Brain Drain: REVERSED. - Tra i Leonicili che compiamo ogni giorno senza pensarci, ma una di quelle...

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Pubblicazione bimestrale - Anno 14 - Numero 55 - Ottobre 2011 - Iniziativa finanziata con i contributi dell’Università Bocconi Speciale Stage pag. 11 IB Saturdays: Guida alla sopravvivenza pag. 15 Brain Drain: REVERSED. pag. 4 GIORNALE DEGLI STUDENTI DELL’UNIVERSITÀ BOCCONI

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Pubblicazione bimestrale - Anno 14 - Numero 55 - Ottobre 2011 - Iniziativa finanziata con i contributi dell’Università Bocconi

Speciale Stagepag. 11

IB Saturdays:Guida alla sopravvivenza

pag. 15

Brain Drain:REVERSED.

pag. 4

G I O R N A L E D E G L I S T U D E N T I D E L L ’ U N I V E R S I T À B O C C O N I

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La fuga dei cervelli è un argomento abusato. Insieme alle condizionimeteo e al cambio delle stagioni, è diventato ormai uno di quei clas-sici che ti permettono di salvare con maestria una conversazione tri-stemente arida, o di rispondere ai tentativi di socializzazione di qualcheanziano alla fermata del tram. Noi però abbiamo deciso di parlarne.Perché se è vero che a tutti dispiace sapere che il nostro Paese esporta

costantemente talenti, è anche vero che in mezzo a noi ci sono tanti che infolti-scono quella schiera.

Parliamo di tutti quelli che decidono, arrivati alla fine della triennale, di ab-bandonare la Bocconi per proseguire gli studi in un ateneo straniero, e, in parti-colar modo, di chi non lo fa per consapevole volontà ma per semplice spirito diavventura. Ed ecco che noi, all’amico che studia per essere ammesso a Copena-ghen, a quella che si vede già in Spagna e al matto che si fa in quattro per appro-dare nelle migliori business school d’America vogliamo dire: pensateci. Non par-tite semplicemente perché potrebbe essere una bella esperienza o perché Milanovi ha stancato. Partite solo se siete certi che andar via vi aiuterà a capire dove vo-lete andare nella vita, e partite ricordando che questo paese ha bisogno di voi. Di-cono che il fallimento di un paese si ha quando non riesce più a trattenere i pro-pri giovani: noi crediamo invece che si ha quando i giovani, una volta cresciutie migliorati all’estero, non vogliono più tornare.

Non appellatevi al destino, non si tratta che di scegliere. Con tutte le difficoltàche questo comporta. Esiste infatti un momento in cui ogni scelta diventa irrevo-cabile, in cui si rischia di rimanere bloccati in un sentiero intrapreso più per cu-riosità che per sincero interesse: lasciare il proprio Paese è una scelta così forte chenon possiamo permetterci di correre questo rischio. Non è una di quelle scelte fa-cili che compiamo ogni giorno senza pensarci, ma una di quelle difficili, che ci per-seguitano insistenti per mesi, bussando alla porta della nostra mente nei momentipiù improbabili e lasciandoci sempre un po’ perplessi. Tutte le scelte che riguardanoil nostro futuro cadono proprio fra queste, ma sono solo queste a contare davvero:sia perché dimostrano chi siamo veramente, sia perché definiscono il cammino chevogliamo per noi stessi. In queste decisioni non c’è persona al mondo che possasostituirvi, allora l’unico consiglio che ci permettiamo di darvi è: scegliete. Chi siaccontenta della soluzione di ripiego, chi preferisce non esporsi per paura di met-tersi in gioco, non sta scegliendo: è questo il momento in cui, riarso, muore. Con-tinua a respirare, cammina per le strade, ma ha appena rifiutato di forgiare da sé ilproprio futuro. Ha rinunciato ad esercitare il potere della decisione, vera forza del-l’uomo. Non appellatevi al destino, non si tratta che di scegliere. [ ]

Non si trattache di scegliere.sommario

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Eating on the go

Il ritorno dei cervelliIntervista a Maristella Botticini

Expatriates:vieni via con me!

In Europa c’è ancoraun muro

La rivoluzioneislandese

L’eleganza dinamicadel jazz

Largo alla elefantaSIA!

Lasciate (quasi) ognisperanza voi cheentrate

Speciale stage: NYC

17 marzo: non l’Italia,ma una soluzioneitaliana

Piccoli stati, grandiidee

Poteri e democrazia:legame superato?

IB SaturdaysGuida allasopravvivenza

■ DI MAURIZIO CHISU E SERGIO RINAUDO ■ [email protected] | [email protected]

CITAZIONE DEL MESEE su Fb piovono le citazioni “siate folli” da parte di decine di contatti che solitamente:“Vieni a berti una birra?” “nooo, ma sei matto??? devo studiare cazzo, tra tre mesi abbiamo unesame e il prof ha spiegato 12 pagine!” Eeehh???? (Angelo Mattu)

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Eating on the go

L’idea di organizzare dei“trucks food” (camionmobili per il cibo) na-sce da un progetto pro-mosso in Nevada perpubblicizzare l’accesso

agli impianti sciistici: un camioncinoche offre gelati alla neve, sia per met-tere in contatto il pubblico con lamontagna sia per offrire la possibilitàdi acquistare subito lo skypass o di ot-tenere semplicemente maggiori infor-mazioni. Accanto al gelato di neve, visono anche dei mini spettacoli orga-nizzati da attori appositamente ingag-giati, le cui performancesono disponibili onlinesulle rispettive pagine Face-book e Twitter.L’idea centrale dell’”eatingon the go” è proprio l’uti-lizzo di camion mobili pervendere cibo. Questo feno-meno si e’ rapidamente dif-fuso nelle principali cittàdegli Stati Uniti d’Ame-rica, come New York, LosAngeles, San Francisco eMiami. L’idea nasce dallanecessità di mettersi diret-tamente in contatto con iconsumatori finali tramite isocial network Facebook eTwitter, sia per informarlisulla loro posizione, sia perpromuovere l’attività di vendita delcibo. Già in queste prime fasi si deli-nea chiaramente una guerriglia sulfronte del marketing del food, da com-battere direttamente sulle strade dellemaggiori città statunitensi. In talmodo il processo di vendita di pro-dotti alimentari in America si mostra

orientato a capitalizzare la familiaritàcon il brand da promuovere, propriotramite l’offerta di cibo: si tratta di ot-time occasioni in cui le stesse impresedi prodotti alimentari possono ridise-gnare il packaging del prodotto ecreare una nuova esperienza di con-sumo per il consumatore finale. Manon solo. In realtà si tratta anche diuna vera tendenza di costume, unamoda alimentare visto l’appealing sulpubblico americano. La questione amio parere strabiliante è l’evoluzionedella modalità di comunicazione. Dauna parte la pubblicità, tipica comuni-

cazione unilaterale, agisce in parte sulsubconscio del consumatore finale,che ha delle strane rimembranze deglispot visti distrattamente in televisionequando scorre con gli occhi tra gliscaffali. Dall’altra, la comunicazionesui social network è reale e bilateralein quanto i consumatori che hanno

