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L’associazione adotta un Sistema di Gestione per la Qualità in conformità alle Normative UNI EN ISO 9001:2000 nei seguenti campi: Studi, Ricerche, Convegni in ambito economico

finanziario meridionale; sviluppo editoriale e gestione della produzione di periodici.

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Fattori di crescita e di trasformazione dei sistemi produttividelle regioni meridionali

GIannInI edItoRe

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ISBN: 978-88-7431-432-4

Composizione ed editing a cura di Marina Ripoli (SRM)

Grafica copertina Ciro D’Oriano

Al volume è allegato il CD-Rom di approfondimento delle analisi regionali, nell’indice ne sono anticipati i contenuti e le linee di indagine.

2009 © Giannini EditoreNapoli - Via Cisterna dell’Olio, 6/bwww.gianninieditore.it

La riproduzione del testo, anche parziale, non può essere effettuata senza l’autorizzazione dell’Associazione Studi e Ricerche per il Mezzogiorno e dell’Osservatorio Regionale Ban-che Imprese di Economia e Finanza.

Pubblicazione aggiornata con dati ed informazioni disponibili a dicembre 2008.

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Pubblicazione curata da

Advisory Board:Francesco Saverio Coppola (SRM), Antonio Corvino (OBI)

Comitato Tecnico:Salvio Capasso (SRM), Fabio Pinca (OBI)

Il presente Rapporto è stato redatto da un Gruppo di lavoro composto da ricercatori dell’Associazione Studi e Ricerche per il Mezzogiorno (SRM) e dell’Osservatorio Regionale Banche-Imprese (OBI).

Gruppo di lavoro OBI:Riccardo Achilli (Coordinatore)Nicola Coniglio, Adelaide Cufari

Gruppo di lavoro SRM:Luca Forte (Coordinatore)Gennaro Apuzzo, Salvatore Sacco

Per le monografie:Giovanni Ferri (capitolo 4)Adriano Giannola (capitolo 5)Paolo Guerrieri (capitolo 6)

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INDICE

Prefazione 13

Sommario 17

Summary 23

PRIMA PARTEIL MODELLO INTERPRETATIVO E I RISULTATI DEL RAPPORTO

Capitolo 1 – Linee interpretative e proposte operative Verso soluzioni di politica economica per lo sviluppo 1. dei sistemi d’impresa del Sud 31

Capitolo 2 – L’economia internazionale nel 2007/2008 1. La crisi di fine 2008 412. Lo scenario internazionale nel 2007 423. Lo scenario internazionale nel 2008 454. Gli andamenti dell’economia italiana nel 2007 475. Lo scenario nazionale nel 2008 52

Capitolo 3 – Modello competitivo e fattori strutturali di competitività nell’economia delle regioni meridionali

Verso un nuovo modello competitivo per l’economia meridionale 571. Le strategie organizzative e di valorizzazione del capitale umano azienda 602. La leva degli investimenti 703. L’innovazione 754. L’internazionalizzazione 845. Le percezioni delle imprese intervistate circa la loro competitività 896. Conclusioni7. 92

SECONDA PARTELE MONOGRAFIE

Capitolo 4 - I nodi nello sviluppo delle imprese meridionali Introduzione 971. La crescita del capitale umano aziendale 1022. La finanza per lo sviluppo 1063.

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Capitolo 5 – L’esigenza di un “Nuovo Paradigma Competitivo” per le regioni meridionali: criticità e linee di azione 1. Introduzione 1092. Per un nuovo modello strutturalmente competitivo 1103. Quesiti, aspettative, prospettive 1194. Linee di politica industriale 120

Capitolo 6 – L’internazionalizzazione: una sfida da raccogliere L’internazionalizzazione e l’economia globale 1251. Il rafforzamento degli ultimi anni 1282. Il Mezzogiorno e l’internazionalizzazione 1323. Mutamenti in corso ma ritardi diffusi 1364. Una presenza nel contesto globale da rafforzare 1385.

TERZA PARTEMODELLI COMPETITIVI E FATTORI STRUTTURALI

DI COMPETITIVITà NELL’ECONOMIA DELLE REGIONI DEL MERIDIONE PER IL 2007-2008

Capitolo 7 – La Regione Basilicata Introduzione 1471. Il quadro complessivo della competitività del sistema produttivo regionale 1482. Propensione all’investimento 1503. I profili provinciali 1534. Il dualismo interno al sistema produttivo regionale 1545. Le strategie organizzative e la valorizzazione del capitale umano 1566. Le principali aree di criticità 1587. L’internazionalizzazione 1618. L’autopercezione delle imprese circa il proprio livello competitivo 1629. Conclusioni 16510.

Capitolo 8 – La Regione Calabria Introduzione 1671. Le strategie organizzative 1682. La valorizzazione del capitale umano 1703. Propensione all’investimento 1734. L’innovazione 1755.

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L’internazionalizzazione 1786. L’autopercezione delle imprese circa il proprio livello competitivo 1797. Conclusioni 1818.

Capitolo 9 - La Regione Campania

Introduzione 1831. Le strategie organizzative 1842. La valorizzazione del capitale umano 1863. Propensione all’investimento 1914. L’innovazione 1925. L’internazionalizzazione 1936. L’autopercezione delle imprese circa il proprio livello competitivo 1957. Conclusioni 1968.

Capitolo 10 – La Regione Puglia Introduzione 1991. Le strategie organizzative e la valorizzazione del capitale umano 1992. Propensione all’investimento 2063. L’innovazione 2084. L’internazionalizzazione 2115. L’autopercezione delle imprese circa il proprio livello competitivo 2156. Conclusioni 2167.

Capitolo 11 – La Regione Sicilia Introduzione 2191. Le strategie organizzative 2202. La valorizzazione del capitale umano 2223. Propensione all’investimento 2264. L’innovazione 2295. L’internazionalizzazione 2326. Conclusioni 2357.

Bibliografia 239 Notizie sugli autori 241

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CD ALLEGATO

Per l’indagine completa delle dinamiche che interessano i sistemi produttivi delle cinque regioni del Mezzogiorno esaminate si rimanda al CD-Rom allegato. I reports contenuti analizzano i modelli organizzativi, il sistema investimenti, il grado di innovazione e internazionalizzazione e quindi il livello di competitività delle regioni meridionali per il 2007-2008.

INDICE

LA BASILICATA1. Introduzione

Il modello organizzativo e il capitale umano aziendale1. 2. Gli investimenti 3. L’innovazione aziendale4. L’internazionalizzazione5. La competitività delle imprese pugliesiConclusioni

LA CALABRIA2. Introduzione

Il modello organizzativo e il capitale umano aziendale1. Gli investimenti 2. L’innovazione aziendale3. L’internazionalizzazione4. La competitività delle imprese pugliesi5.

Conclusioni

3. LA CAMPANIAIntroduzione

Il modello organizzativo e il capitale umano aziendale1. Gli investimenti 2. L’innovazione aziendale3. L’internazionalizzazione4. La competitività delle imprese pugliesi5.

Conclusioni

4. LA PUGLIAIntroduzione

Il modello organizzativo e il capitale umano aziendale1.

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Gli investimenti 2. L’innovazione aziendale3. L’internazionalizzazione4. La competitività delle imprese pugliesi5.

Conclusioni

5. LA SICILIAIntroduzione

Il modello organizzativo e il capitale umano aziendale1. Gli investimenti 2. L’innovazione aziendale3. L’internazionalizzazione4. La competitività delle imprese pugliesi5.

Conclusioni

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PREFAZIONE

Il “Rapporto 2008 Impresa e competitività” costituisce un importante strumento di analisi della realtà economica del Mezzogiorno, soprattutto in un momento in cui la globalizzazione e l’evoluzione dei mercati si riflettono incisivamente sulle dinamiche di competitività delle imprese meridionali.

Il Rapporto, realizzato dall’Associazione Studi e Ricerche per il Mezzogiorno e dall’Osservatorio Regionale Banche-Imprese di Economia e Finanza, a cui si deve l’impianto metodologico originale, costituisce il risultato di una proficua collaborazione tra i due istituti. Esso rappresenta non solo un utile presupposto per approfondire lo studio e la conoscenza del territorio, ma anche un supporto pratico e di agevole consultazione, che si pone concretamente al servizio di imprese e istituzioni.

Il Rapporto si concentra sulle trasformazioni in atto nei sistemi produttivi di cinque regioni (Campania, Calabria, Puglia, Basilicata e Sicilia), ampiamente rappresentative per entità prodotto interno lordo (il PIL delle 5 regioni costituisce oltre l’82% del PIL meridionale) e differenziazioni di livello e modello di sviluppo, del Mezzogiorno intero.

Il testo proposto in questo volume rappresenta una sintesi dei principali risultati dell’analisi, integrata con tre contributi monografici inerenti il modello organiz-zativo, degli investimenti e dell’internazionalizzazione, con riferimento ai sistemi produttivi analizzati nel Rapporto. Viene, inoltre, dedicata ampia rilevanza allo scenario internazionale, che costituisce il contesto di riferimento in cui i sistemi produttivi operano e competono e da cui derivano minacce ed opportunità per le imprese analizzate.

Il Rapporto evidenzia che competenze, qualità e innovazione sono gli obiettivi che i sistemi produttivi meridionali si devono prefiggere se vogliono avvicinare il proprio modello di sviluppo al Nuovo Modello Competitivo.

Tale obiettivo può essere conseguito attraverso alcune specifiche “leve”, quali: un adeguato presidio di funzioni aziendali “strategiche” (pianificazione, ricerca e sviluppo, informatica e tecnologia); un più intenso utilizzo degli investimenti; l’in-novazione, di processo come di prodotto.

Sebbene l’utilizzo di tali strumenti sia ancora molto parziale, l’indagine rea-lizzata presso gli imprenditori evidenzia la presenza di elementi di discontinuità rispetto al passato e rivela l’emergere di una maggiore consapevolezza circa le proprie criticità e la maniera di superarle.

Le imprese che hanno implementato innovazioni, ad esempio, hanno ben chiaro il nesso tra l’essere risultate più competitive nel proprio mercato di riferimento e l’innovazione introdotta.

Più in generale, sembra piuttosto diffusa, almeno sul piano dei principi, l’idea

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che riconosce la necessità di procedere da un modello competitivo basato sul solo controllo dei costi interni ad uno schema fondato sulla qualità e l’innovazione.

Certo, il passaggio dalla semplice percezione, seppur chiara e diffusa, della necessità di ripensare il proprio modello competitivo, ad azioni concrete per ripro-durre uno schema più adatto alle attuali dinamiche della competizione globale, non appare facile, né automatico, ma certamente è possibile.

L’auspicio è che questo lavoro contribuisca alla realizzazione di tale transizione, arrivando a divenire un punto di riferimento essenziale per le imprese del territorio meridionale e contribuendo a migliorare la capacità di valorizzare l’insieme più ampio delle risorse e delle opportunità presenti in ciascun contesto territoriale.

Presidente SRM Presidente OBI Federico Pepe Michele Matarrese

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A coloro che con le idee,le opere e le azioni

contribuiscono allo sviluppo socialeed economico del Mezzogiorno,

in una visione europea e mediterranea

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SOMMARIO

Il “Rapporto 2008 – Impresa e Competitività” analizza il modello competitivo – e le dinamiche che sono alla base di tale modello – dei sistemi produttivi di cinque regioni del Mezzogiorno (Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia), con riferi-mento ai comparti dell’Industria in senso stretto, delle Costruzioni, e dei Servizi ICT e turistico-ricettivi.

Attraverso una indagine condotta presso un campione statisticamente rappresentativo di imprese delle regioni e dei comparti produttivi sopra evidenziati, viene descritta la condizione dei sistemi produttivi locali rispetto all’adozione di un modello strutturale di competitività adeguato a supportare le sfide che l’attuale competizione globale pone.

Tale “modello di riferimento per la competitività” – imperniato su competenze, qualità ed innovazione – viene posto, in questo Rapporto, quale riferimento per valu-tare l’approccio competitivo effettivamente adottato dalle imprese analizzate.

Il modello di competitività di larga parte delle imprese del Mezzogiorno – basato sul controllo dei costi di produzione e sulla competitività di prezzo – risulta oramai inadeguato a sostenere la competizione globale, in particolare di quelle economie emergenti che presentano strutture di costo assolutamente inarrivabili per le imprese occidentali.

Per quelle meridionali, l’esigenza di ripensare il proprio modello competitivo risul-ta ancora più pressante a causa del modello di specializzazione dei sistemi produttivi del Mezzogiorno molto simile a quello che caratterizza le economie emergenti, nuove protagoniste del commercio mondiale: settori a medio-basso contenuto tecnologico come il tessile-abbigliamento, il calzaturiero, la meccanica di base, l’agroalimentare.

Per avere un quadro chiaro dell’attuale assetto competitivo che caratterizza le imprese analizzate, il Rapporto ha utilizzato un approccio di tipo induttivo, partendo dall’analisi di alcuni aspetti che rappresentano le “leve” della competitività per ricavar-ne il modello di competizione realmente adottato dall’impresa. In particolare, si sono esaminati: il modello competitivo ed il capitale umano aziendale, gli investimenti, l’innovazione aziendale e l’internazionalizzazione. Nel quinto capitolo si è voluto, infine, analizzare il punto di vista delle imprese rispetto al proprio posizionamento competitivo, in una sorta di “autovalutazione” degli imprenditori.

Il modello competitivo e il capitale umano aziendale

La crescita del capitale umano all’interno delle imprese ed una governance più condivisa rappresentano due fra gli elementi alla base del successo di un’impresa.

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Per quanto concerne il primo aspetto, la tendenza attuale ad internalizzare fun-zioni strategiche quali R&S, marketing e pianificazione, rende necessari adeguati investimenti in risorse umane che non tutte le realtà produttive possono permetter-si.

La ridotta dimensione delle imprese meridionali costituisce la principale barriera al pieno dispiegarsi di questo processo di riaccorpamento di funzioni, prima affidate all’esterno.

Dall’analisi svolta si ricava, infatti, che le imprese del campione tendono a con-centrarsi prevalentemente sulle funzioni più direttamente connesse al funzionamento “minimale” dell’organizzazione, ovvero quella produttiva, commerciale e di ammi-nistrazione e contabilità, mentre le funzioni complesse – come la R&S, la pianifica-zione strategica, l’informatica e tecnologia, l’ambiente e sicurezza – sono presidiate molto raramente, il che sta ad indicare che le imprese del Mezzogiorno sono molto lontane dal’implementare quel Nuovo paradigma competitivo che richiederebbe, appunto, il presidio diretto delle aree funzionali a più alto valore aggiunto.

D’altra parte i dati che si riferiscono alle imprese del campione sono chiari. In tre delle cinque regioni esaminate (Campania, Calabria e Basilicata) la percentuale di imprese di piccole dimensioni (fino a 50 addetti) rappresenta tra l’88% e il 98% del totale, e solo una piccola frazione di queste ha natura giuridica societaria.

In una siffatta situazione risulta difficile implementare una organizzazione che abbia un grado pur minimo di complessità; questa risulta estremamente semplificata con tutte le funzioni strategiche e complesse che saranno in capo all’imprenditore-titolare.

L’analisi sul tessuto produttivo siciliano conferma la relazione diretta tra dimen-sioni aziendali e articolazione dell’organizzazione: le imprese dell’isola – il cui campione analizzato è composto solo per il 55% da piccole imprese – risultano pre-sidiare con maggiore frequenza rispetto alle altre regioni, le funzioni “sensibili”.

Tra i quattro comparti analizzati quello dell’ICT presenta una situazione legger-mente migliore, con le funzioni di R&S e di Informatica e tecnologia incorporate all’interno dell’organizzazione aziendale in un numero maggiore di casi.

Per quanto riguarda l’altro aspetto, quello della governance aziendale, l’analisi svolta mette in luce il carattere padronale dei modelli prevalenti all’interno delle imprese esaminate. Le figure manageriali intermedie (dirigenti e quadri) risultano molto rare se non, in alcuni casi, assenti; è il caso del comparto dell’ICT in tutte le regioni esaminate, ma anche del settore manifatturiero in Calabria e Basilicata e del comparto del turismo in Campania, Calabria e Puglia.

In generale, quindi, la direzione operativa e la pianificazione strategica sono in capo direttamente ed esclusivamente all’imprenditore che non si avvale di figure che, per la loro professionalità, sarebbero in grado di assumersi parte delle responsa-bilità. E’ inutile dire che in un mondo in cui la competizione tecnologica, produttiva e commerciale si fa sempre più complessa e sofisticata, il modello dell’“uomo solo al comando” non è più adeguato a supportare i necessari processi di incorporazio-

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ne di competenze aggiuntive di cui le imprese hanno assolutamente bisogno per sopravvivere.

Gli investimenti

L’implementazione di un modello competitivo efficace passa per la realizzazione di investimenti anche in altri asset, oltre che in capitale umano. Secondo l’analisi effettuata risulta che la percentuale di imprese che hanno realizzato investimenti nel biennio 2006-2007, o che hanno intenzione di effettuarli nel 2008, è inferiore al 50%.

In un tale contesto, esistono casi ancora più problematici come quello della Calabria, dove le imprese che hanno effettuato investimenti sono meno del 20% del totale in tutti i comparti analizzati, e altre situazioni di maggiore utilizzo della leva degli investimenti, come in Puglia e Sicilia.

In generale, dai risultati presentati nel Rapporto, sembra evidente l’esistenza di un dualismo che caratterizza il sistema di imprese del Mezzogiorno. Accanto ad una moltitudine di realtà produttive completamente tagliate fuori dal circuito degli investimenti esistono realtà dove la quota di investimenti sul fatturato aziendale è piuttosto elevata. Ad esempio, in funzione dei diversi comparti produttivi e delle diverse annualità, le imprese “investitrici” fanno registrare una incidenza della spesa per investimenti sul fatturato che va dal 17,2% al 23,9% in Sicilia, dal 14,7% al 24,8% in Calabria e ancora dal 14,3% al 21,2% in Puglia.

Due sono le caratteristiche che accomunano le imprese che investono: tendono ad essere medio-grandi (i dati del campione segnalano che la propensione ad investire aumenta con l’aumentare delle dimensioni dell’impresa), in ragione, evidentemente, delle maggiori risorse a disposizione per gli investimenti e di una migliore perce-zione di quelle che sono le effettive esigenze per competere in un contesto diverso rispetto a quello locale; adottano strategie competitive integrate, cioè intervengono su tutti i fattori rilevanti per la competitività, dal capitale umano all’innovazione e all’internazionalizzazione.

Assolutamente tradizionali appaiono i canali di finanziamento utilizzati per gli investimenti; praticamente assenti gli strumenti di finanza innovativa (venture capi-tal, partecipazione al rischio), scarsamente utilizzato risulta anche il credito banca-rio, mentre il canale principale cui si ricorre per il finanziamento degli investimenti è l’autofinanziamento e, tra le fonti esterne, il leasing.

L’innovazione aziendale

Insieme all’organizzazione aziendale ed agli investimenti, l’innovazione tec-

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nologica e organizzativa costituisce un altro fattore fondamentale di quel Nuovo Modello Competitivo di cui il presente studio cerca di verificare l’applicazione nel contesto del sistema produttivo meridionale.

Sempre più, persino nei settori tradizionali dell’economia – quelli che a prima vista non dovrebbero utilizzare l’innovazione come leva competitiva – tale elemento entra come forma di miglioramento della qualità del prodotto e viene anche utilizza-to come fattore distintivo nelle strategie di comunicazione e marketing.

La propensione ad innovare delle imprese nelle regioni osservate risulta piuttosto modesta e, oltretutto, decrescente tra il biennio 2006/2007 e il 2008. Particolarmente significativa la diffusione assolutamente modesta delle innovazioni nel comparto dell’ICT della maggior parte delle regioni esaminate.

Con tutta evidenza, la circostanza è spiegata dal fatto che le imprese del com-parto presenti nelle regioni del Mezzogiorno sono semplici terminali di gruppi con le proprie direzioni operative – e relative funzioni di R&S – collocate esternamente al Mezzogiorno.

A livello territoriale la Sicilia si conferma la regioni con il maggior dinamismo per quanto concerne l’introduzione in azienda di innovazioni. La propensione ad innovare delle imprese dell’isola è molto superiore a quella delle imprese presenti nelle altre regioni meridionali, in tutti i comparti analizzati.

La propensione ad innovare delle piccole e medie imprese risulta superiore a quella delle imprese di maggiore dimensione; la circostanza riguarda, in particolare, le imprese di Puglia e Sicilia e può essere spiegata, di nuovo, con l’assenza, anche nelle imprese di maggiore dimensione presenti nel Mezzogiorno, delle funzioni strategiche di R&S, essendo esse spesso semplici terminali produttivi di gruppi non meridionali.

Anche l’analisi dei canali attraverso cui si genera innovazione all’interno del mondo delle imprese meridionali non è priva di sorprese; la ricerca collaborativa, in partnership con il mondo dell’università o con altre imprese e reti di imprese, è assolutamente sporadica e, nel caso della Calabria, del tutto assente.

Qualche segnale di dinamismo in tal senso si coglie in Puglia (ricerca in collabora-zione con altre imprese) e Sicilia, dove esistono casi di partenariato con l’università, le due regioni relativamente con una maggiore propensione ad innovare ma, in assoluto, si tratta di numeri del tutto insufficienti a generare valore aggiunto in futuro.

L’internazionalizzazione

L’ultimo argomento trattato dal Rapporto riguarda il tema dell’internazionalizza-zione, considerata alla stregua di una cartina di tornasole in grado di testare l’effet-tivo dispiegarsi delle leve utilizzate dalle imprese per migliorare il proprio modello competitivo ed adattarlo alla competizione globale.

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La proiezione sui mercati internazionali costituisce, in altri termini, il risultato finale che il modello di competitività adottato consente di raggiungere.

Sotto questo aspetto la strada da percorrere per le imprese nelle regioni analizzate è ancora molto lunga: pur in presenza di situazioni diverse tra le regioni, il grado di apertura internazionale delle imprese meridionali risulta largamente insufficiente; in Calabria e Basilicata meno del 15% delle imprese del campione effettua attività di esportazione nel 2008.

In Sicilia e Campania, viceversa, la percentuale di imprese esportatrici è molto maggiore (tra il 40% e il 45% per il settore manifatturiero), ma ancora modesta risul-ta l’incidenza del fatturato estero sul giro d’affari (tra il 20% e il 32%), confermando il carattere ancora provinciale dell’economia del Mezzogiorno.

Conclusioni

Ciò che emerge dall’analisi è denso di elementi di criticità, ma contiene anche elementi positivi, soprattutto in termini di conferma di un cambiamento in atto, a livello di cultura di impresa, che riconosce, almeno sul piano dei principi, la neces-sità di passare da un modello competitivo basato sul solo controllo dei costi interni ad uno schema fondato sulla qualità e l’innovazione.

A conferma di questa positiva tendenza sta il fatto che i programmi di innova-zione introdotti sono orientati, in prevalenza, a dare maggiore qualità al prodotto o servizio finale, mentre la quota di investimenti destinati al mero controllo dei costi di produzione, in una logica competitiva neo-fordista oramai perdente rispetto alla pressione proveniente dalle economie emergenti a basso costo del lavoro, è assolu-tamente minoritaria.

Tuttavia, il passaggio da una consapevolezza teorica ad una implementazione concreta di un modello competitivo basato sulla conoscenza, la creatività e la qua-lità, è molto meno facile, come dimostra la percentuale minoritaria di imprese che riescono ad effettuare investimenti, sia immateriali (in formazione ed in R&S) che materiali, anche in ragione di un quadro macroeconomico sempre più recessivo, che riduce ulteriormente gli spazi per investire.

Di fatto, emerge un quadro dualistico, in cui una piccola minoranza di imprese più dinamiche manifestano progressi in tutti i campi e riescono ad avere una pre-senza commerciale al di fuori dei limiti dei mercati regionali; queste imprese sono anche quelle che riescono ad implementare strategie integrate, agiscono, cioè su tutti i fattori strutturali sottostanti al Nuovo Paradigma Competitivo (organizzazione ed integrazione delle funzioni complesse e ad alto contenuto di conoscenza, qualità del capitale umano intesa come competenze e creatività, innovazione, capacità di investimento).

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SUMMARY

The “2008 European Competitiveness Report” analyzes the competitive model – and the dynamics at the base of such a model of the productive systems – of five regions of Southern Italy (Basilicata, Calabria, Campania, Puglia and Sicily), with particular reference to the areas of industry such as building, tourist-receptive serv-ices and ICT.

Through a survey carried out on statistically representative sample of enterprises from the areas mentioned above, a picture emerges of local productive systems with reference to the adoption of a structural competitiveness model adapted to cope with the challenges of the global competition in these areas. Such “reference model for competitiveness”, based on areas such as quality and innovation, is used in this report as a reference in order to estimate the competitive approach effectively adopted by the enterprises analyzed. The main competitive model for enterprises in Southern Italy is based on the control of the production costs and on competitive prices and turns out inadequate to cope with global competition, in particular, from those emerging economies that introduce absolutely unachievable cost structures for companies in the West.

For those Southern companies, the requirement to rethink and create an own competitive model turns out still more pressing because of the model of specializa-tion of the productive systems of Southern Italy, that is much more similar to the model which characterizes the emerging economies, new protagonists of world-wide commerce: low-middle technology sectors like the textile-clothing and foot-wear industry, the mechanical and the agricultural sector and the food industry. For clear picture of the current state of competitiveness that characterizes the analyzed companies, the Report has used an inductive type approach, beginning with an analysis of some aspects that represent the “levers” of competitiveness in order to determine the competition model adopted by enterprises concerned. In particular, the report has examined: competitive model, human capital, investments, business innovation and internationalization. In the fifth chapter it is intentional, finally, to analyze the point of view of Southern enterprises regarding their own competitive positioning, in a kind of “self-assessment”.

Competitive model and human capital

The increase of human capital inside companies and a more shared governance represent two elements at the heart of a successful enterprise. With regard to the first aspect, the current tendency of internalizing strategic functions such as R&D, mar-

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keting and planning, requires adapted investments in human resources that not all companies can afford. The reduced size of Southern enterprises constitutes the main barrier to taking on these roles, which had been delegated externally. The analysis revealed, in fact, than the companies from the sample tend to concentrate on mini-mal operational roles in the running of their organization – that is production, sales, administration and accounting – while the complex roles – such as R&D, strategic planning, information technology, health and safety – are rarely dealt with, which indicates that Southern Italy’s enterprises are very far from implementing the new competitive paradigm that requires the direct control of these roles. On the other hand, the data referred to the companies from the sample are clear. In three of the five regions examined (Campania, Calabria and Basilicata) the percentage of small-sized enterprises (up to 50 employees) represents between 88% and 98% of the total sample, and only a small fraction of these are legally established companies.

In such a situation it turns out difficult to implement an organization that has the also minimal degree of complexity. On the contrary, the internal structure of these enterprises is greatly simplified with all the strategic and complex roles covered by the company’s manager-entrepreneur. The analysis of the Sicilian production textile sector confirms the relationship between business size and flexibility of the organization: the island’s companies, whose analyzed sample is only composed of only 55% from small-sized enterprises, manage to deal with greater frequency with “the sensitive” roles. In the four sectors analyzed, the ICT shows a slightly better situation, with the functions of R&D and Information Technology included into the corporate structure in a greater number of cases. Regarding the other aspect, the business governance, the analysis brings to light the predominant character of the prevailing models of the studied companies. The intermediate managerial figures (managers and employees) turn out to be quite rare, if not in some cases, absent. This is the case of the ICT sector in all the examined regions, but also part of the manufacturing field in Calabria and Basilicata and of the tourism sector in Campa-nia, Calabria and Puglia.

In general terms, therefore, the operating management and strategic planning are directly and exclusively in the hands of the business leaders who do not avail themselves of personnel who, for their professional qualities, would be in a position of assuming part of the responsibilities. It is no use saying that in a world in which the technological, productive competition and trade have become more complex and sophisticated, the model of the “one man in command” is no longer suitable to deal with the necessary processes of incorporation of additional competencies of which enterprises have an absolute requirement in order to survive.

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Investments

The implementation of an effective competitive model is visible in investments in other assets, beyond that of human resources. According to the study it turns out that the percentage of enterprises that have invested in the period between 2006 and 2007, or that would like to in 2008, is inferior to 50%. In such a context, even more problematic cases like the one of Calabria exist, where the enterprises that have invested are less than 20% of the total in all the sectors examined, and there are other situations of greater use of investments, like in Puglia and Sicily.

In general terms, from the results of the study, it is possible to see a dualism that characterizes enterprises in Southern Italy. Apart from a multitude of productive companies completely cut outside from the investment circuit, there are a number of companies where the investment rate on the business turnover is rather elevated. For example, with reference to the various productive sectors and the various years, “investing” companies have recorded an incidence of expense for investments on turnover that goes from 17.2% to 23.9% in Sicily, from 14.7% to 24.8% in Calabria and from 14.3% to 21.2% in Puglia.

There are two characteristics that unite companies that invest: they tend to be medium to large in size (data from the study indicated that the tendency to invest proportionally increases with the size of the company), a result, evidently, of the greater resources at hand for investments and of a better understanding of the effec-tive requirements in order to compete in a different context compared to the local context. They adopt integrated competitive strategies, that is to say that they inter-vene on all the important factors regarding competitiveness, from human resources to innovation and internationalization.

The channels used for investing appear to be absolutely traditional. The instru-ments of innovative finance are practically absent (Venture Capital, risk participa-tion), bank credit is also rarely used, while the main channel which is used for financing investments is self-financing and, as external sources, leasing.

Business innovation

Along with the corporate structure and investments, the technological and organizational innovation constitutes another fundamental factor of that New Com-petitive Model whose application in the context of the Southern productive system the present study tries to verify. More and more, even in the traditional fields of the economy – those which at first sight would not have to use innovation as a competi-tive lever – such element is involved as form of improvement of the quality of the product and is also used like distinguishing factor in the strategies of communication and marketing. The tendency towards innovation of the companies in the observed

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regions turns out to be rather modest and, amongst other things, is decreasing in the period between 2006/2007 and 2008. Particularly meaningful is the absolutely modest spread of innovations in the ICT sector in the majority of the examined regions.

In all evidence, these circumstances are explained from the fact that the enter-prises belonging to this sector in the regions of Southern Italy are simple groups with their own executive management – and relative R&D functions – situated externally to Southern Italy.

On a territorial level Sicily is confirmed as the region with the greater dynamism regarding the introduction of innovations in companies. The tendency of companies to innovate on the island is much greater compared to that of companies present in other Southern regions, in all the sectors analyzed. The tendency to innovate of the small and medium-sized enterprises turns out to be greater than that of the larger companies. The circumstance concerns, in particular, enterprises in Puglia and Sicily and can be explained, again, by the absence (also in larger companies in Southern Italy) of the R&D strategic roles, being these companies simple productive establishments of larger groups not present in Southern Italy. Also the analysis of the channels through which innovation is generated inside Southern companies is not lacking in surprise; collaborative research implemented in partnership with the world of the university or other enterprises and networks of enterprises is absolutely sporadic and, with regard to Calabria, completely absent.

Some signs of dynamism are visible in Puglia (collaborative research with other enterprises) and Sicily, where cases exist of partnership with the university. These are the two regions with a relatively greater tendency to innovate but the numbers are insufficient to generate added value in the future.

Internationalization

The last subject dealt with in the Report concerns the subject of internationali-zation, considered to be the marker for testing the effective ability of enterprises to improve their own competitive model and to adapt it to global competition.

Exposure to the international markets constitutes, in other words, the final result that the model of adopted competitiveness allows to reach. As a result, the road to cover for the companies in the regions analyzed is still a very long one: even in presence of different situations between the regions, the degree of international opening of the Southern enterprises widely proves to be insufficient. In Calabria and Basilicata less than 15% of the enterprises in the sample implemented export activities in 2008. In Sicily and Campania, vice versa, the percentage of exporting companies is much greater (between 40% and 45% for the manufacturing field), but still modest is the incidence of the foreign turnover on their business volume

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(between 20% and 32%), confirming the still provincial character of the economy of Southern Italy.

Conclusions

What emerges from the analysis are highly critical elements, but it also con-tains positive elements, above all confirmation of an existing change regarding the “enterprise culture”, that recognizes, at least in principle, the necessity to shift from a competitive model exclusively based on internal costs to a model based on quality and innovation. Confirmation of this positive tendency is the fact that the introduced programs of innovation are primarily oriented towards better quality of product or final service, while the number of investments reserved for the mere control of pro-duction costs, in a neo-Fordist competitive logic (which at this point is obsolete as a result of the emerging economies and their low cost labour) is absolutely minimal.

However, the passage from a theoretical knowledge to a concrete implementation of a competitive model based on knowledge, creativity and quality is much harder, as is demonstrated by the small percentage of companies that succeed in immaterial investments (in training and R&D) and material investments, also in a more and more recessive macroeconomic framework, that reduces further the possibilities of investments.

In effect, a dualistic picture emerges, in which a small minority of more dynamic companies shows progress in all the fields and succeeds in having a commercial presence outside the limits of the regional markets. These companies are also those which succeed in implementing integrated strategies and that then intervene on all the structural factors underlying the New Competitive Paradigm (organization and integration of complex functions, high knowledge content and high quality of human resources meant as competency, creativity, innovation and ability to invest).

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PRIMA PARTE

IL MODELLO INTERPRETATIVO E I RISULTATI DEL RAPPORTO

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CAPITOLO 1

LINEE INTERPRETATIVE E PROPOSTE OPERATIVE

1. Verso soluzioni di politica economica per lo sviluppo dei sistemi d’impresa del Sud

L’analisi dei comportamenti competitivi dei sistemi produttivi di cinque regioni dell’ex obiettivo uno porta a delineare lo “stato dell’arte” degli sforzi degli impren-ditori meridionali nel conseguire modelli competitivi moderni e adeguati a sostenere con maggiore efficacia la competizione mondiale. Si è visto chiaramente come le imprese intervistate siano pienamente consapevoli dell’esigenza di adottare strategie di sviluppo basate sulla qualità, sulla customerizzazione del prodotto, sull’innova-zione, tanto tecnologica quanto organizzativa, per conquistare quegli spazi di merca-to internazionale che sono divenuti fondamentali, prima ancora che per lo sviluppo, per la sopravvivenza stessa delle economie regionali. Il mercato interno e, a maggior ragione, quello meramente locale, non hanno più le dimensioni e le prospettive di crescita per sostenere sistemi imprenditoriali, che hanno raggiunto uno stadio avan-zato di evoluzione e maturità, come quelli in questa sede analizzati.

Pur fra molte contraddizioni, fra cui, come si è visto, una insufficiente capacità di “governo” degli assetti organizzativi e delle risorse aziendali, in termini di capa-cità di elaborazione strategica e di valorizzazione del capitale umano, le imprese delle regioni indagate hanno comunque manifestato una propensione a mutare certi modelli competitivi, nati in un tempo che non esiste più, e non più in grado di sostenere la competizione delle economie emergenti, che hanno vantaggi di costo assolutamente incomparabili rispetto alle imprese del nostro Meridione, tanto più che operano grosso modo sulle stesse produzioni e sugli stessi settori tipici dell’eco-nomia dell’area ex obiettivo uno. Si tratta quindi, ora, di passare dalla maggiore consapevolezza di “quale” modello competitivo adottare verso la concretizzazione pratica di tale modello. E per attualizzare il modello in questione, occorre che le imprese possano agire sulla leva degli investimenti, con maggiore determinazione rispetto a quanto evidenziato nei risultati del presente rapporto di ricerca. Occorre però che la politica pubblica aiuti in modo intelligente questo sforzo di investimento mirato a creare condizioni competitive più sostenibili, facendo anche tesoro degli errori e dei fallimenti del passato. Il problema su cui riflettere, quindi, è come tale supporto debba estrinsecarsi, per poter essere efficiente ed efficace rispetto alle leve strutturali di competitività di sistemi produttivi, e non meramente per adempiere a funzioni anticicliche o congiunturali, che, pur essendo fortemente richieste da più parti, in questa epoca di recessione economica globale, non potrebbero apportare

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benefici di medio e lungo periodo, ritardando ulteriormente il momento in cui il Mezzogiorno potrà dotarsi di opportunità di sviluppo reali, autosostenute, e non più dipendenti da assistenzialismo finanziario proveniente dall’esterno (Roma o Bruxelles che sia).

In primo luogo, adesso che la nuova carta regionale degli aiuti è stata definita, e che le diverse Regioni dell’obiettivo convergenza hanno elaborato i nuovi programmi operativi per il ciclo 2007-2013, occorre riflettere a fondo sull’utilizzo degli strumenti agevolativi che tradizionalmente costituiscono, perlomeno in termini di assorbimento di risorse finanziarie pubbliche, il principale strumento di politica industriale regionale utilizzato nelle aree in ritardo di sviluppo del nostro Paese. Occorre, in primo luogo, interrogarsi sulla natura stessa delle agevolazioni, alla luce di ciò che esse hanno pro-dotto, dopo anni di costante applicazione, sui sistemi economici locali del Mezzogior-no. Come più volte evidenziato nelle varie edizioni del presente rapporto, il sistema agevolativo pubblico, con particolare riferimento al fondo perduto, ha generato forme di sostituzione del credito ottenibile tramite il mercato, generando diversi tipi di distor-sioni nell’allocazione ottimale delle risorse (le imprese tendono spesso ad investire solo se accompagnate da qualche aiuto pubblico, non se le prospettive economiche e finanziarie dopo l’entrata a regime dell’investimento sono profittevoli), negli obiettivi competitivi sottesi all’investimento agevolato (il sistema agevolativo, imperniato sul modello della 488/92, ha favorito l’allargamento della base produttiva e l’accumula-zione di capitale fisso, in una fase dell’economia in cui, specie per i sistemi manifattu-rieri, si poneva piuttosto il problema di una riqualificazione della propria produzione, piuttosto che una ulteriore espansione “fordista” dei volumi), nella valutazione di merito dei progetti di investimento presentati ad agevolazione (l’operatore pubblico non ha la stessa capacità di valutazione di profittabilità economico-finanziaria di un progetto di investimento che ha l’operatore bancario).

Occorre quindi, in primo luogo, un sistema agevolativo che recuperi l’orien-tamento al mercato dei progetti di investimento, eliminando o riducendo il più possibile il fondo perduto, a favore di strumenti che fluidifichino il rapporto, oggi molto difficile, fra sistema imprenditoriale e circuito creditizio. Tale esigenza è tanto più importante quanto più l’avanzamento della crisi economica attualmente in atto porta verso rischi crescenti di razionamento del credito. Ciò significa, ad esempio, lavorare per la creazione di un fondo pubblico di garanzia unico per tutte le PMI del Mezzogiorno, che superi la logica dei micro-strumenti di garanzia realizzati su scala locale da ogni singola regione (fra l’altro, in alcune situazioni, con particolari problemi legati a valutazioni di rating sull’affidabilità finanziaria e patrimoniale di qualche amministrazione regionale non particolarmente favorevoli). Un unico fondo pubblico di garanzia per tutto l’obiettivo convergenza, garantito, in prima istanza, dalle amministrazioni regionali cui le PMI richiedenti afferiscono, ed in seconda istanza dal Governo nazionale, supererebbe i problemi di rating locali ed avrebbe una massa critica adeguata a consentire anche alle imprese più piccole e meno capi-

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talizzate di accedere al credito bancario, purché i loro programmi di investimento, valutati con criteri di mercato, siano effettivamente validi sotto il profilo della red-ditività prospettica.

