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CLU
B ALPINO ITALIANO Sezione Valdarno Superiore—Via Cen
nano, 105 – 52025 M
ONTEVARCHI (AR)
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Aprile 2015 ‐ Anno 14° ‐ Num. 1
‐ No
ziario Trimestrale della Sezione Valdarno Superiore del Club Alpino Italiano
Autorizz. del Trib. di A
rezzo n. 12/2001 ‐ Sped
izione in A.P.
Tariffe stam
pe Periodiche Arcolo10 DL n.159/2007 conv. L. n. 222/2007 ‐ DC/DCI/125/ SP
del 06/02/2002 AREZZO
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Il Centenario della Grande Guerra (1915‐18)
Il mondo incantato della “Belle Époque” sfumò di colpo in una calda giornata di giugno 1914 con le revolverate di
Sarajevo, e l’Europa a causa di un incalzante susseguirsi di even , poco dopo venne precipitata nella triste realtà
della guerra. Dalle trado e piene di uomini in partenza per il fronte, i solda urlavano alla folla festante che a Na‐
tale sarebbero già torna a casa nella convinzione che sarebbe stata una guerra limitata nel tempo e nello spazio.
L’illusione fu di breve durata e già dopo pochi mesi, cen naia di km di trincee difese da filo spinato e mitragliatrici
segnavano le linee contrapposte, mentre i cadu assommavano a cen naia di migliaia per parte. Era una guerra
condo a in modo nuovo, in quanto l’azione combinata mitragliatrice‐re colato riusciva a bloccare qualunque
assalto portato dalla fanteria e dalla cavalleria e la guerra di movimento, secondo gli schemi o ocenteschi e na‐
poleonici ancora in voga, divenne guerra di posizione. Iniziò allora una lunga guerra di trincea, ove l’obbie vo
principale non era quello di vincere dire amente sul campo, ma sopra u o logorare l’avversario. L’Italia, pur es‐
sendo alleata dell’Austria e della Germania fin dal 1882, rimase neutrale ma l’anno successivo‐1915‐ ruppe l’al‐
leanza con le potenze centrali. Il paese si trovò diviso fra “interven s ” e “non interven s ”, il governo in carica
tergiversava, il comandante supremo delle Forze Armate gen. Luigi Cadorna pressava i poli ci per schierarsi con
l’Austria e la Germania, ma pur di entrare in guerra, anche alleandosi con la Francia, l’Inghilterra e Russia. Il 24
Maggio, dopo quelle che furono definite “le radiose giornate” l’Italia entrò in confli o contro l’Austria –Ungheria.
Come tu e le guerre di offesa, fu una decisione funesta per il popolo italiano che pagò caro in termini di mor ,
pa men , miseria, dolore e mala e e le “radiose giornate” si concre zzarono in 651.000 cadu , qualche milione
di mala e mu la . Ѐ stato poi calcolato che in seguito alle ristre ezze economiche imposte alla nazione a causa
della guerra, 580.000 civili morirono di sten e mala e varie. Le mo vazioni dell’entrata in guerra dell’Italia a
fianco della Triplice Intesa sono da ricercare nella paura di una ritorsione austriaca nel caso che la guerra fosse
vinta dall’ Imperi Centrali, in quanto l’Italia, alleata della Germania e dell’Austria nella Triplice Alleanza, era consi‐
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derata ora da queste nazioni come un paese inaffidabile in quanto aveva dichiarato la propria indisponibilità a
schierarsi con loro preferendo la “non belligeranza”. I rappor fra l’impero asburgico e l’Italia, allea da tempo for‐
zatamente in funzione an francese, erano come quelli fra una coppia di fidanza che godono a tradirsi a vicenda,
bas pensare che il comandante supremo austriaco generale Franz Conrad von Hötzendorf (lo stratega nel 1916
della “Strafexpedi on” fermata dagli italiani sul Pasubio) per due volte, nel 1908 e nel 1911, la prima in occasione
del terremoto di Messina e la seconda quando l’Italia era impegnata in Libia, propose all’imperatore Francesco Giu‐
seppe di dichiarare guerra all’Italia. Nel governo italiano di allora si era fa a strada l’idea che, viste le dimensioni
del confli o, non era possibile rimanere neutrali. Sicuramente le dimostrazioni pro‐intervento di tanta folla, senza