avuto esperienza del prodotto o servi-zio possono lasciare un loro feedback,una traccia indelebile, un parere in-corruttibile. Offrono la possibilità diarchiviare dei giudizi inappellabili inquanto emessi dal vero giudice delprodotto (il consumatore), nonché diottenere a costo zero opinioni sincere,in quanto disinteressate. Sono, in ul-tima istanza, lo strumento per misurarela bontà del prodotto o servizio of-

ferto. Ed è per questo che,per quanto riguarda il fe-nomento dei food trucks, isocial networks sono fon-damentali: Twitter in parti-colare, che in America èpiù diffuso di Facebook,consente di seguire lette-ralmente il vostro distri-butor ambulante di fidu-cia, sapendo esattamentedove si trova. Si tratta diun capovolgimento so-stanziale di tutti i parame-tri di marketing: non è ilnegozio che incontra ilpubblico dei consumatoriscegliendo una central lo-cation, dove si reputamaggiore l’affluenza del

target di riferimento, ma è il consu-matore che cerca il negozio. All’espe-rienza di consumo si accompagnal’esperienza della ricerca, e ciò forni-sce al prodotto un valore aggiuntoinestimabile. Insomma, Twitter plusfood trucks rappresentano una for-mula vincente. [ ]

■ DI MARICA CAPOSALDO ■ [email protected]

V I E N I A V A N T I E C O N O M I S T A

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Tra i Leoni intervista laprof.ssa MaristellaBotticini (PhD inEconomics allaNorthwestern University,dal 1997 al 2005

professore di Economia presso laBoston University, attualmenteprofessore di Economia pressol’Università Bocconi e direttoredell’IGIER) e il prof. Simone CerreiaVioglio (PhD in Economics presso laColumbia University, oggi assistantprofessor in Bocconi).

❯❯❯ Iniziamo dalla sua esperienzaaccademica e lavorativa all’estero.Com’è stato affrontare il sognoamericano? M.B. Il PhD alla Northwesternprima, e il lavoro presso la BostonUniversity dopo, mi hanno datotanto sia sul piano delle conoscenzesia su quello delle relazioni umane.Ho avuto l’occasione di lavorare acontatto con studenti e docenti pro-venienti da tutto il mondo e, citengo a sottolinearlo, all’interno del-l’ambiente accademico americanonon mi sono mai sentita una stra-niera, ma, al contrario, parte di unacomunità scientifica aperta e ospi-tale verso i talenti che arrivano datutte el parti del mondo. Non da ul-timo, gli Stati Uniti mi hanno inse-gnato una rigorosa etica del lavoro.S.C.V. È stata un’esperienza nettamentepositiva. Sia come studente fuori sedeche come teaching assistant. In partico-lare mi ha colpito molto l’abbondanzainfinita di risorse di cui dispongono legrandi università americane. Per farleun esempio pratico: tra le innumerevolivolte in cui sono andato a consultare labiblioteca della Columbia, soltanto tre,massimo quattro volte, senza esagerare,non ho trovato il materiale di cui ne-cessitavo.❯❯❯ Veniamo al vivo dell’intervista: per-ché ha deciso di tornare qui in Italia?

M.B. Non nego sia stata una scelta dif-ficile. E’ stata una combinazione di fat-tori personali e non. Ho deciso di inve-stire sull’Italia, in quanto l’Italia hainvestito molto su di me, sia in terminidi ottima istruzione (dalle elementariall’università) che ho ricevuto sia diborse di studio che mi hanno permessodi proseguire gli studi all’estero. Mi èsembrato giusto restituire in partequello che ho ricevuto. Infine, la Boc-coni mi ha permesso di ritrovare uneccellente ambiente di lavoro, simile aquello americano, ma ad un’ora da casadalla mia famiglia.S.C.V. Ho scelto di tornare alla Boc-coni, prima ancora che in Italia, per-ché, con Princeton e Tel Aviv, è unodei poli di eccellenza al mondo perquanto riguarda Teoria delle decisioni,che poi è quello di cui mi occupo. Lemotivazioni del mio ritorno sonoquindi legate prettamente ad un ambitoaccademico.❯❯❯ In una puntata di “Vieni via conme”, Renzo Piano ha detto: “Andare, pertornare”. Lei come si schiera? E’ un prin-cipio che fa suo?M.B. È un principio in cui credo pro-fondamente. L’Italia possiede unenorme patrimonio di talento. Sonoconvinta, e qui la Storia insegna, chechi va all’estero, acquisisca conoscenze,skills, attitudine al lavoro e serietà, epossa poi tornare in Italia e importarequesti assets nella vita di tutti i giorni.La mia speranza è che se tengo dellebelle lezioni e vi entusiasmo, si generiuna catena virtuosa in cui trasmettersivalori positivi a vicenda. S.C.V. Assolutamente sì. Anche io nel

mio piccolo spero di poter contribuire,ovviamente. Ma soprattutto consiglio atutti gli studenti di andare comunqueall’estero, semmai per un dottorato: perconoscere e prendere confidenza coldiverso, per capire che c’è dell’altro. Epoi tornare, ovviamente se si ha il co-raggio, e affrontare con una mente di-versa la nostra realtà nazionale.❯❯❯ Chiudo l’intervista riallacciandomi altema generale da cui è partito “Tra ileoni”: fuga di cervelli. Cosa ne pensa?Fattore totalmente negativo?M.B. Ci tengo a dirlo. Non tutti de-vono rientrare in Italia. In un mondoche funziona bene, dobbiamo averetanti bravi italiani che lavorino al-l’estero, che ci rendano orgogliosi e cifacciano conoscere per le numerosecose positive che abbiamo. Al con-tempo, è ovviamente fondamentaleche siano tanti gli italiani bravi chedecidano di lavorare in Italia.S.C.V. Veda, non è necessariamentenegativa una esportazione di cervelli, seè compensata da una correlata impor-tazione. In Italia, però, l’esportazione dicervelli è quasi un flusso migratorio, esi importa solo mano d’opera specializ-zata; mi riferisco chiaramente al feno-meno dell’immigrazione. In questi ter-mini, allora, la fuga di cervelli è ungrave fattore di decrescita per il nostropaese. La Bocconi è, a tal proposito, unfaro nel portare in Italia standard acca-demici internazionali e docenti rico-nosciuti, per poi rilasciare laureati alta-mente qualificati e pronti per lavorarenel mondo odierno. E quindi, pronti per decidere di andare, per poi tornare. [ ]

Il ritorno dei cervelli

■ DI GIULIA BUCCIONE E VITTORIA GIANNONI ■[email protected] | [email protected] l’intervista