Tra l’altro, accanto al tema delle garanzie, occorre che le Regioni lavorino rapi-damente ad una ristrutturazione dei propri sistemi di Confidi, al fine di garantirne una crescita dimensionale, anche attraverso opportune operazioni di fusione ed aggregazione. Ciò, oltre che opportuno sotto il profilo dell’efficacia di tali strumenti (solo confidi sufficientemente capitalizzati possono effettivamente operare in condi-zioni accettabili) è anche necessario, posto che le nuove norme di settore impongono ai Confidi di raggiungere una soglia minima di 75 Meuro di attività finanziaria per poter essere riconosciuti come intermediari finanziari.

Ma occorre anche lavorare per creare quelle condizioni di finanza innovativa specificamente dedicate a sostenere gli investimenti in ricerca ed innovazione tec-nologica, gravemente carenti in pressoché tutta l’economia meridionale. Gli inve-stimenti in R&S ed innovazione tecnologica hanno infatti specifiche caratteristiche, in termini di rischiosità, lunghezza dei tempi di recupero dell’investimento (cioè di raggiungimento del “break even point”) ed impegno finanziario (in termini di massa critica minima di risorse da impegnare per poter raggiungere qualche risultato), che difficilmente, in un periodo di profonda crisi finanziaria globale, il sistema banca-rio può sostenere. Vi è quindi spazio per un fondo pubblico di finanza innovativa, basato sul principio della compartecipazione al rischio, anche attraverso forme di venture capital a supporto di spin-off o start up ad alto contenuto innovativo. Da questo punto di vista, l’iniziativa comunitaria Jeremie1 ha una valenza strategica per le imprese dell’obiettivo convergenza, e grande lavoro andrà fatto per orientare le PMI all’utilizzo di tale strumento (anche perché in tal modo si eviterà di spendere risorse pubbliche nazionali per creare un fondo di finanza innovativa, date le ristret-tezze del bilancio pubblico italiano).

Più in generale, rioritentare il sistema degli incentivi verso il mercato, evitando le predette distorsioni, implica che il concetto del fondo perduto sia progressivamente superato, in favore del recupero di quanto già fatto, a livello nazionale, nel 2005-2006, ovvero della creazione di un fondo rotativo, cui attingere esclusivamente sotto forma di prestito agevolato. In questo modo, si garantirebbe un utilizzo degli incentivi effettivamente legato ad una esigenza di investimento, dietro cui vi è una fondata previsione di aumento della redditività aziendale, e in cui l’accesso verrebbe autorizzato a seguito di una istruttoria bancaria, con criteri di valutazione di mercato della qualità del progetto di investimento.

1 JEREMIE (Joint European Resources for Micro and Medium Enterprises). L’iniziativa è finaliz-zata ad aumentare la disponibilità di capitale per le nuove imprese. JEREMIE tende a coprire il vuoto di offerta di prodotti di ingegneria finanziaria, istituendo un Fondo che emanerà bandi rivolti ad inter-mediari finanziari per interventi a favore di PMI, anche tramite forme di compartecipazione al capitale di rischio di start up di PMI ad elevato contenuto tecnologico.

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Vi sono poi aspetti strutturali, che costituiscono altrettanti passi necessari per una nuova stagione di competitività dei sistemi produttivi delle cinque regioni esamina-te, che non possono, se non in modo molto parziale, essere risolti tramite gli aiuti pubblici diretti. Il primo di tali aspetti per importanza, probabilmente, è costituito dall’esigenza, oramai impellente, di promuovere forme di crescita dimensionale e di aggregazione nei tessuti di PMI locali. Come si è notato nell’analisi contenuta nel presente rapporto, il sottodimensionamento di gran parte del sistema produttivo meridionale, se comporta problemi rilevanti in termini di capitalizzazione, capa-cità di accesso al credito e di investimento, comporta anche una sottovalutazione dell’importanza, a fini competitivi, degli assetti organizzativi e di governance aziendale. Con la conseguenza che gli assetti di potere in gran parte delle imprese intervistate sono ingessati su forme padronali o familiari, non managerializzate, e prive delle necessarie forme di ricambio generazionale che, come si è visto, sono dei prerequisiti per ingenerare innovazione e per introdurre parametri di gestione aziendale moderni ed in linea con i mercati e la concorrenza. Tuttavia, da questo punto di vista, è del tutto illusorio pensare, come però spesso si fa, che esistano forme di incentivazione pubblica in grado di attivare percorsi di crescita dimen-sionale. Vi è un chiaro interesse, in molte situazioni, a rimanere sottodimensionati: si evita di cedere quote di controllo dell’azienda a manager che non vengono dal circolo familiare del titolare, vi possono essere interessi di tipo fiscale o sindacale. Inoltre, sono gli stessi processi di “downsizing” che hanno coinvolto in questi ultimi anni i sistemi manifatturieri del Sud, come di tutte le economie mature, associati all’assenza di spazi di mercato adeguati a supportare diffusi fenomeni di crescita, che hanno contribuito a mantenere sottodimensionati i tessuti imprenditoriali locali. Quindi, su tali aspetti, non vi è politica di incentivazione pubblica che possa incidere efficacemente.

Le azioni efficaci in tal senso possono provenire solo da interventi strutturali che, incrementando il potenziale competitivo delle imprese, ne aumentino la penetrazio-ne sui mercati internazionali, oggi molto carente in gran parte dei sistemi produttivi delle regioni indagate, e quindi creino l’incentivo ad una crescita della dimensione aziendale e/o a processi di integrazione/associazionismo orizzontale. L’intervento che appare più urgente è quello sulla cultura d’impresa. Una cultura imprenditoriale ancora troppo imperniata su una sorta di ”autarchia”, per cui il titolare dell’impresa è l’unico personaggio in grado di attivare forme di pianificazione strategica, nonché l’unico elemento legittimato ad avere idee innovative, senza un adeguato confronto costruttivo con il resto della struttura aziendale (senza parlare dell’ambiente esterno) poteva andare bene in contesti competitivi e di mercato più semplici, ma non è più adeguata alla situazione odierna, molto più complessa e sofisticata. Quindi, è neces-sario che gli imprenditori, per primi, accettino la sfida dell’apertura, prima di tutto nei confronti della loro stessa struttura organizzativa interna, e si abituino a forme di confronto, che solo una crescita dell’articolazione organizzativa al di là della

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ristretta cerchia familiare, e una sia pur parziale managerializzazione dell’impresa, possono consentire. E’ in primo luogo un problema culturale, sul quale occorre-rebbe quasi pensare ad attività di formazione specifiche per gli imprenditori stessi, oppure al trasferimento di pratiche virtuose di altre imprese. Se non si fa pianifica-zione strategica partecipata con il resto del personale aziendale è anche perché gli imprenditori non hanno, spesso, cognizione delle tecniche manageriali e gestionali più moderne, che puntano sistematicamente a coinvolgere, anche in fase progettua-le, l’intera struttura aziendale. Occorre quindi prevedere, anche a carico del FSE, interventi di formazione/assistenza specifici per colmare tale gap di conoscenza nelle imprese minori.

Va assolutamente ripensato il sistema di sostegno all’internazionalizzazione attualmente in essere che, come mostrano i dati del rapporto, non si è rivelato parti-colarmente efficace. Non bastano cioè gli incentivi finanziari, gestiti da Simest, o gli strumenti assicurativi all’export garantiti da SACE, e nemmeno le azioni di sostegno alla partecipazione a fiere di settore, che costituiscono il “core business” dell’ICE, o anche le missioni commerciali ufficiali. Tutti questi strumenti sono necessari, ma evidentemente non sufficienti. Occorre partire dai territori, costruendo sui territori le condizioni di una maggiore penetrazione commerciale sui mercati esteri. La promo-zione di consorzi all’esportazione per le PMI ha una valenza strategica, soprattutto se associata ad un marchio comune, che sia legato alle specificità del territorio di origine. Il “made in Italy” ha ancora un fascino evidente sui mercati internazionali, quindi occorre valorizzarlo al massimo con marchi territoriali cui i poli produttivi locali possano riconoscersi. Una simile politica può avere un enorme impatto sui settori che producono prodotti tipici, o ad alta valenza territoriale (l’agroindustria, ma anche produzioni tessili, calzaturiere, ecc.) naturalmente, ciò presuppone una capacità minima delle imprese locali di associarsi fra loro per gestire un progetto comune di penetrazione commerciale. Quindi presuppone un lavoro preliminare, anche di informazione e promozione, teso a creare le condizioni affinché tale “rete” possa costituirsi.

È anche necessario, probabilmente, che a livello nazionale si operi per razio-nalizzare e semplificare la galassia degli enti e delle strutture di supporto all’in-ternazionalizzazione, oggi molto numerose (SACE, SIMEST, ICE, l’intera filiera delle aziende speciali del sistema delle Camere di Commercio, facente capo ad Assocamerestero), cercando di portarle ad unità, al fine di consentire all’imprendi-tore di avere un unico interlocutore, in grado di offrirgli un pacchetto integrato di agevolazioni e sostegni all’internazionalizzazione. Tale azione di semplificazione va affiancata alla creazione, nelle regioni che ancora ne sono prive, di sportelli unici per l’internazionalizzazione, in grado di fornire informazioni ed orientamento alle imprese su base territoriale.

Vi è poi da incidere ed in misura molto profonda e determinata, sulle condizioni di contesto esterne ai sistemi produttivi. L’autarchia delle imprese meridionali non

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vale solamente all’interno dei loro cancelli, ma anche rispetto all’ambiente esterno, con il quale gli imprenditori non riescono a dialogare efficacemente, non potendo quindi incorporare esternalità positive. In primo luogo, manca una capacità di asso-ciazionismo inter-imprenditoriale. I casi di successo di distretti industriali, o di altre forme di associazionismo fra imprese, nel Mezzogiorno, sono rari e circoscritti nella geografia e nel tempo. Occorre invece che la politica regionale, se ha difficoltà ad utilizzare gli strumenti “tradizionali” (p. es. gli aiuti) per incentivare forme di cresci-ta interna alle singole imprese, stimoli meccanismi di crescita “orizzontale”, tramite meccanismi di partenariato ed associazionismo, su progetti di comune interesse di una pluralità di PMI. Gli obiettivi di una simile politica possono essere molto diver-si, e spaziare da cose semplici, come ad esempio l’incentivazione alla creazione di marchi commerciali comuni alla creazione di consorzi di commercializzazione ed esportazione, o al favorire, anche soltanto tramite azioni di sensibilizzazione e di conoscenza, raggruppamenti di imprese per partecipare alle opportunità finanziarie (molto cospicue, ma del tutto ignorate dai sistemi produttivi del Sud) offerte dal 7° Programma Quadro in materia di R&S che, come noto, richiedono necessariamente la presentazione di progetti comuni fra più PMI.

Ovviamente, l’azione di ricomposizione di un rapporto favorevole con l’ambien-te esterno non può essere limitata alle sole relazioni inter-imprenditoriali ma, in una materia fondamentale per il futuro economico del Sud come la ricerca e l’innovazio-ne, deve passare per un nuovo rapporto fra mercato e sistema della ricerca pubblica, oggi pressoché assente, se non in episodiche situazioni di eccellenza (come ad esem-pio nel caso dell’Etna Valley). Da questo punto di vista, l’insufficienza di legami con il sistema della ricerca pubblica dipende evidentemente da fattori strutturali, che risultano più incisivi nel Sud. Vi è, come dato generale, un differenziale culturale e motivazionale fra la ricerca pubblica, che è finalizzata ad un incremento dei saperi e delle conoscenze, e quella privata, che invece è finalizzata ad obiettivi commerciali. Ma tale differenziale, che esiste in ogni sistema territoriale del mondo, non è suffi-ciente a spiegare la peculiare insufficienza di reti di collaborazione fra ricerca pub-blica ed imprese, che esiste soprattutto nel Mezzogiorno. Il problema deriva, in larga misura, da un sistema della ricerca pubblica che, a scapito delle numerose riforme fatte negli ultimi anni, rimane ancora sostanzialmente autoreferenziale, perché i meccanismi di carriera accademica, nel migliore dei casi, rimangono ancorati a logi-che non orientate al mercato, quali il numero di pubblicazioni, anche su argomenti molto lontani dagli interessi delle imprese. Inoltre, il sistema di finanziamento delle università pubbliche, considerando i trasferimenti statali (che premiano soprattutto le università che “fanno numero”, in termini di studenti, e non quelle che fanno qua-lità) si basa sempre più su politiche di attrazione di nuovi studenti, anche varando nuovi e seducenti (ma spesso inutili) corsi di laurea specialistica. Al contrario, il canale di finanziamento derivante da contratti di ricerca affidati da imprese rimane pressoché marginale, soppiantato da una modalità informale di rapporto fra imprese

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e mondo accademico, basata sull’incarico consulenziale “ad personam” al singolo professore o ricercatore, piuttosto che l’instaurazione di una relazione strutturata con il sistema della ricerca pubblica nel suo insieme. Tra l’altro, le piccole impre-se hanno spesso una modesta conoscenza delle dinamiche innovative esistenti nel proprio settore di appartenenza, e della rilevanza di queste in termini di redditività, e quindi non riescono a valutare correttamente l’utilità di medio e lungo periodo di una collaborazione sistematica con il sistema della ricerca pubblica.

Occorre quindi, da un lato, proseguire sulla strada di una riforma del sistema della ricerca pubblica che lo porti sempre più a finanziarsi sul mercato, senza però trascurare le attività di ricerca di base e fondamentale, che potrebbero rimanere a carico della finanza pubblica (un po’ sulla linea delle riforme fatte per il CNR) e, dall’altro, una politica regionale che non sia più (come purtroppo avviene ancora in molti programmi operativi) orientata a incentivare il potenziamento dell’offerta di ricerca e/o la creazione di strutture fisiche di trasferimento tecnologico, che spesso risultano inutili.

“Le modalità per innovare i prodotti e i processi produttivi delle imprese ope-ranti nei comparti ad alta intensità tecnologica sono certamente differenti da quelle seguite dalle imprese nei settori tradizionali. Se nel primo caso, infatti, le imprese, per conquistare nuove posizioni sul mercato, investono risorse per l’innovazione avvalendosi di tecnologie e capitale umano interno oppure attivando collabora-zioni con le Università, nel secondo (tipico della struttura produttiva meridionale) l’innovazione è spesso finalizzata ad accrescere le posizioni di mercato attraverso l’introduzione di miglioramenti incrementali sui processi e sui prodotti secondo schemi non sempre strutturati. L’analisi mostra che in questi casi l’equilibrio tra input (offerta di ricerca, capitale umano, finanziamenti, spesa in R&S) e output di innovazione (brevetti, competitività nel mercato internazionale etc…) risulta piut-tosto sbilanciato verso i primi2”. Per riequilibrare tale sbilancio, portando quindi le imprese meridionali ad ottenere un maggiore output dalle attività di ricerca, occorre quindi ridurre gli investimenti pubblici finalizzati esclusivamente a potenziare l’of-ferta, lavorando anche sulla domanda.

In tal senso, occorre, da un lato, una maggiore presa di coscienza, da parte delle PMI, dei loro fabbisogni tecnologici, spesso non esplicitati, tramite un allargamento delle azioni sperimentali di “scouting” tecnologico già avviate dal MUR nel 2000-2006, possibilmente, e laddove esistano capacità in tal senso, affidando tale scouting proprio alle università locali, al fine di incrementare la conoscenza reciproca fra imprese ed istituzioni accademiche, e dall’altro stimolare azioni di ricerca applica-ta e trasferimento tecnologico “strategiche” che siano esplicitamente destinate ad essere attuate da partnership imprenditoriali ed accademiche (recuperando, cioè, lo spirito di Industria 2015). Da questo punto di vista, a livello nazionale, la perce-

2 SRM (2008), Sud in competizione, Giannini editore.

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zione della necessità di fare rete è molto chiara, se si riflette sul fatto che il nuovo PON Ricerca 2007-2013 sarà gestito congiuntamente da MUR e MISE, quindi dalle rappresentanze istituzionali del mondo dell’università e di quello delle imprese. Occorre adesso che tale consapevolezza venga trasferita anche in sede locale.

Infine, un posto centrale, per la prossima programmazione, dovrà essere occu-pato dalle politiche di potenziamento del capitale umano delle aziende. Non si può innovare senza avere i cervelli adeguati. Non si può competere efficacemente sulla qualità totale se non vi è qualità degli uomini che sono chiamati, nelle imprese, ad implementarla e gestirla. Da questo punto di vista, sembra velleitario affidare alla sola formazione professionale (che pure va rilanciata, programmandola in stretta aderenza rispetto ai fabbisogni professionali delle imprese) l’obiettivo di potenziare la qualità del capitale umano, se i sistemi scolastici e formativi del nostro Paese, ed in particolare del Mezzogiorno, presentano lacune evidenti nella capacità di trasferire le competenze di base. E’ superfluo rammentare i ben noti dati dell’indagine PISA, di fonte OCSE, che mostrano come, in particolare nelle regioni del Mezzogiorno, vi sia un evidente, e crescente nel tempo, gap di competenze linguistiche, matematiche e di lettura, degli studenti, rispetto ai loro coetanei del resto d’Europa.

Infatti, proprio in considerazione del fatto che il potenziamento del capitale umano nelle economie regionali del Mezzogiorno deve passare per il tramite di un miglioramento dell’intera filiera della conoscenza, e non solo dall’anello terminale della formazione professionale e permanente, il QSN 2007-2013 afferma che tale linea avrà “un ruolo primario nei prossimi anni, continuando sulle linee già spe-rimentate, ma affrontando con decisione il tema della qualità dell’apprendimento e dell’effettivo raggiungimento di competenze”. Lo stesso QSN, inoltre, intende attuare l’intervento “con modalità che accrescano la consapevolezza degli attori territoriali rispetto al tema dell’istruzione e delle competenze di base e di dare rilievo al coinvolgimento locale nel disegno e nell’attuazione di ogni intervento” (evidentemente al fine di ottenere una più stretta correlazione fra programmi di formazione e effettivi fabbisogni formativi delle economie locali, dando finalmente pieno significato all’autonomia scolastica ed al ruolo delle Regioni in tale materia). Infatti, come lo stesso QSN testimonia, “molte esperienze positive paiono derivare da un coinvolgimento del territorio, dei cittadini e delle imprese nei percorsi di istruzione di ogni singola scuola”.

Ovviamente, il coinvolgimento dei sistemi produttivi nella programmazione dei circuiti scolastici e formativi rappresenta anche una grande sfida per le imprese del Mezzogiorno. Occorre cioè che il mondo delle imprese, anche per il tramite delle proprie associazioni di categoria, sia in grado di esprimere un fabbisogno formativo concreto, il che implica una capacità di elaborazione di politiche aziendali per il personale che, come si è visto dai dati del presente rapporto, in molti casi è carente, se non del tutto assente, specie per le imprese minori. Quindi, ancora una volta, come già detto in precedenza, serve un “salto di qualità” nella cultura gestionale

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delle imprese del Sud, che deve essere fortemente sostenuto ed accompagnato dalle associazioni di categoria. Occorre inoltre che le imprese si prestino ad essere “labo-ratori” di formazione di esperienze pratiche di studio/lavoro, aprendo i loro cancelli a periodi di stage brevi, soprattutto a beneficio degli studenti degli istituti tecnici e professionali, al fine di rafforzare una cultura di impresa già nelle fasi dell’educa-zione secondaria superiore.

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CAPITOLO 2

L’ECONOMIA INTERNAZIONALE NEL 2007/2008

1. La crisi di fine 2008 La crisi finanziaria, manifestatasi apertamente dall’autunno del 2008, ha deter-

minato una generale tendenza al ribasso delle prospettive di crescita dell’economia mondiale; a partire dal mese di ottobre 2008, le previsioni sull’andamento del Pil sono state costantemente aggiornate al ribasso, in alcuni casi stravolgendo quelle fatte solo poche settimane prima.

Gli interventi delle autorità monetarie iniziati sul finire dello scorso anno hanno evitato il collasso del sistema finanziario internazionale, tuttavia la crisi si è rapida-mente trasferita all’economia reale.

La contrazione degli scambi internazionali, che ha fatto seguito alla crisi finan-ziaria globale e al calo generalizzato della fiducia degli operatori, ha costituito l’ele-mento principale che ha determinato la rincorsa al ribasso delle previsioni da parte dei più importanti istituti di ricerca.

tabella 1Andamento del commercio mondiale: risultati e previsioni per il 2009

2007 2008 2009Andamento del Commercio mondiale 6,4% 3,6% -1,4%

Fonte: Prometeia - Rapporto di previsione (gennaio 2009)

Allo stato attuale risulta difficile prevedere i tempi di una ripresa, anche perché gli interventi annunciati dai governi avranno tempi di realizzazione diversi il cui impatto sarà tutto da verificare. Per l’Italia si prevede un 2009 di forte contrazione del Pil (superiore al 2%), ma molto dipenderà dalle reazioni degli operatori – impre-se e famiglie – agli stimoli fiscali messi in campo.

Lo scenario che segue si riferisce al periodo che va dal 2007 alla prima metà del 2008; esso, seppur superato dall’evoluzione successiva delle grandezze economiche descritte, risulta fondamentale in quanto serve da cornice per inquadrare le dinamiche che hanno interessato le imprese analizzate nei mesi cui l’indagine fa riferimento.

Alcuni aspetti ai quali ci si riferisce nel Rapporto 2008, hanno sperimentato un cambiamento repentino e inatteso nella loro evoluzione durante il periodo coperto dall’indagine (è il caso, ad esempio, delle forti variazioni del prezzo delle materie prime nel biennio 2007/2008), ma proprio da ciò deriva l’importanza di aver conte-stualizzato gli eventi.

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Certo, la crisi attuale – per quanto profonda – non potrà avere effetti sulla strut-tura produttiva dei sistemi regionali analizzati, almeno nel breve termine; sarà, tuttavia, interessante analizzare nell’edizione 2009 del Rapporto le reazioni delle imprese alla profonda crisi in corso.

2. Lo scenario internazionale nel 2007

Nel corso del 2007, la crescita dell’economia mondiale è stata ancora robusta, pari al 4,9 per cento, a fronte del 5,0% nel 2006, ma ha manifestato evidenti segnali di rallentamento in corso d’anno, nelle principali aree industrializzate, mentre è rimasta elevata in quelle emergenti. È quindi proseguito su buoni ritmi l’incremento del commercio mondiale di beni e servizi (6,8%), ma grazie soprattutto alle impor-tazioni dei paesi emergenti, che hanno contribuito per il 55 per cento alla crescita degli scambi globali, aumentando il loro peso sulle importazioni mondiali di beni e servizi. Si sono manifestate ovunque pressioni inflazionistiche connesse soprattutto con l’accelerazione dei prezzi delle materie prime energetiche, nonché di alcune commodities di tipo agricolo.

In particolare, i prezzi energetici segnalano forti tendenze al rialzo: il prezzo medio del Brent, del Dubai e del WTI, che si assestava sotto i 60 dollari al barile ad inizio anno, chiude ad oltre 90 $/barile a fine 2007 (fonte: FMI, Reuter e Thom-son FD). A spiegare tali andamenti vi è l’enorme crescita della domanda da parte delle economie emergenti di Cina ed India (la domanda delle economie emergenti è cresciuta ad un ritmo del 4% annuo), ragioni speculative, tensioni geopolitiche, ma anche la persistente debolezza del tasso di cambio del dollaro rispetto alle principali valute (il tasso di cambio a pronti dollaro/euro passa da 1,32 a Gennaio a 1,44 a Dicembre) dovuto in larga misura al persistente, seppur in lieve diminuzione, deficit commerciale USA (che chiude il 2007 con un deficit di parte corrente di 739 miliar-di di dollari, a fronte di 811 miliardi nel 2006).

L’attività economica, nel secondo semestre, specie dei Paesi industrializzati, ha risentito dell’acuirsi dei problemi del mercato immobiliare, nato dalla crisi dei mutui “sub prime” innescatasi nel mercato immobiliare statunitense nell’estate del 2007, che si è tradotto in una caduta degli investimenti residenziali e in un succedersi di crisi bancarie, che hanno seriamente messo in discussione la stabilità complessiva del circuito finanziario globale, e posto notevoli interrogativi su come governare meglio le crisi derivanti dall’esplosione di bolle speculative.

In particolare, si è interrotta la favorevole fase di contenuta variabilità, di bassi premi per il rischio e di prezzi crescenti delle attività sui mercati finanziari globali, che aveva indotto gli operatori a cercare un forte aumento della leva finanziaria e dalla ricerca di rendimenti elevati, favoriti da condizioni di liquidità abbondante e bassi tassi di interesse. L’improvviso aumento dei tassi di morosità sui mutui sub-

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prime statunitensi1, a partire dall’estate, si è riflesso in un significativo aumento dei premi per il rischio sugli strumenti di credito derivato con cui tali mutui erano stati cartolarizzati ed immessi nel circuito finanziario globale.

Gli strumenti derivati hanno propagato il contagio: si è avviata una fase di turbo-lenze, che dagli Stati Uniti si sono rapidamente trasmesse ad altri paesi industriali, in particolare in Europa, dove numerosi intermediari detenevano in portafoglio titoli connessi con il mercato subprime statunitense.

Tra giugno e luglio, in seguito all’abbassamento del rating di molti titoli che incorporavano i sub prime, le tensioni si sono acuite ed estese a un più ampio spettro di prodotti strutturati e derivati creditizi, generando perdite rilevanti nei portafogli degli operatori, e, in alcuni casi, inducendo i risparmiatori a ritirare i propri conti correnti in massa, generando crisi bancarie gravi2.

L’economia statunitense è entrata in una fase di “soft landing”, crescendo del 2,2%, a fronte di una crescita del 2,9% nel 2006, essendo stata investita per prima dalla sopradescritta crisi del mercato immobiliare. I prezzi delle abitazioni si sono ridotti, innescando gravi tensioni sui mercati finanziari, propagati dalla cartolarizza-zione di crediti di rating non elevato. Da settembre la Riserva federale ha modificato l’orientamento della politica monetaria, abbassando più volte il tasso obiettivo sui federal funds, complessivamente per 3,25 punti percentuali, e immettendo liquidità nel sistema, a sostegno degli istituti di credito e finanziari in maggiori difficoltà. L’azione espansiva, comparabile per intensità a quella esercitata nel 2001, è volta a limitare gli effetti delle turbolenze nei mercati monetari e finanziari sull’attività economica. Il Governo federale ha poi parallelamente varato un piano per favorire il congelamento dei tassi di interesse pagati dai mutuatari sub prime. Ciò può aver attenuato gli effetti depressivi della crisi finanziaria, ma non ha impedito che gli indicatori congiunturali principali, in aggiunta alla crescita del PIL, manifestino un deciso rallentamento. Ad esempio, la crescita della domanda interna è crollata dal 2,8% del 2006 all’1,5% del 2007, a seguito di un rallentamento della crescita degli occupati nella seconda metà dell’anno, accompagnato ad un incremento del tasso di disoccupazione, dal 4,4% di Dicembre 2006 al 5% nel corrispondente mese dell’an-no successivo, per circa 900.000 disoccupati in più.

In Giappone la crescita, pari al 2,1 per cento, in rallentamento rispetto al 2006 a causa di una nuova flessione della domanda interna, è stata sospinta dalla domanda estera. In tale contesto, e in presenza di un’inflazione prossima allo zero, la Banca

1 I mutui subprime o “B-Paper”, “near-prime” o “second chance” sono quei prestiti che vengono concessi ad un soggetto che non può accedere ai tassi di interesse di mercato, in quanto ha avuto pro-blemi pregressi nella sua storia di debitore. Hanno ovviamente un profilo di rischio medio più elevato rispetto ai prestiti normali, o “prime”, e quindi condizioni di pagamento e di interesse più onerose che, nella situazione che si è verificata sul mercato immobiliare statunitense, hanno ulteriormente aggravato il profilo di rischio dei mutuatari.

2 Cfr. i casi della Northern Rock e della Bear Sterns.

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centrale ha mantenuto condizioni monetarie accomodanti. È proseguita l’azione di consolidamento fiscale: il disavanzo pubblico è sceso al 4,9 per cento del prodotto, dal 5,9 nel 2006.

Nell’Unione europea la crescita si è attestata al 2,9 per cento, in lieve rallenta-mento rispetto al 2006, ma ancora sostenuta. La domanda interna è cresciuta di due decimi di punto in meno rispetto all’anno precedente, sia a causa delle ripercussioni della crisi finanziaria, sia per la ripresa di evidenti segnali inflazionistici (il tasso di inflazione complessivo è cresciuto di un decimo rispetto al 2006), sul versante dei beni energetici ed alimentari. I consumi delle famiglie si sono ridotti, principalmente a causa dell’innalzamento dell’imposta sul valore aggiunto in Germania, che aveva indotto le famiglie tedesche ad anticipare parte degli acquisti nei mesi finali del 2006, e poi sull’onda di un diffuso decremento degli investimenti immobiliari ad uso residenziale, a seguito della crisi dei sub prime.

Il contributo della domanda estera è stato invece positivo, grazie all’andamento sostenuto della domanda mondiale: pur in presenza di un tasso di cambio in apprez-zamento sul dollaro, le esportazioni dell’area dell’euro sono aumentate, al lordo dei flussi interni, del 6% in volume. Le vendite all’estero della Germania hanno ancora mostrato un’espansione superiore alla media (7,8%), beneficiando della capacità competitiva dell’industria tedesca derivante dal processo di riorganizzazione e inter-nazionalizzazione in atto. Un incremento apprezzabile si è registrato anche per le vendite all’estero di Francia (3,1%), Italia (5,0%) e Spagna (5,3%).

Grazie alla prosecuzione, per gran parte dell’anno, di una fase di crescita econo-mica soddisfacente, l’occupazione nell’area dell’euro è cresciuta dell’1,8%, a fronte di un più modesto 1,6% nel 2006, creando più di due milioni di nuovi posti di lavo-ro, e facendo crescere il tasso di occupazione della popolazione in età da lavoro al 65,6%, un punto percentuale in più rispetto al 2006. tale incremento è da attribuire alla componente femminile (al 57,8%, dal 56,8 del 2006) e a quella delle persone con età compresa tra i 55 e i 64 anni (al 43,4%, dal 41,8). I parametri di mercato del lavoro dei paesi dell’area dell’euro rimangono comunque ancora arretrati rispetto agli obiettivi della Strategia di Lisbona per il 2010, oramai difficilmente raggiun-gibili in forma integrale, che fissano il tasso di occupazione complessivo al 70 per cento, quello femminile al 60, quello della popolazione di età tra i 55 e i 64 anni al 50 per cento.

Nei nove paesi nuovi membri che ancora non hanno adottato l’euro la crescita, pur con notevoli differenze, si è mantenuta elevata, al 6,2 per cento, le pressioni inflazionistiche si sono intensificate, i disavanzi di parte corrente si sono ampliati, ma sono stati finanziati agevolmente da afflussi di capitale elevati, in particolare nel comparto bancario.

Le principali economie emergenti sono state le vere protagoniste dell’economia mondiale, perlomeno in termini di risultati di crescita messi a segno: il loro peso sul prodotto mondiale, in termini di PPA, è ormai pari al 21%. Questi Paesi (Cina, India,

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Federazione Russa, Brasile) hanno messo a segno una crescita di quasi il 10%. La sola Cina ha accumulato un attivo di partite correnti di dimensioni straordinarie (371,8 miliardi di dollari) grazie a performance esportative notevoli: la crescita dell’export cinese è stata del 25,7%, facendo seguito all’incremento del 27,2% del 2006.

tabella 2Principali indicatori macroeconomici

Paesi ed indicatori 2006 2007Stati UnitiPIL 2,9 2,2Domanda interna 2,8 1,5Tasso di inflazione 3,2 2,9Saldo partite correnti (mld. $) -811,5 -738,6GiapponePIL 2,4 2,1Domanda interna 1,6 1,0Tasso di inflazione 0,3 0,0Saldo partite correnti (mld. $) 3,9 4,8Unione europeaPIL 3,1 2,9Domanda interna 3,0 2,8Tasso di inflazione 2,3 2,4Saldo partite correnti (mld. $) -0,4 37,0CinaPIL 11,6 11,9Tasso di inflazione 1,5 4,8Saldo partite correnti (mld. $) 249,9 371,8Fonte: FMI e statistiche nazionali

3. Lo scenario internazionale nel 2008

I dati sulla crescita del PIL nel primo trimestre del 2008 si differenziano note-volmente fra le principali economie avanzate: a fronte dell’approfondirsi di una fase di debolezza del ciclo negli Stati Uniti, in Giappone e nell’area dell’euro si sono registrati tassi di espansione elevati.

Il prezzo del petrolio è arrivato fino a 143 $/barile a Luglio 2008, superando per oltre il 20% i valori massimi toccati nel corso della seconda crisi petrolifera del 1979-80, malgrado gli scenari di decelerazione delle principali economie sviluppate. Da questo punto di vista, il persistere di un tasso di cambio del dollaro molto debole non fa che alimentare valori del greggio molto elevati, dato che il dollaro rimane la valuta con cui si acquista il petrolio. Anche se il deprezzamento del dollaro si è arrestato nel secondo trimestre dell’anno, il cambio con l’euro permane ad un livello molto basso, inferiore a quello del 2007, pari a 1,55-1,56 a maggio-giugno.

I mercati finanziari dei principali paesi industriali continuano a essere caratteriz-zati da una situazione di fragilità. Le svalutazioni e perdite su crediti annunciate o

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iscritte a bilancio dagli intermediari finanziari dall’avvio della crisi nel mercato dei mutui subprime sono salite da circa 230 miliardi di dollari a fine marzo a circa 400 miliardi a fine giugno. Tra la metà di marzo e quella di maggio i mercati azionari negli Stati Uniti, nel Regno Unito e nell’area dell’euro avevano segnato rialzi di circa il 10 per cento; successivamente si è avviata una nuova fase di calo che ha più che eroso tali guadagni, determinando una perdita complessiva del 3, del 4 e dell’8 per cento circa, rispettivamente, nelle tre economie. Si sono diffuse voci su piani governativi di salvataggio dei due principali istituti semi-pubblici di erogazione di mutui immobiliari negli USA, ovvero Freddie Mac e Fanny Mae. Le banche centrali hanno proseguito nella loro azione di sostegno al comparto finanziario, tramite tassi di interesse bassi, iniezioni di liquidità, e nel caso della Banca centrale britannica, il varo di schemi di SWAP che consentano agli operatori immobiliari e finanziari di scambiare titoli basati sulla cartolarizzazione di sub prime con meno rischiosi titoli del debito pubblico. Solo la Bce ha invece mirato a contrastare eventuali tensioni inflazionistiche con un moderato rialzo del costo del denaro. All’inizio di luglio il Consiglio direttivo della Banca centrale europea ha aumentato di 25 punti base il tasso minimo di offerta sulle operazioni di rifinanziamento principali, al 4,25 per cento.

Dopo il brusco rallentamento nel quarto trimestre del 2007, il tasso di crescita del PIL statunitense è rimasto debole nel primo trimestre del 2008 (1,0% tendenziale). Si sono registrati una nuova riduzione degli investimenti residenziali, dei consumi e degli investimenti produttivi; le esportazioni hanno invece continuato a offrire un significativo contributo alla crescita. I consumi hanno ripreso vigore in aprile e maggio, beneficiando dell’erogazione del 50 per cento circa dei rimborsi fiscali alle famiglie da parte del Governo federale. A Giugno, la lunga fase di ribasso dei tassi ufficiali si è arrestata. Gli operatori scontano quindi un rialzo dei tassi di interesse, che ha ulteriormente indebolire l’economia statunitense.

In Giappone, la crescita molto forte del primo trimestre (+4%) dovuta in parte a fattori straordinari (l’espansione edilizia dovuta ai nuovi criteri antisismici cui adattare gli edifici) rallenta significativamente nel resto dell’anno.

Nell’area-euro, nel primo trimestre del 2008 il PIL è aumentato dello 0,7 per cento sul periodo precedente, ampiamente al di sopra delle attese. Tale variazione – in larga misura riconducibile a quella eccezionale in Germania (1,5 per cento) – ha in parte riflesso fattori temporanei, come le condizioni climatiche particolarmente miti per i lavori edili. La spesa delle famiglie è invece pressoché stagnante (0,2%), mentre la domanda estera ha fornito un contributo positivo alla crescita (l’export è cresciuto dell’1,9 per cento)

L’aumento della produzione industriale in aprile (0,9 per cento) è stato seguito, secondo le stime della Banca d’Italia, da un calo di circa due punti percentuali in maggio. L’indice dei responsabili degli acquisti (PMI) del settore manifatturiero, in flessione dall’inizio dell’anno, si è portato in giugno, per la prima volta dalla fine

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del 2005, al di sotto della soglia che identifica una situazione di espansione econo-mica (e indicazioni simili provengono dall’indice per il terziario). Il clima di fiducia delle imprese e dei consumatori rilevato dalle indagini della Commissione europea ha continuato a peggiorare. A fronte di ciò, le aspettative inflazionistiche hanno continuato ad essere elevate, alimentate dal persistere di alti prezzi sui mercati delle materie prime energetiche. Gli operatori professionali censiti da Consensus Econo-mics avevano infatti progressivamente rivisto al rialzo le previsioni di inflazione per il 2008 e il 2009, salite in giugno rispettivamente al 3,3 e al 2,3 per cento.

Per finire, nel gruppo delle principali economie emergenti, nel 2008 si registra un rallentamento rispetto agli ultimi anni: il PIL della Cina è aumentato del 9,7% (rispetto all’11,9 del 2007). Il rallentamento è stato più contenuto in Brasile (dal 5,4 al 4,8% nel 2008), e più pronunciato in Russia (dal 7,9% al 5,5%) e in India (dal 9,3% al 6,8%).

4. Gli andamenti dell’economia italiana nel 2007

In un contesto economico internazionale caratterizzato da un progressivo rallen-tamento della fase ciclica di crescita avviatasi nel 2006, a causa di fattori di scenario depressivi (la crisi finanziaria, l’esplosione del prezzo del petrolio, il persistente livello elevato del tasso di cambio dell’euro) il nostro Paese ha seguito l’andamento generale, ma con una intensità per molti versi più marcata, a causa dei problemi strutturali che lo caratterizzano (insufficiente crescita della produttività, peso abnorme del debito pub-blico sul PIL, che impedisce di utilizzare la spesa pubblica come volano anticiclico, differenziali di sviluppo territoriali, con il Mezzogiorno che, mettendo a segno risultati di crescita meno brillanti, pesa negativamente sulla crescita complessiva dell’Italia).

Particolare peso assume il crescente ritardo in termini di produttività: il prodotto per unità di lavoro standard, che è cresciuto dell’1,4% nel 1996-2000, stagna (-0,1%) nel periodo 2001-2005, e rimane totalmente immobile nel 2006-2007. Benché l’eco-nomia italiana sia entrata in una fase di moderazione salariale, l’assenza di crescita della produttività si riflette comunque negativamente nel costo del lavoro per unità di prodotto (CLUP), che cresce del 7,5% fra 2005 e 2007, mentre era rimasto ancorato ad una crescita dell’1,1% nel 1996-2000. Come meglio si vedrà nel prosieguo, tali dinamiche si riflettono negativamente sulla competitività-prezzo delle esportazioni.