dubbio manovrata anche da chi dalla guerra ci avrebbe ricavato un u le, la propensione interven sta di Casa Savoia
che aveva portato già l’Italia da una guerra all’altra, ma sopra u o la paura di vedere l’Austria e la Germania vinci‐
trice del confli o, insieme ad alcuni pruri risorgimentali fecero sì che entrammo in guerra. Ѐ da pensare invece che
l’Italia doveva, con un’accorta poli ca, rendere preziosa al massimo la propria neutralità in termini di convenienza
anche territoriale, in quanto l’Austria aveva more che l’Italia entrasse in guerra alleata con la Francia e Inghilterra,
la Francia e l’Inghilterra temevano che l’Italia entrasse in guerra alleata dell’Austria. La neutralità avrebbe rispar‐
miato al nostro popolo lu e sofferenze e contemporaneamente ci avrebbe potuto consen re di potenziare con
calma esercito, marina ed aviazione, for ficando le linee di confine in modo da dissuadere qualsiasi aggressione
post bellica. Inoltre, fin dall’inizio, era opinione abbastanza diffusa che visto l’andamento del confli o che era di‐
ventato di logoramento, le nazioni che avevano maggiore possibilità di vi oria erano la Francia e l’Inghilterra, in
quanto, nonostante i sommergibili tedeschi, i francesi e i britannici avevano il predominio dei mari e potevano con‐
tare su vas possedimen coloniali, tali da essere serbatoi importan ssimi di materie prime e uomini. Per la Gran
Bretagna poi, c’era la certezza che gli Sta Uni , sempre in linea con la poli ca inglese, non avrebbero permesso
che l’Inghilterra soccombesse.
Da considerare poi lo stato del nostro esercito che dife ava pesantemente di ar glierie e di mitragliatrici, che era
stato in parte logorato dalla guerra libica del 1911‐12 e ancora fortemente impegnato contro le tribù ribelli del de‐
serto che si arresero solo nel 1934 dopo la violenta campagna repressiva del generale Graziani. Da tenere presente
poi che l’Italia, nazione allora sopra u o agricola, mancava delle stru ure industriali e delle materie prime per por‐
tare avan una guerra di questa portata. Inoltre avevamo uno Stato Maggiore dell’esercito non in linea coi tempi,
che aveva una strategia militare che altro non era che una riedizione delle teorie militari o ocentesche, cara eriz‐
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zate da manovre brillan‐
e veloci in aperta cam‐
pagna, con ampi movi‐
men che nelle regioni
alpine sarebbero avve‐
nute nelle valli, mentre
sui mon solo sparute
pa uglie di montanari
inquadra nelle truppe
alpine avrebbero vigila‐
to sulle a vità del nemi‐
co. Avvenne invece che
le truppe di entrambi gli
eserci dove ero in
realtà operare fin da
subito sulle montagne di
confine in condizioni
difficilissime che, con il
sopraggiungere del pe‐
riodo invernale, diven‐
nero rapidamente proi‐
bi ve. D’altronde la con‐
formazione morfologica del terreno del fronte italo‐austriaco e la sta cità delle operazioni belliche obbligò l’eser‐
cito italiano a impiegare le truppe di fanteria in ruoli mai prima pensa e non ada , sopra u o nella guerra di
montagna. Non poteva accadere diversamente, data la limitatezza iniziale del Corpo degli Alpini, unico a recluta‐
mento distre uale e con un addestramento specifico, allora come ora, per la guerra ad alta quota in qualsiasi
condizione. Accadde così che la guerra, sia in pianura che in montagna, fosse sostenuta in larga parte dalle fante‐
rie, composte sopra u o da solda meridionali, che sul Carso come sul fronte dolomi co caddero a migliaia scri‐
vendo veramente pagine di gloria, di abnegazione e di coraggio. Entrammo in guerra con un comandante supre‐
mo, il generale Luigi Cadorna che era arrivato al ver ce della Forze Armate italiane senza nessuna esperienza sul
campo bellico avendo fa o carriera solamente comandando vari repar , mai impegna sul campo di ba aglia
reale. Era questo generale una figura complessa e controversa, aveva una concezione rigida della disciplina mili‐
tare facendo frequente ricorso a dure sanzioni disciplinari, che nel confli o si tradussero frequentemente nelle