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“Italiani spaghetti-pizza-mandolino” e semprepiù sparsi per il mondo.E’ infatti sempre mag-giore il numero di Ital-

iani che negli ultimi anni hannodeciso di lasciare la patria pertrasferirsi stabilmente in un paesestraniero, andando così ad arricchirela schiera dei cosiddetti Italiani al-l’estero, in una parola: expatriates.Per certi versi sembra di esser tornatiindietro di un secolo, quando gliItaliani emigravano in massa versol’America su mastodontici transat-lantici, provvisti soltanto dellafamosa valigia di cartone. In quelcaso si trattava di emigranti conscarse competenze, la cui manod-opera era fondamentale per losviluppo di economie in cui questascarseggiava. Oggi, invece, l’emi-grazione ha assunto contorni differ-enti: ad andare via sono soprattuttogiovani laureati o tecnici qualificati,tanto che il termine emigrazione èstato spodestato da un’espressioneben più calzante: “fuga dicervelli”. Secondo l’ultimoRapporto Italiani nel Mondogli Italiani expatriates sonocirca 4 milioni, presenti per-lopiù in Europa (55%) eAmerica (40%), di questil’80% ha meno di 60 anni etale percentuale è in continuoaumento. A ciò va aggiuntoche il 40% dei giovani tra i 25e i 35 anni si trasferirebbemolto volentieri all’estero.Quindi, un fenomeno che fa

leva sulle nuove generazioni e cheinteressa perlopiù laureati in lettere,ingegneria, biologia, fisica ed econo-mia. La ragione principale è ovvia-mente di natura lavorativa, infattiall’estero è possibile trovare maggiorisbocchi professionali e percorsi dicarriera più rapidi. E’ questo il casodi numerosi ricercatori che solo inquesto modo riescono ad abban-donare l’incubo del precariato e adottenere i finanziamenti necessariper le ricerche. Stesso discorso per ilaureati in lettere e lingue che all’es-tero possono ricoprire numerosi ruoliprofessionali anche in aziende, rius-cendo così ad evitare l’iter infinitoper l’accesso al mondo dell’insegna-mento in Italia. Situazione diversaper ingegneri e laureati in economiaper i quali il lavoro in Italia cisarebbe, ma il più delle volte nonoffre i risultati sperati in termini eco-nomici e di carriera, mentre all’es-tero è possibile ottenere stipendi a 5zeri e benefit da sogno quali casa,scuola internazionale per i figli e as-

sicurazione sanitaria. Ma come sivive all’estero? Ovviamente l’im-patto iniziale non è facile. È neces-sario integrarsi all’interno dellacomunità differente nonché im-parare una nuova lingua, ma unriscontro immediato lo si ottiene intermini di qualità dei servizi e dellavita che migliorano nettamente, alpunto che la maggior parte degli ex-patriates afferma di non voler piùtornare in patria.Dunque, a conti fatti, ottime oppor-tunità ma anche una gran perditaper l’Italia se si considera che ad es-empio numerosi top researcher sonoItaliani all’estero e che ognuno diessi porta con sè circa € 150 mil inpotenziali brevetti, senza contarel’investimento sprecato in capitaleumano che dimostra come siamobravi a creare talenti, ma non adimpiegarli all’interno di un’econo-mia sofferente.E allora andare o restare? “Un gio-vane dovrebbe andare via ma per cu-riosità non per disperazione, per

capire se stessi e il resto delmondo, e poi tornare.” E’questo il pensiero di RenzoPiano, uno dei più grandi Ital-iani all’estero, che mi sento dicondividere: è importanteandar via, per conoscere ilmondo e arricchire se stessi at-traverso culture ed esperienzenuove. È necessario tornare alsole dell’Italia per migliorarla egodersela, consci di aver fattoil proprio dovere verso la pro-pria patria. [ ]

Expatriates:vieni via con me!

■ DI FRANCESCO LANNI ■[email protected]

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In Europac’è ancora un muro

Peace Lines. Un nome chesa quasi di beffa. A più divent’anni dalla cadutadel muro di Berlino, imuri permangono. Madove? Corea del Nord?

Israele? Certo. Ma anche più vicino:Belfast, Irlanda del Nord, nell’Europadi Schengen, della democrazia daesportazione, dei diritti umani e civili.

Quando arrivi a Belfast, dopo avergirato in lungo e in largo l’Irlanda, tirendi immediatamente conto chel’ambiente è diverso. Si respira un’ariastrana, di una città problematica chesta cercando di mettersi alle spalle unpassato difficile, ma che non sa di-menticare e andare oltre.

I Troubles, come li chiamano qui,scoppiarono alla fine degli anni Ses-santa tra la maggioranza della popola-zione protestante, unionista e filo mo-narchica e la minoranza cattolica,nazionalista e repubblicana. Tren-t’anni di violenze reciproche sfociatinell’accordo del Venerdì Santodel 1998 che pose fine all’esca-lation di attentati e morti am-mazzati.

Negli ultimi anni il sangueha smesso di scorrere. Ma leferite rimangono aperte e gliaccordi raggiunti, più chefrutto di una sperata riconcilia-zione, assumono la fisionomiadi un compromesso divenutoormai necessario. Per sopravvi-vere.

Belfast rimane una città in-compiuta, un caleidoscopio dicontrasti, divisa com’è traunionisti e nazionalisti. Non

assomiglia né a Londra né a Dublino.Ma sembra la parodia di entrambe.

Anche qui c’è una specie di BigBen. Ma del melting pot londinese ne-anche l’ombra. Anche qui la birrascorre a fiumi. Ma l’allegria e la spen-sieratezza delle nottate dublinesi nonappartengono a Belfast: qui la notte lestrade sono deserte e regna la diffi-denza reciproca.

Il miglior modo per comprenderel’anima di Belfast è fare un giro a bordodi un black taxi. Bob, la guida del no-stro political tour, ci porta a ShankillRoad e a Falls Road, l’una protestante,l’altra cattolica. L’attrazione del luogosono i murales politici. Shankill èpiena di messaggi filo monarchici,plausi ai grandi inglesi del passato ealle vittime unioniste dei Troubles. Lemura di Falls Road sono ricoperte dagraffiti riguardanti tematiche più at-tuali, volti a ricordare situazioni similia quella dei cattolici nord-irlandesi:murales in difesa di minoranze etniche

oppresse dalle maggioranze, dai pale-stinesi ai baschi.

Ma ciò che lascia basiti sono lePeace Lines, mura e filo spinato che di-vidono in due una città che vuole ri-marcare le proprie differenze. Si puòandare liberamente da una parte all’al-tra solo di giorno. Di notte, il copri-fuoco incombe e i cancelli chiudono.Eccetto i week end. Due di essi riman-gono aperti, sorvegliati a vista dai sol-dati di ambo le parti. Bob ci dà deipennarelli. Dice che i turisti amanoscrivere qualcosa sul muro. Ma io ascrivere non riesco. Penso. E la primacosa che mi viene in mente è Berlino.Anche a Berlino c’era un muro. La dif-ferenza è che lì era sintomo di oppres-sione, non voluto da nessuno. Qui erae rimane simbolo di sicurezza reci-proca, voluto da tutti.