Nel 2007 l’economia italiana ha registrato un ritmo di crescita inferiore a quello medio della restante parte dell’area dell’euro (1,5 contro 2,8%), un dato strutturale, perché si è sistematicamente verificato negli ultimi dieci anni. La crescita è stata ali-mentata quasi interamente dal settore dei servizi (che ha beneficiato anche del notevo-le incremento dei consumi interni per alcune voci, come i trasporti e le comunicazioni, cresciuti del 10,1%, ed i servizi bancari ed assicurativi, che di fatto costituiscono le uniche componenti dinamiche dei consumi interni nel 2007) a fronte della contrazio-

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ne dell’attività industriale in atto dall’inizio dell’anno, in controtendenza rispetto ai principali paesi europei. La fase ciclica dell’industria italiana nel 2007 risulta meno sfavorevole sulla base degli indicatori di fatturato e ordinativi, che sembrano meglio cogliere gli effetti della ristrutturazione in atto nel settore industriale italiano, come risposta alla crisi degli ultimi anni, e costituita da una progressiva internazionalizza-zione e diversificazione produttiva verso beni a maggior contenuto qualitativo (foca-lizzazione sul Made in Italy di qualità, in sostanza quel Nuovo Paradigma Competitivo che era già emerso dal Rapporto dell’anno scorso).

La crescita è stata sostenuta quasi esclusivamente dalla domanda estera, stante la stagnazione di quella interna. La dinamica della spesa delle famiglie è rimasta con-tenuta risentendo in primo luogo della prolungata debolezza del reddito disponibile, che dal 1991 cresce in termini reali solo dello 0,3 per cento in media all’anno (contro l’1,0 e il 2,2 per cento in Germania e in Francia, rispettivamente) in collegamento con una crescita della produttività del lavoro del tutto disallineata rispetto ai princi-pali competitor internazionali del Paese, che impedisce che si verifichino consistenti incrementi dei salari. Nel 2007 ha molto inciso l’incertezza legata agli effetti della crisi dei mercati finanziari internazionali (ed i timori, da parte dei proprietari di immobili, di una svalutazione del loro patrimonio, così come un rallentamento nella crescita delle domande per mutui immobiliari) e l’erosione del potere d’acquisto connessa con la ripresa di segnali di crescita dell’inflazione (l’inflazione del 2007 è ancor molto bassa, poiché si attesta all’1,8%, ma nel quarto trimestre dell’anno, a seguito della forte crescita dei prezzi internazionali delle materie di base, ha subito un repentino incremento)3. Anche la crescita dei consumi per mezzi di trasporto (+5,2%) è del tutto contingente, essendo correlata con gli incentivi per il rinnovo del parco auto previsti dalla Finanziaria 2007.

Gli investimenti abitativi hanno rallentato, a seguito dei timori che si sono addensa-ti sul comparto edilizio residenziale. Gli investimenti immobiliari sono stati sostenuti solamente dalla componente non abitativa. In complesso, gli investimenti fissi lordi sono cresciuti solo dell’1,2%, a fronte del 2,5% del 2006, ma la quota più direttamente collegata con le attività di produzione (macchinari, attrezzature ed impianti) è addirit-tura scesa dello 0,3%, dopo l’ottimo risultato dell’anno precedente (3,5%). Ciò riflette chiaramente la netta battuta d’arresto nell’espansione dell’attività produttiva, specie nell’industria e nella parte finale dell’anno, mostrata anche dalla espansione della capacità produttiva inutilizzata. Il clima di fiducia delle imprese, in netto degrado a partire dall’inizio del secondo trimestre, a seguito delle incertezze crescenti sull’anda-mento dell’economia per il futuro, ha inciso direttamente sui livelli di investimento, deprimendoli.

3 Da notare però, che, secondo le stime della Banca d’Italia, sulla modesta crescita del reddito disponibile avrebbe pesato anche un incremento della pressione fiscale, con le imposte sul reddito ed il patrimonio che sarebbero cresciute dell’8,6% sul 2006.

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GRaFICo 1Andamento del clima di fiducia delle imprese (base 2000=100)

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ott/06 nov/06 dic/06 gen/07 feb/07 mar/07 apr/07 mag/07 giu/07 lug/07 ago/07 set/07 ott/07 nov/07 dic/07

Fonte: Isae

La domanda estera, al contrario, è andata bene, ed ha costituito il contributo più importante alla crescita economica del 2007. Le esportazioni, alimentate da uno sce-nario internazionale ancora favorevole, e dai risultati del severo processo di ristrut-turazione, modificazione del target di mercato, internazionalizzazione attiva che è stato condotto dalle imprese italiane, sono cresciute del 5%, nonostante un peggio-ramento della competitività di prezzo indotto, fra l’altro, dal livello molto alto del tasso di cambio. Tuttavia, il peggioramento della competitività di prezzo, stimabile attorno al 6,3% fra 2005 e inizio 2008, è, secondo la Banca d’Italia, molto più forte che in altri Paesi quali Francia e Germania. Quindi, tale degrado riflette un aumento dei costi di produzione, legato anche ai maggiori oneri di approvvigionamento ener-getico e ad un costo del lavoro per unità di prodotto (CLUP) sfavorevole, dovuto ad una produttività del lavoro molto bassa, ma la perdita di competitività-prezzo finale dipende anche dai costi della catena distributiva, spesso piuttosto lunga e rigida.

Le esportazioni sono aumentate in misura più accentuata nei settori dei prodotti petroliferi raffinati, dei mezzi di trasporto, delle macchine e apparecchi meccanici; sono invece diminuite in settori tradizionali come quelli del tessile e del cuoio.

Dal punto di vista delle destinazioni geografiche e dei volumi, buoni risultati sono stati ottenuti sul mercato spagnolo e francese (+6,9% e +3,6%, a fronte, rispet-tivamente, di +3,3% e +1,9% nel 2006) e su quello britannico (+1,9%, mentre nel 2006 l’export era diminuito dell’1,4%).

Prosegue anche la fase di diversificazione dell’export italiano sui nuovi mercati emergenti: le vendite in Cina crescono del 2,9% (1,7% nel 2006), quelle in direzione

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della Russia del 17,8% (18,6% nel 2006). La ricerca di nuovi sbocchi di mercato, al di là di quelli tradizionali, è un interessante segnale di dinamismo dell’industria italiana, nel suo processo di crescente internazionalizzazione.

Le importazioni, dal canto loro, sono aumentate del 4,4 per cento in termini reali, in decelerazione dal 5,9% del 2006, in sintonia con il rallentamento più generale dei consumi interni. Molto forte, come da diversi anni a questa parte, la crescita dell’import in quantità proveniente dalla Cina (+17,5%), che si sta consolidando come importante partner commerciale del nostro Paese. La variazione in valore, molto più contenuta (+5,8%) indica come vengano importate da tale Paese quasi esclusivamente merci appartenenti ad una fascia di prezzo e qualità piuttosto bassa. L’andamento più moderato delle importazioni sulle esportazioni ha consentito, per la prima volta dopo tre anni, di ridurre il disavanzo delle partite correnti.

Sul versante degli investimenti, la forte crescita dei deflussi netti per investimenti diretti riflette in larga misura due singole operazioni: l’acquisizione di Endesa da parte dell’Enel e la riorganizzazione delle partecipazioni all’interno del gruppo bancario Unicredit. Al netto di queste operazioni gli investimenti italiani all’estero nel 2007 sono risultati in linea col recente passato. Anche gli investimenti dall’este-ro, pur se in diminuzione rispetto al 2006, si sono mantenuti su un livello simile a quello degli anni precedenti. La crescita degli investimenti diretti in Italia nel settore dei trasporti e delle comunicazioni, che ha riflesso una operazione di acquisizione nel mercato della telefonia, ha compensato la riduzione nel settore alimentare e nei servizi del credito e delle assicurazioni.

tabella 3Conto delle risorse e degli impieghi, variazioni %

sull’anno precedente a prezzi concatenati 2000 2006 2007RisorsePIL 1,7 1,5Importazioni di beni e servizi 5,9 4,4ImpieghiSpesa delle famiglie res. 1,1 1,4Spesa delle AAPP 0,9 1,3Investimenti fissi lordi 2,5 1,2Esportazioni di beni e servizi 6,2 5,0Variaz. scorte ed oggetti di valore 0,0 0,0

Fonte: Istat

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GRaFICo 2Andamento del saldo di partite correnti (miliardi di euro)

-17,4

-13,1

-23,6

-38,5

-37,4

-45

-40

-35

-30

-25

-20

-15

-10

-5

0

2003 2004 2005 2006 2007

Fonte: Istat

Nel 2007 è proseguita la crescita dell’occupazione, anche se a ritmi inferiori a quelli elevati dell’anno precedente. Essa è stata sostenuta dall’espansione della produzione e favorita dalla perdurante moderazione salariale. Il tasso di disoccupa-zione è ancora sceso, riportandosi sui livelli dei primi anni ottanta. La crescita del numero degli occupati è stata in larga parte alimentata dalla componente straniera; è ulteriormente aumentata l’incidenza degli occupati a termine e a tempo parziale. I già elevati divari nei tassi di occupazione tra il Mezzogiorno e il Centro Nord si sono ampliati.

Nel 2007 il numero degli occupati in Italia è aumentato di circa l’1% sia secondo i conti nazionali, che comprendono i lavoratori irregolari non residenti, sia secondo la rilevazione sulle forze di lavoro. Il tasso di occupazione della popolazione di età compresa tra i 15 e i 64 anni è aumentato di tre decimi, al 58,7%.

Come nell’anno precedente, l’occupazione femminile è aumentata più di quella maschile (rispettivamente, 1,3 e 0,8 %), confermando la ripresa di una tendenza di lungo periodo che aveva subito una interruzione tra il 2003 e il 2005. Anche nel 2007 gli stranieri regolarmente residenti in Italia hanno rappresentato una quota con-sistente della maggiore occupazione (154.000 persone, pari a oltre il 65 %). La loro incidenza sull’occupazione complessiva del Paese è salita al 6,4 % (5,9 nel 2006).

Nella media del 2007 il numero di persone in cerca di lavoro si è ridotto di 167.000 unità. Il tasso di disoccupazione ha continuato la sua discesa, dal 6,8 al

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6,1%, livello ormai simile a quello dei primi anni ottanta. La riduzione ha interes-sato entrambi i sessi e tutte le fasce di età: il tasso di disoccupazione femminile è sceso al 7,9 per cento, quello maschile al 4,9 per cento. Al Centro Nord il tasso di disoccupazione è ormai su livelli molto contenuti nel confronto europeo; rimane invece elevato nel Mezzogiorno.

5. Lo scenario nazionale nel 2008

Nel primo trimestre del 2008 il PIL è cresciuto, inaspettatamente, dello 0,5% rispetto al periodo precedente, recuperando la flessione di quattro decimi di punto registrata nell’ultimo trimestre del 2007. Le esportazioni sono aumentate del 5,9% nel primo semestre, nonostante il peggioramento della competitività di prezzo, ma il mese di Giugno ha messo in luce alcuni segnali preoccupanti di indebolimento. Le componenti interne della domanda hanno invece continuato a ristagnare. La spesa delle famiglie è rimasta sostanzialmente ferma nel primo trimestre (+0,1% tendenziale).

Il crescente pessimismo delle imprese, segnalato dalle inchieste congiunturali, e l’aumento dei costi di finanziamento hanno frenato gli investimenti, soprattutto per la componente macchinari, attrezzature e mezzi di trasporto. Gli investimenti fissi lordi sono lievemente diminuiti nel primo trimestre del 2008 (-0,2 % rispetto al tri-mestre precedente). Il progressivo ampliamento dei margini inutilizzati di capacità produttiva e il crescente pessimismo circa gli sviluppi della domanda hanno inciso negativamente sull’accumulazione di macchinari, attrezzature e mezzi di trasporto (-0,7 per cento). Nel settore delle costruzioni la dinamica degli investimenti, pur attenuandosi, si è invece mantenuta positiva (0,3%), traendo alimento sia dalla componente delle abitazioni, seppur in rallentamento, sia da quella delle costruzioni non residenziali.

I consumi delle famiglie hanno continuato a risentire della dinamica contenuta del reddito disponibile reale, influenzata anche dagli ulteriori forti rincari dei beni energetici e alimentari.

Gli indicatori per il secondo trimestre confermano la tendenza al rallentamento della crescita. Le inchieste congiunturali segnalano un nuovo peggioramento del clima di fiducia delle imprese ed una situazione di grande incertezza per quello delle famiglie. Le immatricolazioni di autovetture hanno subito una decisa contrazione nei primi sei mesi dell’anno; è continuato il calo delle vendite al dettaglio; i margini di capacità inutilizzata si sono progressivamente ampliati.

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GRaFICo 3Andamento del clima di fiducia di imprese e famiglie nel periodo Gennaio-Settembre 2008

(N.I. 2000=100)

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87

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102

Gen Feb Mar Apr Mag Giu Lug Ago Set

Imprese Consumatori

Fonte: Isae

Nel secondo trimestre, in conseguenza di tale clima negativo, il PIL reale, destagionalizzato e corretto per i giorni lavorativi, diminuisce dello 0,3% in termini congiunturali e dello 0,1% tendenziale. Gli investimenti fissi lordi, in volume, dimi-nuiscono dello 0,2% congiunturale, a seguito di un vero e proprio tracollo della voce “costruzioni” (-0,9% sul trimestre precedente) che compensa l’aumento sostenuto della voce “mezzi di trasporto” (+1,5%) e il lieve incremento dei “macchinari ed attrezzature “ (+0,3%). I consumi continuano a ristagnare, in conseguenza della debolezza della spesa delle famiglie (-0,3% congiunturale, -0,5% rispetto allo stes-so trimestre dell’anno precedente) ed anche l’effetto espansivo delle esportazioni scompare (posto che tale voce si comprime dello 0,7% rispetto al trimestre prece-dente). Sebbene il rallentamento sia comune a tutta l’area dell’Euro, l’Italia, come avviene da almeno dieci anni, mette in luce un comportamento peggiore: il PIL dell’area-Euro, in termini tendenziali, è infatti cresciuto dell’1,4%.

Il calo del PIL, come anticipato dall’indice di produzione industriale, è da adde-bitarsi soprattutto al comparto manifatturiero (-1,2% sul I trimestre), ma anche alle costruzioni (-0,9%), al comparto “commercio, pubblici esercizi, alberghi, trasporti e comunicazioni” (-0,2). Viceversa, risultati positivi vengono messi a segno dai servi-zi del comparto “credito, assicurazioni, attività immobiliari e servizi professionali” e dagli altri servizi (+0,3%). Buona anche la performance dell’agricoltura (+1,7%).

E’ possibile affermare che l’economia italiana ha subito i primi effetti significati-vi della crisi del mercato immobiliare globale: la flessione degli investimenti immo-biliari e del PIL delle costruzioni ne è la diretta conseguenza. Peraltro, un ulteriore

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indizio in tal senso è costituito da una crescita più lenta dei prezzi nel comparto delle costruzioni: il deflattore implicito del valore aggiunto del settore edile, infatti, aumenta più lentamente rispetto a quello del totale dell’economia, sia in termini congiunturali (2%, a fronte del 2,1%) che tendenziali (3,1%, a fronte del 3,7%).

tabella 4Conto economico delle risorse e degli impieghi, valori ai prezzi concatenati del 2000,

dati destagionalizzati e corretti per i giorni lavorativi II trim. 08 su I trim. 08 II trim. 08 su II trim. 07RisorsePIL -0,3 -0,1importazioni FOB 0,3 -0,7ImpieghiInvestimenti fissi lordi -0,2 0,3- macchinari, attr. e prod. vari 0,3 -0,3- mezzi di trasporto 1,5 0,9- costruzioni -0,9 0,6Consumi finali -0,2 0,0- spesa delle famiglie -0,3 -0,5- spesa delle AAPP e ISP 0,3 1,3Esportazioni FOB -0,7 1,3Variaz. scorte e ogg. di valore - -

Fonte: Istat

Nel primo semestre del 2008 l’inflazione è aumentata raggiungendo, come per la media dell’area, il 4,0% in giugno, il valore più elevato dalla metà dello scorso decennio. L’aggravarsi delle tensioni sui prezzi è il riflesso dei forti rincari delle materie prime energetiche e alimentari. L’inflazione “core”, ottenuta escludendo dall’indice generale i beni alimentari e quelli energetici, rimane più contenuta, ma si è portata comunque lievemente al di sopra del 2% dall’inizio dell’anno.

La competitività di prezzo delle nostre merci ha continuato a risentire negati-vamente di una crescita della produttività che rimane inferiore a quella delle altre principali economie dell’area, oltre che dell’effetto dell’elevato valore del tasso di cambio dell’euro. Nella seconda parte del 2007 e nei primi mesi del 2008 si è registrato un aumento nel ritmo di crescita del CLUP, accelerato dall’1,7% a oltre il 5% nell’industria tra l’inizio dello scorso anno e il primo trimestre del 2008 e dallo 0,3% al 4,5% nell’intera economia. Ciò deriva da una accelerazione della crescita delle retribuzioni, che non è stata accompagnata da alcuna significativa crescita della produttività che, dopo una flessione di oltre il 2% a fine 2007, è cresciuta di appena lo 0,3% nel primo trimestre 2008 (dati ISTAT).

Malgrado ciò, e nonostante un quadro macroeconomico mondiale in rallenta-mento, le esportazioni hanno tenuto nel periodo Gennaio-Maggio. Nel primo trime-stre del 2008 le esportazioni in volume di beni e servizi sono cresciute dell’1,4% sul periodo precedente, recuperando la flessione dell’ultimo trimestre del 2007. Alla fine del secondo trimestre, le esportazioni sono cresciute del 5,9% rispetto al

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corrispondente periodo dell’anno precedente. Tuttavia, nel mese di Giugno si è veri-ficato un improvviso calo dell’export, sia rispetto al mese precedente (-2,1%) che a Giugno 2007 (-3,8%) che ha coinvolto quasi tutti i settori, dalla chimica (-11%) agli apparecchi elettrici e di precisione (-9,7%), il tessile-abbigliamento (-7,9%), la gomma-plastica (-7,5%), i mezzi di trasporto (-4,6%).

Gli andamenti sempre meno favorevoli della congiuntura non hanno impedito al mercato del lavoro di mettere a segno una sia pur modesta crescita dell’occupazione, perché, con l’introduzione di quote crescenti di flessibilità, i tradizionali rapporti fra crescita ed andamento dell’occupazione e della disoccupazione (come quelli modellizzati dalla Legge di Okun) si sono fatti meno netti, e le imprese possono accrescere la loro base occupazionale (ricorrendo ad occupati precari) anche in fasi di debole crescita.

Nel primo trimestre del 2008, il numero di occupati è cresciuto dello 0,1% rispet-to al periodo precedente (1,4% rispetto allo stesso periodo del 2007, pari a 324.000 persone); nell’ultimo trimestre dello scorso anno aveva subito una flessione (-0,3%). All’incremento nel Nord e nel Centro si è contrapposta la riduzione nel Mezzogior-no (0,2, 0,4 e -0,3%, rispettivamente).

Gli occupati sono aumentati nell’agricoltura e nei servizi, mentre sono diminuiti nell’industria in senso stretto e, soprattutto, nelle costruzioni. L’incremento degli occupati rispetto a un anno prima ha interessato soprattutto le donne (2,7%), e, poiché ci si trova in una fase di crescita tendenzialmente stagnante, gli occupati flessibili: i contratti a tempo determinato (2,9%) e quelli a tempo parziale (8,4%), la cui incidenza sull’occupazione totale si è portata al 14,2%, dal 13,2.

Il tasso di attività della popolazione tra 15 e 64 anni è salito di quasi un punto percentuale rispetto a un anno prima, grazie soprattutto alla maggiore partecipazione delle donne. È ripresa la crescita dell’offerta nella fascia d’età 15-24 anni, in costan-te calo negli ultimi quattro anni.

La forte crescita della partecipazione, in assenza di una sufficiente capacità di generazione di nuovi posti di lavoro da parte delle imprese, in situazione di stagna-zione produttiva, ha determinato un aumento del tasso di disoccupazione rispetto al trimestre precedente (di tre decimi di punto, al 6,5%).

tabella 5Variazioni % tendenziali e valori al I trimestre 2008 dei principali indicatori di mercato

del lavoro, (valori % e migliaia di unità) Var. % su I trim. 2007 Valore al 1 trim. 2008Totale occupati 1,4 23.170Occupati dipendenti 1,6 17.103- a tempo determinato 2,9 2.189- a tempo parziale 8,4 2.508Occupati indipendenti 1 6.067Forze di lavoro 2,2 24.932Tasso di attività 0,9 62,8Tasso di disoccupazione 0,7 7,1Fonte: Istat

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CAPITOLO 3

MODELLO COMPETITIVO E FATTORI STRUTTURALI DI COMPETITIVITà NELL’ECONOMIA

DELLE REGIONI MERIDIONALI

1. Verso un nuovo modello competitivo per l’economia meridionale Il presente rapporto analizza il posizionamento competitivo e le dinamiche dei

modelli di competitività strutturale dei sistemi produttivi di cinque regioni del Mezzogiorno (Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia) con riferimento ai comparti dell’industria in senso stretto, delle costruzioni, e dei servizi ICT e turistico-ricettivi. Con l’ausilio di una indagine diretta condotta presso campioni statisticamente rappresentativi di imprese delle regioni e dei comparti produttivi sopra evidenziati, viene descritta la condizione dei sistemi produttivi locali rispetto all’adozione di un modello strutturale di competitività adeguato a supportare le sfide che la competizione globale attuale pone.

Detto modello di competitività è imperniato su competenze, qualità, innovazio-ne, ed un approccio “customer oriented” alle strategie di impresa, ed abbandona un approccio oramai obsoleto, tipico di economie post-fordiste, meramente fondato sul controllo dei costi di produzione e sulla massimizzazione dell’efficienza produtti-va, mirata primariamente a ridurre l’incidenza dei costi fissi di impianto sul valore unitario dei prodotti, e quindi ancora una volta a controllare la dinamica del prezzo finale di vendita. Detto modello non è più sostenibile, nella misura in cui le econo-mie emergenti possono contare su vantaggi competitivi di costo e di prezzo assolu-tamente non conseguibili nei sistemi economici maturi1. Occorre quindi mirare su strategie di riposizionamento dei sistemi d’impresa meridionali che siano focalizzati su qualità e competenze, ed in ultima analisi sulla crescita del valore aggiunto delle produzioni.

Per le economie delle regioni del Mezzogiorno, tale esigenza è resa ancora più urgente dal fatto che il modello di specializzazione produttivo è molto simile a quello dei Paesi emergenti a basso costo del lavoro, essendo basato su industrie a medio-basso contenuto tecnologico, come il tessile-abbigliamento, il calzaturiero, la meccanica di base, la produzione di mobili ed altri prodotti in legno, l’agroali-mentare. Ciò sottopone l’industria del Mezzogiorno ad una pressione competitiva

1 In tal senso, M. Salvati (1993) parla di “strada alta” e “strada bassa” verso la competizione, dove la prima risiede in un modello basato sull’innovazione e la qualità totale, la seconda su un modello basato solo sulla massimizzazione dei livelli di produzione e il livellamento dei relativi costi.

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particolarmente feroce, mentre gli altri comparti dell’economia sono spesso con-notati o da profili di assistenza pubblica mirata alla mera sopravvivenza e non ad una vera e propria ripresa di competitività (si pensi all’agricoltura in molte zone del Sud, specie in quelle montane, interne o comunque marginali rispetto ai processi di sviluppo), oppure hanno un connotato meramente congiunturale e di assorbimento di manodopera dequalificata che non potrebbe essere impiegata altrimenti (servizi alla persona tradizionali, piccolo commercio al dettaglio).

Un modello competitivo adeguato a ritrovare la strada delle crescita e, con spe-cifico riferimento al Mezzogiorno, riavviare quel processo di “catching up” rispetto al livello di sviluppo delle regioni del Centro Nord, che sembra essersi arrestato negli ultimi sei-sette anni2, deve necessariamente basarsi sugli ingredienti di un modello “alto” di competitività derivato dalla metodologia di costruzione di una variante del PIL, il cosiddetto “prodotto interno di qualità” (PIQ), costruito dalla Fondazione Symbola per misurare il grado di diffusione di modelli competitivi basati su qualità, competenza, ricerca, innovazione e valore aggiunto nel tessuto produttivo italiano3. Il modello competitivo sottostante al PIQ è basato, fra l’altro, sulle seguenti dimensioni:1. qualità delle risorse umane: prende in considerazione il livello di valorizzazione

ed effettiva utilizzazione delle competenze individuali di qualità elevata;2. qualità dell’innovazione: prende in considerazione la gestione del ciclo dell’inno-

vazione tanto in termini di fattori di input (ricerca e sviluppo), quanto in termini di output (innovazione a livello di processo e di prodotto);

3. qualità del posizionamento: prende in esame aspetti della qualità del prodotto che vanno dalle componenti che contribuiscono a determinare i livelli di quali-tà intrinseca a quelle che, invece, determinano il posizionamento in termini di immagine (design, comunicazione, ecc.);

4. qualità come competitività: considera gli aspetti che determinano la competitività relativa dei prodotti rispetto alla concorrenza tanto sul mercato interno che quello internazionale.Le dimensioni analitiche sulle quali poggia il calcolo del PIQ sono in larga

misura gli argomenti trattati dal presente rapporto, e costituiscono quindi la base di un modello di competitività vincente, un modello che, secondo le stime di Symbo-

2 Nel periodo 2001-2007, la crescita media annua del PIL meridionale è stata dell’1,2%, e dell’8,4% in termini cumulati. I valori del Centro Nord sono stati, rispettivamente, pari all’1,9% ed al 13,8% (cfr. Rapporto Svimez sull’economia del Mezzogiorno 2008).

3 Cfr. Rapporto 2007 PIQ, Fondazione Symbola, in collaborazione con Unioncamere e Expo CTS, disponibile sul sito http://www.symbola.net.

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la, coinvolge oramai il 44,3% del PIL nazionale. In particolare, i settori nei quali l’incidenza del prodotto derivante da modelli di competitività “alta” sul totale è particolarmente forte sono i seguenti:

- commercio (il PIQ rappresenta il 49,7% del PIL settoriale);- agricoltura (46,1%);- metalmeccanica (45,5%). È facile constatare che tali settori, ad eccezione della metalmeccanica (che è

comunque fortemente presente in molte aree del Sud, come nei poli produttivi della Fiat distribuiti in molte regioni meridionali, o sulla dorsale adriatica barese, forte-mente specializzata nella componentistica meccanica o ancora nel polo siderurgico di Taranto), costituiscono specializzazioni produttive specifiche del Mezzogiorno. Vi sono dunque ampi margini affinché anche le imprese del Mezzogiorno possano adottare modelli competitivi basati su innovazione, qualità, competenze del proprio capitale umano, e che tali modelli competitivi producano, anche per le imprese del Sud, consistenti vantaggi in termini di risultati commerciali sui mercati internazio-nali.

Rispetto a tale nuovo modello competitivo, che nelle scorse edizioni del presen-te rapporto è stato denominato “Nuovo Paradigma Competitivo”, gli aspetti che il presente rapporto approfondisce sono quindi i seguenti:- le strategie imprenditoriali riferite all’organizzazione interna dell’impresa ed

alle politiche del personale. La valorizzazione del capitale umano è la base per implementare modelli competitivi che richiedono il trattamento e l’elaborazione di una grande mole di informazioni e conoscenze da parte dell’impresa (poiché si fondano su innovazione e qualità) e gli assetti organizzativi sono il fondamen-to di una efficace utilizzazione del capitale umano (come dimostrano i notevoli miglioramenti in tal senso conseguiti dal passaggio a modelli organizzativi post-fordisti a modelli di tipo toyotista negli anni Ottanta, fino alla recente riconver-sione in atto, sempre a partire dall’industria “automotive”, verso modelli basati sulla filosofia del World Class Manufacturing). Prima ancora di analizzare nel dettaglio le varie opzioni strategiche, si è verificato se effettivamente esiste un diffuso orientamento strategico, nel tessuto imprenditoriale, in riferimento ad organizzazione e gestione del personale;

- la propensione e capacità di investimento, posto che nessun nuovo modello di competitività può essere concretamente implementato se le imprese non hanno la capacità o possibilità di sostenere le spese necessarie a ristrutturare i propri assetti, il che richiede, peraltro, la disponibilità di fonti finanziarie adeguate, soprattutto in riferimento agli investenti in innovazione, che sono quelli più complessi, in quanto hanno un “break even point” molto spostato in avanti nel tempo e richiedono risorse finanziarie minime molto cospicue;

- la propensione e capacità di innovare e di investire in qualità del prodotto/ser-vizio finale, dove l’innovazione va intesa in senso ampio, ovvero comprendente

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anche la componente organizzativa e gestionale;- la capacità di cogliere le opportunità offerte dai processi di globalizzazione, sia

sul versante commerciale (superando la tradizionale modesta proiezione del siste-ma produttivo del Mezzogiorno fuori dai propri contesti di mercato localistici, e posizionandosi su mercati internazionali) che produttivo (delocalizzando parti del processo produttivo all’estero, al fine di conseguire vantaggi di costo, o di maggiore penetrazione commerciale, o anche per sfruttare bacini di competenze o di specializzazioni in determinate aree del mondo). La capacità di internaziona-lizzazione costituisce l’ultimo elemento analitico preso in considerazione, perché in una certa misura sintetizza il livello competitivo delle imprese, e quindi è la cartina di tornasole dell’efficacia in termini di risultati di mercato, delle strategie messe in campo rispetto agli elementi precedentemente evidenziati (capitale umano, organizzazione, investimenti, innovazione). Detti elementi analitici, infine, vengono posti a confronto con le percezioni sog-

gettive degli imprenditori intervistati in relazione ai loro giudizi sul livello di com-petitività dell’impresa, al fine di verificare se vi siano discrasie fra i dati oggettivi di competitività che emergono dall’analisi e le opinioni in merito degli interessati. E’ del tutto evidente, infatti, che le decisioni strategiche delle imprese dipenderanno, oltre che dai dati oggettivi attraverso i quali si possono misurare i loro livelli compe-titivi rispetto alla concorrenza, anche dalle loro opinioni personali e dai loro giudizi soggettivi, cioè dalla loro psicologia4.

2. Le strategie organizzative e di valorizzazione del capitale umano aziendale

Il ruolo delle strategie di valorizzazione del capitale umano, di cui anche il ridisegno delle relazioni organizzative interne all’impresa fa parte, può essere effi-cacemente riassunto da tale passaggio, tratto da M.R. Napolitano (2007): “le nuove condizioni (dell’economia, ndr) hanno profondamente inciso sull’identità delle imprese e dei territori, smaterializzando i fattori su cui si fondano oggi i vantaggi competitivi delle prime e i vantaggi comparati dei secondi… Di qui l’Economia della Conoscenza come metafora dello sviluppo… Ne deriva che il successo delle imprese dipende sempre più dall’abilità di utilizzare risorse, soprattutto di cono-scenza, in combinazione fra loro, trasformarle in competenze attraverso adeguati processi organizzativi e condividerle con un gruppo vasto di soggetti e organiz-zazioni. Le competenze rappresentano le radici del successo e della crescita… La

4 In riferimento alla leva competitiva forse più importante di tutte, ovvero la propensione all’inve-stimento, senza la quale non si può costruire alcun percorso strategico di miglioramento aziendale, già Keynes negli anni Trenta evidenziava come tale parametro dipenda, più che dai dati oggettivi di analisi economica, dagli “spiriti animali” degli imprenditori, cioè in ultima analisi dalla loro condizione psico-logica rispetto alla situazione dell’economia in un dato momento temporale.

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consapevolezza dell’importanza del ruolo svolto dalle risorse immateriali fa sì che la competizione per acquisire un vantaggio comparato su risorse e competenze sia addirittura prioritaria rispetto a quella per conseguire un vantaggio competitivo nei mercati e sui prodotti”5.

Altre aree territoriali, italiane, diverse dal Mezzogiorno, stanno raccogliendo le sfide dell’economia della conoscenza. Secondo la ricerca condotta dal prof. Azzariti in collaborazione con Cisco Italia sulle PMI del Nord Est6, le PMI intervi-state si suddividono in diverse categorie, in funzione di determinati comportamenti strategici, in riferimento al rapporto con la globalizzazione dei mercati, alle scelte organizzative (propensione alla managerializzazione del sistema di governance, modelli organizzativi adottati), uso della tecnologia e capacità di creare relazioni con l’ambiente scientifico esterno al fine di incentivare l’innovazione aziendale. Ne emerge un quadro in forte movimento e modernizzazione, soprattutto in riferimento alla capacità di introdurre nuovi modelli organizzativi e di governance. Una valoriz-zazione opportuna del capitale umano aziendale è quindi al cuore del successo, sia delle imprese che dei territori. La domanda fondamentale quindi è la seguente: come si stanno comportando in merito le imprese del Sud?

Per rispondere a tale domanda, sono state approfondite le questioni riferite alle strategie organizzative interne alle imprese, e ad alcuni aspetti particolarmente qualificanti dei loro metodi di gestione del personale, tenuto conto del fatto che la competizione sta spingendo sempre più in direzione di un riaccentramento in capo all’impresa di alcune funzioni complesse (come la logistica, la R&S, la pianifica-zione strategica, il controllo di gestione, la pianificazione commerciale ed il mar-keting, l’assistenza after sale) che, negli anni Novanta, sulla spinta delle filosofie di outsourcing e di concentrazione sul core business, venivano spesso decentrate. Oggi, il focus sembra spostarsi: i nuovi concetti di “fabbrica modulare” e di “World class manufacturing” spostano l’attenzione sul mantenimento del controllo diretto sulle fasi a più alto contenuto di servizi e di conoscenze (progettazione, pianifica-zione, ricerca, coordinamento, gestione del personale, controllo, manutenzione ed assistenza tecnica al cliente) e, addirittura, nelle versioni più “estreme”, verso il decentramento delle fasi più propriamente manifatturiere. Numerosi esempi, anche in campo manifatturiero, conducono infatti a ritenere che il valore aggiunto delle produzioni si stia sempre più spostando verso il loro contenuto di servizi, più che di bene materiale in sé stesso (tanto per fare un esempio, nel settore dell’hardware informatico, le fasi di assistenza tecnica, promozione commerciale, ecc. stanno pesando più della fabbricazione del computer in sé e per sé, tanto che le grandi

5 Prof.ssa Maria Rosaria Napolitano, prolusione per l’apertura dell’anno accademico 2006/2007, Università del Sannio.

6 “Dall’economia dell’esperienza all’economia della conoscenza diffusa: questa la nuova sfida per le PMI”, Università Ca’Foscari, Cisco Systems Italia

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aziende, come l’IBM, stanno decentrando la fase di manufacturing, e non le fasi a più alto contenuto di servizi).

Il riaccorpamento in capo all’impresa di funzioni complesse un tempo trascu-rate o esternalizzate è, d’altra parte, un presupposto per attivare forme di crescita. Secondo Haire (1958) “As the organization grows, its internal shape must change. Additional functions of coordination, control, and communication must be provided and supported by the same kind of forces that previously supported an organization without these things. (...) As the size of a firm increases, the skeletal structure grows faster than the size itself”.

Naturalmente, tale processo di riaccorpamento delle funzioni strategiche, se è necessario per rimanere sulla frontiera della competitività, non è a costo zero, e quindi non tutti i sistemi produttivi possono permetterselo. Secondo Traù (2005)7 già in corrispondenza di una prima fase di crescita da una condizione di micro-impresa verso un assetto più strutturato, il livello dell’investimento necessario implica un aumento dei costi fissi, correlato ad un incremento dei costi di gestione ed orga-nizzazione interna, che non tutte le imprese possono permettersi. A stadi di crescita successivi, accanto all’ulteriore aumento più che proporzionale dei costi di gestione ed organizzazione, si sovrappongono delicati problemi di distribuzione del potere decisionale all’interno dell’impresa, che non tutte le organizzazioni produttive sono in grado di affrontare.

Come si pongono i sistemi imprenditoriali del Mezzogiorno di fronte alle sfide sopra delineate? Con riferimento al campione indagato, le dinamiche sopra eviden-ziate non sembrano essere in atto, se non in un numero minoritario di casi. Pren-dendo a riferimento le imprese dell’industria manifatturiera delle cinque regioni in esame, pur nelle differenze fra le varie situazioni locali, si nota una tendenza comune. Le imprese indagate tendono infatti a concentrarsi prevalentemente sulle funzioni più direttamente connesse al funzionamento “minimale” dell’organizzazio-ne, ovvero quelle di tipo produttivo, commerciale e di amministrazione e contabilità. Le funzioni complesse, come la R&S, la pianificazione strategica, l’informatica e tecnologia, l’ambiente e sicurezza, sono presidiate molto raramente, il che significa due cose: le imprese tendono a non occuparsi di tali attività, o quando lo fanno ten-dono ad affidarsi a strutture esterne di consulenza. Ad ogni modo, la maggior parte del tessuto meridionaleregionale non incorpora le funzioni ad alto valore aggiunto, che consentirebbero un presidio stabile delle attività strategiche per implementare il Nuovo paradigma competitivo.

D’altra parte, la predetta tendenza generale verso un riaccorpamento delle fun-zioni aziendali complesse e/o aventi carattere di servizio richiede, ovviamente, assetti organizzativi dimensionati su una scala minima, tale da poter incorporare le

7 “Uno schema per l’analisi dei cambiamenti organizzativi che accompagnano la crescita delle imprese”, CSC WP, n. 54, Marzo 2005

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funzioni stesse. Se in regioni come la Basilicata, la Calabria, la Campania, percen-tuali oscillanti fra l’88% ed il 98% delle imprese è di piccola dimensione, e solamen-te una frazione di queste ha natura giuridica societaria, è evidente che non vi sono gli spazi per una articolazione organizzativa minima, e che la struttura di governance, che sarà tipicamente di tipo padronale, sarà semplificata al massimo, concentrando sul vertice aziendale, costituito spesso dall’imprenditore-titolare, al più affiancato fa qualche famigliare, tutte le attività “rare” e strategiche. Non a caso, infatti, la Sicilia, il cui campione è composto “solo” per il 55% da piccole imprese, e che quindi ha una struttura dal punto di vista dimensionale relativamente più articolata, possiede percentuali relativamente superiori di funzioni complesse presenti nella pianta orga-nizzativa delle imprese.