famigerate decimazioni con conseguen fucilazioni alla schiena. All’a uale Ministro della Difesa Signora Pino è
arrivata qualche mese la richiesta, da parte di alcune Associazioni d’Arma, per riabilitare almeno la memoria di
alcuni solda italiani ingiustamente fucila per viltà. Luigi Cadorna era un militare duro (con gli altri), non teneva
in nessuna considerazione la vita dei solda che mandò al macello nei sanguinosi quanto inu li “assal alla baio‐
ne a” che non portavano nessun beneficio sul campo, sia strategico che territoriale; era inviso a tu , temuto dai
subalterni e odiato dalla truppa, tanto che i solda lo chiamavano “il macellaio”. La sua strategia militare o o‐
centesca era vecchia e incongruente per quel po di guerra. Venne poi la disfa a di Capore o, al posto di Cador‐
na fu chiamato il generale Armando Diaz, un generale preparato, di larghe vedute, pra co, o mo stratega che
de e subito uno stop alle decimazioni e che seppe infondere nuova forza all’Esercito Italiano portandolo alla
vi oria finale. Di lui, lo storico inglese Denis Mack Smith così scrive: “…Cadorna fu sos tuito da Diaz, un napoleta-
no di discendenza spagnola. Diaz si preoccupò maggiormente del benessere materiale dei suoi uomini ed is tuì
degli uffici di propaganda con il compito di esporre ai solda la condo a e la finalità della guerra.”
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Sono passa cento anni e i protagonis sono
tu scomparsi, sono rimaste le opere di dife‐
sa, le trincee, le montagne violentate insieme
ai res di baracche e filo spinato. Negli anni
90 ho fa o l’accompagnatore per la nostra
sezione per due volte sul Pasubio, una volta
sulla Marmolada di Ombre a, un’altra sul
Lagazuoi – Tofane – Castelle o, ma la nostra
sezione ha percorso anche i sen eri bellici del
Pal Piccolo, del Padon, del Sen ero degli Alpi‐
ni di Passo della Sen nella, della Marmolada
e i ghiacciai dell’Adamello, manca il Monte
Or gara a Nord di Asiago, “calvario delle Pen‐
ne Nere” e non solo. Noi alpini tu gli anni,
nel mese di Luglio ci ritroviamo insieme agli
austriaci sulla ve a di questo monte, raggiun‐
to dal Pian delle Lozze in due ore di cammino, saliamo in silenzio perché sull’Or gara si sale in silenzio, quasi in rac‐
coglimento. Non c’è nessun altro luogo su tu o il fronte che renda maggiormente il senso di sofferenza, della deso‐
lante follia umana, della tragica assurdità della guerra. Perché questa montagna, forse più di tan altri luoghi, porta
ancora inta a la memoria e i segni eviden degli eserci che si contrapposero. A niente servì il sacrificio e il valore
di tan : l’Or gara è diventato il calvario dei ba aglio‐
ni italiani, fan , bersaglieri, ma sopra u o alpini. Il
Monte Or gara, agognato, conquistato e perso. Un
massacro prolungato, dal 10 al 29 Giugno 1917, nel
tenta vo di conquistare una cima impossibile che dal
punto di vista strategico rappresentava poco o nien‐
te. Qui la storia ha sconvolto la montagna e la natura
degli uomini; li ha costre a vivere da cavernicoli,
s pa dentro umide gallerie, appia nelle trincee
alla tormenta, al gelo dei terribili inverni e al sole bru‐
ciante d’estate. Sull’Or gara, come sul Pasubio e sul
Carso, ogni buca prodo a da una bomba, ogni an‐
fra o, ogni minimo riparo significava salvezza per
l’uomo, soldato‐talpa, alla ricerca con nua di una
tana per inventarsi un altro giorno di vita. Fra le gob‐
be e le valle e disseminate di rocce biancheggian , i
solda vivevano il dramma degli a acchi alla baio‐
ne a, delle a ese allucinan , della sete disperata, di
un’altra razione abbondante di grappa per sbiadire gli
orrori e la paura di un nuovo assalto. Nessuno sale
senza emozione sull’Or gara, una montagna dove il
rosso dei rododendri macchia una distesa verde che
finisce quando il terreno diventa più martoriato e
roccioso. Per chi sa ascoltare è una montagna che
racconta, che ci riporta le voci dei trentamila italiani (sedicimila alpini) e dei novemila austriaci, tu cadu compien‐
do fino all’ul mo il loro dovere di solda .