Sulla strada del ritorno io e i mieicompagni di viaggio ci guardiamo stra-niati. Nessuno sapeva del muro. Mipiacerebbe chiedere a Bob che fede

professa. “It would seem impo-lite”, mi rispondono gli altri. Ehanno ragione. Bob non ha af-frontato il problema nel me-rito, ha cercato di essere il piùasettico possibile ma dalle sueparole qualcosa traspare: siaesso protestante o cattolico,quel muro per lui significa pace.E allora capisci che Peace Linesnon è un macabro eufemismo.Quel che non capisci invece ècome mai l’Europa, cinque-cento anni dopo Lutero, nonsia ancora riuscita a mettersialle spalle le sue guerre di reli-gione. [ ]

■ DI GIOVANNI GAUDIO ■[email protected]

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Di Islanda se ne parlasempre piuttosto poco,a meno che qualchevulcano dal nome im-pronunciabile non de-cida di disturbare il

traffico aereo di mezza Europa. Eppurestanno succedendo cose interessantinel paese di Snorri Sturluson e diBjork. Ad esempio, si potrebbe parlaredell’Islanda per il fatto che, da quelleparti, non ci sono più McDonald’s;oppure perché gli orsi polari iniziano afarsi vedere abbastanza regolarmente(probabilmente in cerca di apprododopo la scomparsa dei loro iceberg); oanche perché di recente si è scopertoche nel sangue di alcuni islandesiscorre quello dei nativi americani(magari qualche vichingo barbuto si èportato da Vinland una bella squaw).Ma ci sono altre cose più interessantida dire.

La crisi si è fatta sentire in manierapesante nel paese dei ghiacci e deivulcani, e ciò nonostante le sue ri-dotte dimensioni. A metà del 2008 ildebito estero delle banche era circa seivolte più grande del PIL: ebbene sì, as-

■ DI MICHELE PITTARO ■[email protected]

La rivoluzione islandeseCosa diamine sta succedendo

nel paese di Bjork?surdità di questo genere succedono.Specialmente quando il settore banca-rio (per usare un eufemismo) va fuoricontrollo.

Ma gli islandesi, che dopotuttodiscendono dai Berseker, non si sonolasciati impressionare: dal 2008 adoggi vi sono state parecchie novità.

Dopo aver mandato a casa metàdei vecchi politici, il Paese ha iniziatoa lavorare ad un nuovo governo.Adesso gli islandesi sono rappresen-tati da un nuovo primo ministro,donna e dichiaratamente lesbica.Raccontando ciò, non intendo ma-gnificare il fatto in maniera fine a sestessa. A mio parere chiunque puòdiventare primo ministro, basta chesappia fare il proprio lavoro e che siacredibile (diciamo che se la Merkeldecidesse di portarsi a letto unatruppa di boy scout non me ne impor-terebbe più di tanto). Vorrei solo farviriflettere: ce la possiamo anche soloimmaginare una cosa simile in Italia?

Con il referendum del 2010, glielettori islandesi hanno respinto l’ac-cordo approvato dal Governo e dalParlamento, volto a destinare 5 mi-

liardi di dollari a GranBretagna e Olanda, a ti-tolo di risarcimento per ilfallimento di Icesave (lafiliale online della bancaislandese Landsbanki, ilcui fallimento nel 2008ha colpito quasi 340.000risparmiatori inglesi eolandesi). Dopotuttohanno il supporto del loropresidente, che ha posto ilveto alla decisione. Come

potrebbe un presidente sano di mentefar pagare cento euro al mese, con untasso di interesse niente male (del5,5%), per i prossimi quindici anni, aipropri cittadini?

Nel mentre, gli islandesi stanno ri-scrivendo la propria Costituzione, chefino ad oggi consiste nella copia diquella danese (basta sostituire alla pa-rola Re quella Presidente). Ma chi lascrive non è un politicante scribac-chino di professione. La costituente ècomposta da trenta comuni cittadini,privi di affiliazione politica. E i lavori,o perlomeno parte dei lavori, si svol-gono su Internet e nella massima tra-sparenza, grazie all’utilizzo del crowd-sourcing.

Essi non hanno neanche avutopaura a muovere accuse e ad emet-tere mandati di cattura nei confrontidei responsabili del disastro finanziario(ci riferiamo in particolare all’ex primoministro Geir Haarde).

Cosa possiamo imparare dall’espe-rienza Islandese? Nella pratica, nulla didirettamente sfruttabile: si tratta dimodelli inapplicabili in Italia (come inquasi ogni altro paese), fosse anchesolo per le dimensioni dell’Islandastessa, che conta tanti abitanti quantoun quartiere di Milano. Ma, perquanto inapplicabile, è un’esperienzaimportante. Ci testimonia come gliindividui non sono refrattari al cam-biamento. Ci testimonia che è possi-bile una rivoluzione silenziosa e chequalcosa si può sempre fare. Che lagente comune può cambiare le cose. Eche si può puntare il dito contro ilcolpevole, per quanto grande e po-tente, senza aver paura. [ ]

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Sono le 22.45 e mi trovoall’ingresso del BlueNote, locale il cui nomerisulterà familiare agliamanti del jazz, o meglio,della buona musica in ge-

nerale. Questa sera il Blue Note pro-pone un ghiotto esperimento: Mr.Charlie Watts, che non è un batterista,ma il batterista dei Rolling Stones (no,non è quello con i pantaloni a zampache sembra rigurgitato da Cerbero,quello è Jagger, il cantante; Watts èuno calmo, capace di frenare la dirom-pente indole dei suoi colleghi: il pila-stro della band) e the A,B,C&D ofBoogie Woogie (Axel Zwingenberger eBen Waters, pianisti, Dave Green,contrabbassista). Come avranno fattodue pianisti boogie, un contrabbassistajazz e un batterista rock a trovarsi in-sieme sul palco del Blue Note? A ri-spondere è proprio Zwingenberger:“Tutto è nato da un programma TVche avevamo fatto insieme nel 1986.Quell’esperienza piacque molto a tutti,così provammo a suonare un paio divolte e poi decidemmo di continuare.Suonare con Charlie non è stato diffi-cile: nei primi dischi degli Stones ilrock non era ancora ben definito ri-spetto al blues e al jazz. E’ come seCharlie fosse tornato indietro neltempo”.

Sono le 23:00. Il locale è semi-vuoto. Alcune signore ben vestite, an-noiate e sorridenti brindano.

L’atmosfera inizia ad essere riscal-data da Waters e da un vibrante con-trabbasso: è un boogie sullo stile dellamusica nera degli anni ‘30. Ed eccoWatts: riesce subito a distinguersi comesingolo ed a mantenere, nel contempo,una solida sinergia col gruppo. Il suotocco rock crea un effetto di piacevole,

ma chiaro contrasto con il raffinatopianoforte di Waters, effetto che tendea scomparire quando a Waters subentrail più passionale e meno tecnico (ilche, in questo caso, è un pregio) Zwin-genberger. Un’ottima improvvisazioneblues anticipa la conclusione.

Abbandonando gli schemi della re-censione, ciò che rende l’idea del-l’espressività della musica è questo: acinque minuti dall’inizio, i miei piedi simuovono da soli (e non si tratta di unfilm di Dario Argento). Ho voglia diballare. Lo farei, se il senso del decoroe di soggezione per le facce over-fortyche mi circondano non mi tenesse an-corata alla sedia, se il mio drink nonfosse così leggero e se avessi un cava-liere. Ma dove trovare un cavalierequando il più giovane in sala risale al-l’era del primo disco degli Stones? Epensare che la popolazione bocco-niana, oltre alla riduzione che il BlueNote applica agli studenti, gode diun’ulteriore riduzione per merito di unanon meglio precisata convenzione (sic-ché la sottoscritta, anziché pagare bencinquantacinque euro per ascoltare ilvecchio Charlie, ne ha pagati solo di-ciotto).