Gli altri comparti produttivi, poi, presentano generalmente una articolazione organizzativa ancora più semplice, con alcune parziali eccezioni (la più importante delle quali riguarda il comparto dei servizi avanzati che, per ovvi motivi, presenta percentuali di imprese aventi le funzioni R&S ed informatica-tecnologia incorporate nell’organizzazione interna leggermente più alte rispetto agli altri comparti, anche se comunque la diffusione di tali funzioni appare in assoluto molto modesta).

tabella 1Aree funzionali presenti nell’organizzazione aziendale, valori %,

industria in senso stretto Basilicata Calabria Campania Puglia SiciliaArea finanziaria (credito, finanza) 3,2% 3,0% 3,6% 6.5% 11,1Area strategica (marketing, investimenti) 7,5% 4,4% 9,8% 3.9% 11,2Area produzione e logistica 45,7% 59,6% 67,8% 33.6% 41,2Area ricerca e sviluppo 6,7% 0,3% 1,9% 4.8% 7,7Area amministrativa e controllo gestione 23,2% 23,7% 42,0% 26.0% 53,5Area informatica e tecnologia 2,7% 2,2% 1,9% 4.4% 11,6Area ambiente e sicurezza (certificazioni) 3,1% - 3,8% 4.8% 14,2Area commerciale (clienti, fornitori,Pubbliche Relazioni) 59,5% 59,4% 74,3% 44.0% 44,3Non indica 7,7% 1,7% - 29.1% 33,8

Fonte: elaborazione SRM-OBI

Ovviamente, la propensione ad internalizzare le funzioni di servizio complesse cresce al crescere della complessità organizzativa: le imprese aventi natura societaria, con una struttura interna più articolata, tendono ad incorporare maggiormente attività quali la R&S, la pianificazione strategica, la pianificazione commerciale, ecc.

Una conferma del carattere padronale dei modelli di governance prevalenti all’in-terno dei sistemi produttivi meridionali viene dall’analisi delle figure professionali presenti in organico. Le figure del management intermedio (dirigenti e quadri) sono molto rare se non, in alcune situazioni, pressoché assenti (ovunque nel comparto dell’ICT, ma anche nei comparti industriali di Basilicata e Calabria, così come anche fra le imprese turistico-ricettive di Campania, Calabria e Puglia). Di fatto, quindi, gli imprenditori si assumono totalmente l’onere della direzione strategica ed anche operativa delle loro imprese, senza appoggiarsi ad un gruppo dirigente con le com-

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petenze tecniche ed il ruolo per potersi assumere parte delle responsabilità. E’ inutile dire che in un mondo in cui la competizione tecnologica, produttiva e commerciale si fa sempre più complessa e sofisticata, il modello dell’“uomo solo al comando” non è più adeguato a supportare i necessari processi di incorporazione di competen-ze aggiuntive di cui le imprese hanno assolutamente bisogno per sopravvivere. Per dirla con le parole di J. Rifkin, “quando si è soli si perde”. Da notare anche la gene-ralizzata carenza di “intermedi”, che spesso costituiscono figure di specializzazione tecnica in grado di guidare gruppi di operai.

tabella 2Figure professionali presenti in organico, valori %

Manifatturiero Costruzioni ICT TurismoBasilicata

Dirigenti 3,8% 7,2% 2,3% 10,0%Quadri 5,9% 2,4% 1,3% -Impiegati 38,6% 68,7% 98,7% 48,3%Intermedi 3,1% 7,2% - 11,4%Operai qualificati 71,9% 59,0% 10,4% 60,7%Operai comuni e apprendisti 28,1% 60,2% 8,1% 22,4%Consulenti 4,1% 6,0% 5,8% 1,4%Non indica 1,5% - - -

CalabriaDirigenti 2,0% 5,4% 1,8% 4,9%Quadri 1,6% - 0,3% 1,3%Impiegati 32,1% 60,0% 89,9% 58,1%Intermedi 2,0% 9,9% 4,3% 3,0%Operai qualificati 64,6% 68,2% 7,9% 49,1%Operai comuni e apprendisti 30,8% 56,1% 4,0% 34,7%Consulenti 1,3% 10,5% 6,5% -Non indica 2,7% - 0,3% 0,8%

CampaniaDirigenti 5,4% 7,7% 1,8% 5,1%Quadri 6,8% - - 0,6%Impiegati 42,5% 72,8% 100,0% 73,5%Intermedi 5,5% 1,1% 5,4% 7,0%Operai qualificati 70,7% 65,1% 17,9% 42,1%Operai comuni e apprendisti 49,6% 39,1% 7,1% 23,1%Consulenti 6,0% 5,9% 10,7% 0,6%

PugliaDirigenti 5.4% 7.2% 1.1% 3.4%Quadri 6.3% 4.0% - -Impiegati 42.4% 81.4% 88.8% 60.8%Intermedi 2.2% 8.9% 0.4% 9.7%Operai qualificati 62.0% 70.3% 24.9% 47.5%Operai comuni e apprendisti 38.7% 49.6% 3.9% 24.6%Consulenti 4.9% 4.6% 0.5% 3.2%Non indica 5.0% - - 3.2%

SiciliaDirigenti 5,8 5,8 1,3 7,7Quadri 16,0 17,7 4,5 16,1Impiegati 81,8 87,1 85,5 80,6Intermedi 8,1 5,0 3,6 10,6Operai qualificati 61,4 88,7 13,5 58,5Operai comuni e apprendisti 58,5 75,5 9,2 50,7Consulenti 35,0 31,0 25,5 22,0

Fonte: elaborazione SRM-OBI

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Le conseguenze di un simile assetto organizzativo sono abbastanza ovvie. In primo luogo, il mancato presidio delle funzioni organizzative strategiche e la caren-za di management intermedio si traducono in una diffusa carenza di capacità di gestione strategica delle imprese. Le imprese meridionali non fanno pianificazione strategica o, quando la fanno, tale attività è quasi completamente accentrata in capo all’imprenditore-titolare, con un coinvolgimento minimo, se non inesistente, della struttura organizzativa interna. In pratica, quindi, la gestione strategica delle imprese tende ad essere ridotta all’elaborazione di linee di azione generali, senza una verifica ed una concretizzazione dettagliata di tali linee con la struttura operativa interna delle imprese. Di fatto, quindi, l’elaborazione strategica delle imprese meridionali, quando anche viene effettuata, tende ad essere concettualmente povera (perché l’imprenditore non coinvolge altre menti pensanti oltre la sua) e piuttosto astratta, o perlomeno generalista (perché manca il confronto con i responsabili operativi dell’azienda). Ancora una volta, le imprese siciliane nei vari comparti esaminati, con l’eccezione del turismo, tendono ad avere assetti più avanzati rispetto alle altre regioni, grazie a strategie organizzative più complesse ed articolate. Particolarmente gravi appaiono invece i diffusi ritardi nell’implementazione di politiche aziendali di organizzazione e pianificazione strategica nei sistemi produttivi lucani e calabresi.

tabella 3 Imprese che effettuano pianificazione strategica solo tramite l’imprenditore-amministratore,

coinvolgendo solo episodicamente il resto del gruppo dirigente aziendale, valori % Manifatturiero Costruzioni ICT TurismoBasilicata 60,8% 57,8% 70,5% 65,9%Calabria 67,3% 67,7% 58,8% 55,9%Campania 60,9% 75,6% 45,0% 59,5%Puglia 65,9% 57,4% 67,7% 50,3%Sicilia 47,3% 53,6% 57,1% 59,0%Fonte: elaborazione SRM-OBI

Non solo non vi è una vera e propria strategia di sviluppo organizzativo ma, più in generale, il fattore umano come leva potenziale di sviluppo tende ad esse-re trascurato dalle imprese meridionali, anche per motivi legati alle ristrettezze dell’attuale fase economica. In primo luogo, le imprese tendono a non acquisire professionalità qualificate dal mercato del lavoro, al fine di incrementare il profilo di skills della loro manodopera. Le imprese che formulano previsioni di espansione della base occupazionale sono piuttosto scarse, specie in regioni come la Campania, la Calabria e la Puglia, e nei comparti delle costruzioni e dell’ICT (con l’eccezione dell’ICT siciliano, in cui sembra che vi siano alcune imprese in fase di espansione). Il turnover tende ad essere molto modesto anche nei ruoli direttivi, che normalmente sono anche quelli dove la rotazione è più frequente (con riferimento al comparto manifatturiero, le imprese che prevedono di effettuare livelli “elevati” di turnover a livello di dirigenza, al fine di ringiovanire e meglio qualificare il proprio gruppo

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dirigente, introducendo forze ed idee fresche, oscillano fra lo 0 della Sicilia ed il 5% della Basilicata).

GRaFICo 1Percentuali di imprese manifatturiere che dichiarano livelli elevati

di turnover dei propri dirigenti

0%

5%

10%

15%

20%

25%

30%

Basilicata Calabria Campania Puglia Sicilia

Manifatturiero Costruzioni ICT Turismo

Fonte: elaborazione SRM-OBI

I motivi principali addotti dalle imprese, per giustificare il modesto livello di acquisizione di professionalità esterne, si concentrano generalmente nelle difficol-tà della situazione prevalente nello scenario economico attuale (con percentuali oscillanti fra il 21,8% della Campania ed il 41,7% della Basilicata, con riferimento all’industria in senso stretto). Le difficoltà del quadro economico generale spiegano anche perché percentuali significative di imprese dichiarano di preferire l’opzione, meno costosa, di una riorganizzazione interna del proprio organico, piuttosto che di un potenziamento dello stesso per linee esterne (con valori che vanno dal 31,5% della Sicilia al 64,5% della Campania). Va tuttavia detto che dietro a tale opzione strategica si nascondono anche gli effetti negativi prodotti da un sistema formativo ed educativo per larghi versi inadeguato a fornire una offerta di lavoro allineata alle esigenze di professionalità qualificate delle imprese, per cui le stesse preferiscono lavorare sul capitale umano già presente in azienda, piuttosto che assumere nuovo personale, la cui formazione iniziale peserebbe completamente sulle spalle delle imprese stesse.

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tabella 4 Le cifre dell’arretratrezza del sistema educativo e formativo meridionale

Laureati in materie scienti-fiche-tecnologiche (X 1.000

ab. 20-29 anni) - 2006

% popolazione 20-24 anni con almeno un diploma di scuola secoaria superiore

- 2007

% studenti di 15 anni con scarse competenze

in lettura - 2006

% studenti di 15 anni con scarse competenze in

matematica - 2006

Mezzogiorno 8,4 70,3 37,0 45,7Centro Nord 14,8 79,7 18,2 22,9FontI: ISTAT, Ocse-PISA

La difficoltà, da parte del sistema educativo, di fornire al mercato del lavoro delle regioni del Sud giovani ad elevato livello di qualificazione viene aggravata dal profilo tipico della domanda di lavoro, che non di rado punta a reclutare figure impiegatizie, quadri o dirigenti, ovvero personale normalmente dotato perlomeno del diploma di laurea. Ci si trova cioè di fronte ad una discrasia, fra un sistema formativo che non riesce a produrre laureati, specie in materie tecnologiche e scien-tifiche, allo stesso ritmo delle regioni del Centro Nord, ed una domanda di lavoro, da parte delle imprese meridionali, che in numerosi casi è focalizzata su figure ad ele-vata qualificazione, destinate a lavori di concetto, e quindi tendenzialmente laureate. Esistono naturalmente, in tal senso, differenze settoriali notevoli, con l’ICT che, per la natura delle sue attività, richiede essenzialmente figure impiegatizie, e il comparto delle costruzioni, che invece cerca prevalentemente professioni di tipo operaio.

GRaFICo 2Percentuali di imprese che ricercano sul mercato del lavoro profili professionali

di livello almeno impiegatizio

0%

20%

40%

60%

80%

100%

120%

Basilicata Calabria Campania Puglia Sicila

Manifatturiero Costruzioni ICT Turismo

Fonte: elaborazione SRM-OBI

Le imprese, dunque, dichiarano un orientamento prevalente verso la valorizza-zione delle risorse professionali interne. Tuttavia, quando si vanno ad analizzare in

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maggior dettaglio le politiche in tal senso, si nota, ancor una volta, una certa carenza di capacità di azione da parte dei sistemi produttivi delle regioni in esame. Di fronte ad organici aziendali spesso caratterizzati da livelli di scolarizzazione di base piut-tosto modesti, le necessarie azioni di formazione e riqualificazione professionale a favore del personale non sono diffuse quanto ci si attenderebbe, e quanto sarebbe necessario per riqualificare un capitale umano tendenzialmente spostato verso livelli culturali medio-bassi. Infatti, la maggior parte delle imprese intervistate ha in orga-nico personale munito del solo diploma della scuola dell’obbligo, o, al più, del titolo di scuola secondaria superiore. Praticamente nullo ovunque risulta essere il ricorso a laureati in materie tecnico-scientifiche, con la sola eccezione dell’ICT, ma soltanto in Sicilia (dove vi sono alcuni poli imprenditoriali nel comparto dell’informatica, dell’elettronica e delle TLC di primario valore internazionale, ad esempio nell’area di Catania, ed infatti le imprese dei servizi avanzati siciliane impiegano, nel 14,6% dei casi, laureati in materie tecnico-scientifiche - e comunque, va anche ricordato che il manifatturiero e l’industria delle costruzioni della Sicilia impiegano personale dotato della sola scuola dell’obbligo in percentuali che oscillano fra il 42 ed il 47%). Vi sono poi situazioni particolarmente delicate in Calabria (nel manifatturiero e nelle costruzioni la maggioranza assoluta dei lavoratori possiede il diploma della scuola dell’obbligo; nel turismo la situazione migliora solo in modo molto leggero, perché il 47,5% degli occupati ha una scolarità media superiore, a fronte del 45,7% che non supera il livello d’istruzione dell’obbligo), in Puglia (il manifatturiero pugliese ha, nel 54,1% dei casi, personale con il solo diploma di scuola media inferiore, nelle costruzioni e nel turismo tali valori sono del 48,4% e del 43%) ed in Basilicata (dove il 50,4% degli addetti manifatturieri ed il 68% di quelli edili sono dotati della sola scuola dell’obbligo, e persino l’ICT, nel 72,7% dei casi, ha addetti che non superano il diploma di maturità).

A fronte di una simile situazione, lo sforzo delle imprese per riqualificare il proprio personale attraverso azioni di formazione professionale appare del tutto insufficiente. Con la sola eccezione della Sicilia, in cui in tutti i comparti vi sono percentuali di imprese significative che hanno investito in formazione professionale dei propri addetti, le altre regioni sono in grave ritardo in tal senso. Ciò che preoc-cupa maggiormente è che le regioni in cui le attività di formazione professionale sono meno diffuse sono proprio quelle in cui il profilo formativo del personale delle imprese intervistate appare più modesto, e quindi quelle in cui vi sarebbe un maggior fabbisogno in tal senso (Basilicata, Calabria, in misura meno evidente la Puglia). In tale quadro desolante, spicca comunque la propensione relativamente maggiore del comparto delle costruzioni ad effettuare formazione professionale, nelle cinque regioni considerate. Evidentemente, nel comparto in questione vi sono fatti specifici, come ad esempio obblighi di mettersi in regola con normative sulla sicurezza del lavoro, la qualità, ecc. che richiedono sforzi di formazione del perso-nale specifici.

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tabella 5 Percentuali di imprese che hanno investito in formazione professionale nel 2007

Manifatturiero Costruzioni ICT TurismoBasilicata 17,1% 42,1% 22,4% 27,1%Calabria 11,7% 31,7% 23,7% 19,9%Campania 25,8% 39,5% 47,7% 29,7%Puglia 26,4% 36,4% 37,6% 12,7%Sicila 46,1% 68,7% 50,6% 49,4%Fonte: elaborazione SRM-OBI

I motivi di uno sforzo così carente in materia di formazione professionale sono essenzialmente di tipo finanziario. A fronte del fatto che, nella maggior parte dei casi, le imprese devono finanziare i programmi di formazione primariamente con le proprie risorse (anche a causa del momento particolare di passaggio da un ciclo di programmazione del FSE all’altro, che può aver comportato, nel 2007-2008, un calo dei finanziamenti pubblici disponibili per tali attività) in percentuali non indif-ferenti, che a volte giungono a superare il 20% dei rispondenti, si avverte un certo incremento del costo della formazione professionale. Peraltro, la tendenza all’au-mento dei costi di formazione sopportati dalle imprese è generalmente crescente, fra 2006 e 2008. Non ci si può che augurare che il nuovo ciclo di interventi del FSE, per il 2007-2013, parta operativamente, con l’emanazione dei primi bandi, il più presto possibile, per evitare che i ritardi di riqualificazione professionale del capitale umano aziendale delle imprese del Mezzogiorno si facciano ancora più ampi.

Il quadro complessivo che emerge dall’analisi è, come detto all’inizio, quello di una forte carenza, da parte dei sistemi produttivi meridionali, nell’implementazione di politiche organizzative e di valorizzazione del capitale umano all’altezza delle sfide che il Nuovo Paradigma Competitivo, come delineato in premessa, richiede. Vi sono tuttavia alcune variabili che facilitano in misura sensibile un approccio alle politiche organizzative e sul personale più dinamico ed efficace: in primo luogo, la dimensione aziendale. I dati del rapporto evidenziano chiaramente che, in numero-si aspetti, le imprese più grandi, e più articolate sotto il profilo organizzativo (ad esempio le imprese aventi natura giuridica di tipo societario) sono più dinamiche nel riorganizzarsi in vista di obiettivi di sviluppo competitivo. I motivi sono numerosi. In primo luogo, poiché le attività di formazione sono finanziate in misura prepon-derante dalle risorse proprie delle imprese, le unità produttive più grandi hanno normalmente maggiori mezzi a disposizione per investire in tal senso. Inoltre, le imprese più grandi, normalmente, sono anche quelle che si confrontano in modo più sistematico con la concorrenza internazionale, proiettandosi al di fuori dei baci-ni di mercato puramente localistici, che invece sono spesso l’unico riferimento per le imprese più piccole, e il fatto di operare su una scala di competizione più ampia richiede maggiori competenze e “modus operandi” più complessi e sofisticati. E quindi una maggiore competenza da parte del personale aziendale.

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tabella 6 Percentuali di imprese manifatturiere che hanno investito in formazione professionale nel 2007

e nel 2008 per classe dimensionale di addetti 2007 2008 Fino a 50 51-250 Oltre 250 Fino a 50 51-250 Oltre 250Basilicata 14,3% 70,6% 66,4% 18,8% 22,8% 66,4%Calabria 11,6% 46,7% - 11,7% 16,5% -Campania 22,9% 46,0% 90,7% 18,6% 46,0% 13,9%Puglia 24.5% 55.8% 40.3% 19.2% 40.6% 40.3%Sicilia 42,1 51,6 50,9 43,1 43,3 38,8Fonte: elaborazione SRM-OBI

Un’altra variabile che incide sulla capacità di elaborare strategie organizzative efficaci è costituita dall’età media del gruppo dirigente. Laddove i gruppi dirigenti delle imprese sono più giovani, l’attenzione verso lo sviluppo delle risorse umane è maggiore, così come anche la tendenza ad operare interventi di riorganizzazione incisivi. A puro titolo di esempio, in Basilicata, la propensione ad effettuare inve-stimenti in formazione professionale nelle imprese manifatturiere è del 41,6% nel 2007 e del 44,8% nel 2008 per le imprese gestite da gruppi dirigenti la cui età media non supera i 40 anni, mentre è del 7,1% e del 6,1% rispettivamente nel caso di grup-pi dirigenti ultracinquantenni. In Puglia, le imprese manifatturiere che effettuano le attività di pianificazione strategica in forma sporadica e non partecipativa, cioè senza coinvolgere l’intera organizzazione interna, nella classe gestita da dirigenti di età compresa fra i 25 ed i 40 anni sono pari al 59,3% del totale, mentre crescono fino al 75,4% (con punte dell’89,1% nell’ICT) nell’ambito delle imprese gestite da dirigenti ultracinquantenni. Il risultato è di semplice interpretazione: i gruppi diri-genti più anziani preferiscono detenere in prima persona il potere di pianificare la strategia e non avvertono la necessità di discutere i piani con i collaboratori e con i lavoratori. Di conseguenza, non avvertono nemmeno l’esigenza di pianificare lo sviluppo professionale del personale aziendale, tralasciando sistematicamente gli investimenti in formazione.

3. La leva degli investimenti

Accanto allo sviluppo organizzativo e delle risorse umane, le imprese, per poter implementare un modello di competizione efficace, devono fare investimenti anche negli altri assets (capitale fisso e beni immateriali diversi dal capitale umano, quali l’innovazione, la qualità, la comunicazione, il marketing) necessari per formare il mix competitivo vincente sui mercati. La propensione ad investire diventa quindi un elemento essenziale di misurazione dell’effettività di un percorso di sviluppo competitivo. Da questo punto di vista, in tutte le regioni indagate, la percentuale di imprese che hanno effettuato investimenti nel 2006-2007 o che li effettueranno

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nel corso del 2008 è sistematicamente inferiore al 50% del totale. In altri termini, più della metà del sistema produttivo del Sud è tagliata fuori da processi effettivi di sviluppo competitivo, che possono essere messi in piedi solamente tramite la leva degli investimenti.

Inoltre, in tutte le regioni ed i comparti produttivi esaminati, la tendenza per il 2008 è quella di ridurre ulteriormente il livello di investimenti, evidentemente a causa di un clima di aspettative che si va facendo sempre più pessimistico, in ragione dell’incombente crisi economica globale che sta esplodendo in tutta la sua ampiezza proprio in questi ultimi mesi.

Vi sono infine situazioni regionali particolarmente delicate, come quelle della Calabria, in cui la propensione all’investimento tende spesso a scendere sotto il 20% mentre la Sicilia e, in misura minore, la Puglia, pur non raggiungendo percentuali ottimali, riescono comunque ad avere un approccio verso gli investimenti più diffu-so di altre regioni. Non vi sono particolari situazioni settoriali da segnalare, anche se il comparto delle costruzioni, in Basilicata, Sicilia e Puglia mostra una certa prevalenza verso un maggiore impegno in termini di investimenti, il che, in una fase imminente di crisi economica, è particolarmente significativo, considerando il carattere fortemente prociclico che il settore edile riveste.

tabella 7 Percentuali di imprese che hanno effettuato investimenti

nel 2006-2007 o che prevedono di farlo nel 2008 Manifatturiero Costruzioni ICT TurismoBasilicata 2007 22,6% 43,3% 32,5% 32,7%Basilicata 2008 19,5 38,5 17,5 18,6Calabria 2007 18,0 15,0 18,0 20,0Calabria 2008 13,7 10,8 9,0 19,6Campania 2007 33,3 19,8 27,5 30,4Campania 2008 19,2 9,5 18,1 24,3Puglia 2007 29,6 36,0 34,8 29,8Puglia 2008 19,4 14,1 27,7 27,4Sicilia 2007 40,4 44,3 44,3 41,5Sicilia 2008 31,0 28,3 27,5 25,1Fonte: elaborazione SRM-OBI

Proprio nel campo degli investimenti, si riscontra poi con tutta evidenza il duali-smo, già notato in materia di politiche per il personale, fra una piccola minoranza di imprese particolarmente dinamiche e il resto del tessuto produttivo. Infatti, nell’am-bito delle imprese investitrici, l’incidenza dei costi di investimento sul fatturato totale tende, in genere, a raggiungere percentuali interessanti, che mostrano quindi la volontà di mettere in piedi sforzi significativi. Ad esempio, in funzione dei diversi comparti produttivi e delle diverse annualità, si va dal 17,2% del fatturato fino al 23,9% in Sicilia, oppure dal 14,7% al 24,8% della Calabria o ancora dal 14,3% al 21,2% in Puglia. Quindi, le poche imprese che investono lo fanno in misura gene-ralmente abbastanza significativa, ampliando così ulteriormente il gap che le separa

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dal resto del sistema produttivo meridionale, che invece è in forte affanno. In genere, le imprese investitrici hanno queste due caratteristiche:

Tendono ad essere imprese medio-grandi. Nel manifatturiero lucano, la per-• centuale di imprese investitrici passa dal 25,6% per le imprese con meno di 50 addetti al 77,6% per quelle con più di 250. In Puglia, si va dal 27,1% al 56,7%, in Sicilia dal 39,4% al 45,7%, e così via per tutte le altre regioni. Evidentemente, le imprese di maggiori dimensioni hanno maggiori risorse finanziarie e patrimo-niali per investire con mezzi propri, o per ottenere il necessario credito bancario, ed hanno anche una maggiore consapevolezza dell’esigenza di investire, poiché si confrontano con una concorrenza su scala globale, e quindi più dura, e non meramente locale, come le imprese più piccole;Tendono ad essere imprese che adottano strategie competitive • integrate, cioè che investono su tutti i fattori rilevanti della competitività, dal capitale umano, all’innovazione, alla qualità totale, all’internazionalizzazione. Con riferimento esemplificativo alla Basilicata, infatti, il 24% delle imprese manifatturiere che hanno investito nel 2006-2007 hanno anche esportato, a fronte di un più modesto 15,6% per le imprese non investitrici. Ancora, il 23% di chi innoverà nel 2008, esporterà nel medesimo anno, a fronte del 14,7% di chi non innoverà. Il 18,8% delle imprese manifatturiere che hanno fatto formazione professionale ai propri addetti hanno anche innovato, a fronte di un molto più modesto 6,1% per le imprese che non hanno fatto investimenti formativi. In effetti, una analisi più dettagliata degli obiettivi degli investimenti effettuati

mostra come le poche imprese di eccellenza, che hanno potuto e voluto investire, adottino approcci strategici evoluti, tipici del Nuovo Paradigma Competitivo. Gli investimenti dedicati al mero contenimento dei costi di produzione sono infatti minoritari ovunque, mentre la propensione ad investire in qualità è nettamente pre-valente, specie in regioni come la Sicilia e la Calabria. Interessante anche la discreta percentuale di imprese campane che hanno investito in sponsorizzazione di eventi culturali o benefici, un fatto del tutto isolato nel Mezzogiorno, e che invece assu-me, in termini di marketing dell’immagine aziendale presso i potenziali clienti, una valenza molto importante.

In generale, quindi, il dualismo fra imprese dinamiche e non dinamiche che si riscontra nel Mezzogiorno non è misurabile soltanto in forma quantitativa, ovvero tramite la percentuale generica di imprese che investono, ma anche in forma quali-tativa, perché queste imprese investitrici tendono a fare scelte di strategia aziendale improntate alla qualità ed alla comunicazione, superando quindi approcci obsoleti di competitività dal lato dei costi, oramai non più sostenibili, per quanto già detto in premessa.

A tale quadro di dinamismo che caratterizza una minoranza di imprese di eccel-lenza manca però un ingrediente molto importante, in considerazione del crescente costo energetico che le imprese devono pagare nell’attuale situazione. La sensibilità

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verso gli investimenti in efficienza energetica è infatti ancora modesta. Tali investi-menti, nel 2006-2007 vengono effettuati solo dal 9,5% delle imprese manifatturiere lucane, dal 16,4% di quelle campane, dall’11,6% di quelle calabresi, dal 12,3% di quelle pugliesi e, infine, dal 14,1% delle imprese manifatturiere siciliane. La buona notizia su tale fronte è che tale propensione tende ovunque a crescere nel 2008, evidentemente in considerazione di una maggiore presa di coscienza del peso della bolletta energetica sui conti aziendali.

tabella 8 Obiettivi perseguiti dalle imprese manifatturiere che hanno investito, valori %, risposte multiple Basilicata Calabria Campania Puglia SiciliaContenimento dei costi di produzione 29,0% 30,3% 11,6% 24,9% 35,5Miglioramento della qualita dei prodotti 52,1% 70,9% 61,6% 55,7% 74,4Aumento delle quantità prodotte 33,9% 46,6% 24,6% 29,8% 45,6Adeguamento a norme di tutela ambientale 10,9% 6,7% 17,6% 11,1% 21,6Adeguamento agli standard di settore 19,7% 17,2% 44,9% 18,4% 36,9Certificazione di qualità 25,2% 9,9% 11,6% 15,5% 15,3Sponsorizzazione eventi e manifestazioni culturali/benefiche 3,0% 1,6% 12,5% 5,6% 5,5

Altro 3,9% 7,9% 4,6% 8,5Non indica 1,5% - 13,0% 4,5% -

Fonte: elaborazione SRM-OBI

La forte dicotomia tra imprese dinamiche e non dinamiche è spiegata anche dalle caratteristiche delle fonti di provvista finanziaria per gli investimenti. Infatti, ciò che emerge principalmente è che le imprese tendono a finanziare i propri investimenti prevalentemente tramite le proprie capacità interne di autofinanziamento, e che quando vogliono ricorrere a canali esterni utilizzano con una frequenza apprezzabi-le il solo leasing. Il credito bancario, specie quello a breve termine, è utilizzato in modo piuttosto sporadico, e pressoché nullo è il ricorso a finanziamenti agevolati pubblici (tranne il caso della sola Sicilia). Gli strumenti di finanza innovativa (ven-ture capital, partecipazione al rischio) sono praticamente inesistenti.

In sistemi produttivi costituiti prevalentemente da piccole e piccolissime impre-se, con livelli di capitalizzazione interna molto modesti, in una fase congiunturale difficile, ai bordi di una grave recessione produttiva e di mercato, non possono esse-re numerose le imprese che hanno un cash flow ed un patrimonio sufficienti, da un lato, ad autofinanziare programmi di investimento significativi, e dall’altro, a fornire sufficienti garanzie reali per ottenere credito bancario. Tra l’altro, a partire dalla metà del 2008, a causa dell’aggravarsi della crisi finanziaria già in atto dall’estate del 2007, è probabile che molti istituti di credito abbiano adottato criteri maggior-mente restrittivi negli affidamenti, richiedendo anche il rientro, ad iniziare dai fidi per cassa o a breve termine. Ciò complica ulteriormente la situazione delle imprese che hanno esigenza di investire per poter rimanere sulla linea della competitività.

Tra l’altro, il canale tradizionale degli incentivi pubblici, che normalmente, nel

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Mezzogiorno, garantisce una funzione (seppur poco commendevole in termini di qualità dello sviluppo) di sostituzione rispetto al credito bancario di mercato, nel periodo preso in considerazione dalla presente indagine ha subito un vero e proprio tracollo, sia per i ritardi di approvazione comunitaria della nuova carta regionale degli aiuti di Stato per il 2007-2013 (approvata solo a Dicembre 2007) che ha ovviamente bloccato tutti i nuovi bandi, sia per il fatto che i bandi dei nuovi POR regionali, in genere, non sono ancora partiti.

La carenza di strumenti di finanza innovativa e di partecipazione al rischio penalizza in misura particolarmente grave gli investimenti in innovazione, poiché tali investimenti presentano profili di rischiosità e tempi di rientro particolarmente penalizzanti, e richiederebbero quindi un sistema finanziario diverso dal credito tradizionale, che oggi, nel Mezzogiorno come nel resto d’Italia, è quasi inesistente (anche perché la modestissima propensione ad innovare delle PMI, specie nel Sud, fa sì che la domanda per tali strumenti sia anche essa piuttosto modesta; vi è da dire infatti che i principali istituti di credito prevedono quasi sempre, ne loro portafoglio, strumenti creditizi di partecipazione al rischio, come il venture capital o il mezzani-ne financing; quello che manca in realtà è un importante fondo di partecipazione al rischio di tipo pubblico, preferibilmente con massa critica adeguata, e quindi gestito su base nazionale e non locale).

L’impostazione prevalentemente tradizionale ed accentrata delle imprese, e lo scarso livello di sviluppo di gruppi imprenditoriali veri e propri, determina anche l’ esiguità dei prestiti interaziendali o intragruppo. Gli assetti sociali molto elementari, che nella maggioranza dei casi degradano verso le forme giuridiche non societarie, fanno sì che gli apporti dei soci siano una modalità molto rara di finanziamento.

Il leasing, per finire, è senz’altro uno strumento comodo, specie in congiunture economiche caratterizzate da grande incertezza, perché consente, a fine periodo, di scegliere se riscattare o meno il bene, spostando quindi la decisione finale in avanti nel tempo. Tuttavia, tale modalità è adeguata esclusivamente all’acquisizione di beni materiali e di capitale fisso, e non per gli investimenti di tipo immateriale.

Con una simile struttura delle fonti di finanziamento, non vi è da stupirsi se gran parte del tessuto produttivo, in particolare di quello minore, sia tagliato fuori dalla possibilità di fare investimenti e di promuovere innovazione.

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tabella 9 Struttura delle fonti di copertura degli investimenti delle imprese manifatturiere,

valori %, risposte multiple Basilicata Calabria Campania Puglia SiciliaApporto di capitale di rischio da nuovi soci 1,3% 0,5% 0,5% 1,7% 4,3

Apporto di capitale di rischio da fondi di venture capital 1,2% - - 0,4% 1,1

Autofinanziamento 60,9% 57,2% 55,7% 52,8% 63,0Credito bancario a breve 11,2% 7,2% 10,5% 9,1% 15,2Credito bancario a medio-lungo termine a tasso di mercato 14,4% 6,7% 6,1% 13,0% 22,3

Credito bancario a medio-lungo termine a tasso agevolato 8,2% 9,1% 11,4% 8,6% 15,7

Contributi pubblici 2,8% 1,7% 3,2% 2,1% 23,4Agevolazioni fiscali 8,4% 15,2% 13,0% 9,9% 8,6Leasing 24,3% 27,3% 42,8% 23,7% 21,0Prestiti concessi da altre imprese 1,2% 0,6% - 0,6% 0,7Altro 5,8% 9,4% 2,7% 5,3% -Non indica 1,7% 2,5% 6,3% 10,8% -Fonte: elaborazione SRM-OBI

4. L’innovazione

Come già specificato, un elemento fondamentale di un modello competitivo moderno, accanto alla gestione organizzativa e dallo sviluppo delle risorse umane ed all’utilizzazione efficace della leva degli investimenti, è rappresentato dalla capacità di introdurre innovazioni tecnologiche ed organizzative in continuo, o perlomeno in linea con le tendenze concorrenziali del proprio settore di appartenenza. Sempre più, persino nei settori tradizionali dell’economia, quelli che a prima vista non dovrebbe-ro utilizzare l’innovazione come leva competitiva, tale elemento entra come forma di miglioramento della qualità del prodotto e viene anche utilizzato come fattore distintivo nelle strategie di comunicazione e marketing.

Il nesso esistente fra innovazione e competitività a livello microeconomico è messo chiaramente in luce da J. Cantwell (2003)8, secondo cui i vantaggi compe-titivi di una impresa derivano essenzialmente dalla conoscenza cumulativa e diffe-renziata accumulata rispetto ai concorrenti. Ciò influenza sia la capacità di percepire opportunità di crescita nell’ambiente di mercato esterno, che i concorrenti a minor grado di competenze non percepiscono, sia il livello dei costi unitari e della curva di domanda ad un dato tasso di crescita, e facilita l’ingresso in linee di prodotto ed opportunità di business nuove e non correlate con le produzioni esistenti.

Il lavoro di Cantwell e Sanna-Randaccio (1993)9 analizza i fattori statisticamente significativi che hanno determinato tassi di crescita comparativi più elevati fra le più

8 Handbook for innovation, a cura di J. Fabergerg, R. R. Nelson, D. C. Mowery, Oxford University Press, 2003, capitolo 21

9 “Multinationality and firm growth”, in Weltwirtschaftliches Archiv, n.19/1993, pagg. 275-299

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grandi imprese internazionali negli anni 1972-1982, e variabili quali la competitività tecnologica specifica dell’impresa e la crescita delle opportunità tecnologiche del settore di riferimento sono fra le più significative.

Tale letteratura si inserisce in un filone di letteratura lunghissimo, che correla la capacità innovativa con il territorio. Già François Perroux (1955 e 1961) sottolinea il ruolo determinante dell’impresa motrice e dei meccanismi di induzione economica, anche di natura tecnologica, sul territorio successivamente modellizzati nell’ambito della teoria della causazione circolare cumulativa (Myrdal, 1958). Ma sono soprat-tutto i lavori della cosiddetta scuola evoluzionista dell’innovazione che sottolineano il processo cumulativo dell’innovazione attraverso modalità di apprendimento pro-gressivo che portano all’emergere di innovazioni incrementali (Doss et al., 1988). L’innovazione tecnologica si radica sul territorio attraverso l’intervento di istituzioni specifiche che determinano la costituzione di sistemi innovativi regionali (Gaffard, 1992; Bureth-Llerena, 1993; Asheim, 1999). Lo sviluppo economico del territorio diviene path dependent.

Due sono stati, in particolare, i filoni analitici che hanno sviluppato la questione del rapporto fra innovazione e sviluppo dei poli produttivi territoriali: l’analisi del distretto tecnologico (Antonelli, 1986) e l’analisi del milieu innovateur effettuata dagli economisti del GREMI (Groupe de Recherche Europeen sur les Milieux Inno-vateurs), a partire dal contributi di Aàdalot e Perrin (Aàdalot, 1986; Perrin, 1989). Nel distretto tecnologico il processo di cambiamento tecnologico è favorito dalle relazioni tra le imprese e dalla loro prossimità, sottolineando quindi il ruolo delle economie esterne. La nozione di milieu innovateur consente di fornire una visione territorializzata dell’innovazione: l’innovazione è opera di un milieu locale, e il frutto della capacità inventiva del milieu e risponde alle esigenze di sviluppo locale (Maillat, Perrin, 1992). In particolare, il concetto di milieu innovateur e le comples-se relazioni che intrattiene con l’impresa motrice di uno sviluppo basato sulla tec-nologia, relazioni che costituiscono e definiscono il milieu stesso, può riassumersi graficamente come segue:

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FIGuRa 1Milieu innovateur e

relazioni con imprese motrici di sviluppo basato sulla tecnologia

Aziende e cluster

Sistema Scientifico

Istituzioni e P.A.

Strutture di

trasferimento

tecnologico

Capacità innovativa regionale

Performance regione

Mercato dei fattori produttivi

Infrastrutture ICT

Contesto macroeconomico e regolatorio

Sistemi educativi e formativi

Mercato dei prodotti

finiti/concorrenza

Fonte: Freeman-OCSE

Le nozioni di distretto tecnologico e di milieu innovateur vanno in direzione della creazione di reti di relazione fra gli attori locali, con il sistema delle imprese che costituisce il cuore di tale rete. Esse riconoscono l’importanza delle esternalità che operano al di fuori del mercato e degli effetti di prossimità spaziale nei processi di innovazione tecnologica (Courlet-Soulage, 1995)10.

Rispetto a tale fattore, così importante per lo sviluppo competitivo delle singole imprese e dei territori sui quali esse insistono, la propensione all’innovazione delle imprese nelle regioni osservate è molto modesta (soprattutto in considerazione del fatto che si considera una definizione molto ampia del concetto di innovazione, che abbraccia anche l’innovazione meramente organizzativa e gestionale) e, spesso, anche decrescente fra 2006-2007 e 2008. colpisce in particolare la diffusione molto modesta dell’innovazione nel comparto dei servizi avanzati che invece, in genere, rappresenta uno dei motori propulsivi dell’innovazione tecnologica nei sistemi eco-nomici attuali. Evidentemente, le imprese dell’ICT di molte regioni del Mezzogiorno

10 Il presente paragrafo è stato parzialmente ripreso da uno scritto di G. Garofoli.

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(in particolare Basilicata e Calabria) sono meri terminali produttivi o commerciali di gruppi le cui case-madri, con le funzioni di R&S, sono localizzate altrove.