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Vale la pena di ricordare quanto iscri o da un ignoto alpino all’ingresso della galleria di mina del Castelle o:
“…Tu avevano la faccia del Cristo nella livida aureola dell’elme o, tu portavano l’insegna del supplizio nella
croce della baione a, e nelle tasche il pane dell’ul ma cena e nella gola il pianto dell’ul mo addio.” Sono passa
cento anni, di tan cadu è rimasto solo un ricordo sbiadito, nelle lapidi che riportano i loro nomi, murate sulle fac‐
ciate delle chiese o dei municipi. Vorremmo che ques nomi incisi sui monumen ai Cadu tornino, anche per solo
un istante, ad essere abbina ad un individuo, un uomo fa o di carne, sangue e ossa. A un essere umano che aveva
i suoi affe familiari, le sue amici‐
zie, le sue a vità come chiunque di
noi. Occorre res tuire la dignità di
uomo e di soldato a quello che oggi
altro non è che un semplice nome
inciso su una lapide la cui memoria
va sempre più diventando tenue.
Inoltre vorremmo che, al di la degli
eroismi di fronte ai quali ognuno si
inchina per ammirazione e rispe o,
si meditasse su quanta tragedia
producono i confli fra i popoli e
quanto sia auspicabile che nella
evoluzione delle culture e delle
civiltà ques fossero in futuro sem‐
pre scongiura .
Vanne o Vannini
La Leggenda Della Stella Alpina Una volta, tanto tempo fa, una montagna malata di solitudine piangeva in silenzio. Tu la guardavano stupi : i fag‐
gi, gli abe , le querce, i rododendri e le pervinche. Nessuna pianta però poteva fare qualcosa, poiché legata alla ter‐
ra dalle radici. Così neppure un fiore sarebbe potuto sbocciare tra le sue rocce. Su dal cielo, se ne accorsero anche
le stelle, quando una no e le nuvole erano
volate via per giocare a rimpia no tra i ra‐
mi dei pini più al , una di loro ebbe pietà di
quel pianto e senza speranza scese guizzan‐
do dal cielo. Scivolò tra le rocce e i crepacci
della montagna, finché si posò stanca
sull’orlo di un precipizio. …Brrr!!! …Faceva
freddo! Era stata proprio pazza per aver
lasciato la serena tranquillità del cielo! Il
gelo l’avrebbe certamente uccisa… Ma, la
montagna corse ai ripari, grata per quella
prova d’amicizia data col cuore. Avvolse la
stella con le sue mani di roccia in una mor‐
bida peluria bianca. Quindi, la strinse legan‐
dola a sé con radici tenaci…
E quando l’alba spuntò, era nata la prima Stella Alpina…
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Escursione alla Garzaia del 25 Febbraio 2015.
“...Il mio nome è Fantasia, il mio cognome Ironia e il mio fiasco è sempre mezzo pieno!”
Sono nella piazza principale di San Giovanni
Valdarno ad osservare un gruppo di escursio‐
nis entusias ; i soli salu , le discussioni
più o meno accese, gli sguardi alla ricerca
affannosa degli amici, le corse fre olose al
bar per raggiungere un bagno con la scusa
del caffè. Mario e Lorenzo non potendo par‐
tecipare, sono comunque presen idealmen‐
te per augurare a tu una buona giornata. Il
tempo incerto ha tra enuto diversi soci a
casa, ma i nostri cinquantacinque amatori
sono pron . Il fischie o chiama a raccolta,
poi il capo gita da il segnale d’inizio e come
d’incanto, ai primi passi, il sole esce dal suo
nascondiglio e riempie di colori il paesaggio.
