il pulsante martellare delle campane.«Ci siamo quasi, Kostja» disse il padre con una strana

dolcezza nella voce. «Siamo quasi arrivati.»Le grandi case di pietra ai lati della strada forma-

vano una voragine, una crepa nella Terra, dove i fioc-chi di neve vorticavano attorno ai lampioni a gas. E proprio nel fondo di quella voragine, la slitta di Ivan

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Ivanovič passò tra le lanterne poste sui pilastri del can-cello dell’ospedale e si fermò di fianco a tre gradini, a un paio di porte e a un’intera parete di imposte chiuse trapelanti di luce. Dall’interno giungevano le grida fa-miliari e Kostja prese ad agitarsi debolmente tra le brac-cia del padre.

Varcata la porta, furono investiti da un’onda di chiasso e di calore. Ivan Ivanovič urlava e gesticolava. L’anticamera pullulante gli si fece incontro, un nugolo di contadini che si inchinavano, si facevano il segno della croce, le facce irsute e screpolate coperte dai lun-ghi capelli ondeggianti. Per terra, un uomo giaceva in una pozza di sangue, le gambe segnate dai pattini di una slitta e tenute insieme solo dalla tela dei pantaloni. Su una panca, una donna gravida gemeva, ignorata. Su un’altra, un ubriaco russava indifferente.

«Apprezzo molto il tuo aiuto, Eduard» disse Ivan Ivanovič in lontananza. «I fel’dšer sono sommersi di la-voro... Abbiamo un caso di scarlattina, per cui la prima cosa da fare è ridurre il gonfiore delle ghiandole lin-fatiche. Comincerò con il decongestionare le narici e poi libererò la gola ricorrendo al principio dell’oppo-sizione.»

In una spoglia stanza bianca, Kostja giaceva nudo su un telo cerato. Sopra di lui una lampada a olio emetteva una luce e un calore tali che il padre e il medico ave-vano un’aria irreale, angelica. Gli occhiali del padre pa-revano lampade essi stessi. Qualcuno gli stava facendo delle spugnature d’acqua tiepida sulle gambe e sull’ad-dome, rossi e formicolanti come pelle d’oca. Il dottore aveva in mano una specie di pompa – un cilindro di ve-tro con le tacche sul lato – e quando ne accostò il bec-cuccio al naso di Kostja, il ragazzo sentì un’esplosione di dolore. Dall’altra narice, uno spruzzo di muco mi-

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sto ad acqua saponata lo coprì fino al mento. Scosso dalla tosse e dai conati, si dimenò come un pesce sul lettino scivoloso. Per un attimo intravide gli occhi del padre, piccoli e azzurri dietro le lenti. Nel ruggito della fiamma, lo sentì pronunciare parole incomprensibili, come fossero una raffica di domande incessanti. Adesso sentiva di nuovo gli odori – sapone, cherosene e, stra-namente, patate – e vide il dottore ricomparire con un fazzoletto rigonfio in mano. Dal fondo della memoria, riaffiorò in lui il ricordo di un trucco di magia mostra-togli una volta da sua sorella Anna: la bottiglia sigil-lata con una pallina all’interno, che poi si rivelava vuota. Alla luce tremolante, il medico strizzò il fazzoletto tra le dita per farne uscire il purè bollente e subito glielo ac-costò al lato straziato del collo, riempiendogli contem-poraneamente la bocca di neve.

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