Come già evidenziato in sede di analisi degli investimenti, spicca invece il dinamismo delle imprese siciliane che, nella maggior parte dei settori considerati, esibiscono alte percentuali di imprese innovatrici, ed addirittura, in controtendenza rispetto ad un andamento generalizzato, nei comparti secondari evidenziano una crescita della propensione ad innovare fra 2006-2007 e 2008: è il caso del comparto edile, in cui le imprese innovatrici raggiungono il 17,5% del totale nel 2008, ma anche di settori come la meccanica e mezzi di trasporto nel 2006-2007 (21,2%) e l’industria di base nel 2008 (23,1%). Anche l’ICT dell’isola mette in luce un dina-mismo innovativo superiore rispetto alle altre regioni. Si tratta di risultati assolu-tamente di eccellenza, se paragonati alle altre regioni, anche se, in assoluto, sono comunque insufficienti a promuovere forme diffuse di adeguamento competitivo dell’intero tessuto produttivo regionale. La Puglia sembra essere la seconda regione del gruppo per capacità di innovazione grazie alla sua industria manifatturiera ed in particolare al tentativo forte del comparto dei beni tradizionali di consumo di adotta-re forme di sviluppo di tipo innovativo, ma comunque la regione si colloca in posi-zione nettamente staccata rispetto alla Sicilia. Segue la Campania, particolarmente dinamica nell’innovazione delle imprese dei servizi avanzati, mentre Basilicata e, soprattutto, Calabria, si collocano nello scalino più basso.

tabella 10 Imprese che hanno innovato nel 2006-2007 o che prevedono di innovare nel 2008, valori %

Manifatturiero Costruzioni ICT Turismo 2006-2007Basilicata 8,4 4,8 1,3 5,2Calabria 3,9 0,8 3,0 6,2Campania 6,8 1,8 7,2 4,8Puglia 9,8 1,5 0,5 2,5Sicilia 18,7 14,4 15,2 8,7 2008Basilicata 11,4 4,8 1,3 6,2Calabria 2,2 0,4 0,9 7,4Campania 4,4 0,0 5,3 2,4Puglia 10,3 1,5 0,5 3,4Sicilia 21,0 17,5 13,0 6,9Fonte: elaborazione SRM-OBI

L’analisi dell’innovazione per classe dimensionale di imprese fornisce risultati interessanti e, per certi versi, sorprendenti. In linea teorica, dato l’elevato costo, sia in termini di capitali che di risorse umane, che le imprese devono sostenere per innovare, ci si aspetterebbe che la componente dimensionale giochi un ruolo fondamentale nel determinare la propensione all’innovazione, in linea peraltro con le teorie prevalenti dell’innovazione, come quella di Schumpeter, che assegna alla grande imprese il ruolo propulsivo principale. Invece, in numerose regioni le impre-

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se che più sono propense ad introdurre innovazione sono le medie ed a volte anche le piccole. Così è ad esempio in Puglia, dove la percentuale maggiore di propensione all’innovazione nel manifatturiero, 18,8%, si riscontra nelle imprese con un fatturato tra 1 e 3 milioni di euro, mentre le imprese con la minor propensione sono quelle con un fatturato oltre i 10 milioni di euro: 2,9%. Anche in Sicilia si riscontra un comportamento analogo: le imprese di medio-piccole dimensioni e quelle costituite come società di persone, sono quelle più inclini all’innovazione, mentre le imprese più grandi sono quelle più refrattarie ad introdurre forme di cambiamento nell’atti-vità aziendale. Nel manifatturiero, ad esempio, innova il 19% delle imprese fino a 50 addetti, in crescita fino al 23,5% nel 2008, a fronte di un 10,4% per le imprese con più di 250 addetti, che arriva fino al 14,1% nel 2008. Ancora, in Basilicata, le imprese manifatturiere che innovano più frequentemente sono quelle di medie dimensioni: è la classe di fatturato annuo compresa fra i 3 ed i 5 milioni di euro ad innovare maggiormente (36,3%), mentre particolarmente modesta risulta essere la quota di imprese innovatrici nelle classi inferiori (meno di 500.000 euro, 5,9%) ma, soprattutto, in quella superiore (oltre i 10 milioni di euro, 4,2%).

Vi può essere una spiegazione a tale peculiarità. Da un lato, le grandi imprese presenti nel Mezzogiorno sono, molto spesso, costituite da stabilimenti di sola pro-duzione appartenenti a grandi gruppi industriali del Centro Nord o stranieri, disloca-tisi nel Mezzogiorno soprattutto nella fase dell’intervento straordinario e dei primi bandi della legge 488/92, grazie ai cospicui benefici finanziari messi a disposizione da tali interventi a favore del mero allargamento della base produttiva e della crea-zione di occupazione essenzialmente di tipo operaio. Tali gruppi industriali hanno le funzioni strategiche di progettazione e R&S ubicate lontano dal Sud, in corri-spondenza con le sedi delle relative case-madri, e quindi non generano innovazione sui territori del Mezzogiorno di localizzazione produttiva. D’altra parte, le imprese di medie dimensioni sono, come già notato sistematicamente in tutte le precedenti edizioni del presente rapporto, e come confermato anche da altre analisi economiche territoriali (cfr. il concetto di “ceto medio imprenditoriale” elaborato dal Rapporto 2007 sulle PMI di Unioncamere-Istituto Tagliacarne) una fascia particolarmente dinamica in direzione dell’implementazione del nuovo paradigma competitivo. Infatti, tali imprese riescono a coniugare la flessibilità operativa tipica delle unità produttive minori con alcune capacità di realizzare economie di scala e di scopo tipi-che delle imprese più grandi, e quindi sembrano possedere la configurazione dimen-sionale più adeguata a realizzare progressi competitivi. Inoltre, spesso tale categoria è costruita da piccole imprese particolarmente dinamiche che hanno sperimentato percorsi di crescita dimensionale, e quindi sono delle “success stories”.

Particolarmente interessante risulta essere l‘analisi dei canali attraverso i quali è transitata l’innovazione dei sistemi imprenditoriali meridionali. L’impressione generale che se ne ricava è che i processi innovativi tendono, in prevalenza, a non valorizzare nessuna di quelle reti di relazioni che, come detto dianzi, definiscono un

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“milieu innovateur”. La ricerca collaborativa, sia con il sistema della ricerca pub-blica che con altre imprese o networks di tipo distrettuale, è molto sporadica e, nel caso della Calabria, tende ad essere praticamente inesistente (mentre, sul versante opposto, fra le imprese pugliesi emerge una certa propensione a collaborare con altre imprese, ed in Sicilia si registra una diffusione di rapporti con il sistema della ricerca pubblica che, sebbene del tutto insufficiente in assoluto, è superiore rispetto alle altre regioni. Da registrare anche la buona propensione delle imprese campane ad effettuare progetti di innovazione tecnologica nell’ambito, e con la collaborazio-ne, di reti distrettuali, anche in virtù della peculiare organizzazione produttiva di tale regione, in cui sono presenti numerosi distretti industriali, anche riconosciuti e beneficiari di interventi pubblici di sostegno).

Le imprese, in larga maggioranza, hanno invece tendenza a sviluppare attività di ricerca ed innovazione esclusivamente all’interno delle mura aziendali, in una forma autarchica che ben si coniuga con la frammentazione di una parte rilevante del tessuto imprenditoriale del Sud, specie di quello minore. E’ evidente la povertà creativa di un simile modello di innovazione, che fa affidamento esclusivamente sulle risorse interne all’impresa, e non valorizza le idee, le risorse e gli stimoli che potrebbero provenire dall’ambiente in cui l’impresa stessa opera. Ancora una volta, le imprese meridionali tendono a non attivare, sistematicamente, le sinergie che sono invece essenziali per poter rimanere sulla frontiera dello sviluppo tecnologico e quindi competitivo.

Tale tendenza si fa ancora più grave in considerazione del fatto che la maggior parte delle imprese intervistate, non solo trascura le risorse ambientali, ma tende anche a non valorizzare le stesse risorse organizzative ed umane interne. Infatti, nella grande maggioranza dei casi, le imprese manifatturiere intervistate (ovvero quelle fra le quali si verifica generalmente la più diffusa propensione ad innovare) si affidano, in fase di ideazione e progettazione preliminare di una innovazione, sulla sola figura dell’imprenditore-titolare, senza coinvolgimento e supporto da parte del resto della struttura organizzativa. Ciò impoverisce ulteriormente il processo innovativo di gran parte delle imprese, mantiene la struttura organizzativa in un condizione permanente di demotivazione e non appare essere la modalità adatta ad attivare forme di sviluppo tecnologico ed organizzativo.

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GRaFICo 3Percentuali di imprese manifatturiere che si affidano al solo imprenditore-titolare

per l’ideazione di innovazioni

72,7

65,6

74,7

70,6

71,5

60

62

64

66

68

70

72

74

76

Basilicata Calabria Campania Puglia Sicilia

Fonte: elaborazione SRM-OBI

L’insufficienza di legami con il sistema della ricerca pubblica, che contribuisce a realizzare tale modello autarchico del tutto distorto, dipende evidentemente da fattori strutturali comuni a tutto il sistema-Paese, che risultano però più incisivi nel Sud. Vi è, come dato generale, un differenziale culturale e motivazionale fra la ricerca pubblica, che è finalizzata ad un incremento dei saperi e delle conoscenze, e quella privata, che invece è finalizzata ad obiettivi commerciali. Ma tale differenzia-le, che esiste in ogni sistema territoriale del mondo, non è sufficiente a spiegare la peculiare insufficienza di reti di collaborazione fra ricerca pubblica ed imprese, che esiste soprattutto nel Mezzogiorno. Il problema deriva, in larga misura, da un siste-ma della ricerca pubblica che, a scapito delle numerose riforme fatte negli ultimi anni, rimane ancora sostanzialmente autoreferenziale, perché i meccanismi di car-riera accademica, nel migliore dei casi, rimangono ancorati a logiche non orientate al mercato. Inoltre, il sistema di finanziamento delle università pubbliche, ancora basato sul numero di studenti più che sulla qualità della ricerca di base ed applicata, trascura il canale potenziale dei contratti di ricerca affidati da imprese. Ciò anche perché prevale ancora una modalità informale di rapporto fra imprese e mondo accademico, basata sull’incarico consulenziale “ad personam” al singolo professore o ricercatore, piuttosto che l’instaurazione di una relazione strutturata con il sistema della ricerca pubblica nel suo insieme. Tra l’altro, le imprese meridionali, specie le più piccole, hanno spesso una modesta conoscenza delle dinamiche innovative

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esistenti nel proprio settore di appartenenza, e della rilevanza di queste in termini di redditività, e quindi non riescono a valutare correttamente l’utilità di medio e lungo periodo di una collaborazione sistematica con l’ambiente scientifico esterno, o con altre imprese potenzialmente partners.

D’altro lato, va rilevata l’importanza assunta dall’acquisizione di innovazione per il tramite dei fornitori specializzati di macchinari ed attrezzature produttive. Anche questa è, in larga misura, una distorsione che impoverisce i processi inno-vativi complessivi. Infatti, in tale modalità di acquisizione di innovazione, il know how relativo al nuovo macchinario acquistato rimane in capo all’azienda fornitrice, e non vi è alcun incremento di competenze per l’impresa utilizzatrice. A ben vedere, tale caratteristica del processo innovativo, guidato dall’esterno, è tipica della natura di sub fornitori di molte delle imprese manifatturiere del Mezzogiorno. Infatti, il committente può anche spesso fornire gli strumenti di produzione al suo fornitore, rimanendo quindi titolare di tutto il know how riferito al processo produttivo. Ciò impedisce quindi all’utilizzatore del macchinario di uscire da un circuito di sub for-nitura spesso penalizzante per qualsiasi prospettiva di sviluppo dell’azienda.

tabella 11 Modalità di effettuazione delle attività di ricerca ed innovazione

nelle imprese manifatturiere, valori %, risposte multiple Basilicata Calabria Campania Puglia SiciliaRicerca e Sviluppo all interno dell azienda 68,0 54,9 34,6 54,3 43,2

Ricerca in collaborazione con Universita o enti pubblici di ricerca

9,6 - 8,7 9,6 13,3

Ricerca in collaborazione con altre imprese 9,6 - 6,4 13,5 5,6

Progetti sviluppati attraverso la partecipazione a Distretti 1,0 0,8 20,6 6,4 3,0

Acquisto di brevetti/licenze tecnologiche 8,0 3,6 11,0 2,7 2,1

Acquisto di macchinari/proce-dure avanzate 39,7 34,9 70,3 22,3 16,1

Altro - - - 3,1Non indica 2,1 - - - 13,5

Fonte: elaborazione SRM-OBI

Non vi è quindi da stupirsi se un simile modello di innovazione, basato su schemi autoreferenziali, scarse connessioni di rete, sottoutilizzazione delle risorse umane aziendali, dominazione da fonti di conoscenza esterne (anziché collaborazione alla pari con tali fonti), dia risposte, in termini di competitività, generalmente poco signi-ficative, specie sui mercati esteri. Con l’unica differenza di Sicilia e Campania, che, come si è visto, nell’ambito del gruppo delle regioni indagate, hanno i sistemi pro-duttivi relativamente più propensi ad effettuare ricerca ed innovazione con modalità cooperative, in tutti gli altri sistemi produttivi regionali analizzati la percentuale di imprese che percepiscono un miglioramento competitivo in ragione dell’innovazio-

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ne introdotta sono minoritari. Particolarmente basse risultano essere le percentuali di imprese che hanno riscontrato miglioramenti competitivi sui mercati esteri, a dimo-strazione della notevole difficoltà che gran parte del tessuto imprenditoriale meri-dionale incontra quando intende affrontare la sfida dell’internazionalizzazione11.

È significativo notare che i sistemi manifatturieri che sperimentano i progressi competitivi più evidenti (in primo luogo l’industria manifatturiera siciliana), sono quelli che appartengono ad ambiti in cui l’investimento in innovazione è più diffuso, ed in cui le modalità di innovazione si affidano maggiormente sull’apporto dell’am-biente scientifico esterno all’impresa (ancora una volta, in Sicilia, dove, come già notato, la propensione delle imprese ad attivare reti con il sistema della ricerca pubblica è la più elevata, nell’ambito delle cinque regioni, o in Campania, dove vi è una buona propensione a attivare progetti collaborativi nell’ambito dei distretti industriali). Il contrario avviene per le regioni dove il modello autoreferenziale nei processi innovativi è più diffuso, o dove gli investimenti in innovazione sono meno frequenti. Vi è quindi una relazione diretta fra intensità dello sforzo innovativo, modalità di conduzione dello stesso e risultati finali, in termini di competitività dell’impresa. Ciò non può che spingere in direzione di politiche che incentivino un maggiore impegno sull’innovazione, ed una intensificazione delle relazioni dirette fra imprese, fra imprese ed università, fra sistemi produttivi territoriali. Tutto ciò vede necessariamente un ruolo propulsivo da parte dell’attore pubblico, nazionale ma anche regionale (perché gran parte di tali legami devono instaurarsi su base territoriale).

È interessante anche la lettura dei motivi secondo i quali, a giudizio delle impre-se, vi sarebbe stato un miglioramento della competitività grazie alle innovazioni introdotte. Con percentuali molto ampie, che vanno dal 53,7% della Calabria ad oltre l’83% nel caso della Sicilia, le imprese hanno sottolineato che il miglioramento competitivo è passato per il tramite di un miglioramento della qualità del prodotto. Quindi, ciò significa che le strategie innovative vincenti sono state orientate, in larga misura, sulla qualità intrinseca (che non significa solo un miglioramento delle prestazioni tecniche del prodotto, ma anche un nuovo e più accattivante design esterno, l’ideazione di nuove funzioni d’uso, il potenziamento delle funzioni di ser-vizio collegate al prodotto, come ad esempio l’assistenza “after sale”, la maggior cortesia/disponibilità del personale di vendita, ecc.). D’altra parte, come si ricorderà, anche gli obiettivi primari delle attività di investimento sono stati orientati verso la qualità. Quindi, si conferma che, per un sistema produttivo come il nostro, con l’immagine del “made in Italy” che è ancora vincente sui mercati, la ricerca conti-nua di una migliore qualità costituisce una vera priorità, molto più che la ricerca di

11 Va comunque detto che, poiché i risultati competitivi di programmi di investimento in innovazio-ne si manifestano generalmente su orizzonti temporali medio-lunghi, è anche possibile che le imprese intervistate sottovalutino gli effetti potenziali di innovazioni introdotte di recente (nel 2006-2007 o nel 2008).

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modelli produttivi “poveri” di contenuti, orientati al solo risparmio dei costi. Di ciò le imprese intervistate sembrano perfettamente consapevoli, il che è ovviamente un segnale positivo.

D’altra parte, la ricerca di una migliore qualità implica anche un progresso dell’intera organizzazione aziendale e delle caratteristiche del suo capitale umano. Infatti, il secondo motivo per il quale l’innovazione ha garantito un maggiore suc-cesso sui mercati, secondo le imprese intervistate, è che essa ha consentito di miglio-rare la qualità del capitale umano aziendale, tramite i necessari riaggiustamenti organizzativi e di competenze professionali che l’introduzione dell’innovazione normalmente implica.

GRaFICo 4Percentuali di imprese manifatturiere che hanno riscontrato miglioramenti della propria competitività in seguito all’introduzione di innovazione nel 2006-2007, sui vari mercati

35,5

41,3

52,9

45,9

72,9

4,8

15,9

34,1

10

22,4

0

10

20

30

40

50

60

70

80

Basilicata Calabria Campania Puglia Sicilia

Mercato nazionale Mercato estero

Fonte: elaborazione SRM-OBI

5. L’internazionalizzazione

Il capitolo relativo all’internazionalizzazione viene analizzato per ultimo, perché in qualche modo riassume e specifica tutte le considerazioni sopra esposte sulle diverse leve della competitività, costituendo la cartina di tornasole dell’effettiva capacità competitiva delle imprese nelle regioni indagate. Il tema della proiezione sui mercati internazionali, in altri termini, costituisce uno dei risultati finali che il modello di competitività adottato consente di raggiungere, e quindi è un indicatore di misurazione dell’efficacia del modello di competitività (cioè del modo particola-

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re in cui una impresa utilizza e combina fra loro le diverse leve della competitività sopra illustrate: organizzazione, capitale umano, investimenti, innovazione).

La correlazione diretta che esiste fra capacità di presidiare i mercati internazio-nali e livello di crescita economica dei sistemi produttivi regionali è evidente dal grafico sotto riportato. Risulta evidente che i cluster che concentrano il maggior numero di casi regionali sono quelli in cui, ad una elevata capacità di internaziona-lizzazione, misurata dal rapporto fra esportazioni e PIL, si coniuga un elevato livello di PIL pro capite, cioè di “crescita acquisita”, nonché quello opposto (bassa apertura sui mercati internazionali e modesto livello di crescita conseguita) che è tipico delle regioni del Mezzogiorno12.

GRaFICo 5Correlazione fra grado di internazionalizzazione commerciale

e livello di crescita economica nelle regioni italiane

12000

17000

22000

27000

32000

37000

0 5 10 15 20 25 30 35

PIL

pro

cap

ite

Grado di apertura

Cal Sic

Cam

Mol

Pug

Sar

Bas

Lig

Umb

Laz

Vdao

TrentAA

Tos

Abr

Mar

Pie

FriVg

EmRo

m

Lom Ven

Alta crescita e bassa apertura

Bassa crescita e bassa apertura

Alta crescita e alta apertura

Bassa crescita e alta apertura

Fonte: elaborazioni SRM-OBI su dati ISTAT

La propensione ad esportare dei sistemi produttivi regionali analizzati, al netto del turismo, le cui dinamiche di internazionalizzazione hanno caratteristiche del tutto peculiari, è caratterizzata da notevoli differenze da regione a regione, sia pure in un contesto in cui le imprese esportatrici rappresentano comunque una minoranza all’interno dei tessuti produttivi locali, quindi in uno scenario generale di insuffi-

12 Fanno eccezione solamente Sicilia e Sardegna, che si collocano in un’area dove il tasso di apertura è elevato ed il grado di crescita è basso. Tuttavia, per tali regioni, il tasso di apertura è reso artificiosamen-te alto dalle importazioni di petrolio ed esportazioni di prodotti petroliferi raffinati, una sorta di “partita di giro” che incrementa i valori del commercio estero, simultaneamente in entrata ed in uscita. Qualora i dati di commercio estero fossero depurati dalla componente petrolifera e petrolchimica, tali regioni rientrerebbero nel medesimo quadrante della altre regioni del Mezzogiorno.

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ciente internazionalizzazione. A fronte di situazioni, come quella della Basilicata e della Calabria, dove la proiezione internazionale del sistema produttivo è partico-larmente modesta, vi sono poi, sull’altro versante, le imprese siciliane e campane, che invece mettono in luce maggiori percentuali di esportazioni, con particolare riferimento al manifatturiero. La Puglia si colloca invece a metà strada fra il gruppo delle economie regionali a più bassa capacità di internazionalizzazione ed il gruppo più dinamico.

Sotto il profilo settoriale, il comparto che tira di più sui mercati esteri è quello dell’industria in senso stretto, mentre le imprese delle costruzioni rimangono pre-valentemente ancorate a logiche di sfruttamento dei mercati degli appalti locali, ed hanno una capacità molto debole e sporadica di partecipare a gare internazionali, che potrebbero invece metterle a riparo dall’imminente crisi del comparto, forte-mente sensibile alle evoluzioni negative della congiuntura internazionale. Tuttavia, nelle regioni più grandi (Sicilia, Campania, Puglia) appare una piccola percentuale di imprese edili internazionalizzate il che, rispetto alle precedenti edizioni del pre-sente osservatorio, costituisce una novità, da tenere sotto controllo per il futuro, per-ché potrebbe essere indicativa di alcuni, sia pur numericamente limitati, processi di sviluppo aziendale. Per finire, le imprese dell’ICT confermano una bassa dinamica esportativa, già notata in passato, anche se alcune performance incoraggianti, come quella delle imprese lucane, lascerebbero anche in questo caso presagire una sia pur limitata crescita della presenza di tali imprese sui mercati esteri.

tabella 12 % di imprese che hanno effettuato attività di esportazione

Manifatturiero Costruzioni ICT2006-2007

Basilicata 17,3 - 10,7Calabria 11,6 - 3,6Campania 44,1 2,6 5,7Puglia 21,8 2,8 5,0Sicilia 42,8 7,2 3,0

2008Basilicata 14,9 - 11,7Calabria 12,5 - 3,6Campania 41,0 2,6 3,8Puglia 22,8 5,3 5Sicilia 41,2 n.d. n.d.

Fonte: elaborazione SRM-OBI

Le imprese che esportano ricavano, da tale attività, una quota di fatturato che, nei sistemi manifatturieri delle diverse regioni indagate, oscillano nell’intervallo del 20-32%. Nell’ICT tali quote scendono ulteriormente, attestandosi fra il 4,1 ed il 7,5%. E’ evidente quindi che l’attività di esportazione, anche per la quota mino-ritaria di imprese che riescono ad andare sui mercati di oltrefrontiera, non riveste ancora una importanza economica primaria. In altri termini, la combinazione fra una

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propensione ad esportare ancora minoritaria (ed anche molto minoritaria, in alcune regioni) ed una quota del fatturato esportato, per la minoranza di imprese interna-zionalizzate, relativamente modesta, segnala come l’economia del Mezzogiorno sia ancora troppo “provinciale”, troppo ancorata a logiche di mercato localistiche, che oramai non sono più adeguate a sostenere processi di sviluppo economico signi-ficativi, ma che, al contrario, mantengono i sistemi produttivi meridionali in una condizione di ritardo di sviluppo.

Dal punto di vista dimensionale, le imprese esportatrici sono prevalentemente quelle medio-grandi e, in numerose situazioni (il dato è più evidente in Campania ed in Sicilia) le imprese di medie dimensioni (con un numero di addetti compreso fra i 50 ed i 250) sono il vero motore dei processi di internazionalizzazione. Ancora una volta, quindi, si riscontra l’effetto positivo esercitato sulle economie regionali del Sud dal “ceto medio” imprenditoriale, purtroppo ancora troppo ridotto nume-ricamente per influenzare in forma significativa i risultati complessivi dei sistemi economici di riferimento. Le medie imprese del Sud sono spesso piccole imprese che hanno avuto successo e sono cresciute dimensionalmente, senza però perdere quei requisiti di reattività e flessibilità rispetto agli andamenti dei mercati tipici delle imprese minori. Si rivelano quindi particolarmente adattabili a rispondere efficace-mente ai cambiamenti che si verificano sui mercati, anche su quelli geograficamente e culturalmente più lontani, e contemporaneamente acquisiscono la scala dimensio-nale ed organizzativa minima per promuovere anche processi di efficienza intera e per poter investire sulla promozione commerciale nei mercati extra-localistici.

Su un andamento non pienamente soddisfacente della capacità di internazionaliz-zazione dei sistemi produttivi regionali del Mezzogiorno pesano, ovviamente, fattori strutturali di carente competitività, che sono ampiamente dibattuti nelle precedenti sezioni, riguardo l’analisi delle principali leve di competitività, ma vi sono altresì fattori di tipo congiunturale a pesare, primo fra i quali l’effetto penalizzante sulla competitività di prezzo dell’euro forte. Il forte e continuo incremento del tasso di cambio dell’euro sul dollaro, che passa da un cambio pari a circa 1,30 dollari per euro nel gennaio 2007 a poco meno di 1,60 nel luglio 2008 (circa +23%) ha avuto effetti penalizzanti sulla competitività di prezzo, a causa del conseguente peggio-ramento delle ragioni di scambio, soprattutto per le imprese industriali lucane e pugliesi e calabresi. Tuttavia, nel complesso delle regioni indagate, gli effetti più penalizzanti, a giudizio degli imprenditori intervistati, si sono scaricati sul costo di acquisto delle materie prime importate, molto più che sul prezzo finale. Ora, a prescindere da effetti di distorsione dei giudizi dati da una tendenza generale nell’opinione pubblica, ma anche fra le imprese, a scaricare sull’euro la colpa di ogni aumento di prezzo a prescindere dal fatto che ciò sia vero o meno, vi è anche un effetto reale, derivante dai mercati petroliferi. Poiché il prezzo del petrolio è deno-minato in dollari, la svalutazione del cambio del dollaro sull’euro ha comportato, come reazione, una restrizione dell’offerta da parte dei produttori stretti nel cartello

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dell’OPEC, al fine di recuperare la perdita di valore derivante dall’effetto di cambio. Tale effetto, per certi versi paradossale, di incremento del prezzo delle materie prime petrolifere indotto dalla svalutazione del dollaro, è stato poi amplificato dai mercati finanziari internazionali, ed in particolare dal mercato dei futures, che ha scontato un incremento del prezzo del petrolio per tutta la prima metà del 2008.

Gli effetti sulla bolletta petrolifera sono stati avvertiti da quasi tutte le imprese, a prescindere dal fatto che tali imprese esportino o meno, mentre quelli sulla compe-titività di prezzo sono stati percepiti prevalentemente, anche se non esclusivamente, dalle imprese esportatrici.

tabella 13 Effetti della rivalutazione dell’euro sul dollaro secondo le imprese manifatturiere

Basilicata Calabria Campania Puglia SiciliaSulla competitività di prezzo

49,9 43,5 41,1 49,6 36,1Sul costo delle materie prime

59,3 63,4 64,3 67,3 65,1Fonte: elaborazione SRM-OBI

Quanto sopra riguarda l’internazionalizzazione di tipo commerciale. Ma vi è anche una componente produttiva nei processi di internazionalizzazione, che passa per il tramite delle strategie di delocalizzazione. Le imprese delocalizzano parti dei propri processi produttivi, tipicamente quelle a minor contenuto di conoscenza e maggior contenuto di lavoro, al fine di trovare le condizioni di costo di produzio-ne più vantaggiose. Ma delocalizzano anche per realizzare una presenza diretta su mercati di particolare interesse, che molto spesso può servire per aggirare particolari barriere all’entrata. Infine, le imprese delocalizzano per andare ad operare in parti-colari bacini di manodopera specializzata, o di competenze specifiche.

Quale che sia la motivazione, si è in generale notato che i processi di delocaliz-zazione tendono, nei sistemi industriali maturi, tipicamente a posizionarsi in una ben precisa fase dello sviluppo, quando le imprese hanno “saturato” l’offerta di fattori produttivi sul territorio, talché questi ultimi sono divenuti troppo costosi, o quando il grado di sviluppo competitivo porta all’esigenza di esplorare nuovi mercati este-ri, anche per il tramite di una presenza diretta in loco. Queste considerazioni sono quindi valide, evidentemente, soprattutto per territori che hanno già raggiunto gradi elevati di sviluppo industriale, non per regioni a basso tasso di crescita ed in ritar-do di sviluppo. Con riferimento al Mezzogiorno, quindi, non sembra che i sistemi produttivi abbiano maturato le condizioni per implementare processi significativi di delocalizzazione, che infatti, stando ai dati, appaiono molto marginali in tutte le regioni indagate. La Basilicata mostra una propensione leggermente superio-re, soprattutto in prospettiva, alla delocalizzazione, rispetto alle altre regioni, ma comunque in un contesto dove tale scelta è largamente minoritaria.

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tabella 14 Strategie di delocalizzazione nelle imprese manifatturiere, valori %

Basilicata Calabria Campania Puglia SiciliaSi, è delocalizzata

2,4 0,5 1,8 1,4 2,3No, ma è intenzionata

4,9 0,6 0,5 4,2 0,0No, e non è intenzionata

92,3 98,7 96,7 92,3 97,7Non indica

0,4 0,2 1,0 - -Fonte: elaborazione SRM-OBI

6. Le percezioni delle imprese intervistate circa la loro competitività

Quanto sopra evidenziato riguarda l’analisi dei comportamenti delle imprese con riferimento alle principali leve competitive, ed i risultati ottenuti rispetto alle sfide poste dalla globalizzazione. Nel presente paragrafo, invece, tali comportamenti ed i conseguenti risultati sono posti a confronto con le percezioni ed opinioni soggettive degli imprenditori intervistati circa il loro livello di competitività. La questione che sarà indagata è la seguente: a prescindere dai comportamenti e dai risultati compe-titivi ottenuti, quale è l’opinione e, in una certa misura, il “grado di soddisfazione” degli imprenditori circa il posizionamento di mercato della loro impresa?

Da questo punto di vista, le percezioni delle imprese sul proprio livello competi-tivo tendono ad essere notevolmente positive, poiché quasi tutto il campione, in tutti i comparti e le regioni, ha segnalato che il proprio livello di competitività è soddi-sfacente, se non ottimo. In genere, sono soprattutto le imprese di servizi a denotare livelli di competitività percepita molto alti. Il manifatturiero, invece, con la sola eccezione della Sicilia, ha una diffusione di imprese soddisfatte del proprio livello competitivo, seppur complessivamente notevole, comunque meno ampia rispetto agli altri comparti, ivi compresa l’industria delle costruzioni. Le imprese lucane e calabresi, sia pur, ancora una volta, in un quadro complessivo di percezioni molto positivo, hanno però impressioni relativamente meno buone rispetto alle imprese delle altre regioni. Sul versante opposto, le imprese più ottimiste si concentrano in Puglia e Campania.

tabella 15 Percentuali di imprese che ritengono di avere un livello competitivo positivo

(discreto, buono o ottimo) Manifatturiero Costruzioni ICT TurismoBasilicata 64,8 72,3 88,1 89,0Calabria 64,8 81,4 81,4 74,5Campania 79,8 82,9 94,3 85,0Puglia 67,7 83,6 93,8 83,4Sicilia 85,8 78,1 76,7 77,1

Fonte: elaborazione SRM-OBI

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Non solo le percezioni degli imprenditori sono positive, ma tendono anche a registrare tendenze alla stabilità, se non addirittura, in molti casi, al miglioramento nel tempo. Tali tendenze si registrano soprattutto nei servizi e in Campania e Sici-lia.

tabella 16 Percentuali di imprese i cui livelli competitivi sono stabili o in crescita rispetto al 2007

Costruzioni ICT Turismo79,6 96,5 92,877,1 85,3 91,988,9 96,2 82,493,0 95,6 85,989,4 92,3 88,3

Fonte: elaborazione SRM-OBI

È evidente che, sotto numerosi profili, le impressioni soggettive delle imprese intervistate vadano a scontrarsi con i dati di fatto: è difficile pensare che le imprese possano essere così soddisfatte quando i dati sull’internazionalizzazione, come si è visto, segnalano che la capacità di penetrazione sui mercati esteri è così modesta. Come già visto in precedenza, ci si trova di fronte a sistemi produttivi che, in larga misura, al netto di un piccolo gruppo di imprese particolarmente dinamiche, non adottano chiare strategie di sviluppo organizzativo e di potenziamento del capitale umano, non investono e non fanno innovazione, non esportano. Difficile quindi poter essere così ottimisti sul proprio livello di competitività, quando gli ingredienti di base di un modello competitivo moderno sono spesso lacunosi.

Di fatto, sulle percezioni delle imprese possono giocare numerosi fattori, non ultimo il desiderio di “presentare” una immagine dell’impresa particolarmente favorevole, come anche la buona congiuntura dell’anno 2006 e dei primi mesi del 2007, che può aver esercitato un effetto favorevole sui giudizi. Comunque, una chiara distorsione percettiva rispetto ai dati di fatto del modello competitivo adottato è indicativa di una difficoltà, da parte della gran parte del sistema produttivo meri-dionale, di leggere correttamente le dinamiche di mercato e le prospettive di medio periodo in atto, ed è pericolosa, perché potrebbe ridurre la volontà delle imprese di effettuare i dovuti investimenti ed i necessari sforzi per migliorare la propria com-petitività.

Anche in riferimento ad un aspetto strategico della competitività, come la capaci-tà di anticipare i bisogni espliciti o latenti del mercato, un elemento di fondamentale importanza per sopravvivere in contesti di mercato in cui la domanda è sempre più esigente e volatile, le imprese sembrano peccare di ottimismo. Infatti, una elevata e diffusa capacità di rispondere ai bisogni del mercato dovrebbe essere compatibile con una delle seguenti opzioni:

Elaborazione di studi di mercato finalizzati ad una pianificazione commercia-• le strategica efficace, al fine di monitorare la domanda ed elaborare risposte

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commerciali e di marketing appropriate. Ma, come si è visto in precedenza, le imprese manifatturiere, come del resto quelle degli altri comparti, effettuano tale attività in modo molto raro e male (nella maggior parte dei casi, senza coinvol-gere e/o comunicare con il personale interno). Peraltro, la funzione di marketing è presente nelle organizzazioni aziendali in modestissime percentuali di imprese, che vanno dal 4,4% della Calabria all’11,8% della Campania, quindi non si capi-sce in quale modo le imprese riescano ma monitorare efficacemente il mercato, evidenziandone anche i bisogni latenti;Raggiungimento da parte delle imprese di posizioni di mercato forti. Ma solo una • parte minoritaria delle imprese manifatturiere intervistate ha bacini di mercato esterni agli angusti confini della regione, e una quota ancora minore riesce ad esportare, un chiaro sintomo di difficoltà a conquistare mercati che non siano agevolati dalla mera vicinanza fisica fra produttore e consumatore, e quindi una diffusa difficoltà ad implementare strategie competitive soddisfacenti sotto il profilo dei risultati. In sostanza, anche in questo caso, sembra che le imprese manifatturiere inter-

vistate sopravvalutino le loro capacità di rispondere alle evoluzioni, esplicite ed ancora latenti, della domanda finale.

tabella 17 Distribuzione % delle imprese manifatturiere per capacità di rispondere efficacemente

ai bisogni espressi e latenti del mercato Basilicata Calabria Campania Puglia SiciliaMolto elevata 0,6% 2,4% 3,0% 3.4% 5,9Elevata 17,0% 13,7% 13,5% 14.8% 29,2Soddisfacente 56,1% 56,4% 67,4% 52.8% 52,9Scarsa 25,7% 24,9% 11,7% 21.8% 9,9Del tutto inadeguata - 0,9% 0,4% 1.3% 2,1Non indica 0,7% 1,7% 4,0% - -Fonte: elaborazione SRM-OBI

Una distorsione percettiva analoga si verifica anche con riguardo all’innova-zione tecnologica. La maggior parte delle imprese manifatturiere intervistate, nelle varie regioni, segnala che il livello tecnologico raggiunto è del tutto o abbastanza adeguato alle esigenze produttive e di mercato attuali. Ciò è spiegato dal fatto che la maggior parte delle imprese meridionali non esporta, e spesso non si confronta nemmeno con la concorrenza dei sistemi produttivi di altre regioni, concentrandosi su bacini di mercato puramente locali, dove i concorrenti, normalmente, hanno lo stesso livello di avanzamento tecnologico (non è un caso, infatti, che le imprese esportatrici abbiano dato giudizi, rispetto a tale quesito, molto meno lusinghieri). Ma in realtà si tratta di una distorsione percettiva, tipica di imprese non abituate a competere su scala globale. Infatti, un livello tecnologico adeguato si raggiunge solamente con un investimento continuo in R&S ed innovazione tecnologica, e ciò,

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come si è visto dianzi, non si verifica nei sistemi produttivi indagati, se non per piccole percentuali di imprese (posto che le percentuali di imprese manifatturiere che investono in innovazione oscillano, nelle diverse regioni indagate, fra il 3,9% ed il 18,7%).

tabella 18Distribuzione % delle imprese manifatturiere per livello di adeguatezza al mercato

ed alle esigenze produttive del proprio livello tecnologico Basilicata Calabria Campania Puglia SiciliaDel tutto adeguato alle attuali esigenze produttive e di mercato 36,2% 35,6% 43,2% 29.6% 44,8

Abbastanza adeguato alle attuali esi-genze produttive e di mercato 47,3% 46,4% 43,6% 53.0% 48,1

Non del tutto adeguato alle attuali esi-genze produttive e di mercato 14,1% 16,8% 12,2% 15.8% 6,0

Del tutto inadeguato alle attuali esi-genze produttive e di mercato 2,3% 1,2% - 1.0% 1,0

Non indica 0,1% - 1,0% - -

Fonte: elaborazione SRM-OBI

7. Conclusioni

Il presente rapporto è teso a indagare i comportamenti competitivi delle imprese delle cinque regioni del Mezzogiorno, e l’adeguatezza di tali comportamenti alle esigenze della competizione e dei mercati. Ciò che emerge dall’analisi non è scevro da numerosi elementi di criticità, pur contenendo anche elementi positivi, soprattut-to in termini di conferma di un cambiamento in atto, a livello di cultura di impresa, che riconosce, almeno sul piano dei principi, la necessità di passare da un modello competitivo basato sul solo controllo dei costi interni ad uno schema fondato sulla qualità e l’innovazione.

Infatti, si conferma il fatto che le imprese sono consapevoli del fatto di dover investire in qualità ed innovazione: l’analisi della destinazione degli investimenti effettuati nell’ultimo triennio lo conferma. Anche la finalizzazione dei programmi di innovazione che sono stati introdotti è orientata a dare maggiore qualità al prodotto o servizio finale, mentre la quota di investimenti destinati al mero controllo dei costi di produzione, in una logica competitiva neo-fordista oramai perdente rispetto alla pressione proveniente dalle economie emergenti a basso costo del lavoro, è assolu-tamente minoritaria.

Tuttavia, il passaggio da una consapevolezza teorica ad una implementazione concreta di un modello competitivo basato sulla conoscenza, la creatività e la qua-lità, è molto meno facile, come dimostra la percentuale minoritaria di imprese che riescono ad effettuare investimenti, sia immateriali (in formazione ed in R&S) che materiali, anche in ragione di un quadro macroeconomico sempre più recessivo, che riduce ulteriormente gli spazi per investire.