Alcuni aprono l’ombrello per ripararsi dai caldi raggi di un inverno che non vuole arrivare, due componen lasciano
il gruppo per rientrare a casa non avendo fiducia nella giornata (ma che erano venu a fare? Forse desideravano la
pioggia!!!!) Andando verso Figline, sulla sponda dell’Arno i nostri distra partecipan parlano, discutono e solo
pochi osservano gli acqua ci che ci circondano; in cer momen il sole viene addiri ura oscurato da stormi di ana‐
tre e gabbiani facendo pensare ad un peggioramento meteo. Alle porte di Figline improvvisamente tu a bocca
aperta: alcuni caprioli sono immobili ad osservare incuriosi un così folto gruppo di persone per poi lanciarsi in una
elegante corsa di sal morbidi e armoniosi, me endo in mostra il classico codino chiaro fra l’ammirazione dei pre‐
sen . A zig zag raggiungiamo la zona centrale dei laghe per consumare il pranzo al sacco, ci sistemiamo ai tavoli
della pizzeria – pesca spor va; ci fanno compagnia cigni e paperi e i pesci, che saltando nell’acqua, sembrano chie‐
dere un pezzo di pane. Riprendiamo il percorso e ogni tanto Luciano è ascoltato dai più interessa e curiosi e il ca‐
pannello da importanza a questa bella escursione all’Oasi Naturale della Garzaia; i più a en notano diversi acqua‐
ci e le varie differenze fra aironi, gallinelle,
alzavole, germani e altri… Con dispiacere arri‐
viamo alla fine dell’escursione e felici ci salu a‐
mo per rientrare, piano piano, nelle proprie
pantofole dopo una calda e necessaria doccia.
Forse qualcuno ha passato una giornata diversa
dalla mia descrizione e non condivide queste
due righe. Perché? La causa può essere che
aveva il fiasco mezzo vuoto. Quando un vero
escursionista calza gli scarponi, infila lo zaino e
stringe i bastoni, ai primi passi il sole e il piace‐
re di muoversi e stare insieme è assicurato
sempre e la giornata diventa posi va e meravi‐
gliosa.
…Parola di “FANTASIA”!
LuCar
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Dafne Quando i campi dei miei nonni materni furono divisi tra i loro sei figli, il vetusto alloro che sbucava dalla terra co‐
me un Briareo dalle cento braccia, a guisa di una ciliegina su una torta, toccò alla fe a di campo ereditata da mio
zio Alessandro, rimanendo per una fortuita casualità a confine con quella che venne invece ereditata da mia ma‐
dre. Chi l’avesse piantato e quando, lei non ne serbava più il ricordo. Poiché i miei genitori, for della loro saggez‐
za contadina ne conoscevano le proprietà benefiche, quell’albero con nuò ad essere la nostra farmacia naturale
per mol anni ancora. Infuso di foglie d’alloro in caso di “bocca amara” o per aiutare la diges one. Ma per smal ‐
re il baccalà fri o o il capitone della vigilia di Natale si ricorreva, in aperta compe zione con il “Nocillo”, al
“Laurino”, un liquore fa o con foglie d’alloro, cannella e vaniglia messe a macerare nell’alcool. L’infuso di foglie
d’alloro, prima d’andare a le o, era un buon an pire co e calmante della tosse grassa. Aiutava quando le
“piccirelle” tenevano il mal di pancia e divenne un o mo alleato per lenire quelle fi e al ventre che ricordavano a
mia madre che quelle “piccirelle” stavano crescendo. Quando la panacea dell’alloro non bastava più, si ricorreva
“ob torto collo” al medico e allora il malato passava in secondo piano. Nell’a esa della sua venuta in bagno com‐
parivano asciugamani frangia dagli elabora ricami e nel le one il candore delle più belle lenzuola del corredo di
mia madre, messe per la circostanza, offuscavano il pallore diafano del malato di turno. E mentre mia madre si
affaccendava in casa come se invece del medico s’aspe asse il prete per l’acqua santa, mio padre preparava il via‐
co: patate, vino, uova, fru a di stagione, un pollo o un coniglio. Ciò, dicevano i miei, serviva a che il medico si
ricordasse meglio la via di casa nostra. Il medico veniva, auscultava, sentenziava, prescriveva, andava via col porta‐
bagagli pieno di ogni ben di Dio senza mai ringraziare, la qual cosa accresceva nei miei, abitua a sudarsi ogni co‐
sa, la convinzione che quella visita, anziché a o
dovuto, fosse una benefica concessione. I miei ge‐
nitori conoscevano le proprietà benefiche dell’allo‐
ro, nonché la credenza, diffusa tra i contadini, ai
quali il mito di Dafne era giunto distorto e sinistro,
secondo la quale se un albero d’alloro a ecchiva,
colui che l’aveva piantato, sarebbe morto da lì a
poco. Ma mio padre non era supers zioso, e senza
tu e le volte dover ricorrere a quello di mio zio,
volle averne uno tu o nostro. C’era tra Lui e quei
campi un rapporto quasi carnale. Le sue fa che ne
ingravidavano le zolle come un Priapo, e gonfie di
quel suo seme, esse partorivano una sua creatura.