A fine seratainizio a medi-tare confusa-mente suquestioni deltipo: “Perché iljazz mi ha tra-smesso tantaenergia? Cos’hadi particolare?Perché con menon c’era alcunaitante ven-tenne?”. La ri-sposta arriva da

via Roentgen dove mi sono imbattutain un economista con lo spirito del jaz-zista: il Prof. Pecchiari. “Il jazz si fondasull’improvvisazione e sull’esposizionedi un tema musicale, quindi si caratte-rizza per la totale imprevedibilità diquello che succede: il solista costruiscel’assolo e il resto della band lo segue. E’il cosiddetto interplay: la capacità di in-teragire dei musicisti”. Dice “E’ una le-zione di vita: proporre qualcosa dinuovo, saper ascoltare e farsi ascoltare.I giovani” continua “hanno spesso unapproccio difficile col jazz, in quantoesso include generi diversi, alcuni deiquali richiedono una certa educazionemusicale all’ascolto. Il consiglio èquello di seguire lo sviluppo storico-cronologico del jazz, partendo da dixie-land e swing e facendosi aiutare da unamico o da un libro”. Svelato l’arcano.Ecco. Io sono stata una pianista di ri-gida impostazione classica, sola con lospartito ed una maestro sudaticcio e fis-sato con la musica russa: non vi dico lanoia. Ed ora, che invidia per queglisguardi di complicità, quei sorrisi coin-volti e soddisfatti dei musicisti, quellasera, al Blue Note. [ ]

■ DI ANNIE MARINO ■[email protected]

L’eleganza dinamica del jazzCharlie Watts and the A,B,C&D of Boogie Woogie al Blue Note

The A, B, C&D of Boogie WoogieDa sinistra: Axel Zwingenberger, Ben Waters, Charlie Watts, Dave Green

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■ DI VITTORIA GIANNONI ■[email protected]

Largo alla elefantasia!

Ultimamente nella no-stra Università un’altraspecie animale si è ag-giunta ai Leoni di viaSarfatti. Dal 16 Settem-bre, infatti, nello spazio

antistante alla biblioteca, è possibileassistere ad un insolito spettacolo: duecuccioli di elefante, a grandezza natu-rale e dalle decorazioni chimeriche, sistagliano fra la folla degli studenti chetutti i giorni corrono da una parte al-l’altra del Campus. Si tratta dell’enne-sima iniziativa di Bocconi Art Gal-lery? La risposta è no: questa volta lozampino dell’Università non c’entra.Le opere d’arte contemporanea cheda qualche settimana incuriosisconotutti i bocconiani, fanno di fatto partedel progetto Elephant Parade, un’ini-ziativa a livello internazionale che

dopo Amsterdam, Londra e Copena-ghen (per citare

solo alcune delle tante città aderenti)è sbarcata anche a Milano.

Da Settembre fino al 15 Novembre2011 saranno più di 72 gli elefantini adinvadere il capoluogo meneghino, at-traverso quella che può essere definitaun’incredibile mostra open-air, conl’obiettivo di sensibilizzare la popola-zione sulla rapida estinzione dell’ele-fante asiatico. Ogni opera d’arte costi-tuisce un pezzo unico decorato da artistie designers più o meno noti; alla con-clusione del periodo espositivo, le sta-tue elefante verranno prima radunatein un luogo ancora ignoto delle cittàper poter dare l’ultimo saluto a tutti imilanesi, e poi, in occasione di unagrande serata, saranno battute all’astagrazie alla collaborazione di prestigiosipartner quali Christie’s e Sotheby’s. Inu-tile dirlo, il ricavato delle vendite saràdevoluto ad enti che operano per lasalvaguardia del pachiderma asiatico, inparticolare all’Asian Elephant Foun-

dation. I pezzi più contesisaranno

sicuramente “Dumbina”, la preziosa (eleziosa) elefantina di Swarovski deco-rata da Katy Perry, e “Nello T. (figlio diMara)” ideato e realizzato dalla FerrariDesign. Non dimentichiamo il contri-buto di altri noti personaggi italiani,quali Fulco Pratesi, presidente di WWFItalia, Alessandro Mendini, storico de-signer di Alessi, o Franco Curletto, hair-stylist torinese richiestissimo dalle cele-brities.

Negli ultimi cento anni gli esem-plari della specie non solo sono dimi-nuiti del 90%, fino a rimanere soltantoin 30.000, ma hanno visto il loro habi-tat naturale disponibile ridursi del 95%.Grazie alle edizione passate, oltre 4 mi-lioni di euro sono stati devoluti a favoredi questa causa importante. Si tratta diun progetto semplice quanto geniale,dove l’arte rappresenta il valore trai-nante dell’iniziativa, e più il valore ar-tistico degli esemplari sale, maggioresarà la cifra ricavabile dalla vendita del-l’opera da destinare in beneficienza. Indefinitiva, vista la passione di noi eco-

nomisti per gli acronimi, po-tremmo definire laElephant Parade unA-B-C: la combina-zione di Art, Businesse Charity. Quindi, caribocconiani, vi consi-glio di non perdervi inquesti giorni l’originalemanifestazione in giroper Milano, perché, oltrerallegrare e a colorare lenostre giornate di studio,può essere anche un’utile edivertente lezione su comearte, cultura e ideali possanofelicemente convivere conmodelli manageriali tipicidel mondo aziendale. [ ]

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Un non meglio pre-cisato giorno di quasi(ahimè!!) più di treanni addietro miritrovai pur io, al paridel Sommo poeta, in

una non allora meglio definita bol-gia, con la (a tratti) sentita speranzadi perseguir virtute e conoscenza.In realtà tre fameliche belve - unagiovanile spinta a mettersi allaprova, la volontà di confrontarsi conun ambiente nuovo, diverso, inter-nazionale e competitivo nonché ilpretenzioso desio di indossare ancheio un giorno una toga con annessotocco - mi resero allora (ai tempi)tanto fiera della mia scelta che ilprimo giorno arrivai con mezz’ora dianticipo davanti alla “Porta deiLeoni”. Di ciò tuttavia e tuttora nonmi accuso, giacché tale misura mi fuprovvidenziale per farmi spiegare daun, peraltro cordialissimo, addettoalla reception la trascendente e in-tellegibile differenza tra l’ aula 2.1 ela N21. Pochi mentori sarebberostati in grado di tanto.

Giorno dopo giorno, al pari di unsolerte pellegrino ho imparato e vistomolto: Bocconiani variamente vestitiche corrono sopra rigoli di sudore esangue inseguiti da mosconi e gigan-tesche zanzare (fauna tipica mi-lanese), studenti nel limbo tra l’ averconsegnato il compito e l’ aspettareuna sentenza circa il proprio (parzialeo generale) Destino, colleghi travoltida una serie incessante di aperitivi e

serate nonché sotterrati da una fittapioggia di homeworks e assignmentse via di seguito. Alcuni lasciarono,molti perseverano, i più resistettero.