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Di fatto, emerge un quadro dualistico, in cui una piccola minoranza di imprese più dinamiche, generalmente concentrate nelle classi dimensionali medie e medio-grandi, spesso provenienti da processi di crescita, cerca di reagire all’attuale ciclo congiunturale negativo, investendo in qualità ed in ricerca ed innovazione tecnolo-gica, facendo fare formazione professionale ai propri addetti, presidiando le funzioni organizzative più complesse ed a più alto ritorno, nel medio-lungo periodo, per la competitività aziendale, come la pianificazione strategica, il marketing e la logistica, cercando di acquisire professionalità più creative tramite l’inserimento in organico di neoassunti ad elevata qualifica, e cercando una presenza commerciale al di fuori degli angusti, e non più sufficienti, limiti del mercato locale e regionale. In generale, le imprese che manifestano progressi in tutti i campi sono anche quelle che riescono ad implementare strategie integrate, che cioè agiscono su tutti i fattori strutturali sottostanti al nuovo paradigma competitivo (organizzazione ed integrazione delle funzioni complesse e ad alto contenuto di conoscenza, qualità del capitale umano intesa come competenze e creatività, innovazione, capacità di investimento). Tali processi risultano facilitati quando il gruppo dirigente aziendale è giovane ed alta-mente qualificato, poiché ciò si traduce in una più facile lettura degli andamenti strutturali dei mercati e della competizione, ed in un maggior coraggio nell’introdur-re i necessari correttivi per mantenere l’impresa in linea con il modello competitivo di riferimento.

Il resto del tessuto produttivo delle regioni indagate, ed in particolare quello delle piccole imprese, che però costituiscono l’ampia maggioranza dei sistemi imprendito-riali del Sud, è invece in forte ritardo rispetto ai predetti fattori competitivi. Emerge l’immagine prevalente di un sistema imprenditoriale chiuso e ripiegato su sé stesso, incapace di valorizzare le esternalità positive rivenienti dall’ambiente esterno, che non attiva reti di collaborazione per facilitare l’attuazione di progetti di innovazione (sia per colpa di un modello di governance restio ad aprire l’impresa a rapporti con imprese o centri di ricerca esterni, sia per colpa della precipua incapacità del sistema della ricerca pubblica di uscire dal suo bozzolo ed acquisire approcci più vicini alle esigenze del mondo delle imprese), che rimane ripiegato sullo sfruttamento dei soli mercati di prossimità e non sfrutta, se non in minima parte, le opportunità di delo-calizzazione che anche la vicinanza di Paesi a basso costo del lavoro (ad esempio, i Paesi dell’area balcanica) potrebbero offrire, che finanzia il proprio sforzo di inve-stimento quasi esclusivamente con l’autofinanziamento aziendale (sia per la forte contrazione che il sistema degli aiuti pubblici ha subito nell’ultimo anno, complice anche la tardiva approvazione della nuova carta regionale degli aiuti, sia per difficol-tà di rapporto con il sistema creditizio, le cui cause strutturali, molto complesse, esu-lano dal presente rapporto). In particolare, tale struttura delle fonti di copertura degli investimenti, già di per sé lacunosa in un sistema composto quasi esclusivamente da piccole e medie imprese, quindi già per sua natura dotato di modeste capacità di autofinanziamento degli investimenti, diventa ancora più penalizzante, in conside-

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razione della difficile fase congiunturale, che prosciuga ulteriormente il cash flow delle imprese, riducendo quindi la disponibilità finanziaria per investire.

Le conseguenze di un sistema troppo “chiuso” rispetto all’ambiente esterno si traducono in una modesta capacità di incidere concretamente sugli assetti compe-titivi aziendali, e di ritrarre benefici dagli sforzi di investimento e di innovazione che, con grande difficoltà, un gruppo minoritario di imprese riesce pure a effettuare. Lo sforzo per adottare un nuovo paradigma competitivo è poi ostacolato anche da auto-percezioni circa la propria competitività, da parte delle imprese intervistate, eccessivamente ottimistiche. Il problema è che, se tale auto-percezione è ecces-sivamente ottimistica, e disallineata rispetto alla realtà, si potrebbe verificare una sorta di “autocompiacimento”, che disincentiverebbe la voglia di investire, fare cambiamenti nell’assetto organizzativo, potenziare le competenze del personale, fare innovazione, ecc.

Da un punto di vista territoriale, emergono differenziali interni al Mezzogiorno in termini di velocità di adeguamento al nuovo paradigma competitivo fatto di qualità, innovazione e rinnovata cultura imprenditoriale, organizzativa e gestionale. I sistemi produttivi della Sicilia e, in misura minore, della Campania e della Puglia, sembrano avere una velocità superiore rispetto a Calabria e Basilicata. Emergono anche dif-ferenziali settoriali, con le imprese dei servizi (in particolare le imprese turistiche) che sono spesso più pronte ad adeguare la propria organizzazione interna, a valo-rizzare il proprio personale, ad investire in qualità, rispetto a quelle industriali. Il comparto delle costruzioni e quello dell’ICT, salvo alcune eccezioni virtuose, sono poi in particolare ritardo rispetto ai processi di internazionalizzazione produttiva, che premiano soprattutto chi riesce ad intraprendere percorsi di crescita e sviluppo interno significativi.

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SECONDA PARTE

LE MONOGRAFIE

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CAPITOLO 4

I NODI NELLO SVILUPPO DELLE IMPRESE MERIDIONALI

Giovanni Ferri

1. Introduzione

Può sembrare paradossale parlare di sviluppo d’impresa in una fase come l’attua-le in cui le conseguenze della crisi globale stanno manifestando i loro effetti negati-vi. Ma, per quanto grave, la crisi avrà una fine ed è bene attrezzarsi nel frattempo a cogliere le opportunità che si manifesteranno allora.

Per la crescita del Mezzogiorno vi sono sostanzialmente tre ricette, in particolare per la crescita del sistema produttivo: serve più innovazione, serve una maggiore e migliore internazionalizzazione delle imprese e poi vi è la questione del mercato dei manager, che non è una cosa astratta, perché riguarda chi deve guidare le nostre risorse produttive. E, in qualsiasi contesto, se non si riesce a far guidare le attività dalle migliori risorse, i risultati possono non essere i migliori, cosa che avviene anche con il mercato dei manager. Infine, arrivando alla finanza, all’interno di questo qua-dro, le conclusioni che trarrò sono che, se è vero che, come ci dicono le statistiche, negli anni passati il credito ha ripreso a crescere a ritmi sostenuti nel Mezzogiorno, non sembra esser più così pressante quel problema della quantità di credito, che anni fa sarebbe stato inevitabilmente al centro del nostro dibattito. E allora, il problema si sposta più sulla sua qualità, cioè se è il tipo di credito adeguato a sostenere quegli sviluppi positivi che abbiamo detto: innovazione, internazionalizzazione, crescita delle imprese anche attraverso l’assunzione di manager esterni. E, come vedremo, a questo riguardo, vi è un ruolo non marginale per la finanza innovativa.

Ricordiamo le principali difficoltà dell’economia italiana. Queste difficoltà sono strutturali e non congiunturali, dipendono in larga misura da due coincidenze sfavorevoli: la prima è che l’economia italiana produce merci per le quali non vi è grande domanda nel mondo, sono dei prodotti maturi, mentre la domanda si è andata spostando su nuovi beni, nuovi servizi; in particolare, la domanda è poco dinamica per i prodotti del cosiddetto “Made in Italy” su cui siamo specializzati, quindi tes-sile, abbigliamento, prodotti per la casa, eccetera. Dunque, l’economia italiana si dovrebbe rispecializzare orientandosi su prodotti più innovativi. Vi è poi da aggiun-gere che le imprese italiane sono poco presenti nei mercati più dinamici e, quindi, occorre certamente migliorare i prodotti, quindi serve più innovazione e serve anche andare sui mercati che sono più in crescita, ad esempio l’Estremo Oriente e l’Asia in genere, vale a dire l’area del mondo che, ormai da molti anni, esprime maggiore

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domanda di importazioni. Da tali mercati i nostri esportatori sono tradizionalmente assenti o, al più, vi vantano una presenza troppo circoscritta. Servono anche finan-ziamenti di qualità per assistere le imprese in questa rispecializzazione produttiva e nel riorientamento dei mercati di sbocco.

GRaFICo 1Distribuzione export Italia (blu) vs. quota import mondiale (rosso)

Fonte: Calcoli su dati ICE

Come mostra il grafico 1, la domanda di importazioni più alta la troviamo in Asia, nell’Estremo Oriente, subito dopo viene l’America del Nord e, ben distanziata, l’Unione Europea. Da questo punto di vista, è sconfortante osservare che l’esporta-zione più elevata di prodotti italiani riguarda (per oltre il 50%) l’Unione Europea, cioè proprio un’area tra quelle che hanno espresso meno domanda di importazio-ni. Ciò perché l’Unione Europea è cresciuta di meno. Al contrario, gli esportatori italiani sono tradizionalmente assenti dall’Asia, dall’Estremo Oriente, e non sono sufficientemente presenti in Nord America. Perciò, questa infelice distribuzione geografica dell’export è una delle spiegazioni per cui cresciamo poco.

Vi è poi un problema ancora più radicale, che è quello della produttività. Il gra-fico 2 mostra che, facendo pari a 100 il PIL pro capite degli Stati Uniti, l’Unione Europea a 15 ha ridotto il suo PIL pro capite da 78 nel 1995 a 70 nel 2005.

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GRaFICo 2PIL pro-capite e produttività: UE-15 e Italia vs. USA

Fonte: FMI – World Economic Outlook, 2007

Qualcosa di analogo è successo anche al PIL pro capite italiano perché l’Italia è cresciuta di meno rispetto alla media europea, ma ha avuto una dinamica della popo-lazione meno sostenuta e quindi il PIL pro capite, che è dato dal rapporto tra PIL e popolazione, è rimasto più o meno nello standard degli altri Paesi europei.

Più preoccupante, invece, è quello che accade a proposito della produttività del lavoro: nel 1995, sempre facendo pari a 100 la produttività del lavoro negli Stati Uniti, l’Italia era a 97, la media dell’Unione Europea a 15 era a 90, ma nel 2005 ambedue sono scese ad 82. Siccome l’Italia era ben al di sopra della media dell’Unione Europea, questo dato dimostra che c’è stato un crollo della produttività molto forte e questo ovviamente ci penalizza in termini di competitività.

Se poi andiamo a vedere questo crollo di produttività, non nei confronti degli Stati Uniti, che sono dentro alle cosiddette economie avanzate, ma rispetto a quanto è successo ai guadagni di produttività in Cina - ove la produttività aumenta dell’8-10% all’anno - o anche in Paesi meno esotici e a noi più vicini, come in quelli dell’Europa centro-orientale, vediamo che anche qui ci sono dei tassi di crescita annuali vicini al 5%.

Quindi, mentre l’Italia è arretrata rispetto agli Stati Uniti, ove la produttività stava crescendo, ma non ai ritmi forsennati della Cina e delle economie emergenti, altri Paesi stanno recuperando molto.

In Italia vi è anche un deficit di innovazione e poi vedremo ciò vale ancor più per il Mezzogiorno. La spesa in ricerca e sviluppo (R&S), che misura quanto oggi seminiamo per raccogliere in futuro in termini di innovazione, è strutturalmente più

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bassa; infatti, in rapporto al PIL, la spesa in R&S dell’Italia era dell’1,1% nel 1994 ed è stata dell’1,2% circa nel 2003, ultimo dato disponibile per il confronto interna-zionale (grafico 3).

Questi dati del 1994 e del 2003 dell’Italia si confrontano con valori più che doppi non solo per gli Stati Uniti, che investono molto in R&S, ma anche per la media dei Paesi dell’OCSE, cioè tutti i paesi industrializzati, che vi investono il doppio di quanto vi investe l’Italia.

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Fonte: Banca d’Italia (2006), Relazione annuale sul 2005, Roma

E il problema della scarsa spesa in R&S non è tanto del settore pubblico, quanto delle imprese del settore privato, che, infatti, investono appena lo 0,5% in rapporto al PIL, mentre i valori sono tre volte più grandi negli Stati Uniti e più o meno simili anche nella media dei Paesi dell’OCSE. Quindi, il settore pubblico ha compensato in parte un deficit di propensione ad innovare da parte del settore privato, ma sap-piamo che quando il pubblico fa le cose, non sempre le fa bene come le potrebbero fare i privati: è inevitabile e questa è un’operazione di supplenza che sarebbe bene che non ci fosse.

Vediamo come possiamo misurare queste difficoltà dell’economia italiana decli-nandole per il Mezzogiorno.

Alcune informazioni le possiamo trarre dall’indagine di Capitalia (ex Mediocre-dito Centrale). L’indagine si svolge su base triennale e raccoglie una messe molto

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ampia di informazioni per circa 5.000 imprese manifatturiere distribuite sull’intero territorio nazionale; il Mezzogiorno è certamente ben rappresentato.

In base all’indagine di Capitalia sul 2003, vediamo che al Centro-Nord le impre-se esportatrici sono due su tre, cioè il 77% delle imprese del Centro-Nord esporta, mentre la percentuale scende al 61% nel Sud-Isole (grafico 4).

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Fonte: nostri calcoli su dati Capitalia (2003)

Vediamo inoltre che le imprese del Centro-Nord che esportano, lo fanno per il 40,9% del fatturato, che non è poco, e questa percentuale scende al 34,6% nella media delle imprese esportatrici del Sud-Isole.

Per quanto riguarda i mercati di sbocco, anche qua troviamo che in Asia e nel Nord America la presenza delle imprese meridionali è bassa: solo il 7,2% delle imprese esportatrici del Sud esporta in Estremo Oriente, una percentuale inferiore alla già bassa media nazionale; in termini di esportazione in Nord America andiamo un po’ meglio, ma sappiamo che quest’area sarà colpita più del resto del mondo dalla crisi in atto (grafico 5).

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Fonte: nostri calcoli su dati Capitalia (2003)

A proposito della propensione all’innovazione, nel periodo 2001-2003 la per-centuale di imprese che fa ricerca e sviluppo, nei dati dell’indagine condotta da Capitalia, è del 49,5% nel Centro-Nord, vale a dire un’impresa su due, percentuale che scende al 28,3% nel Sud-Isole (grafico 6). E anche la percentuale del fatturato derivante da prodotti innovativi non ci dà notizie confortanti, perché siamo al 9,7% per le imprese del centro-nord e solo al 5,8% per le imprese nel Mezzogiorno.

Se poi analizziamo i trend di crescita, vediamo che ci sono tre osservazioni di Capitalia - una riferita al 1995-97, una al 1998-2000 e una al 2001-03 - le quali denotano una certa crescita a livello di Paese, ma tale crescita o non si vede o è più flebile nel Mezzogiorno.

2. La crescita del capitale umano aziendale

La terza direttrice, accanto all’innovazione ed all’internazionalizzazione, è quel-la della managerializzazione. L’ingresso in un’impresa di un manager esterno può essere un momento importante, prima di tutto da un punto di vista culturale, perché l’ingresso di un giovane esterno all’azienda, ben formato, è una risorsa in primo luogo culturale; infatti, gran parte delle opportunità che ci sono a livello internazio-

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nale o attraverso i processi innovativi, possono non essere note all’imprenditore o magari non si sa come arrivarci. Quindi, accogliere un manager esterno può dare un contributo decisivo al riguardo.

GRaFICo 6Propensione delle imprese all’innovazione

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Fonte: nostri calcoli su dati Capitalia (1997, 2000 e 2003)

Sempre facendo riferimento ai dati dell’indagine di Capitalia, che nel 2003 ha raccolto informazioni su quante imprese e quali imprese si erano dotate di un mana-ger esterno, sembra esservi una correlazione interessante tra aziende che assumono un manager esterno, aziende che fanno spesa in R&S ed aziende che esportano. Vi è, inoltre, una correlazione, abbastanza ovvia, con il numero di occupati dell’azienda, cioè le imprese più grandi è più facile che esportino, è più facile che facciano spesa in R&S ed è più facile che assumano manager esterni.

Quella che emerge è, in particolare, una correlazione - misurata attraverso l’indice di correlazione di rango di Spearman - tra manager esterni e spesa in R&S, tra manager esterni ed attività di esportazione e, un’altra interessante, tra spesa in R&S ed esportazioni: si tratta di correlazioni positive e statisticamente significative, cioè non sono delle differenze numeriche di poco conto (grafico 7). Vediamo che il 18% delle imprese che hanno un manager esterno fanno spese in ricerca e sviluppo molto più delle altre e il 20% di queste fanno esportazioni, molto più di quanto non facciano le imprese che non hanno il manager esterno;

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infine vi è una correlazione molto forte tra avere il manager esterno ed essere una grande impresa.

GRaFICo 7Correlazione di rango bivariata

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Fonte: nostri calcoli su dati Capitalia (2003)

Allora, se questo è il quadro e immaginiamo che avere un manager esterno, assieme a fare innovazione e ad essere internazionalizzati, è un requisito importante per assicurare la crescita futura delle imprese meridionali, ci dobbiamo andare a chiedere qual è la situazione.

Per quanto riguarda il grado di innovazione, abbiamo già visto che le cose non sono messe particolarmente bene; per le esportazioni ci sono più ombre che luci. Vediamo ora cosa succede per quanto riguarda l’assunzione di manager esterni, che è il terzo aspetto che ho messo in luce come chiave del successo futuro delle nostre imprese.

Se andiamo a fare un confronto, i primi cinque dati sono tratti dall’Osservato-rio Banche e Imprese per le quattro regioni del sud, relativi al 2005, e si vede che il 15,9% delle imprese è dotato di un manager esterno, con percentuali molto più bassa in Calabria (8,7%) e un po’ più bassa in Sicilia (14,0%; grafico 8).

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GRaFICo 8Percentuale di imprese industriali con manager esterno

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Fonte: Capitalia (CN; 2003) e Osservatorio Banche-Imprese (regioni del Sud; 2005)

Ma se ci confrontiamo con il Centro-Nord, siamo molto distanti: infatti, secon-do l’indagine di Capitalia riferita al 2003, il 39,9% delle imprese del Centro-Nord aveva un manager esterno.

Ebbene, le prospettive di crescita si abbassano per tutti se i manager esterni non vengono assunti. Ciò per una serie di motivi. Perché le imprese non sempre riescono a trasferire, quando c’è il trapasso generazionale, anche le capacità imprenditoriali, anzi raramente questo succede e allora c’è da chiedersi perché non si riesce a pren-dere risorse dall’esterno.

Inoltre, nel momento in cui le nostre attività produttive non sono aperte ai giova-ni più meritevoli, quello che accadrà è che, inevitabilmente, questi giovani saranno costretti a trovare una diversa soluzione, cioè ad emigrare, cosa che è molto dolo-rosa per molti giovani meridionali. E, in effetti, vediamo che negli ultimi dieci anni l’emigrazione dal Sud al Nord del Paese è tornata a crescere un po’, anche se non si tratta di flussi enormi, ma soprattutto è cambiata drasticamente la composizione perché una volta emigravano le braccia, mentre adesso emigrano i cervelli.

Questo fatto va legato a quello che vi dicevo prima, cioè la mancanza di un mer-cato dei manager, ed ha a che vedere con il fatto che poi ci saranno delle soluzioni comunque, a volte anche piuttosto traumatiche.

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3. La finanza per lo sviluppo

Ma, ci si potrebbe chiedere, come si legano i ragionamenti precedenti al mondo delle banche? Lo si deve fare ricordandoci che le banche sono dei finanziatori, i principali nella nostra realtà, e un finanziatore, per prima cosa, deve essere sicuro che il credito venga restituito, una volta erogato. Perciò, le banche sono particolar-mente attente a che si riducano i rischi di chi prende a credito e, quindi, si interes-sano non solo al fatto che i crediti siano ben garantiti, ma anche che le imprese, che sono i loro tradizionali debitori, facciano profitti, perché il profitto delle imprese, così come la crescita del sistema economico locale, è la migliore garanzia per loro.

Da questo punto di vista credo che a molti sia sfuggito come Basilea 2 possa avere degli effetti collaterali positivi e molto significativi. Ad esempio, con l’intro-duzione di Basilea 2, i criteri di concessione del credito si baseranno sul rating, cioè il merito di credito dell’impresa che lo riceve. E il rating si può determinare in due modi: o un’impresa lo prende da un’agenzia esterna, come S&P, Moody’s o Fitch (quelle stesse agenzie che danno il rating al Governo), oppure le banche dovranno assegnare il rating loro stesse. E, per fare questo, molte banche si sono dotate di modelli di rating interno, cioè di modelli statistici che, osservando come il debitore si è comportato in passato e tenendo in considerazione altre informazioni, assegnano al debitore una classe di merito di credito. I rating interni, a loro volta, si basano su modelli che in gergo sono noti come IRB. Tuttavia una banca non può inventare dal nulla il proprio modello IRB, ma questo deve essere validato dall’autorità di vigilanza, nel nostro caso dalla Banca d’Italia. Ebbene, un criterio alla base della validazione è di vedere come questi modelli di rating interni si confrontano con l’assegnazione del rating a quei pochi debitori che ricevono il rating dalle agenzie esterne. Quindi, i modelli di rating interni, per essere validati, avranno bisogno di incorporare gli stessi criteri di assegnazione che usano già da molti anni le agenzie come S&P e le altre. Allora, se anche ad oggi non possiamo sapere cosa sta dentro al modello di rating interno di ciascuna banca, però possiamo osservare quelli che le agenzie esterne usano come criteri e, da questo punto di vista, può essere di qualche interesse vedere che alcuni di tali criteri penalizzano le imprese che hanno una forte dipendenza da un solo individuo, specie se in via di pensionamento, e la mancata transizione dal fondatore, ovvero dalla sua famiglia, al management professionale.

Quindi, l’applicazione di Basilea 2 può dare dei benefici. Tuttavia, il sistema bancario meridionale è stato colpito negli ultimi dieci anni da un terremoto. Oggi le uniche banche a proprietà locale sono poche banche popolari e le banche di credito cooperativo.

Allora, ci si deve chiedere se la proprietà esterna delle banche è un problema. A mio avviso, ciò può non essere un problema a patto che non si ampli la distanza fun-zionale, cioè a patto che la banca mantenga la testa nel territorio. Ad esempio, vari gruppi bancari del Nord praticano forme organizzative federali che consentono alle partecipate meridionali di mantenere una certa autonomia funzionale, ritagliando

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la propria offerta di servizi sulla base delle esigenze del proprio territorio, anziché trasformarsi in reti che distribuiscono soltanto prodotti pensati altrove.

Tuttavia, il lascito della crisi bancaria dura nel tempo e, come conseguenza, al Sud molte relazioni banca-impresa si sono interrotte, in seguito alle crisi. Pertanto, mentre al Centro-Nord la durata media del rapporto tra l’impresa e la sua principale banca di riferimento andava crescendo, al Sud si è avuto un calo (grafico 9).

GRaFICo 9Durata del rapporto di impresa-banca principale

Fonte: nostri calcoli su dati Capitalia (1997, 2000 e 2003)

E questo fatto che i rapporti tra banca e impresa sono diventati più brevi al Sud rispetto al Centro-Nord ci deve preoccupare perché la lunghezza del rapporto è un bene in quanto riduce quello che gli economisti chiamano le “asimmetrie informa-tive” e può generare dei comportamenti virtuosi. A questo proposito c’è tutta una letteratura e ci sono importanti contributi pubblicati che ci dimostrano che la proba-bilità che un’impresa sia innovativa, cioè che abbia un elevato fatturato da prodotti innovati, e che faccia spesa in R&S, cresce con l’allungarsi della relazione con la banca, perché probabilmente una banca che conosce meglio l’impresa è più disposta a darle un credito più stabile.

Un altro modo di sostenere lo sviluppo delle imprese è quello di fare ricorso alla finanza innovativa, uno strumento utile per far crescere la dimensione delle imprese, rimuovendo un altro ostacolo alla crescita. Ebbene, alcuni studi recenti dimostrano che la probabilità che un’impresa si doti di strumenti di finanza innovativa cresce con l’allungarsi della relazione con la banca.

Quindi, il lascito della crisi bancaria è pesante, però noi oggi non possiamo rimettere l’orologio indietro. Al contrario, dobbiamo guardare avanti.

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CAPITOLO 5

PER UN “NUOVO PARADIGMA COMPETITIVO” DELLE REGIONI MERIDIONALI:

CRITICITà E LINEE DI AZIONE

Adriano Giannola

1. Introduzione

OBI ed SRM propongono con questo rapporto un’analisi strutturale dei caratteri delle imprese (manifatturiere, costruzioni, ICT e turismo) operanti in cinque regioni del Sud (Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, Sicilia). Si tratta di un’analisi par-ticolarmente significativa per il momento critico nel quale essa si colloca e perché fornisce indicazioni rilevanti oltre che sull’attualità anche sulle tendenze che inve-stono le imprese locali.

La cadenza e la struttura del rapporto nei suoi capitoli regionali si presta anche, molto opportunamente, a collocare i risultati dell’indagine campionaria in un più ampio scenario desumibile da altre fonti che si sono rese nel frattempo disponibili e che, per un verso, forniscono informazioni circa le dinamiche dell’economia delle regioni interessate e, per altro verso, consentono un confronto con il sistema delle imprese a livello nazionale evidenziando sistematici aspetti distintivi delle nostre imprese locali. Ci si riferisce in particolare alle previsioni recentemente prodotte dalla SVIMEZ sulle prospettive delle economie regionali per gli anni 2008-2009 nonché ai primi risultati della X indagine strutturale sulle piccole e medie imprese manifatturiere italiane condotta dal Gruppo Unicredito (ex indagine Capitalia, a sua volta ex indagine Medio Credito Centrale).

L’originalità del rapporto sta nel suo intento di proporre e verificare se e quanto significativi e presenti siano, tra le imprese considerate, elementi di un modello di comportamento che sostanzi un “Nuovo paradigma competitivo” inteso soprattutto come consapevolezza delle sfide imposte dal ritmo frenetico della globalizzazione degli ultimi anni e – in aggiunta – dal sopravvenire della brusca frenata imposta dall’inopinata inversione del ciclo economico, ormai in atto, con la quale fin da oggi il sistema produttivo è chiamato a confrontarsi.

Penso che il possibile valore aggiunto di queste brevi considerazioni, oltre che nel cogliere i punti di forza e di debolezza delle diverse realtà regionali attraverso un’analisi “orizzontale” di alcuni aspetti caratterizzanti il “nuovo” modello compe-titivo. Possa anche essere rappresentato dalle considerazioni tese ad inquadrare le evidenti debolezze, nonché le incerte robustezze di questi sistemi di imprese, alle

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luce delle crescenti difficoltà che il sistema produttivo si avvia ad affrontare. Tale prospettiva, infatti, se é certamente fonte di preoccupazione in generale lo é in par-ticolare per quella parte del sistema produttivo che, come nel caso delle regioni del Sud del Paese, vivono endemiche difficoltà e si confrontano con più intensi condi-zionamenti ambientali.

2. Per un nuovo modello strutturalmente competitivo

Il filo conduttore che lega le analisi delle diverse realtà territoriali è la ricerca e la verifica della capacità delle imprese di far fronte consapevolmente alle esigenze di realizzare un “nuovo paradigma” competitivo che – non affidandosi esclusivamente al puro controllo dei costi – affronti rischi ed opportunità della competizione sul mercato globale adottando una strategia operativa e gestionale che si qualifica per una accentuata propensione all’innovazione ed all’internazionalizzazione.

L’utilità di indagini consapevoli come questa non sta solo o tanto nella fredda registrazione delle frequenze con le quali le imprese dei diversi campioni regionali affermano alcuni indirizzi e propositi strategici ma, in buona misura, anche nella capacità dell’analista di discernere tra “reale” e “virtuale”. In altri termini nella capacità di evidenziare se e come, pur in presenza di una consapevolezza di alcuni problemi di fondo, le imprese riescono effettivamente a sviluppare un processo evo-lutivo adeguato relativamente a quanto sarebbe necessario fare.

Da questo punto di vista le conclusioni dell’indagine tendono a dire che lo iato tra azioni e ipotetiche necessità è ampia senza che si evidenzi un’adeguata presa di coscienza di ciò da parte delle imprese. Il che rinvia ovviamente ad un’esigen-za – urgente – che agenti esterni (nel caso di specie, soprattutto di natura pubblica, magari affiancati da un sistema creditizio e finanziario più attento e interessato alla dimensione locale) agiscano proattivamente per illuminare la giusta strada da imboccare e per indirizzare ed accompagnare con cura le popolazioni di imprese in questo percorso. Tutto ciò solleva un problema che non è ovviamente oggetto di analisi e di studio del rapporto ma che i risultati dell’indagine ripropongono con estrema evidenza e cioè, fino a che punto la ricognizione delle debolezze locali possa trovare risposte o soluzioni a scala regionale e se non sia invece più oppor-tuno far sì che la somma di debolezze complementari elabori una risposta comune che attrezzi opportunamente una scala almeno “meridionale” con la quale risalire la china del declino in corso.

Su questo aspetto si tornerà a dire qualcosa più oltre.Le risultanze dei questionari somministrati alle imprese delle nostre regioni

per le diverse tematiche, portano ad individuare alcune linee di fondo che danno corpo alle preoccupazioni appena evidenziate. In coerenza all’intento di verificare l’accidentato sviluppo del “Nuovo paradigma” vediamo sinteticamente – con un

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approccio orizzontale – come si articolano alcuni dei tratti più significativi che dovrebbero caratterizzarlo. A tal fine passiamo rapidamente in rassegna vari aspetti iniziando dalla tematica del capitale umano per andare all’analisi della dinamica dell’accumulazione del capitale ed alle fonti del suo finanziamento e giungere poi alla verifica delle performance esportative. Infatti, accumulazione di capitale umano ed innovazione (ben approssimata dall’intensità degli investimenti) sono gli elemen-ti costitutivi alla base del “Nuovo paradigma” mentre la capacità di stare sui mercati e di esportare (che specie nelle piccole imprese é la prima forma di internazionaliz-zazione) sono i segnali del successo della strada intrapresa.

Sul nesso tra performance ed esportazioni va detto che questo è particolarmente significativo per le imprese del manifatturiero ed anche nel caso delle imprese del turismo, ove le presenze degli ospiti stranieri rappresenta la misura delle capacità di esportazione ed internazionalizzazione. Per il comparto ICT la correlazione tra tale aspetto ed il successo non sembra invece così direttamente valutabile essendo questo un comparto che è funzionale alle performance di tutti gli altri; quanto al settore delle costruzioni la performance esportativa andrebbe valutata con un criterio più articolato ed appropriato. Questo comparto, infatti, strutturalmente a forte localizza-zione territoriale, potrebbe apparire un settore per molti versi protetto ed, al contem-po, poco adatto a competere su mercati sempre più ampi. Il che sarebbe fuorviante; l’offerta edilizia nelle sue svariate configurazioni si confronta infatti su base locale in una competizione di imprese almeno a livello interregionale (ed anche interna-zionale per i progetti di maggior respiro) ed è quindi possibile valutarne la capa-cità competitiva rapportandola alla misura in cui esso copre la “domanda interna” regionale e/o controlla quote della domanda di altre regioni. Un esempio da questo punto di vista è quello delle imprese di costruzioni campane che oltre a rispondere alla domanda locale sono presenti con quote molto significative sui più importanti mercati di altre regioni facendone, per questo aspetto, la regione più “aperta” nel contesto nazionale. In questo caso, la dimensione “internazionalizzazione” andrebbe opportunamente declinata al fine di una valutazione del reale posizionamento in un ideale percorso evolutivo.

Alla luce di tutti questi fattori costitutivi del “paradigma di riferimento” le per-formance delle imprese nelle diverse regioni che l’analisi riscontra risultano non particolarmente soddisfacenti. Questa conclusione risulta particolarmente fondata per le imprese manifatturiere anche per il fatto che per esse è possibile giudicare, per aspetti significativi, la loro distanza da un ipotetico possibile obiettivo individuato dal riscontro con i risultati della citata indagine strutturale nazionale realizzata dal Gruppo Unicredito. Infatti, il confronto, pur scontando evidentemente molte etero-geneità, è comunque significativo per cogliere aspetti ben definiti e caratterizzanti, utili a mettere in luce importanti criticità delle nostre imprese regionali.

A livello complessivo le cinque popolazioni di imprese configurano – come per altro era nelle aspettative – una graduatoria regionale chiaramente definita che vede

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la Calabria pervasa da una debolezza strutturale qualitativa – quantitativa di natura endemica; la Basilicata evidenzia una articolazione dell’universo di imprese che distingue nettamente tra uno strato – non prevalente – che mostra segnali di buon posizionamento o comunque di positiva evoluzione in un quadro di fragilità strut-turale del sistema determinato dal peso prevalente di un secondo strato di imprese numericamente più consistente, alquanto “autarchico” che non di rado, mostra segni di deterioramento. Un deterioramento, di natura ben diversa, interessa anche la struttura più solida ed articolata delle imprese campane che, di fatto, per numero e diversificazione rappresentano ancora il “cuore produttivo” del Sud. Proprio per la loro complessa articolazione e tradizionale maggiore apertura ai mercati esse, in carenza di un’azione strategica adeguata alle esigenze di mantenimento almeno delle posizioni, esse registrano difficoltà a consolidare prima ancora che a svilup-pare la loro presenza operativa. Una difficoltà simile segna nel complesso anche il campione di imprese siciliane e quello pugliese che però registra al suo interno la vivacità di un nucleo più attivo e dinamico di imprese che (sparse un po’ in quasi tutte le regioni) si segnalano in questa indagine come una sorta di punta di diamante, specie nel comparto manifatturiero, un prototipo promettente di imprese che carat-terizza parte del sistema produttivo meridionale. C’è da dire che – come si vedrà in seguito – la previsione di una decelerazione dell’economia particolarmente intensa proprio nel Mezzogiorno pone serie preoccupazioni per la tenuta di questo parziale dinamismo.

2.1. Il capitale umano. Intensità, qualità, funzioni

Gli aspetti costitutivi del modello innovativo – sostenibile indagato nel rapporto è centrato su due aspetti cruciali: la qualità delle risorse umane e la intensità dello sforzo innovativo, tendenzialmente correlato all’intensità dell’impegno in investimenti.

Sul versante del capitale umano gli indicatori prescelti rinviano all’analisi delle caratteristiche dei lavoratori in forza alle imprese guardando sia alla formazione che alle mansioni svolte. Il che consente di dedurre un quadro quali-quantitativo delle risorse umane disponibili in azienda al quale affiancare l’ulteriore informazione dell’impegno finanziario che l’azienda profonde in attività di formazione professio-nale.

Dal punto di vista delle qualifiche “istituzionali” della forza lavoro (scuola dell’obbligo, diploma di scuola media superiore, laurea) un metro di paragone e di valutazione significativo è dato dal confronto delle risultanze per le imprese mani-fatturiere delle nostre regioni con quanto emerge per il campione di imprese mani-fatturiere dell’indagine – quasi contemporanea – del Gruppo Unicredito. Laddove i dati sono disponibili con lineare semplicità (e ciò è vero solo per Calabria, Puglia e Sicilia) emerge una quota sistematicamente più elevata degli addetti con titolo di

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studio della scuola dell’obbligo. Rispetto al 42,7% dell’indagine Unicredito, abbia-mo il 54,1% in Puglia, il 53,9% ed il 60,2% in Calabria per le imprese fino a e sopra a 50 addetti. Per contro al 49,5% degli addetti con diploma di scuola media superiore del campione Unicredito, corrisponde il 41,5% pugliese e rispettivamente il 43,1% ed il 33,1% delle imprese calabresi. La Sicilia è sostanzialmente in linea con i valori nazionali. Valori ancor più divaricati a svantaggio delle nostre imprese meridionali si hanno quando si giunge ai lavoratori laureati: a fronte del 7,8% nazionale (ed al 5,5% del sottocampione meridionale) abbiamo il 4,4% pugliese e, rispettivamente il 3%, il 6,7% calabrese. Dalla Calabria abbiamo anche una ulteriore informazione sulle imprese (non certo locali) con oltre 250 addetti: la struttura della loro forza lavoro vede il 25% con titolo di studio della scuola dell’obbligo, il 75% con diploma di scuola media superiore e lo 0,0% con diploma di laurea. Anche in questo caso la Sicilia si attesta più prossima ai valori medi nazionali, non è dato sapere dalle infor-mazioni riportate nel breve testo come si articola la vicenda campana e lucana.

L’analisi delle distribuzioni per qualifiche presenti nelle imprese dei campioni regionali evidenzia diversificazioni significative che confermano, per così dire, l’ideale traiettoria che vede all’estremo più basso Calabria e Basilicata ed una pro-gressione che arriva a Puglia e Campania. In relazione a questo fenomeno manca invece un quadro dettagliato di base per la Sicilia. Le sei qualifiche individuate (diri-genti, quadri, impiegati, intermedi, operai qualificati, operai comuni e apprendisti, consulenti) rappresentano una formalizzazione della ripartizione gerarchica delle mansioni, coerente ad una divisione del lavoro improntata ad un’organizzazione per deleghe che fa riferimento ad una tipologia di ideale impresa manageriale. Ebbene il modello manageriale risulta ovunque particolarmente debole, se non inesistente. Laddove è riportata la distinzione per classi di addetti – come in Campania – esso risulta evidentemente dominante solo per le imprese con più di 250 addetti.

Dirigenti e quadri sono infatti presenti in meno del 10% delle imprese lucane, nell’11,7% di quelle pugliesi e nel 12,2% delle imprese campane (non è dato di sapere il risultato calabrese. È presumibile che esso sia più vicino al dato lucano che a quello campano).

Gli impiegati ed intermedi sono presenti nel 41,7% delle imprese lucane, nel 44,6% di quelle pugliesi e nel 48% delle campane.

Gli operai qualificati rispettivamente nel 71,9%, nel 62% e nel 70,7% delle imprese e gli apprendisti ed operai comuni nel 28,1%, 38,7% e 49,6% delle imprese delle rispettive regioni. Infine, la presenza dei consulenti va dal 4,1% della Basili-cata al 6% della Campania.

L’immagine della struttura gerarchica organizzata per mansioni e deleghe come forma operativa dell’impresa è ben lontana dal rappresentarci una realtà evoluta ed equilibrata. I dati commentati sono quelli delle imprese manifatturiere, ma con le specificità che diremo, il tratto emergente di arretratezza coinvolge tutti i comparti analizzati.

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Quanto all’applicazione dell’ideale divisione del lavoro interna all’impresa, le nostre imprese non sfuggono alla generale caratteristica secondo la quale le uniche funzioni che vedono una apposita competenza dedicata alla loro gestione sono come d’uso quella della produzione e logistica e quella commerciale; più a distanza (con l’eccezione delle imprese del settore turismo) risulta configurarsi anche la mansione di amministrazione e controllo.