Anche la nostra pianta d’alloro gonfiò il grembo di
quei campi, ove a ecchì come ad un capezzolo,
dal quale trasse nutrimento e vita. Quella vita che
in mio padre si spense appena due anni dopo. I
miei genitori, for della loro saggezza contadina,
conoscevano le proprietà benefiche dell’alloro e
quanto bene le sue foglie aroma zzassero sughi,
carni e castagne lesse, ma non sapevano nulla di
Dafne.
Dafne era una ninfa dei boschi montani, figlia di
del dio fluviale Peneo e di Gea, la Terra. Un giorno
coglieva fiori sulle pendici del monte Parnaso,
quando Apollo, o Febo che dir si voglia, Dio del Gian Lorenzo Bernini– Dafne e Apollo (Roma—Galleria Borghese)
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sole che fa maturare le messi o adirato le brucia, la vide e volle prenderla. Dafne cominciò a fuggire impaurita e
proprio quando stava per soccombere, sua madre Gea l’accolse nel suo seno. La dove Dafne era scomparsa nella
terra spuntò subito un arbusto dalle foglie verdi e profumate, era l’alloro e divenne l’albero sacro di Apollo, che
prese a cingersi il capo con un giovane ramo di questa pianta in cui ci fossero anche le bacche. Rappresentando
Apollo, oltre a svariate altre cose, anche la cultura e le ar , la corona d’alloro divenne il premio ambito e agognato
nelle compe zioni atle che e musicali. Se ne cingevano il capo anche i giovani studen a compimento del loro ciclo
di studi, il “Baccalaureato”, per la coroncina d’alloro e bacche per l’appunto. E quan di noi si saranno commossi
quando queste coroncine hanno adornato il capo di figli e nipo , il giorno della loro tesi di laurea, con un rituale
che, da mi lontani, ancora rende omaggio a un dio caduto in disgrazia.
È un martedì qualunque e siamo a camminare. Passiamo davan ad una bellissima casa in pietra, che una verde
siepe d’alloro cinge come l’iride una pupilla. Per un a mo il ricordo di mio padre mi a raversa la mente, lasciando‐
mi dentro il sapore amaro che hanno le cose che non tornano più. Affre o il passo, raggiungo Marcello, sta parlan‐
do delle disavventure che affliggono il povero Sauro; guarito da una fas diosa mas te, ora ha problemi alle ovaie
ed è alle prese con emorroidi che sembrano un grappolo di pomodori Pachino. La mia risata scoppia improvvisa.
Liberatoria. Marcello è l’unico che riesce a dire le cose più turpi con ironia e intelligenza, senza essere mai volgare.
La sua allegria ha su di me l’effe o benefico di un sorso di Laurino. .
..Ed io ne bevo con gra tudine.
Pina Daniele Di Costanzo
Le rice e di… Daniela. L'alloro, il "LAURUS NOBILIS", albero dei poe , era sacro ai Romani e Greci, che lo consideravano l'albero del dio
Apollo, da sempre è simbolo di gloria e di vi oria. Nella mia cucina non manca mai, lo u lizzo per conservare il pan
gra ato e i cereali secchi, (non li fa tonchiare).