Ignavi, miscredenti, maghi, in-dovini, barattieri di appunti, aguata-tori e falsi consiglieri d’ inganni, su-perbi, scismatici e seminatori didiscordia, traditori dei compagni dilavoro di gruppo (coloro chetradirono quelli che in loro tutto sifidavano e dai quali erano stati pro-mossi a dignità e grande stato), deibenefattori e della fede calcistica: inmille e più si sono accalcati nei lu-oghi ove sono silenzio e tenebre leglorie che passarono. Tra diverselingue, orribili favelle, parole di do-lore, accenti d’ ira, voci alte e fioche,le anime condannate sogliono tut-

tora dimenare colpi e insulti nell’etere lungo le eterne code dellamensa o al cospetto della segreteriaUndergraduate (un moderno Cer-bero, saziabile solo con cd in pdf cor-rettamente masterizzati contenentitesi soporifere ma formattate secondodivini ed accettati principi).

Forse fatti voi foste a vivere cometali e loschi soggetti (o almeno, avetepassato un test d’ ingresso e siglatoun honor-code)? Né la dolcezza de levostre consuetudini precedenti, néla pietà verso le vostre debolimeningi, né tantomeno i debiti d’esame finalizzati a rendere la vostraestate ben poco lieta potranno vin-cere dentro di voi l’ ardore di di-venire del mondo, dei vizi umani edel valore esperti. Fra consiglierifraudolenti e più miti consigli, traleggende metropolitane e la pasta alpesto della domenica, grazie a lititerminate alle quattro di notte etregue siglate alla luce del sole treanni sono passati in tre giorni. Vuolsicosì colà dove si puote ciò che sivuole, e più non dimandare.

Tutte le cose sublimi sono tantodifficili quanto rare: galeotti furonoquei giorni, e chi li visse. Se non viè nessun maggior dolore che ricor-darsi del tempo felice nella miseria,vi fu (e c’è) chi sotto questa latitu-dine, trovò non solo dei pari, deicompagni di viaggio, degli amici, maanche una famiglia.

E quindi uscimmo a riveder lestelle. [ ]

Lasciate (quasi) ogni speranzavoi che entrate

Per chi la retta via ebbe, vieppiù, smarrito.

■ DI GIORGIA RAUSO ■[email protected]

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3 months in the

Big Apple

■ DI MARICA CAPOSALDO ■[email protected]

La decisione di intraprendereuno stage all’estero è dipesain primis dalla voglia di sfi-dare me stessa. Prima dellapartenza mi muoveva la vo-glia di migliorare la mia co-

noscenza e l’uso della lingua inglese,nonché di arricchire il mio curriculumvitae con un’esperienza lavorativa in-ternazionale. Da ultimo, e non menoimportante, pensavo che lo stage po-tesse essere un ottimo banco di provaper farmi un’idea diretta di che cosa fos-sero e richiedessero certe mansioni, at-tività e carriere aziendali. Di certo que-sto mi ha permesso di orientare le miescelte accademiche e lavorative future.

Non nego certo l’entusiasmo di vi-vere tre mesi nella Grande Mela inestate, di potermi confrontare conmolte persone, di mettermi in giococompletamente. La ricerca dell’allog-gio, per esempio, si è trasformata inuna lotta per la sopravvivenza, in unacittà dove le case, senza che si pre-

tenda nulla di eccezionale, vengonoaffittate molto velocemente: alla fineovviamente è stata una soddisfazioneimmensa riuscire a trovare una siste-mazione da sola, anche si ci sono vo-lute tre settimane a tempo pieno.

Ho scelto di intraprendere unostage nel settore della consulenza azien-dale: ho assistito una piccola societàitalo-americana nello svolgimentodelle attività necessarie per aiutare leaziende italiane ad aprire o trasferireuna qualsiasi attività imprenditorialenegli Stati Uniti. Si è trattato di redi-gere analisi di settore e business plan, didelineare o implementare la struttura disiti di e-commerce, di relazionarsi con iclienti, di cercare distributori e rappre-sentanti per certi prodotti.

Il mio consiglio, per le esperienze diinternship all’estero, è quello di predi-sporsi mentalmente ad osservare – o, pa-radossalmente, ad assorbire – il più pos-sibile, da tutto e tutti, nel contestolavorativo e non. È inoltre importante,

per imparare, dimostrare flessibilità conle persone e le situazioni, ma più di tuttonon abbattersi mai e confrontarsi con-tinuamente, chiedere e chiedere an-cora. Umiltà e massima sincerità ripa-gano sempre. Alla fine tutto ciò che vicapita è stage, tutto è esperienza di vita.

La ricchezza maggiore che si ot-tiene da esperienze come questa è, amio parere, la nuova prospettiva concui guardare al mondo, alle persone,alle altre culture: si capisce che ogniazione, semplice o complessa, potrebbeessere svolta diversamente, si incon-trano nuove abitudini, nuovi gusti,nuovi pensieri e mondi. Lo stage per-mette da un lato di capire come spen-dersi e meglio orientarsi a livello per-sonale e lavorativo, e dall’altrol’esperienza all’estero arricchisce erende più umili perché ci mette com-pletamente in discussione, aprendociprospettive che non immaginavamo.

Come se non bastasse, ho avuto lapossibilità di vivere questa esperienza inuna città che lascia continuamente e inmaniera inaspettata senza fiato, con lesue altezze, la sua storia, la sua cultura,con i valori che le persone e la nazioneamericana trasmette da sempre, con ilfascino con cui ammalia.

Che dire, ho potuto anche io rea-lizzare il mio piccolo sogno ameri-cano. [ ]

CAMPUSLIFESPECIALE STAGE

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17 marzo: non l’Italia, ma una soluzione italiana.

■ DI MAURIZIO CHISU E LUCA STEFANUTTI■[email protected] | [email protected]

“Il re Vittorio EmanueleII assume per sé e peri suoi successori iltitolo di re d’Italia”:con questa frase, pro-nunciata il 17 marzo

1861, si fa solitamente nascere loStato Italiano attuale. Alcuni fatti di-mostrano che ciò non è esattamentevero: la particolare formula utilizzata,la corona regia (i Savoia rifiutaronoquella del regno d’Italia e usaronosempre e solo quella del regno diSardegna) e il numero ordinale delsovrano, che rimase II nonostantefosse nato un nuovo stato. Si è dunquesoliti affermare che l’Italia non nacquenel 1861 come un’entità nuova, macome una semplice estensione delregno sardo, nato nel 1297, che inquel giorno cambiò solamente il pro-prio nome. Se però si volesse andareoltre queste sottigliezze e considerarecome data di nascita dello Stato Ital-iano l’anno in cui vi fu l’unificazioneterritoriale, non si potrebbe nemmenoin tal caso prendere il 1861: in quel-l’anno, infatti, mancavano ancora ilLazio e il Triveneto. Per alcuni bas-tarono più o meno dieci anni, per ilTrentino, Gorizia e Trieste si dovetteaspettare il trattato di Rapallo del1920. L’unificazione non è dunqueavvenuta nel 1861: è cominciata nel1297 ed è finita nel 1920.