Né sembra che le imprese, specie quelle di minori dimensioni, abbiano una particolare attenzione all’“approfondimento” del capitale umano investendo in for-mazione. Nel complesso delle manifatturiere si va dall’11% della Calabria al 23% della Campania (valori che passano al 46% per le imprese tra i 51 e 250 addetti, e raggiungono il 90% in Campania per le – rare – imprese di taglia ancor maggiore. Il trend inoltre mette in evidenza una riduzione dell’investimento tra il 2007 ed il 2008.

Rispetto ad un ideale modello operativo gestionale centrato su un aumento delle competenze ed una divisione del lavoro all’interno della struttura necessariamente gerarchica che identifica qualsiasi tipo di impresa, l’immagine che l’analisi dei dati ci restituisce è quella di un pervasivo accentramento gerarchico di responsabilità, fonte di notevoli discontinuità e, alla lunga, di sostanziale fragilità. Infatti la ben parziale divisione del lavoro è surrogata dal ruolo pregnante dell’imprenditore – proprietario – amministratore che risulta non solo manager polivalente ma sostan-zialmente unico responsabile (e anche unico depositario) delle scelte strategiche dell’impresa. Certo questo è un portato caratteristico di tutte le imprese minori, dove le deleghe di responsabilità operative e gestionali oltre ad essere viste come un pericolo sono considerate anche un lusso e dove la gestione più che ispirarsi ad un’ottica strategica si configura come funzionale al “pronto intervento” in risposta alle circostanze mutevoli piuttosto che come funzione di governo. Ciò segnala uno stile di governo reattivo, preoccupato soprattutto di tenere ferma la barra rispetto ai tanti intralci del giorno per giorno. Il che rende difficile anche pensare ad una prospettiva di evoluzione nella quale il sistema operativo-gestionale di impresa sia in grado di metabolizzare gli intralci del giorno per giorno per puntare invece a per-seguire, secondo programma, un disegno di lunga lena.

È significativa e verosimilmente generalizzabile alle nostre imprese, l’evidenza della Basilicata dove le attività di pianificazione strategica a medio lungo termine, quale che sia il comparto non esiste per circa il 10% dei casi, è attività esclusiva dell’imprenditore (che di norma non ne fa partecipe il gruppo dirigente) per oltre il 75% dei casi ed è aperta alla partecipazione dei collaboratori solo nel 14% delle imprese.

2.2. Gli investimenti, l’innovazione, le fonti di finanziamento

Come si è anticipato, il processo di accumulazione che l’attività di investimen-

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to documenta è l’ulteriore oggetto di indagine per formulare il giudizio sul grado di capacità di innovazione del sistema produttivo locale e, quindi, sul potenziale miglioramento delle sue capacità competitive. Anche in questo caso, almeno con riferimento al settore delle imprese manifatturiere, la disponibilità dell’indagine nazionale Unicredito costituisce un benchmark particolarmente utile. L’indagine Unicredito, riferita al triennio 2004-2006, segnala per il complesso delle manifattu-riere una quota di imprese che hanno realizzato investimenti in impianti macchinari ed attrezzature pari al 72,8% del campione. Un dato in significativa flessione rispet-to all’81,9% ed al 90% delle due indagini precedenti. Nel nostro caso il dato sulla quota percentuale di imprese che hanno realizzato investimenti è riferito al 2007 ed al 2008 (e l’ultimo dato si riferisce ad attività e progetti in qualche caso intrapresi e non conclusi). A parte la sfasatura temporale, a fronte di un dato cumulato per un triennio (indagine Unicredito) i due dati per il 2007 e 2008 oltre agli investimenti in attrezzature e macchinari comprendono anche quelli in opere edilizie (in preva-lenza ristrutturazioni e adeguamenti, più che ampliamenti). Ne consegue che, pur normalizzando il dato Unicredito a solo due periodi (di conseguenza dal 72,8% si passerebbe al 48,6%), occorre comunque tener conto che il dato delle nostre regioni è “lordo” nel senso che risulta sopravalutato per la componente di investimenti in edilizia. Procedendo con queste avvertenze al confronto per il comparto delle impre-se manifatturiere risulta evidente una decisa minore propensione ad investire delle nostre imprese meridionali.

Infatti il dato “lordo” della Basilicata sfiora il 50%, quello della Calabria si collo-ca sul 27%, al 48% si colloca il dato “lordo” della Puglia, al 40% la Sicilia e al 30% quello della Campania. Se ricordiamo poi che il dato riferito all’indagine Unicredi-to è in decisa flessione rispetto alle precedenti indagini strutturali, la performance dell’indagine riferita alle nostre quattro regioni meridionali legittima seri motivi di preoccupazione. A spiegare questa insoddisfacente performance e, in generale, la accresciuta difficoltà a sostenere un adeguato ritmo di accumulazione, si sottolinea il persistente e stringente vincolo finanziario che emerge con evidente rilevanza per la generalità delle nostre imprese in tutte le regioni e che si manifesta in netta correlazione inversa con la dimensione delle imprese. Il segnale più evidente di tale vincolo è rappresentato dall’anomalo ricorso all’autofinanziamento tra le fonti di finanziamento degli investimenti. L’autofinanziamento risulta in effetti la fonte principale di provvista di risorse per coprire le esigenze connesse agli investimenti in ogni comparto ed in ogni regione con livelli medi che per il manifatturiero in particolare, ma anche in generale si aggirano attorno al 60% del fabbisogno. Quan-to sia significativa questo livello di copertura risulta del tutto evidente ancora una volta dal confronto con la indagine Unicredito dalla quale risulta che la componente di autofinanziamento – pur confermandosi preminente – si attesta su una quota del 37,7% seguita da un significativo apporto (23,9%) del credito a medio – lungo ter-mine, che invece nel nostro caso non supera il 10%. Sempre dall’indagine Unicre-

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dito risulta che il credito a breve termine concorre solo per il 6% laddove nel nostro caso supera invece il 10%. Per le nostre regioni la seconda forma di finanziamento degli investimenti (con un 24%) è rappresentato dal leasing che si attesta al 20% nell’indagine Unicredito.

In sostanza il peso abnorme dell’autofinanziamento ed il più alto ricorso al cre-dito a breve (che nel complesso provvedono ad oltre il 70% della provvista neces-saria) sono una eloquente conferma della insormontabile difficoltà di realizzare un equilibrato finanziamento dell’accumulazione. Il che si traduce in un ovvio vincolo all’intensificazione del capitale e – a cascata – alle possibilità di procedere allo svi-luppo competitivo con un intenso ricorso all’innovazione. Non a caso proprio per il finanziamento dell’innovazione il ricorso all’autofinanziamento si fa ancora più intenso fino a divenire in alcuni comparti (come per l’ICT e le costruzioni in Puglia) la forma esclusiva di provvista.

A sua volta – ed informazioni in proposito sarebbero benvenute oltre che oppor-tune – questo vincolo estremamente condizionante origina da debolezze strutturali delle singole imprese. C’è da scommettere che il freddo automatismo dei rating introdotto con Basilea 2 evidenzierebbe soprattutto insufficiente patrimonializza-zione, ed inadeguate garanzie, nonché carenze di spirito mutualistico-partecipativo dei sistemi di imprese nelle nostre regioni che ostacolano ulteriormente la predispo-sizione di quegli strumenti di agevolazione e delega nel rapporto banche – imprese rappresentati soprattutto dalla tipologia di consorzi fidi conformi (anche in questo caso) alla precettistica di Basilea 2.

Da quanto sopra segue che strategia e qualità dei percorsi innovativi (tecnologici ed organizzativi) di queste imprese non possono di certo prescindere dal vincolo strutturale ora illustrato. Non meraviglia quindi che l’attività innovativa (che come detto risulta quella che più necessita di autofinanziamento) coinvolga una quota alquanto ridotta delle nostre imprese in qualsiasi comparto e con un’intonazione decrescente nel biennio considerato. In Sicilia con un 21% nel comparto manifat-turiero si ha il picco delle imprese che introducono innovazioni, in Campania le imprese manifatturiere, e dell’ICT che introducono innovazioni sono attorno al 7% nel 2007 e scendono al 5% nell’anno successivo, ancor di meno quelle del settore turistico, parimenti in Calabria che registra nel complesso solo il 3,9% di impre-se che introducono innovazioni nel 2007, quota che si riduce al 2,2% nel 2008. Meglio – ma solo per il comparto manifatturiero – in Puglia dove le imprese che introducono innovazioni sono circa il 10% in ognuno dei due anni (ma sono attorno all’1% negli altri comparti). Ed anche un 10%, limitato alle imprese manifatturiere, si registra in Basilicata.

A ciò si aggiunge che in generale la valutazione che viene data dalle imprese circa gli effetti delle innovazioni introdotte non è particolarmente gratificante. Le imprese dichiarano che gli effetti sono stati nulli o quasi con riferimento ai possibili vantaggi sui mercati esteri, e molto limitati anche sul fronte della compe-

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titività interna. A questo proposito va osservato che un effetto nullo non significa irrilevanza della innovazione, in sua assenza la posizione competitiva dell’impresa avrebbe potuto subire un deterioramento. Se così non fosse si dovrebbe conclude-re che l’innovazione – quasi per definizione – non era tale, dovendosi invece più correttamente qualificarla come uno spreco. Sembra quindi realistico attribuire alla limitata propensione all’innovazione una valenza difensiva, volta alla sopravvivenza ed al mantenimento delle posizioni acquisite; nel rapporto si parla di innovazioni con forte caratterizzazioni “autarchiche” legate cioè a scelte non proprio meditate o strategiche per lo più riconducibili all’imprenditore e, al contempo, di innovazioni “leggere” due elementi coerenti alla logica della sopravvivenza più che alla strategia dell’evoluzione tecnico-organizzativa e che in parte possono ricondursi per forza di cose allo stringente vincolo finanziario che investe più intensamente che altrove la platea delle imprese considerate.

2.3. L’impresa esportatrice

Il riscontro più evidente del successo del percorso intrapreso nella strategia delle imprese lo si ha sul mercato, un mercato oggi sempre più globale. Il differenziale con il quale misurare il successo è di conseguenza la dinamica con la quale si rea-lizza l’apertura dell’impresa ai mercati esterni al suo ambito tradizionale: cioè la sua capacità di presenza stabile in circuiti sempre più ampi. Come si è detto più sopra questo concetto di performance “esportativa” è colto solo suggestivamente dalla dimensione esportazioni in senso tecnico; il contenuto del concetto “esportazioni” andrebbe opportunamente tarato a seconda del comparto di riferimento. Se certo per le imprese manifatturiere il richiamo alle esportazioni è decisivo perché rappresenta la prima forma di confronto con l’inevitabile dimensione dell’internazionalizzazio-ne, se per le imprese turistiche la ovvia qualificazione del concetto di esportazione è il riferimento alla clientela estera, diverso – come si è già detto – dovrebbe essere il metro di misura per un settore fortemente ancorato al territorio come quello delle costruzioni per il quale, soprattutto per le piccole e medie imprese, vale anzitutto la capacità di sviluppare la presenza su mercati extra regionali abbinata alla capacità di soddisfare la domanda regionale. Opinabile, infine che il dato esportazioni rappre-senti un diretto ed immediato segnale di successo per il comparto ICT, laddove que-ste imprese, specie se piccole, nell’ambito dell’articolazione del sistema produttivo possono svolgere con estremo successo un ruolo di supporto essenziale ma indiretto e funzionale all’espansione sui mercati delle imprese locali o nazionali che ricor-rono ai loro servizi. Anche e soprattutto per questo aspetto, ai fini di una lettura sui percorsi evolutivi in atto, il riferimento più opportuno con riguardo alla dimensione esportazioni tende quindi a concentrarsi sull’evidenza delle imprese manifatturiere, ed ancora ci assiste il benchmark nazionale dell’indagine Unicredito.

La X indagine strutturale evidenzia per il triennio 2004-2006 una quota di

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imprese esportatrici pari al 60% del campione, in flessione rispetto al 68,1% della precedente indagine. Nel nostro caso le imprese esportatrici sono una quota netta-mente inferiore in entrambi gli anni; si va dal modestissimo valore (11-12%) della Calabria al 17-14% della Basilicata per arrivare a valori attorno al 20% della Puglia ed al 40% della Campania e della Sicilia che si confermano così come le regioni meridionali più vicine agli standard nazionali; queste ultime e la Puglia segnano anche un più consistente valore della quota del fatturato esportato (circa il 30%) un valore comunque ben più contenuto rispetto al 45% che è la media del sistema. Se a livello nazionale le performance esportative non sono esaltanti, a maggior ragione non è esaltante la performance delle nostre regioni che, risultando marginali rispetto alle dinamiche nazionali, sono ben lontane dal realizzare l’aggancio ad un peraltro non proprio consolidato modello competitivo nazionale.

Paradossalmente, proprio in questi insoddisfacenti risultati trova conferma la validità dell’ipotesi di partenza sottoposta a verifica e secondo la quale é possibile trovare un robusto nesso tra investimenti, innovazione e posizionamento compe-titivo. Infatti sono molti i riscontri che vedono le imprese che hanno realizzato investimenti nel biennio essere le più coinvolte nei processi innovativi e risultare, in quota nettamente superiore alle rispettive medie settoriali e territoriali, tra le imprese esportatrici. In una certa misura il risultato complessivo della verifica nel legittimare la validità del modello proposto ne constata anche la scarsa applicazione da parte delle nostre imprese con la puntuale conseguenza dell’altrettanto insoddisfacente riscontro sul versante del posizionamento competitivo.

2.4. Visione di sé e posizionamento competitivo

Ciò che emerge dall’analisi dei caratteri delle imprese è abbastanza chiaro e non certo rassicurante. Sicuramente siamo alquanto lontani da un percorso virtuoso di sicuro consolidamento strutturale. Questo giudizio, per così dire, esterno non cor-risponde per nulla a quello che troviamo nella autovalutazione che è stata richiesta alle imprese nel corso dell’indagine. L’autovalutazione concerne proprio il tema cruciale della percezione soggettiva del proprio livello competitivo e le risposte appaiono francamente distorte in senso ottimistico alla luce dei riscontri della siste-matica debolezza di molti elementi che concorrono a dare contenuto ad un modello competitivamente sostenibile (investimenti, formazione, innovazioni, ecc.). Questa debolezza – specie nel comparto manifatturiero – trova una precisa conferma nel paragone con il benchmark dell’indagine Unicredito. È vero che Calabria e Basi-licata – oggettivamente le regioni più problematiche – sono anche quelle dove è meno consistente la valutazione di livello “buono” o “ottimo” in generale e per il comparto manifatturiero in particolare, ma è anche vero che la percezione di una posizione competitiva “scarsa” con valori che al massimo raggiungono il 7% delle imprese risulta per tutte le regioni una chiara sottostima dell’effettivo posiziona-

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mento. Probabilmente tale distorsione più che ad una reticente autoreferenzialità dell’imprenditore – proprietario – dirigente ha a che fare con una carente percezione dei mutamenti dell’ambiente competitivo. In ossequio alla ben nota categoria della razionalità limitata, l’imprenditore risponde al ritmo del mutamento competitivo non con una strategia ottimizzante bensì con l’adozione di un criterio di satisficing necessariamente subottimale anche in ragione del fatto che la possibilità di misurarsi con un ambiente sempre più ampio e complesso va commisurata ai vincoli che pos-sono precludere fin anche la possibilità di immaginare soluzioni ottimali. Risposte così apparentemente irrealistiche tornano ad avere una forte plausibilità se conside-riamo l’autovalutazione non come una risposta ad una richiesta astratta bensì come un’indicazione della capacità di collocarsi ed operare all’interno di uno spazio di azione, di un habitat fortemente condizionato.

3. Quesiti, aspettative, prospettive

Nel metodo, la raccomandazione è di disciplinare la libertà espositiva con la quale si esplicita, regione per regione, il commento dei risultati a ben precisi stan-dard. Ciò sarebbe di particolare utilità visto l’intento di verificare su territori diversi il grado di implementazione di un comune modello di riferimento al quale commi-surare la performance competitiva delle imprese. Non sempre la necessaria analisi “orizzontale” è risultata possibile in carenza di un omogenea e dettagliata disponibi-lità di alcuni semplici dati di base. Se comunque a questi dettagli operativi in parte si può ovviare con un sensato esercizio di interpolazione, altri aspetti vengono invece sollecitati dall’indagine ed essi potrebbero rappresentare importanti integrazioni del ricco apparato documentale oltre a fornire elementi per sciogliere qualche dubbio interpretativo su aspetti di rilievo strategico.

Proprio il paradosso dell’apparente ottimistica autoreferenzialità solleva dubbi e quesiti che una prossima indagine potrebbe sciogliere e soddisfare. Una caratte-ristica tipica delle indagini campionarie, che anche in questo caso potrebbe essere riproposta, è il fatto che si raccolgono dati che se ben articolati possono utilmente contribuire ad indagare il “lato nascosto” della realtà alla quale vanno a porsi i que-siti. Certo occorre avere in mente le zone d’ombra che più interessano e che non vengono illuminate da analisi dirette non certo per disattenzione bensì perché si ritiene, a ragion veduta, inutile sollevare problemi sui quali la reticenza dell’inter-vistato è garantita. È il caso, ad esempio, del ruolo e dell’incidenza dell’economia sommersa quale componente strutturale di ogni impresa emersa. Una via indiretta di valutazione può essere fornita proprio dall’incrocio dei dati di questionario con alcuni dati contabili che si prestano a “rivelare” aspetti interessanti ben al di là di quanto esplicitamente l’imprenditore è disposto a fare.

Vi è poi un secondo grande tema (non indipendente da quello precedente) che

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riguarda l’indagine dei rapporti tra imprese che andrebbe esplicitamente introdotto nell’indagine. Nel caso specifico sarebbe stato molto illuminante avere una qualche misura del fenomeno della subfornitura (e sapere da quale parte del rapporto si col-locano le nostre imprese). La solita X indagine strutturale rivela che la produzione su commessa in questi ultimi anni è in forte espansione; questo non è un fenomeno di poco conto nella patria dei distretti, del più esasperato dualismo strutturale e delle delocalizzazioni come forme di internazionalizzazione. Siamo evidentemente di fronte a strategie – prevalentemente difensive – di strati non irrilevanti di imprese che tentano forse di dare risposte all’esigenza di aggiustamenti strutturali che non necessariamente passano per il percorso investimento-innovazione per realizzare o difendere il proprio modo di stare nella globalizzazione e/o di far fronte alle nubi che si addensano all’orizzonte.

E a questo proposito, la prossima indagine, potrebbe calibrare il questionario per cogliere analiticamente gli effetti ed i condizionamenti che le crescenti difficoltà della congiuntura possono porre alla gestione dei problemi di struttura che si sono così bene evidenziati.

Come si è detto, la prospettiva 2008-2009 per come ci è prospettata dalle usual-mente attendibili previsioni della SVIMEZ sono particolarmente allarmanti. Due anni di contrazione del PIL nazionale articolati in una stagnazione del Centro-Nord ed una evidente recessione del Mezzogiorno possono avere effetti estremamente penalizzanti per le imprese delle nostre regioni, anche per quel nucleo che ne rappre-senta la punta di diamante perché più in grado di operare sul mercato globale.

Secondo queste proiezioni, le imprese del Sud, diversamente da quelle del Cen-tro Nord, dovranno affrontare il doppio limite della forte frenata della domanda mondiale (che tenderà a incidere appunto sulla punta di diamante del suo apparato produttivo) e della flessione della domanda interna provocata dalla riduzione del reddito disponibile delle famiglie. Il Centro Nord potrà almeno parzialmente colma-re la flessione della domanda mondiale con la tenuta della domanda interna che si collega ad una previsione di reddito disponibile delle famiglie ancora in espansione. In aggiunta non è da trascurare il fatto ampiamente sperimentato che – proprio in virtù del differenziale di competitività – ogni fase recessiva vede le imprese del Centro-Nord accentuare la penetrazione sul mercato meridionale come ammortizza-tore del ridotto assorbimento del mercato internazionale. In altri termini accanto alla dipendenza strutturale del settore produttivo meridionale viene ad intensificarsi il tradizionale ruolo del Sud come mercato di sbocco per le produzioni settentrionali.

4. Linee di politica industriale

Il quadro problematico prospettato rinvia evidentemente al ruolo delle politiche, in specie di quella industriale che, viene da dire, dovrebbe essere resuscitata dopo il

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lungo letargo imposto da un’ideologia che ha teso a demonizzarla con risultati non particolarmente brillanti.

Il ruolo di politiche attive è poi doppiamente importante per le regioni del Sud che alla crescente competizione imposta dal mercato globale vedono aggiungersi gli svantaggi di una competizione interna sulla quale, per evidenti motivi ambientali, sono in partenza soccombenti.

Gli obiettivi che dovrebbero guidare gli interventi sono noti, condivisi e si ritrovano tutti nelle prescrizioni proposte da questo rapporto: innovazione, ricerca, valorizzazione del capitale umano e delle competenze, adeguato accesso alle risorse a cominciare da risparmio e finanza per riqualificare la struttura produttiva così da portarla a navigare verso il mare più tranquillo del “potere di mercato”, con impre-se più robuste ed interrelate. Obiettivi tanto semplici da enunciare quanto ardui da conseguire.

Rispetto all’esperienza recente e ai deludenti risultati della Nuova Programma-zione, è il momento di aprirsi con più coraggio ad un approccio selettivo di politica industriale.

Questa scelta va fatta con cautela ed avvedutezza ma realizzata con decisione. Essa impone anzitutto la necessità di analizzare, conoscere e quindi selezionare, concentrare e valutare. Inutile dire quanto cruciale a questi fini risulti la presenza attiva di una struttura di banche e intermediari attenta al territorio.

Un terreno sul quale si deve tornare per definire un percorso strategico é quello della promozione e arricchimento di “filiere produttive”. È, questa della filiera, una dimensione più flessibile ed appropriata al Sud rispetto a quella distrettuale, ancora dominante come modello di riferimento, specie in considerazione del fatto che la politica industriale sconta nel Mezzogiorno le difficoltà e i rischi di dispersione dovuti alle profonde discontinuità oltre che alla fragilità endemica del sistema pro-duttivo.

Un criterio di questo genere, promuovendo l’infittimento ragionato della matrice produttiva consente di puntare a molteplici risultati. In particolare all’effetto diretto si aggiunge la graduale riduzione del contenuto di importazioni nette per unità di prodotto industriale, e l’attivazione ed attrazione di servizi connessi. Peraltro, a sua volta, sul versante dell’offerta, opportune attivazioni di servizi qualificati (ricerca e sviluppo, formazione) possono interagire attivando veri e propri circuiti virtuosi.

Una simile linea di intervento deve poggiare su efficaci misure di attrazione e di coordinamento tra le varie aree che la filiera mette in connessione. Rafforzare il local content della produzione industriale, consente di allineare gradualmente gli effetti dell’impatto delle risorse investite a quello della tradizionale spesa infra-strutturale. Che ciò non sia un effetto di poco conto lo si può giudicare da alcuni dati stimati dall’IRPET concernenti la percentuale di valore aggiunto attivata dalla domanda finale interna trattenuta all’interno del territorio di intervento. Dal con-fronto Nord-Sud risulta che per l’industria alimentare il 92% del Centro-Nord si

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confronta con il 66% del Sud; e così il 96% con il 63% nel comparto dei prodotti in metallo; il 97% con il 55% nella meccanica; il 92% con il 62% nel comparto dei mezzi di trasporto; il 97% con il 48% per legno, metalli e plastica; il 92% con il 60% nella chimica, e così via. Da qui la considerazione che impiegare risorse al Sud senza preoccuparsi di attenuare questo divario strutturale, equivale al frustrante ten-tativo di riempire una pentola irrimediabilmente bucata, in altri termini a dissipare inevitabilmente risorse.

La secca evidenza di questi numeri, è la più eloquente illustrazione di cosa si intende quando si sostiene che questa linea di condotta rappresenta una condizione necessaria per realizzare nel Mezzogiorno il passaggio dall’economia della dipen-denza all’economia dell’interdipendenza.

Rimane un “problema-principe” che è quello dell’attrazione di risorse e progetti per dare corpo a questa linea di condotta che, attraverso le imprese, mira a promuo-vere l’inserimento delle regioni meridionali nel circuito dello sviluppo.

È un problema delicato anche perché è oggi più che mai evidente che molte delle misure, più o meno di emergenza volte a sostenere l’industria nazionale nell’intento di arrestarne il declino o di far fronte alla congiuntura negativa, nel mentre favo-riscono genericamente le imprese, accentuano di fatto l’handicap competitivo di quelle meridionali.

A fronteggiare queste difficoltà dovrebbe validamente contribuire lo strumento, tutto da scoprire, della finora fantomatica fiscalità di vantaggio. Per realizzare effet-tivamente un “vantaggio”, all’altezza del compito individuato, l’intervento deve farsi a dir poco audace, cominciando anzitutto a liquidare – in regime di moneta unica – il concetto di lesione della concorrenza che ha finora motivato in sede di UE le censure nei nostri confronti.

Ma da questo punto di vista quel che prospetta l’articolo 14 del testo di legge sull’applicazione dell’articolo 119 del titolo V della Costituzione (il cosiddetto fede-ralismo fiscale) è tutt’altro che rassicurante. Quell’articolo, più che alla fiscalità di vantaggio apre ad una competizione fiscale territoriale che non potrebbe che avere esiti esiziali per regioni a minore capacità fiscale come quelle meridionali.

Un effettivo vantaggio fiscale, non è un regalo né una protezione degli opera-tori locali, bensì rappresenta la condizione necessaria perché la nuova centralità mediterranea portata dalla globalizzazione possa effettivamente far da volano allo sviluppo, facendo effettivamente del Mezzogiorno la nuova frontiera dell’industria-lizzazione.

Una strategia deve essere coerente con il quadro istituzionale che la governa. Da questo punto di vista proprio la prospettiva del cosiddetto federalismo fiscale affida al livello regionale di governo crescenti responsabilità in tutta la gamma delle poli-tiche. Per le regioni meridionali si pone l’esigenza di una radicale presa di coscienza di questa prospettiva e della necessità di rivedere criticamente i principi ispiratori della Nuova Programmazione inaugurata nel 1998.

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È evidente l’esigenza di realizzare una regia coerente rispetto allo “spontaneismo dispersivo” tipico dell’azione delegata all’iniziativa dal basso della Nuova Program-mazione (patti, contratti, ecc.).

Questa evoluzione, che sarebbe errato tacciare di centralismo regionale, è la scommessa da vincere per realizzare un intervento capace di influire sulle condi-zioni di contesto alle quali si guarda giustamente con preoccupazione come segno della persistente debolezza relativa dell’apparato produttivo delle regioni del Mez-zogiorno. A tale fine ogni singola regione non deve lavorare in isolamento, bensì contribuire ad un coordinamento strategico.

Il compito più impegnativo di questa trasformazione è quello di far fronte alla debolezza della struttura produttiva locale, ampiamente illustrata da questa inda-gine. Da questa, come da altre analisi macrostrutturali emerge in tutta evidenza l’insufficiente ruolo svolto dall’economia locale e la inesorabile insufficienza dei pur non secondari elementi di autopropulsività. In altri termini occorre far fronte alla necessità di reimmettere le imprese del Mezzogiorno in un circuito nazionale ed internazionale di sviluppo.

Per fare questo salto é di vitale importanza lavorare alle grandi linee di un pro-getto che dia corpo ad una strategia comune. Dalla concretezza di queste urgenze emerge l’esigenza di non muoversi in ordine sparso, evitando il rischio di azioni esemplari in sé ma complessivamente inefficaci.

Se non si fa rete, e non si attiva con efficaci politiche il rilancio dell’economia locale i singoli elementi di potenziale favorevole dinamismo relativo (di fatto i fondi strutturali) potrebbero rivelarsi sempre più insufficienti. La prospettiva del coordinamento attorno ad una strategia rappresenta la naturale dimensione socio-economica necessaria per avviare un processo volto a realizzare una “Regione d’Eu-ropa” dinamica, aperta e proiettata ad est e sul mediterraneo, che può contribuire, da protagonista, al rilancio del Sistema Italia

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CAPITOLO 6

L’INTERNAZIONALIZZAZIONE: UNA SFIDA DA RACCOGLIERE

Paolo Guerrieri

1. L’internazionalizzazione e l’economia globale

Nell’ultimo triennio, durante la fase di ripresa bruscamente interrotta dalla grave crisi che ha investito nel 2008 l’economia globale, si è verificato un deciso rafforza-mento della presenza delle imprese italiane sui mercati internazionali: non soltanto attraverso le esportazioni, ma anche con attività distributive e produttive realizzate tramite investimenti diretti o accordi di collaborazione con imprese straniere (Banca d’Italia 2008). In primo luogo, nell’Unione Europea, che rimane la principale area di destinazione delle esportazioni e delle partecipazione italiane in imprese estere, e nell’Est Europa, ma anche in nuove aree emergenti, più o meno lontane, quali il Medio Oriente e l’Asia, in particolare la Cina (Ice, 2008).

Il fenomeno dell’accresciuta internazionalizzazione dell’economia italiana si inserisce in quella redistribuzione internazionale del lavoro resa possibile dalle nuove tecnologie e dalla globalizzazione dei mercati con l’ascesa di nuovi paesi emergenti che ha orientato le dinamiche dell’economia mondiale negli ultimi due decenni e da cui è necessario partire per meglio comprendere natura e portata di ciò che è successo in Italia nel periodo più recente.

La crescita del sistema economico globale è stata accompagnata in questa fase da cambiamenti di vasta portata nelle modalità di produzione e distribuzione della ricchezza a livello mondiale: a titolo esemplificativo, è sufficiente citare l’introdu-zione di nuovi beni e servizi prodotti, i rinnovati processi produttivi per realizzarli, una nuova organizzazione delle imprese nell’ambito di diffusi network proiettati su mercati sempre più vasti, i nuovi paesi produttori a basso costo dell’area emergente, in particolare asiatica. Sullo sfondo, si andava formando una rete globale che condi-ziona oggi lo sviluppo complessivo delle imprese e dei sistemi produttivi definendo, nel contempo, il contesto di competizione tra le maggiori aree e paesi.

Le implicazioni di questo processo di integrazione globale sono molte e di varia natura, a partire dall’aumento generalizzato del grado di contendibilità dei mer-cati. Tra gli effetti più rilevanti vi è l’accelerato cambiamento tecnologico che ha portato alla diffusione di un insieme di innovazioni di tipo radicale, imperniate in particolare sulle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT), e alla conseguente affermazione di una nuova organizzazione dei prodotti e processi pro-duttivi. In particolare tali tecnologie in quanto generali (GPT) incidono non solo su cosa si produce, ma su come lo si produce, e richiedono quindi mutamenti profondi

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nell’organizzazione delle imprese e nel funzionamento dei mercati dei fattori, del lavoro e del capitale.

A livello internazionale questa riorganizzazione ha generato nel nuovo contesto di competizione globale processi di ristrutturazione in tutti i maggiori paesi, unita-mente a processi di frammentazione e rilocalizzazione internazionale dei processi produttivi. L’adozione delle nuove tecnologie e i costi decrescenti di trasporto e comunicazione hanno, infatti, reso possibile una divisione in molteplici fasi della ‘catena del valore’ alla base dei processi produttivi, con incentivi crescenti a loca-lizzare tali fasi nelle parti più svariate del mondo in ragione dei diversi contenuti fattoriali, da un lato, e dei vantaggi comparati e competitivi locali, dall’altro. Una parte così non trascurabile dei manufatti e dei servizi prodotti sono oggi ottenuti e distribuiti all’interno di reti o network di imprese che si estendono a livello di grandi macroregioni con forte specializzazione delle singole unità produttive.

Alcuni paesi emergenti ne sono stati particolarmente favoriti affermandosi come nuovi paesi competitori con un ampio ventaglio di vantaggi comparati. Alcuni di essi, in primo luogo la Cina, sfruttando strategie di sviluppo industriale orientate all’esterno e beneficiando dell’apertura dell’economia mondiale, stanno registrando alti tassi di crescita ed un significativo ‘upgrading’ industriale e tecnologico. L’in-tegrazione internazionale di questi paesi dotati di abbondante manodopera a basso costo e capaci di mobilitare tecnologie medie e avanzate sta determinando un muta-mento qualitativo nella divisione internazionale del lavoro, in cui le sfide non pro-vengono, a differenza del passato, solo dai bassi salari. Un fenomeno – quello della frammentazione e della delocalizzazione – assai poco sviluppato, se non addirittura assente in altre fasi storiche, allorché intensi tra il Nord e Sud del mondo erano gli scambi di natura interindustriale, del tipo manufatti contro materie prime.

Per quanto la grave crisi in atto sia destinata a influire pesantemente su tutte le maggiori aree e paesi, si può già oggi prevedere che essa non arresterà la trasfor-mazione nel prossimo decennio dell’economia mondiale in un sistema multipolare, incentrato su più poli e più motori della crescita globale. Un insieme di paesi emer-genti ne diverranno nuovi rilevanti protagonisti perché riusciranno a crescere relati-vamente di più dei paesi più avanzati. Tutto ciò produrrà mutamenti nella divisione internazionale del lavoro e profonde modifiche delle specializzazioni produttive dei paesi. Vi si dovranno adattare tutti i maggiori paesi modificando nel tempo cosa e, soprattutto, come produrre. Chi non vorrà e/o non saprà farlo subirà forti penalizza-zioni nel proprio potenziale di crescita.

È in queste mutate condizioni di contesto dell’economia mondiale che l’inter-nazionalizzazione ha finito per rappresentare una modalità di sviluppo decisiva per tutte le economie avanzate, in quanto fonte e opportunità di acquisizione di nuovi vantaggi competitivi e quindi di nuove specializzazioni. Allo stesso tempo in conseguenza delle ristrutturazioni in corso l’internazionalizzazione dell’attività economica sta assumendo caratteristiche nuove, anche se per ora limitate ad alcuni

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settori e gruppi di paesi. Basti ricordare che nell’ultimo decennio la dinamica di crescita degli investi-

menti diretti esteri (Ide) – una delle leve più importanti dei processi di internazio-nalizzazione in atto – é stata di gran lunga più elevata di quelle della produzione e delle esportazioni mondiali. E questo è dovuto ai cambiamenti di vasta portata nel modo di produrre e distribuire la ricchezza a livello mondiale che si sono verificati in questi anni e sopra ricordati. A questo riguardo è importante sottolineare oltre la crescita degli Ide dei paesi sviluppati anche la crescita, più di recente, di quelli in provenienza dai paesi del Sud del mondo – e in particolare dai BRICs – e diretti sia verso l’area sviluppata sia verso altri paesi del Sud.

I settori interessati dai processi di internazionalizzazione via investimenti diretti esteri (Ide) e accordi internazionali tra imprese sono davvero molti e appartenenti a comparti dalla caratteristiche più svariate in termini di tecnologie, organizza-zione e costo dei fattori. Va comunque sottolineato come un gruppo di comparti particolarmente interessato sia quello ove si sperimentano le maggiori opportunità tecnologiche, ovvero i settori ad alto contenuto tecnologico. L’insieme delle Imprese multinazionali conta ormai per oltre due terzi della spesa privata mondiale in R&S e per più della metà di quella totale, a confermare la stretta relazione che si instaura tra ricerca, innovazione e internazionalizzazione produttiva delle imprese. In terzo luogo, la stessa attività di R&S diviene oggetto crescente di internazionalizzazione produttiva, con un trend che accomuna tutti i paesi industrializzati, pur a partire da differenti livelli iniziali. I processi in atto stanno dunque cambiando profondamente non solo la distribuzione delle capacità produttive a livello internazionale ma sem-pre più influenzano la generazione e la diffusione delle tecnologie e più in generale delle conoscenze collegate.

Eppure, nonostante la sua indubbia rilevanza, l’internazionalizzazione é un pro-cesso molto spesso sottostimato e/o mal definito, perché circoscritto alla mera pro-iezione commerciale estera, ovvero all’export delle imprese di un paese. In realtà, esso comprende ormai tutte quelle forme di «integrazione profonda» tra il sistema di un paese ed altri territori o imprese, che nascono sia dalla capacità di queste ultime di radicarsi su altri mercati tramite investimenti all’estero e accordi non meramente commerciali (la cosiddetta internazionalizzazione attiva); sia dalla valorizzazione del suo territorio attraverso l’attrazione di flussi di investimenti diretti e di localizza-zioni dall’estero (la cosiddetta internazionalizzazione passiva). Sono due aspetti tra loro collegati dal momento che si tratta del medesimo processo di ricomposizione internazionale delle attività produttive. E sono due tendenze che avanzano (o regre-discono) insieme in un paese, perché non si può essere forti nell’investimento estero se non si è altrettanto forti nell’attrarre investimenti dall’estero. Se guardiamo, in effetti, alla classifica dei paesi maggiori investitori troviamo conferma di questa significativa correlazione tra Ide in uscita e Ide in entrata dei singoli paesi (Unctad, 2006).

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2. Il rafforzamento degli ultimi anni

La necessità di essere parte attiva dei processi che stanno contribuendo alla formazione di una nuova rete mondiale è diventato un imperativo categorico per le imprese e i sistemi produttivi di tutti i paesi avanzati. E lo è anche per il nostro paese. Il rilancio della sua competitività è legato alla capacità o meno di partecipare ai mutamenti in corso nell’economia mondiale evitando di finire relegata in ruoli marginali e periferici.

In riferimento a tali processi, la collocazione internazionale dell’economia ita-liana – che aveva contribuito in passato in misura determinante alla crescita del paese – ha subito un deciso deterioramento nel periodo che va dalla metà degli anni Novanta alla metà del decennio in corso. Le nostre imprese hanno incontrato cre-scenti difficoltà a partecipare ai processi di ristrutturazione della catena del valore a livello internazionale prima ricordati e i nostri territori sono riusciti ad attrarre assai poco le scelte di rilocalizzazione dell’attività produttiva derivanti dalla nuova divisione internazionale del lavoro.

Più di recente nella fase di ripresa, che ha caratterizzato gli anni dal 2005 alla prima parte del 2008, la presenza delle imprese italiane sui mercati internazionali, come si è detto, ha registrato un significativo miglioramento. A questo riguardo il primo dato da richiamare riguarda le esportazioni che sono tornate a crescere inten-samente in quest’ultimo periodo.

Fra le componenti della domanda che hanno sostenuto l’incremento della produ-zione industriale nella ultima fase di ripresa figurano in prima fila le esportazioni di merci, a testimonianza di una rinnovata capacità delle imprese italiane di sfruttare la crescita degli scambi mondiali. Le esportazioni italiane hanno beneficiato soprat-tutto della fase di espansione nell’area europea e in particolare nel gruppo dei paesi dell’euro, con in testa la Germania che resta il mercato di sbocco più importante per l’export italiano. Gli incrementi massimi di questo ultimo periodo si sono avuti comunque proprio sui mercati emergenti più dinamici, quali i nuovi paesi membri della UE, la Russia e la Cina, in particolare (Ice, 2008).

A livello settoriale l’incremento delle esportazioni ha presentato significative differenze. Forti aumenti si sono verificati nei settori dell’alimentare, dei beni strumentali, in particolare delle macchine e apparecchi meccanici, unitamente ai comparti dei prodotti in metallo e dei mezzi di trasporto, a segnalare la migliorata competitività di talune nostre imprese a tecnologia medio alta. Il surplus della mec-canica ha altresì registrato un forte incremento. Anche il valore aggiunto in questi comparti ha ripreso a crescere con dinamiche significativamente superiori a quelli medi dell’industria manifatturiera dopo la relativa flessione registrata in passato (Ice, 2008).