Questa volta vi propongo: Spaghe all'alloro.
Ingredien : 400 g. di spaghe integrali, 2 cipolle, 300 g. di pomodori maturi o passata, 15 foglie di alloro, can‐
nella, olio extravergine di oliva, sale e peperoncino.
Fate rosolare la cipolla finemente affe ata nell'olio e appena imbiondisce unite i pomodori passa . Aggiustate di
sale, aggiungete un pizzico di peperoncino in polvere e anche un pizzico di cannella. Lasciate addensare un poco e
unite quindi le foglie di alloro. Dopo 10 minu di co ura, nel corso dei quali potete approfi are per cuocere la pa‐
sta, togliete il sugo dal fuoco e versatelo in
una zuppiera nella quale condirete la pasta
scolata. Mescolate con cura e servite.
In alterna va se non volete fare gli spaghe ,
u lizzate due manciate di foglie nell'acqua
calda della vasca. Realizzerete un bagno pro‐
fumato, deodorante e s molante contro
eventuali arrossamen . Oppure fate un infuso
con un cucchiaio di alloro essiccato in una taz‐
za d'acqua, facilita la diges one ed espelle i
gas intes nali, vince la stanchezza e l'insonnia,
l'influenza e i raffreddori. L'alloro è una pianta
veramente eccezionale!!!
Ciao a tu e alla prossima!!!
DANIELA VENTURI
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Garofano dei ghiacciai (Dianthus Glacialis):
Nobile rappresentante alpino dei co‐
muni garofani, è specie modesta di
dimensioni visto che le piante sono
alte appena da 1 a 4 cm, ma di gran‐
de effe o ornamentale. I fiori misura‐
no circa un cen metro di diametro e
sono di un bel colore rosso‐purpureo.
Vive ad alta quota tra le zolle pionie‐
re in prossimità dei ghiacciai e si tro‐
va solo nelle Alpi Centrali ed Orienta‐
li, dai Grigioni agli Al Tauri e nei Car‐
pazi; è una specie endemica ed è pre‐
valentemente legato all’ ambiente
delle rocce grani che. Fiorisce in Lu‐
glio ‐ Agosto e dovunque è specie
prote a.
Genziana delle nevi (Gen ana Nivalis):
Appar ene alla famiglia delle
“Gen anaceae”, è una piccola
erba annuale a ciuffo, ramifica‐
ta dalla base, provvista di nu‐
merosi rame slancia , ere
e ravvicina . Foglie più o meno
addensate a rose a alla base,
ovali, acuminate e lunghe dai 2
‐5 cm. Fiori solitari all’estremi‐
tà dei rami, di colore blu vivace
brillante. La pian na è abba‐
stanza piccola con misure che
vanno dagli 8 a 15 cm di altez‐
za. Fiorisce fra Giugno e Ago‐
sto a secondo della quota al ‐
metrica, e ha l’habitat ideale
nei pascoli, brughiere e sulle creste rocciose fino a 3000m. Si trova nelle Alpi, Appennini, Pirenei, Giura e
Balcani. La specie è rigidamente prote a.
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ALZARE L’ASTICELLA ...Anche dei rapporti umani!