Se anziché una data legata all’u-nificazione territoriale volessimo al-lora usarne una legata all’unificazionespirituale, ci sarebbero ancora più prob-lemi: quest’ultima andrebbe infatti cel-ebrata in una data in cui il sentimentounificante coinvolse tutta la popo-lazione, partendo proprio dai piccoligesti della quotidianità: come quando

il soldato di Milano cucinava per lui ei suoi compagni sardi e pugliesi, cantic-chiando un motivetto toscano nelletrincee in Friuli, durante la GrandeGuerra. La storia della nascita di unospirito nazionale unico da nord a sudnon ha infatti il suo apice nel 1861 maproprio nel ‘15-’18, quando nelletrincee gli italiani si scoprirono personedi dialetti e costumi del tutto differentima comunque capaci, nella comunelotta per la sopravvivenza, di instauraredei legami fraterni.

Il 17 marzo di 150 anni fa non èdunque nato né lo Stato né la nazioneitaliana. Eppure quella data va co-munque ricordata: non per l’Unità,ma per essere uno di quei rari mo-menti della nostra storia, come fu laCostituzione repubblicana, in cui unatempesta di visioni e progetti diversi sisono fusi per scuotere questo paese, erenderlo migliore.

Ci stiamo dividendo fra mille fed-eralismi e ci sentiamo sempre ripetereche non abbiamo più una coesionenazionale e un sentimento comune,ma soprattutto sentiamo di persone

che non possono coltivare la propriapassione o abilità perché manca unamentalità che stimoli l’innovazionee il talento individuale. Siamo divisie ingolfati, ma il 17 marzo 1861 ci in-segna che forse non dobbiamo focal-izzarci direttamente su questo prob-lema quanto invece ricreare lecondizioni affinché un raro momentocome quello si ripeta. Questo non èinfatti il paese che riesce a mantenereun ritmo costante e dei discreti risul-tati: è quello che per anni sta fermo adautodistruggersi e ogni tanto fa unosprint che cambia il mondo. Ci sveg-liamo per correre dietro a qualcosa:una scadenza, un ideale, un sogno.Oggi quel sogno è un’Europa final-mente unita: un progetto comuneforte e non più schiavo delle divisioninazionali, capace di conservare le di-verse culture guidandoci verso lamodernità. Ciò che sta avvenendo inquesto periodo è una chiamata perrealizzare tutto questo, e la nostra sto-ria ci insegna che saremmo maestrinel compiere un lavoro di questo tipo.Risponderemo? [ ]

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Volendo individuare ilpaese con la Costi-tuzione più democraticadel mondo – intesacome quella più rappre-sentativa della volontà

dei cittadini che lo abitano – difficil-mente l’Islanda sarebbe il primo avenire in mente. Eppure, l’iter distesura della nuova Costituzione is-landese – conclusosi ad agosto - rapp-resenta un vero e proprio esperimentodi democrazia “partecipativa”, affidatointeramente alla cittadinanza senzaalcuna intermediazione da parte dellaclasse politica. Per capire come ciò sia stato possibilebisogna però fare un passo indietro,chiedendosi innanzitutto perché pro-prio in Islanda e proprio in questo mo-mento storico. La risposta è semplice:dopo il collasso del sistema bancariodel paese nel 2008, ai cittadini vennechiesto di pagare di tasca propria glienormi debiti contratti dalle banchedell’isola. Messa di fronte a questaprospettiva, la popolazione dell’isolareagì scendendo ripetutamente in pi-azza (non succedeva dal 1949) fino adottenere l’azzeramento sostanzialedella classe politica – connivente conle banche - e l’elezione di un’Assem-blea Costituente. Ciò, al fine di riscri-vere la Carta Costituzionale in modotale da garantire una maggiore tuteladegli interessi dei cittadini.Ed è a questo punto che il caso is-landese assume dei connotati assoluta-mente peculiari, a partire dalla compo-sizione dell’Assemblea, nella qualenon è stato eletto nessun politico. Fig-urano invece esponenti di quasi tuttele categorie sociali, tra i quali – non èuno scherzo - addirittura un con-tadino, un pastore protestante ed unostudente. Anche in questo caso, la popolazionecoinvolta rimaneva però solo una pic-cola frazione di quella totale (gli is-

S C A M B I N T E R N A Z I O N A L I

PICCOLI STATI ■ DI ENRICO CAVAZZUTI ■[email protected]

landesi sono pur sempre trecentoven-timila!); inoltre, i cittadini non avreb-bero potuto esercitare un controllo ef-fettivo sullo svolgimento dei lavori.Pertanto, in uno dei paesi con la piùalta alfabetizzazione informatica almondo, si è deciso di risolvere taliquestioni ricorrendo alle potenzialitàdel “crowdsourcing istituzionale”: valea dire, l’impiego di internet comemezzo per coinvolgere direttamente isingoli cittadini al processo di stesuradi una legge, in questo caso addiritturadi quella costituzionale. A tale scopo,sono stati addottati tutti gli strumentia disposizione: non solo il sito isti-tuzionale del parlamento, ma ancheYoutube, Twitter e Facebook. Inquesto modo, tutte le sedute della Cos-tituente sono state trasmesse in di-retta, dando inoltre ai cittadini la pos-sibilità effettiva di commentarel’operato dei loro rappresentanti inogni momento grazie ai social media.Non si è trattata di una pura formalità:alcune discussioni particolarmente

“gettonate” nel forum del sito del par-lamento – soprattutto in tema di lib-ertà di espressione e tutela dell’ambi-ente – hanno trovato riscontro quasipuntuale in taluni articoli della nuovaCostituzione. Alcuni di questi sonoparticolarmente innovativi, come l’ar-ticolo 33 che, inserendo fra i diritticostituzionalmente garantiti quello aun ambiente salubre e a una natura in-contaminata, aggiunge – per la primavolta in un testo di questo livello - es-plicito riferimento alle generazioni fu-ture: a queste, dovrà infatti esseregarantito il diritto ad “un’esistenza dig-nitosa e in armonia con l’ambiente”.Chi ancora dubita dell’effettivo ap-porto del crowdsourcing al processodi stesura, forse potrebbe convincersileggendo l’articolo 15, il cui testorecita: “E’ proibito tagliare la connes-sione a Internet se non dietro ordinedi un giudice e alle stesse condizioniche regolano le limitazioni della lib-ertà di espressione”.Like it? [ ]

Grandi idee

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L ’ A N G O L O D E L G I U R I S T A

Poteri e democrazia:legame superato?

Viviamo in uno Statodemocratico in cui unassodato principio disovranità popolare in-forma la struttura e ilfunzionamento degli

organi statali. Tuttavia, la vita pub-blica di un paese non si esauriscenella vita dello Stato. Infatti, esi-stono realtà separate dal circuito de-mocratico ad onta dell’esercizio diun’attività di rilevanza generale.

Si pensi alla direzione di un’Uni-versità, di una redazione giornali-stica, alla conduzione di una grandeimpresa, alla programmazione di unpalinsesto televisivo. È innegabileche le scelte prese in seno a tali con-testi abbiano ricadute notevoli sullacollettività cui afferiscono. Lungi dalpartecipare alla diatriba tra presuntidemocratici e cosiddetti tecnocrati,tra romantici assertori della sovra-nità popolare e cinici fautori di ungoverno dei più ricchi, forti, colti ocapaci, qui si vuole meramente com-prendere se il principio democraticopossa o meno essere professato inmaniera assoluta.