Per contro, nei settori tradizionali del ‘made in Italy’ e in particolare nei beni di consumo (tessile-abbigliamento, calzature e prodotti in cuoio, mobili) l’andamento

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delle esportazioni è risultato meno dinamico anche se le vendite all’estero sono state caratterizzate da un forte aumento dei valori medi unitari che stanno a segna-lare mutamenti qualitativi dei prodotti esportati.

Un contributo positivo alla crescita è venuto anche dal settore dei servizi, in questo caso sia nel Mezzogiorno (1,3%) sia nel Centro-Nord (1,7%), con un trend di incrementi dall’inizio del decennio in corso che è risultato superiore a quello medio del totale dell’economia a conferma dell’evoluzione strutturale del sistema econo-mico in questa fase storica che porta a un aumento relativo della domanda di servizi, sia quelli legati alla persona sia quelli legati alla produzione e alle imprese (Istat, 2007). In termini di interscambio l’export di servizi è cresciuto significativamente anche se è cresciuto in parallelo il disavanzo in quest’ultimo biennio, a causa di un forte aumento delle importazioni nette di pressoché tutte le voci del comparto dei servizi alle imprese (comunicazioni, servizi professionali e tecnici, assicurazioni, etc) che hanno più che compensato gli avanzi registrati dal turismo e dalle attività finanziarie (Ice, 2007).

Il rilancio dell’export nel periodo più recente non è stato solo un fenomeno cicli-co e congiunturale, per quanto positivo. Il ritorno alla crescita trainata dalle esporta-zioni appare il risultato di un processo di trasformazione e di riposizionamento sui mercati internazionali delle imprese e dei territori italiani assai vasto e profondo, che ha mutato o, comunque, sta mutando la struttura e quindi la posizione competitiva del sistema produttivo italiano.

Alcuni analisi più recenti, in particolare, appaiono indicare che l’uscita dalla fase di stagnazione sia avvenuta grazie a un processo di selezione molto drastica, di tipo darwiniano, che si è svolto a partire dagli anni di maggiore difficoltà dell’inizio del decennio e ha determinato sì un restringimento della base produttiva ma anche la possibilità di poggiare quest’ultima su fondamenta competitive assai più robuste del passato (De Nardis, 2007; Cipolletta, 2006).

Una positiva performance che può dunque essere letta come il risultato della rinnovata competitività raggiunta dal gruppo più vitale degli esportatori italiani in risposta alle sfide provenienti dall’economia globale e dalla concorrenza dei paesi emergenti. Il processo di dura selezione ha visto l’uscita dal mercato delle imprese meno efficienti e un’ampia riallocazione delle quote di mercato a favore di quelle rimaste perché in grado di elevare la qualità dei propri prodotti (Barba Navaretti, Bugamelli, Tucci, 2007). E’ così diminuita l’incidenza delle imprese specializzate prevalentemente in sub-fornitura e per contro è aumentato – soprattutto nelle aree del Centro Nord – il numero di quelle in grado di produrre e esportare nei segmenti a più alto valore aggiunto.

I dati delle Camere di commercio (Unioncamere, 2007) rivelano che nel com-parto manifatturiero negli anni che vanno dal 2004 al 2006 il numero delle imprese che hanno cessato la loro attività è risultato sempre superiore a quelle nuove create. I settori in cui la diminuzione è risultata maggiore sono quelli tradizionali come il

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tessile-abbigliamento in cui si sono più accentuate le pressioni concorrenziali dei nuovi paesi produttori a basso costo. Ancora i dati sulle imprese esportatrici (data-base Ice-Istat, 2007) mostrano che in questi comparti le più forti penalizzazioni hanno interessato le piccole imprese esportatrici che hanno subito sia riduzioni delle quote di mercato superiori alla media sia la chiusura delle attività nei casi più gravi, a conferma delle maggiori difficoltà di accesso ai mercati internazionali incontrate mediamente dalle imprese di minori dimensioni anche a causa dei costi elevati fissi presenti (Bugamelli, Infante 2003).

Per quanto riguarda le imprese di maggiori dimensioni i dati del panel sulle imprese esportatrici costruito dall’Istat mostra come il contributo all’incremento delle esportazioni nel biennio 2005-2007, proveniente dagli operatori di maggiori dimensioni, sia stato particolarmente importante, anche se con intensità diversa da settore a settore (Istat, 2007). Le imprese più grandi che fatturano oltre 50 milioni di euro all’anno hanno realizzato ben il 47,7 per cento del valore totale esportato nel 2006 pur rappresentando appena lo 0,5 per cento del numero totale di operatori che esportano. Una quota quest’ultima che è cresciuta significativamente nel periodo più recente. L’insieme di imprese che esportano si caratterizza dunque per un’ete-rogeneità elevata: vi sono poche imprese eccellenti che realizzano gran parte delle esportazioni complessive di un paese.

Anche la distribuzione delle imprese per mercato di sbocco varia con la classe dimensionale tanto più quanto maggiore e la distanza del mercato di destinazione: nella UE vende circa il 75 per cento delle imprese esportatrici con meno di 20 addetti; la frazione di imprese di piccola dimensione capaci di raggiungere i mercati dinamici dell’Asia orientale e inferiore al 15 per cento contro il 60 di quelle con oltre 100 addetti (Banca d’Italia, 2008).

Allo stesso tempo In linea con quanto riscontrato per altri paesi, le imprese esportatrici italiane sono generalmente più grandi, più produttive e più profittevoli di quelle non esportatrici. Prevale un effetto di autoselezione e dal momento che esportare è più difficile che vendere sui mercati interni, soltanto le imprese “miglio-ri” riescono a farlo (Mayer e Ottaviano, 2007). Tenendo conto di caratteristiche set-toriali e geografiche, diverse analisi econometri hanno confermato il vantaggio delle imprese italiane esportatrici rispetto alle non esportatrici in termini di produttivita, dimensione, capacita innovativa (Sterlacchini, 2001; Castellani, 2002; Bugamelli e Infante, 2003; Serti e Tomasi, 2008).

Un’altra conferma dei processi di selezione avvenuti viene da un trend relati-vamente consolidatosi da qualche anno relativo ai valori unitari delle esportazioni italiane che crescono più rapidamente di quelli dei maggiori concorrenti europei e anche dei prezzi alla produzione di manufatti destinati al mercato interno del nostro paese. Questo divario, che risulta particolarmente marcato nei principali comparti di nostra specializzazione (tessile-abbigliamento, cuoio-calzature, mobili, macchine e apparechhi meccanici), non andrebbe letto in senso tradizionale, ovvero come segno

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di perdita di competitività delle merci italiane, ma come il riflesso dei processi di selezione e riqualificazione dei prodotti sopra ricordati (Basile et al. 2007). Nel determinare la fuoriuscita dai mercati di esportazione delle imprese meno efficienti collocate su fasce di prodotto a più basso valore unitario e nello spingere le imprese più innovative a riqualificare la propria produzione verso segmenti di mercato a più alto valore unitario e minore elasticità di prezzo, le ristrutturazioni in atto avrebbero determinato il trend crescente dei valori unitari, da prendere dunque come l’indi-cazione dei crescenti vantaggi qualitativi acquisiti dai prodotti esportati italiani in questi ultimi anni.

Tali processi di ristrutturazione sono state avviati dalle imprese già a partire dai primi anni del decennio in corso. Lo confermerebbe anche il fatto che durante la prolungata fase di ristagno – dal 2001 al 2005 – gli investimenti in macchinari, attrezzature e mezzi di trasporto abbiano mantenuto pressoché stabile la loro quota sul PIL a differenza delle marcate riduzioni della stessa quota verificatesi in altre fasi recessive del passato. Gli investimenti effettuati in questo periodo sarebbero stati soprattutto finalizzati alla riorganizzazione delle attività delle imprese in chiave di maggiori flessibilità e di un uso più intenso delle nuove tecnologie dell’informa-zione e della comunicazione (Banca d’Italia, 2007).

Per spiegare il positivo andamento delle esportazioni, soprattutto nell’ultimo anno, è importante tener conto anche del grado e del tipo di internazionalizzazione delle imprese italiane. Anche in questo caso alcune analisi e indagini sviluppate mostrano un deciso rafforzamento nel periodo più recente della capacità delle imprese italiane di essere presenti sui mercati internazionali non soltanto attraverso le esportazioni, ma anche con attività distributive e produttive realizzate tramite investimenti diretti o accordi di collaborazione con imprese straniere (Banca d’Italia 2007, Giovannetti e Quintieri, 2007).

Le esportazioni non sono in effetti l’unica modalità di internazionalizzazione a disposizione di un’impresa. Negli ultimi due decenni, come si è detto, il fenomeno dell’internazionalizzazione produttiva delle imprese ha incluso molteplici svariate forme. Questa tendenza ha interessato anche le nostre imprese, con accordi di tipo commerciale e/o tecnico produttivo, di partenariato a progetto, fino alla creazione di imprese italiane all’estero per merito di imprenditori italiani con capitale proprio o locale.

Negli ultimi anni, il fatturato realizzato all’estero dalle imprese partecipate da aziende italiane è cresciuto in progressione, in particolare nei settori di specializza-zione dell’industria italiana, ma anche in diversi comparti dei servizi. Le imprese di grandi dimensioni (ovvero con più di 250 addetti) hanno continuato a avere un ruolo predominante nell’insieme degli investitori italiani all’estero e sono responsa-bili di oltre l’80 per cento del fatturato complessivo e del 78 per cento degli addetti all’estero coinvolti (Ice, 2007).

A questo riguardo, un ruolo importante sul fronte dell’internazionalizzazione sta

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giocando un nutrito insieme di medie imprese che hanno raggiunto in questi anni importanti livelli di fatturato, sfruttando soluzioni nuove dal punto di vista organiz-zativo e manageriale e un’accresciuta proiezione internazionale. E’ a partire dagli anni Novanta che le imprese di medie dimensioni hanno mostrato un particolare atti-vismo sui mercati internazionali in particolare nei settori di tradizionale competitivi-tà dell’industria italiana. E il vantaggio competitivo di queste imprese é derivato in molti casi proprio dalla capacità di muoversi e stabilirsi all’estero. Le imprese medie hanno avviato, in effetti, intensi processi di delocalizzazione all’estero per migliora-re la propria offerta concentrandosi relativamente di più sulle attività connesse alla progettazione, logistica, marketing, etc. (Banca d’Italia, 2007). E’ pressoché certo che se non avessero trasferito le loro attività in parte all’estero, tali medie imprese produrrebbero oggi in Italia ben poco, perché non sarebbero più competitive.

Ma anche i piccoli e piccolissimi investitori, comunque, hanno accresciuto il proprio peso all’estero negli ultimi anni, pur se esso è tuttora di dimensioni assai contenute. E’ un fatto noto allo stesso tempo che essi preferiscano forme più leggere di internazionalizzazione produttiva, basate su accordi di mercato e cooperazione (accordi non equity) nei quali prevalgono legami di tipo economico e non proprietario, che sono comunque di più difficile rilevazione dal punto di vista statistico. Anche sul fronte delle motivazioni all’internazionalizzazione, vi sono variazioni a seconda della dimensione d’impresa, col prevalere di fattori di riduzione dei costi, soprattutto del lavoro, per le aziende di piccole dimensioni e di maggiore vicinanza sui mercati di sbocco più dinamici per le imprese più grandi (Prota e Viesti, 2007).

L’aumento del grado di internazionalizzazione produttiva delle imprese italiane è dunque un dato di fatto del periodo più recente. E’ riuscito a colmare, tuttavia, solo una parte, come vedremo più avanti, del grave ritardo accumulato dalla nostra economia nel confronto con gli altri principali partner europei. È necessario analiz-zare, prima, come queste tendenze hanno interessato con intensità e modalità diverse l’area del Mezzogiorno.

3. Il Mezzogiorno e l’internazionalizzazione

Le analisi svolte dai casi studio delle diverse regioni meridionali effettuati dalla Ricerca mostrano luci e soprattutto ombre dell’attività di internazionalizzazione delle imprese meridionali, che hanno comunque registrato alcuni mutamenti e un discreto incremento nel periodo più recente a conferma del suo essere divenuto uno strumento fondamentale di riorganizzazione dei processi produttivi di fronte alle nuove sfide del contesto globale.

In questi anni la crescita delle esportazioni meridionali non è riuscita a tenere il passo con la dinamica del commercio mondiale. Il Centro-Nord ha incrementato il

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proprio export in questa fase significativamente di più di quanto non abbia fatto il Mezzogiorno, soprattutto in ragione degli andamenti particolarmente negativi che hanno caratterizzato nel periodo più recente le esportazioni meridionali di prodotti tradizionali ovvero i comparti più rappresentativi del ’made in Italy’ (abbigliamento, calzature, prodotti in legno, mobili).

L’analisi svolta mette in evidenza altresì come le esportazioni meridionali abbiano particolarmente risentito della crisi e dei processi di trasformazione che hanno investito in tutto il paese i sistemi locali di piccole e medie imprese impegnate nei settori e nelle produzioni tradizionali a fronteggiare la concorrenza dei nuovi paesi emergenti e, in particolare, della Cina. Nella regione sono stati così avviati processi di ristrutturazione e trasformazione delle imprese e di interi sistemi territoriali locali: a differenza di quanto avvenuto in molte aree del Centro-Nord, tuttavia, tali processi appaiono assai meno diffusi e sono poco caratterizzati dalla presenza di medie imprese in grado di guidarne l’evoluzione. I costi in ter-mini di cessazione e/o riduzione di attività di molte piccole imprese sono risultati così molto elevati.

Allo stesso tempo, come si è ricordato, una fetta significativa delle imprese indu-striali dei settori tradizionali ha adottato in questa prima parte del decennio nuove più efficaci strategie aziendali rinnovando la gamma dei prodotti offerti, effettuando investimenti nei marchi e riuscendo a diversificare la produzione verso segmenti diversi da quelli occupati all’inizio del decennio. In forte aumento nelle strategie di queste imprese risulta altresì il peso di attività e servizi complementari alla produ-zione quali la ricerca, il design, il marketing la distribuzione commerciale.

Come emerge dai casi studio effettuati per le diverse regioni meridionali, que-sti processi di ristrutturazione sono stati nel Mezzogiorno di portata più ridotta di quelli registrati nel resto del Paese. Le imprese meridionali operanti nel comparto dei beni tradizionali hanno sofferto soprattutto una più accentuata frammentazione dell’offerta. In esse la presenza di attività e servizi complementari alla produzione a ‘monte’ e a ‘valle’ della catena del valore è tuttora modesta mentre la forte con-centrazione sul manifatturiero inteso in senso stretto avrebbe impedito a queste ultime di cogliere le opportunità più redditizie dei processi di ristrutturazione che si concentrano in queste attività.

In termini di internazionalizzazione complessiva, nonostante alcuni progressi conseguiti, le evidenze acquisite ci indicano che il divario di sviluppo della area meridionale rispetto alla media nazionale resta consistente in termini di apertura internazionale del sistema economico, comunque misurata. In questo quadro fanno eccezione alcune forme leggere di internazionalizzazione produttiva, che appaio-no particolarmente adatte alle caratteristiche settoriali e dimensionali del tessuto imprenditoriale meridionale.

Sotto il profilo della distribuzione geografica, le strategie di delocalizzazione hanno interessato molto di più le imprese del centro nord rispetto a quelle meridio-

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nali, anche se nel corso del 2006 queste ultime hanno fatto registrare un lieve ma significativo aumento in termini sia di numero di imprese sia di addetti coinvolti. Una spiegazione di tutto ciò si può rinvenire nelle diverse strutture di offerta e, come si è già ricordato, nelle diverse caratteristiche dei processi di ristrutturazione sviluppatisi in questi ultimi anni nelle due aree territoriali con le maggiori difficoltà incontrate dalle imprese del Mezzogiorno ad attuare processi di ‘upgrading’ quali-tativo dei prodotti rispetto a quelle del Nord.

Non mancano comunque nei casi studio realizzati segni interessanti di evoluzio-ne nelle ristrutturazioni in atto nelle diverse aree del Meridione, che si possono rias-sumere nei termini seguenti: (a) una trasformazione del modello di specializzazione, oggi relativamente meno concentrato nei comparti tradizionali dei beni di consumo per la persona e per la casa, e più dotato di vantaggi comparati nella siderurgia e nella meccanica, dove emerge il ruolo trainante di grandi imprese a controllo ester-no; (b) una minore polarizzazione sempre del modello di specializzazione rispetto all’inizio degli anni novanta, con una attenuata dispersione dei vantaggi e svantaggi comparati, dal punto di vista sia geografico che settoriale; (c) una intensificazione dei rapporti commerciali con i mercati dell’Europa centro-orientale e del Nord-Africa, più vicini e quindi più utilizzati (o utilizzabili) per accordi di produzione con le imprese locali; (d) un tessuto imprenditoriale tuttora dominato dalle imprese di piccola e piccolissima dimensione e nel quale scarseggiano le medie imprese ma in cui si diffonde la capacità di operare sui mercati internazionali; (e) l’intensificarsi di processi di delocalizzazione e internazionalizzazione delle imprese, che si traducono in taluni casi in una sostituzione di esportazioni con forniture realizzate da affiliate estere di imprese meridionali, mentre in altri si determinano flussi aggiuntivi di esportazioni di beni intermedi, destinati ad alimentare le reti di produzione transna-zionali che realizzano i prodotti finiti; (f) qualche segno di iniziale rafforzamento nell’export di servizi alle imprese e alla persona, diversi dal turismo.

L’area meridionale si conferma allo stesso tempo come un’area di grande varietà interna, in cui ogni regione presenta evoluzioni e modelli dalle caratteristiche pecu-liari. Molto forte è anche il divario delle performance all’internazionalizzazione di regioni quali la Puglia e la Campania,d un lato, e la Calabria e la Sicilia, dall’altro, con ritardi in quest’ultimo caso già forti che si sono ulteriormente aggravati.

Anche dal punto di vista dei fabbisogni delle imprese l’analisi conferma una forte differenziazione: da un lato le imprese di dimensioni più ampie, peraltro in numero assai limitato, che mostrano una più spiccata propensione all’internazionalizzazio-ne; dall’altro la moltitudine di imprese piccole locali, in genere a controllo familiare, che trovano forti ostacoli e difficoltà ad intraprendere la strada dell’internazionaliz-zazione. Si sono registrati anche significative differenziazioni settoriali nei processi di internazionalizzazioni di questi anni. Mentre in alcuni settori le imprese hanno delocalizzato solo alcune fasi di lavorazioni elementari, in altri si osservano processi di delocalizzazione più complessi che interessano interi processi produttivi.

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Si può sottolineare, in estrema sintesi, che anche nel sistema produttivo meridio-nale, come nel resto dell’Italia, il forte intensificarsi della concorrenza internazio-nale abbia attivato nel periodo più recente processi di selezione tra le imprese e di riqualificazione delle loro produzioni. Nell’economia meridionale, tuttavia, questi processi di ristrutturazione non riescono ancora a fornire risposte convincenti e posi-tive sul fronte della produzione e dell’export – come è avvenuto in alcune regioni del Nord – così da bilanciare le perdite diffuse sul fronte delle specializzazioni più tradizionali. Soprattutto, le imprese locali sembrano incontrare forti difficoltà a met-tere in atto processi di ‘upgrading’ qualitativo dei prodotti analoghi a quelli attuati dalle imprese del Nord specializzate nei comparti tradizionali. Anche perché il grado di integrazione internazionale di molte produzioni è ancora relativamente basso, per quanto in crescita.

Per riassumere un significativo ritardo è stato accumulato dal sistema produttivo di molte regioni meridionali nel cogliere le opportunità offerte dall’internazionaliz-zazione produttiva. Le cause ovviamente di questo ritardo sono molte e eterogenee. Dalle evidenze acquisite in questa ricerca emerge in particolare la rilevanza di due set di fattori: (i) la struttura organizzativa/gestionale interna alle imprese (dimensio-ne aziendale, accentramento della gestione nelle mani dell’imprenditore, qualità del management aziendale, vincoli finanziari); (ii) i fattori di contesto in cui operano le imprese meridionali.

Gli ostacoli all’internazionalizzazione, sia in termini di export che di delocaliz-zazione, oltre alle carenze di carattere settoriale (modello di specializzazione) vanno così ricercati nei fattori (interni e di contesto) che determinano le scelte strategiche aziendali. In particolare la dimensione delle aziende ha un ruolo determinante – come si è già ricordato – nel condizionare anche nel caso delle imprese meridionali la proiezione esterna delle imprese.

Questo processo evolutivo delle dinamiche di sviluppo interno ed internazionale delle regione meridionale è ben lontano, ovviamente, dall’essersi concluso e dai suoi esiti – ancora incerti – dipenderà in buona misura il futuro economico delle regioni e dell’intera area del Mezzogiorno. Non vi è dubbio in effetti che il rilancio dell’in-ternazionalizzazione produttiva delle imprese meridionali costituisca un passaggio cruciale per la ripresa dello sviluppo dell’area e condizioni da vicino i possibili scenari di evoluzione a breve e medio termine del modello di specializzazione pro-duttiva di molte regioni del Sud.

Ed in questa prospettiva il Mezzogiorno, pur con le sue peculiari debolezze, condivide sfide e vincoli del Centro-Nord e dell’insieme del sistema produttivo italiano.

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4. Mutamenti in corso ma ritardi diffusi

La presenza internazionale delle imprese italiane è significativamente aumentata negli ultimi anni in termini sia di esportazioni, sia di numero delle imprese inve-stitrici sia di numero delle partecipazioni estere. Ma le basi di partenza erano assai contenute e gli andamenti più recenti sono riusciti a modificare, solo in parte, i ritar-di accumulati dal nostro sistema produttivo sul fronte della sua integrazione interna-zionale. Un insieme di ritardi che ne fanno un caso del tutto anomalo in Europa.

Sul fronte degli Investimenti diretti esteri, ad esempio, uno strumento chiave dell’internazionalizzazione per tutti i paesi, vengono conferme di queste anomalie soprattutto se viste nell’arco degli ultimi due decenni (Mariotti e Mutinelli, 2007).

Nel corso degli anni Novanta si era verificata una decisa svolta in positivo nella proiezione all’estero dell’industria italiana grazie al nuovo attivismo delle PMI che aveva più che compensato il netto arretramento sui mercati internazionali delle maggiori imprese del Paese, dopo la serie di insuccessi collezionate da questi ultime negli anni Ottanta. Poi nei primi anni del decennio in corso si è prodotto un netto rallentamento dell’espansione produttiva all’estero delle imprese italiane, in questo caso sia delle maggiori multinazionali italiane che delle piccole e medie imprese. Infine, più di recente, vi è stata una nuova relativa crescita ma i ritardi accumulati restano assai forti rispetto agli altri partner europei più avanzati, e in entrambe le direzioni degli Ide.

Forti ritardi persistono altresì nella capacità del nostro paese di attrarre investi-menti esteri, visto che in termini di consistenze la quota dell’Italia è tra le più basse in Europa come paese di destinazione degli Ide. In termini di Pil lo stock di Ide pesava in Italia alla fine del 2005 intorno al 12% mentre per la Francia questo stesso rapporto valeva più del doppio (26%) e era superiore al 32% nel caso di un paese a noi vicino come la Spagna.

In termini di contenuti settoriali le partecipazioni italiane all’estero riflettono molto da vicino le caratteristiche della nostra specializzazione produttiva e tecnolo-gica con una presenza rilevante dei settori tradizionali del made in Italy e uno scarso ruolo del comparto a elevata intensità tecnologica. In settori quali l’informatica, le telecomunicazioni, l’elettronica, la farmaceutica e la chimica, in cui in questi anni si sono manifestati con più intensità i processi di internazionalizzazione a livello mondiale, il numero di grandi e medio-grandi imprese italiane è limitatissimo e di conseguenza estremamente ridotta è la presenza internazionale italiana. Le uniche eccezioni nel comparto ad alta tecnologia sono alcuni grandi gruppi quali Finmecca-nica e ST Microelectronics. Un peso preponderante nella presenza italiana all’estero è occupato comunque dai settori ad elevate economie di scala nonostante che la loro quota sia diminuita significativamente in termini relativi negli ultimi anni.

Sul fronte delle partecipazioni dall’estero, la presenza delle imprese multina-zionali è più forte nei comparti tradizionali ove sono presenti i vantaggi comparati

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più rilevanti della nostra economia e poi nell’attività di distribuzione e nei servizi all’impresa (logistica e trasporto, informatica, altri servizi professionali). Anche in questo caso nei comparti dell’alta tecnologia la presenza di imprese estere è assai scarsa e in via di ridimensionamento a conferma dello scarso interesse suscitato dai fattori innovativi e tecnologici esistenti nel nostro paese. In effetti, le imprese multinazionali che operano in Italia appaiono per lo più attratte dalle possibilità di accesso al nostro ricco mercato domestico e dalle opportunità di domanda che esso offre.

Per riassumere, è fuor di dubbio che sul piano dei processi di internazionalizza-zione e integrazione internazionale che hanno caratterizzato in questi anni un vasto insieme di paesi, dell’area sviluppata e non, il nostro paese pur scontando i progressi realizzati mostra preoccupanti ritardi e evidenti debolezze comparativamente non solo ai sistemi-paese più innovativi e avanzati ma anche a molti partner europei.

Una ulteriore conferma viene dal fatto che il grado di apertura della nostra eco-nomia sia rimasto in termini quantitativi tra i più bassi a livello europeo. Nel 2006-2007 la propensione all’export e il grado di penetrazione delle importazioni sono cresciuti in misura significativa. Ma guardando agli andamenti del resto d’Europa si scopre che il grado di apertura della nostra economia resta uno tra i più bassi e i suoi valori sono pressoché stazionari nell’ultimo decennio, in netta controtendenza con quanto avvenuto in altri paesi europei.

Nel caso della Germania, ad esempio, sia la propensione all’export che il grado di penetrazione delle importazioni, vicini ai valori italiani alla metà degli anni Novanta, sono fortemente aumentati in questo ultimo decennio, raggiungendo valori intorno al 45 per cento. Ciò implica che la Germania sia riuscita a esportare molto in questi ultimi anni perché si è internazionalizzata e ha aumentato significativamente anche la propria capacità di importare. I settori dove la delocalizzazione della pro-duzione è stata più rilevante sono stati l’industria automobilistica, la meccanica e la chimica che registrano le dinamiche di importazioni più elevate. L’economia italia-na, per converso, che ha trovato forti difficoltà sul fronte dell’export non ha, di fatto, modificato la propria integrazione a livello internazionale e la sue importazioni sono rimaste relativamente contenute.

Anche a livello geografico la nostra modesta proiezione internazionale rivela la debolezza della collocazione della nostra economia nel sistema globale. Anche qui nonostante alcuni recenti mutamenti la presenza italiana risulta ancora molto incen-trata sulle aree più vicine, quali l’Europa occidentale e orientale, e poco presente nelle aree emergenti più dinamiche e a maggiore crescita, in particolare l’area asia-tica. Verso l’Europa Centro Orientale, com’è noto, si sono orientate molte iniziative di delocalizzazione produttiva delle nostre imprese mentre l’Europa occidentale continua a rappresentare un riferimento fondamentale per le iniziative sull’estero di molte nostre imprese del comparto tradizionale dei beni di consumo. Mentre si è nettamente ridimensionata la presenza delle nostre imprese in America Latina e,

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seppur con molta minore intensità, è diminuita in termini relativi quella in Nord America. In crescita è la proiezione verso l’Asia del Pacifico, anche se compara-tivamente ad altre economie occidentali la presenza italiana rimane nel complesso marginale.

A questo riguardo, guardando ad alcune tendenze in atto nell’internazionalizza-zione delle nostre imprese e sistemi territoriali, emerge come le zone di maggior interesse economico-strategico per l’Italia (i Balcani e i paesi del Mediterraneo), siano divenute anche le aree di maggiore prossimità dell’Unione Europea. L’inte-resse dell’Italia a un’ulteriore integrazione sociale, economica e commerciale di questi paesi nello spazio economico europeo è del tutto peculiare. In Europa noi siamo il paese che trarrebbe più vantaggi dal successo di questa integrazione e che, viceversa, rischierebbe di pagare i costi più elevati a seguito di un suo fallimento. Una politica italiana di partenariato rivolta ai paesi del Mediterraneo deve così non solo svolgersi nel contesto europeo, ma deve appoggiarsi su una lucida strategia di legami bilaterali, imperniata sull’offerta di aperture dei nostri mercati, tecnologie industriali, partecipazione allo sviluppo delle infrastrutture, promuovendo l’integra-zione produttiva internazionale delle nostre maggiori filiere produttive. Servono, per questo, proposte, politiche, iniziative, che siano concrete e efficaci, a differenza di quanto avvenuto in questi ultimi anni in cui si è parlato molto e fatto poco.

5. Una presenza nel contesto globale da rafforzare

La nostra economia come l’intero insieme dei paesi industrialmente più avan-zati è di fronte – al momento in cui scriviamo – a quella che si profila come la peggiore recessione mondiale dall’epoca della Grande Depressione. E’ una sfida davvero impegnativa che viene combattuta contemporaneamente su più fronti – i mercati finanziari, valutari e commerciali – che rappresentano i molteplici canali attraverso cui la grave crisi che ha investito l’economia globale si sta diffondendo nel mondo.

L’impatto sarà forte ma comunque fortemente differenziato a seconda delle con-dizioni macroeconomiche e strutturali delle diverse aree e paesi. Va aggiunto che la crisi, per quanto grave, non rimetterà in discussione nel più lungo periodo il nuovo ruolo assunto da nuove aree e paesi – quali la Cina l’India il Brasile – in quella che si è andata configurando più di recente come una economia mondiale multipolare. Anzi, per certi versi lo consoliderà ed accelererà.

In questa prospettiva un’implicazione forte che ne deriva per le imprese e il sistema produttivo italiano e, in particolare, per quello meridionale è che i processi di internazionalizzazione continueranno a giocare un ruolo di primaria importanza ai fini della capacità di competere nel nuovo sistema multipolare. I processi di inter-nazionalizzazione che nascono sia dalla capacità delle nostre imprese di radicarsi

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su altri mercati sia dalla valorizzazione del territorio attraverso l’attrazione di flussi di investimenti diretti e di localizzazioni dall’estero.

In questa prospettiva, alcuni primi risultati sono stati conseguiti nel periodo più recente. Soprattutto nell’ultima fase di ripresa – come si è visto – si è avuto un deciso rafforzamento della presenza delle imprese italiane sui mercati interna-zionali: non soltanto attraverso le esportazioni, ma anche con attività distributive e produttive realizzate tramite investimenti diretti o accordi di collaborazione con imprese straniere. In primo luogo, nell’Unione Europea, che rimane la principale area di destinazione delle partecipazione italiane in imprese estere, e nell’Est Europa e, più di recente, anche in aree lontane quali l’Asia, in particolare la Cina. Se fino a dieci anni fa l’espansione all’estero dell’attività produttiva riguardava in prevalenza i grandi gruppi industriali italiani, negli ultimi anni si è verificato con intensità cre-scente uno sviluppo dei processi di internazionalizzazione produttiva anche da parte delle imprese di media dimensione.

Ma rimangono forti ritardi da colmare, per l’insieme del paese e per le aree meridionali. L’accresciuta presenza delle imprese italiane sui mercati internazionali non è in grado di per sé di sanare la fragilità competitiva della nostra economia che ha caratteristiche micro-strutturali e che risale indietro nel tempo. Una conferma viene dal fatto che il grado di apertura della nostra economia sia rimasto in termini quantitativi tra i più bassi a livello europeo e i suoi valori sono solo modestamente aumentati nell’ultimo decennio, in netta controtendenza con quanto avvenuto in altri paesi europei, soprattutto in Germania.

È una distanza che è necessario colmare anche alla luce degli scenari che caratte-rizzeranno con molta probabilità l’economia mondiale all’uscita della crisi in corso, e sarebbe bene cominciare a farlo da subito.

In questa prospettiva, il rilancio della competitività internazionale delle imprese meridionali e dell’insieme del sistema produttivo italiano dipenderà fortemente nei prossimi anni dalla capacità di presenza internazionale, in generale, e in queste nuove aree e mercati di consumo a forte crescita, in particolare.

Nel complesso servirà un grande sforzo per accrescere il grado di internazio-nalizzazione del nostro sistema produttivo e spingerlo verso una maggiore e più qualificata integrazione nella rete globale, onde evitare una sua crescente margina-lizzazione.

È indubbio che esistono delle precondizioni per una strategia di rilancio dell’in-ternazionalizzazione ed una di queste, la più importante, consiste nel rafforzamento della competitività dell’offerta produttiva del nostro paese, con misure di contesto e specifiche per un riorientamento delle specializzazioni. Come è anche indubbio che la spinta primaria all’internazionalizzazione deve arrivare innanzitutto dalle imprese stesse.

Le misure specifiche di «accompagnamento» del sistema da parte del potere pubblico rappresentano senza dubbio un elemento chiave della concorrenza interna-

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zionale tra sistemi paese, ma a poco serve se il sistema imprenditoriale non matura al contempo una visione strategica e una cultura internazionale. La domanda centrale è a questo punto come accompagnare al meglio i vari attori coinvolti nel fronteggiare i nuovi paradigmi della competizione internazionale e come rilanciare quella che si può definire come una vera e propria «strategia di attacco» per l’internazionalizza-zione del sistema Italia.

A questo riguardo non esiste ovviamente una sola ricetta di interventi o una politica miracolistica in grado di risolvere tale problema. In realtà serve un approc-cio eclettico e ricco di pragmatismo. Per quanto non ci si possa qui soffermare in dettaglio sulle molteplici aree di intervento, se ne possono richiamare in particolare cinque, strettamente interdipendenti e che valgono sia per il Centro-Nord che per l’area meridionale interessando : i) il sistema di imprese, ii) i territori, iii) i servizi e il capitale umano, iv) la scelta delle priorità geoeconomiche e v) il set di politiche/strumenti.

Si tratta, innanzi tutto, di favorire il riposizionamento delle imprese del made in Italy nei circuiti dell’internazionalizzazione, superando logiche meramente esporta-tive e favorendo, soprattutto nelle regioni, una transizione verso un modello di presi-dio stabile dei mercati, anche grazie alla revisione di una strumentazione che non sia solo di «sostegno all’export», ma favorisca un’integrazione di medio-lungo periodo sui mercati internazionali. Ciò comporta di incentivare la massa critica e la crescita dimensionale e contrattuale delle PMI nella loro proiezione all’estero, puntando altresì ad un ruolo di traino e «bandiera» di alcune medie imprese quale volano di una strategia di internazionalizzazione del sistema e operando una saldatura sempre più stretta tra politiche per l’internazionalizzazione e politiche per l’innovazione e per il territorio.

In secondo luogo, è necessario ridare centralità ai territori quali attori chiave dell’internazionalizzazione, favorendo il passaggio da un concetto di internaziona-lizzazione di impresa ad uno più evoluto di internazionalizzazione dei territori. Si tratterebbe in questo caso di replicare le best practices di alcuni casi di successo di integrazione profonda su altri mercati di distretti e sistemi territoriali di impresa italiani. Abbinando altresì alle potenzialità dei sistemi territoriali di impresa even-tuali nuove e diverse modalità di creazione di valore, anche tramite delocalizzazione delle fasi a minore valore aggiunto e focalizzazione invece su quelle a maggior valo-re aggiunto. Assai rilevante è rilanciare il territorio ed il sistema Italia nella competi-zione per l’attrazione degli Ide, come abbi amo visto, attraverso favorevoli politiche di contesto e revisioni delle azioni di marketing territoriale e degli enti preposti.

In terzo luogo, occorre puntare sul ruolo dei servizi nel rilancio di una strategia di internazionalizzazione e favorire una cultura dell’internazionalizzazione del capitale umano. Ciò comporta una serie di interventi collegati quali: (i) il sostegno all’inte-grazione dei servizi supplied in Italy nei circuiti internazionali; (ii) la mobilitazione nello sforzo collettivo di rilancio di sistema degli operatori bancari e finanziari

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italiani, anche quali punti di istruttoria congiunta di forme varie di finanziamento pubbliche e private, nonché di informazione e assistenza qualificata; (iii) la mag-giore efficienza dei «servizi reali» all’internazionalizzazione, meglio coordinando la molteplicità di enti erogatori e razionalizzando-differenziando i servizi offerti dagli stessi enti; (iv) lo sviluppo della capacità di attrazione e di retention nel sistema Italia e sul territorio di capitale umano straniero di qualità, promuovendo a tutti i livelli un’internazionalizzazione innanzitutto culturale, che parta dalla diffusione delle lingue straniere.

Vi è poi il problema della definizione delle aree geoeconomiche di importanza prioritaria per i nostri interventi. Negli ultimi anni, si è determinata una relativa redi-stribuzione dei processi di internazionalizzazione delle nostre imprese (esportazioni, investimenti e joint venture) con una maggiore presenza delle economie emergenti dell’Europa centrale-orientale e della Cina. Allo stesso tempo la crescente interna-zionalizzazione della produzione sta determinando un più impegnativo radicamento delle stesse imprese sui mercati e paesi dove in passato ci si limitava ad esportare. Le politiche di internazionalizzazione hanno oggi tra i loro compiti anche quello di segnalare le opportunità ed i vantaggi di localizzazione che determinate aree e paesi sono in grado di offrire per organizzare all’estero un’attività produttiva che è divenu-ta assai più complessa. La scelta delle priorità geografiche di investimento da parte del sistema imprenditoriale dovrebbe così avvenire anche attraverso una tempestiva concertazione di tali scelte tra operatore pubblico, banche e imprese impegnati a fare sistema. Le esperienze fatte in passato in questa direzione hanno prodotto benefici effetti sulla posizione competitiva e presenza delle nostre imprese.

Infine, occorre riformare e rafforzare le politiche e gli strumenti per l’inter-nazionalizzazione, rivedendo e definendo con chiarezza la struttura di comando della politica economica estera (Pee) italiana. Per farlo va comunque riaffermata la necessità di un centro strategico di programmazione e monitoraggio delle politiche e strumenti di intervento nel campo della politica economica estera per evitare il rischio di un’eccessiva frammentazione degli stessi interventi, pur nella tendenza – che è da assecondare – ad una gestione sempre più decentrata sul territorio di molte attività. È necessario, soprattutto, per fronteggiare ed utilizzare, al meglio, le molte oppor-tunità-condizionamenti provenienti dai diversi livelli ora ricordati nei quali si gioca il confronto tra politiche e sistemi territoriali nazionali nell’era della competizione globale.

Nel complesso, resta vero che un grande sforzo è richiesto per accrescere il grado di internazionalizzazione delle nostre imprese e del nostro sistema produttivo, per spingerli verso una maggiore e più qualificata integrazione nella rete globale. L’in-ternazionalizzazione non è, dunque, uno dei tanti problemi da affrontare: evitare la marginalizzazione e divenire parte attiva dei processi in atto a livello globale rappresentano un problema chiave da avviare a soluzione. Per rispondere a queste sfide servono radicali trasformazioni e una delle maggiori priorità è rappresentata da

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un rinnovato forte incremento dell’apertura e dell’integrazione internazionale della nostra economia e dalle politiche in grado di favorirle.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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