Senza dubbio, assoggettare tuttele decisioni di rilevanza generale aduna deliberazione popolare è mate-rialmente irrealizzabile. L’espansionedelle funzioni pubbliche determinapoi l’impossibilità anche di un’azione

puntuale da parte di un’assemblearappresentativa del popolo. Di con-seguenza, significative funzioni ven-gono solitamente attribuite all’Ese-cutivo o alle sue agenzie. In parallelo,avanzano con successo nella societàodierna fenomeni di cosiddetta sussi-diarietà volti a disperdere la centra-lizzazione del processo decisionale.In questo modo, è ben possibile cheanche soggetti privati rivestano fun-zioni tradizionalmente pubbliche ocomunque si facciano portatori diinteressi generali.

Questa sorta di destituzione dellademocrazia liberale tradizionale e deldiscendente principio di legalità for-male appare come un necessarioadattamento alla complessità tecnicadei tempi correnti. Tale tensione èlampante in questi mesi inerente-mente alla dialettica tra Banca Cen-trale Europea ed istituzioni italiane.

La democrazia liberale cede difronte alla democrazia “costituzio-nale”. “Costituzione” è termine cheva inteso nel suo senso formale e ma-teriale. In seno ad un’unica costitu-zione, il principio democratico non èl’unico ad albergare. Esso è declinatoinsieme ad altri principi: libertà, ef-ficacia, efficienza, buon andamento,meritocrazia e così via.

Allora, il comportamento “legit-timo” da parte di un’impresa, una te-

stata editoriale o un’associazione nonè tanto quello che corrisponde alconsenso dei più, quanto quello chesi conforma al rispetto delle regole edelle esigenze che esprimono lo stareinsieme nella collettività. Regole piùrigide e valevoli per tutti a prescin-dere dalla posizione di forza o di in-fluenza rivestita all’interno della so-cietà. Così il giudizio di legalitàformale viene sostituito da un giudi-zio di costituzionalità sostanziale:dall’impossibilità di un’autorizzazionelegislativa su ogni misura alla neces-sità di un controllo giudiziale o quasi-giudiziale ex post.

Anche se intuitivamente non ap-pare, l’evoluzione storica dello Statoha progressivamente rappresentatoun aumento delle funzioni pubbli-che e dunque un rafforzamento delloStato stesso. Tale evoluzione tuttaviadetermina un ridimensionamentodella centralità delle assemblee rap-presentative ed una progressiva sosti-tuzione del concetto dello Stato-co-munità a quello di Stato comesommatoria dei propri organi. Lafunzione giurisdizionale assurge aperno del sistema, in qualità di inter-prete non avalutativo dei valori fon-damentali dello stare insieme, stru-mento di equità sostanziale, piuttostoche di rigorosa osservanza del datogiuridico formale. [ ]

■ DI CARLO DE STEFANO ■[email protected]

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L ’ A N G O L O D E L L A F I N A N Z A

Ah, settembre: inizia l’au-tunno, ci si rassegna al-l’inizio del nuovo annoaccademico, si fa a pugniin Egea per i libri, si aprela stagione di caccia e

quella di recruitment nelle maggioribanche d’investimento (le analogie trale due al solito si sprecano).

Mamma Bocconi in ogni caso èpremurosa e annualmente ricorda atutti i suoi pargoli l’incombenza di que-st’ultima (specifico: il recruitment, micalo sparo al cinghiale). La mia anzianitàdi servizio in ateneo mi porta quindi aconsiderarmi ancora in vacanza fin-ché non vedo scritto su qualche mani-festo “investment bank”, “CV”, “inter-view” o altri seminari analoghi.

Il clue di questa girandola di eventiè rappresentato dai cosiddetti Inve-stment Bank Saturdays. Tradotto: cin-que giorni non vi bastano? L’uni apreanche il weekend. Due sabati in cuigruppi di banker si presentano e fannopubblicità pardon, parlano alle folle distudenti in merito alla loro banca e al-l’investment banking in generale.

SPOILER (per quelli che “il sabatoho di meglio da fare”): <inserire banca>,numero uno al mondo per <inserirearea>, come dimostrato dal <inserirepremio del settore> vinto nel 2011, cercagiovani studenti con menti analiticheche abbiano doti di leadership e sap-piano lavorare in team. Per lo stageestivo pregasi fare application online, se-zione “careers” del sito.

La fatica dello svegliarsi presto erimanere in uni tutta la giornata a ve-

dere gente che blatera dietro a slide(pure il sabato) è (parzialmente) com-pensata dalla fauna che s’aggira in que-ste occasioni. È possibile classificare ipartecipanti nelle seguenti categorie(ma l’impresa è ancora un work in pro-gress):1) I Gordon Geeks: no, non ho scrittosbagliato. Sono identificabili dalla ca-micia con gemelli e cifre e dal capellotirato indietro a forza di gel; i più esal-tati arrivano anche alle bretelle anni‘80. Solitamente sanno tutto dellabanca in questione, anche il colore deifiori nel vaso della receptionist. Da evi-tare – se state puntando allo stessobanker potrebbero compiere gesti in-consulti per rimuovere l’ostacolo (voi).In ogni caso potete liberarvene facil-

mente affermando che non avete maivisto Wall Street (il film): implode-ranno in un istante.2) I fatalisti: la categoria in questione èrecente ma popola da tempo questieventi– d’altronde, 5 giorni dopo cheho messo piede in Bocconi è fallitaLehman. Vista la situazione dei mer-cati finanziari, si auto-convincono chele banche non assumeranno nessuno,tanto meno loro. Dal loro punto di vi-sta non hanno nulla da perdere, quindifanno incetta di gadget e si divertono afar domande imbarazzanti, del tipo“quanto prendi al mese?”. Maneggiarecon cautela, il cinismo è tagliente.3) I gestori oculati del risparmio: nonsanno cos’è l’investment banking e nongliene importa nulla. Sono là solo per-ché sborsare 3€ per una penna in Egeaè un furto, quando puoi avere tutto ilkit di post-it + cancelleria aggratis. Epoi “i tramezzini del buffet non sarannogranché, ma almeno mi rifaccio sullaretta…”. Innocui, almeno finché nonvi metterete ad allungare la manoverso l’ultimo bloc-notes/cannolo ri-masto.4) I seriamente interessati (non appar-tenenti alla categoria #1): leggenda me-tropolitana, non esistono.

Questo è quanto. Ricordo a tuttiche conoscere le varie categorie dipartecipanti è utile per due motivi: a)uscire indenni dall’esperienza e b)non annoiarsi troppo durante qualchepresentazione che si protrae oltre mi-sura. Efficacia garantita. Parola diGordon Geek. [ ]

■ DI KIM SALVADORI ■[email protected]

IB SaturdaysGuida alla sopravvivenza

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Edito da Università Commerciale Luigi Bocconi. Registrazione n. 428 del 10/07/2001 del Tribunale di Milano.

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Fotografia on campus Luca Stefanutti

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