Lo scopo del Club Alpino Italiano è principalmente
quello di far conoscere e tutelare la montagna, eviden‐
ziando le possibili relazioni tra uomo e ambiente che lo
circonda. Pertanto questo dualismo perme e di ap‐
profondire tale relazione. Infa nel nostro piccolo,
quando facciamo delle escursioni insieme agli altri,
immersi nella natura, non solo beneficiamo per noi
stessi del magnifico ambiente paesaggis co, ma bene‐
ficiamo anche del con nuo conta o con il nostro pros‐
simo, con le persone che camminano con noi. E quanto
sono importan quei dei rappor reciproci che si in‐
staurano in tali circostanze; spesso infa essi spaziano
senza limitarsi a scontate divagazioni fru o della no‐
stra agiatezza materiale, ma ci portano ad aprirci ed
aumentare la capacità di rapporto ed empa a con gli
altri. Non è forse questo lo spirito che ci anima? Sem‐
pre in cerca di nuove avventure e scoperte. Il conosce‐
re nuove cose e situazioni, ci sospinge avan . La voglia
di scoprire e di scoprirci è sempre dentro di noi. Il ri‐
manere fermi delle proprie convinzioni è spesso u le,
ma a volte ancorarsi senza confron alle proprie con‐
vinzioni è rischioso, è come
fossilizzarsi. Aumentare ed
alimentare sempre il nostro
desiderio di scoperta è cosa
benefica per il nostro animo,
alzare il livello dei nostri
obie vi in maniera cosciente
è salutare, perme e di vivere
meglio la nostra vita aiutando
anche gli altri che ci sono vici‐
ni. Diamoci sempre nuovi
obie vi nel nostro cammina‐
re insieme, fru o delle espe‐
rienze passate ma consapevo‐
li che esiste sempre la possibilità di miglioramento, se
cercato e voluto.
Luciano VOLPI
…Esiste una parabola dove un uomo camminando insieme a Gesù sulla spiaggia, si accorge che sulla sabbia ci sono
due serie di impronte. Ad un tra o l'uomo, vedendone una soltanto, si rivolge a Gesù chiedendo:
“…Signore, perché mi hai abbandonato?”
Gesù gli risponde:
“…Non ho abbandonato, porto in braccio!”
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Parole legate alla montagna che stanno
scomparendo Fin dall’immediato secondo dopoguerra era viva nella nostra montagna quella civiltà contadina che da secoli viveva
abbarbicata nei piccoli paesi montani e che i rari conta con il fondovalle, scandi prevalentemente dal mercato e
dalle fiere, hanno mantenuto nel suo isolamento, anche linguis co. Con lo spopolamento della montagna e l’abban‐
dono dei poderi sono scomparse velocemente mentalità, credenze, abitudini e tante a vità lavora ve con i rela vi
strumen . Ѐ diventato sempre più sbiadito tu o un patrimonio di conoscenze, tanto che oggi, solo pochi anziani
sono in grado di riconoscere un a rezzo o un utensile della vecchia “civiltà del castagno”, descriverne l’impiego e
ricordarne il nome. Vi erano ogge in uso da secoli da parte di chi tu i giorni doveva misurarsi con la fa ca di pro‐
durre, con le sole mani e l’ausilio di ques modes strumen il proprio e altrui sostentamento. Tu gli arnesi che
venivano impiega , in genere erano costrui dal contadino stesso, ecce o le par in ferro, le quali per ragioni eco‐
nomiche erano conservate con cura e trasmesse di generazione in generazione fino all’usura. Scomparsi gli a rezzi,
stanno svanendo dalla nostra memoria e dalla nostra lingua anche i loro nomi. Ѐ una perdita culturale perché il pas‐
sato si ricostruisce in parte anche conoscendo gli ogge usa per lavorare e vivere, e il passato è importante per‐
ché è sempre carico di storia in quanto è servito a trasme ere il sapere e un linguaggio da una generazione all’altra.
Vediamo alcuni nomi di ques a rezzi agricoli pici della nostra montagna.
Treggia:
la treggia era uno strumento indispensabile
per i contadini che abitavano in montagna in
quanto era u lizzata per il trasporto di mate‐
riali leggeri ma voluminosi in percorsi stre
e scoscesi dove era impossibile transitare con
i carri, ma era usata anche al piano quando le
condizioni dei sen eri lo richiedevano. Silvio
Pieri riporta nel suo volume “Toponomas ca
della valle dell’Arno” che la frazione Treggiaja
del comune di Terranuova Bracciolini deve il
nome, proprio a questo arnese. La treggia è
un manufa o an co e antecedente al carro
agli albori della civiltà. Veniva usato anche
dagli an chi romani, infa il vocabolario di
la no Cas glioni‐Mario riporta: treggia=
trahea- ae, femminile. Con certezza possiamo dire allora che la parola “treggia” deriva dal verbo la no trahere =
trascinare. Lo strumento in ques one era un rudimentale carro a traino animale che ogni contadino costruiva in ba‐
se alle proprie esigenze, in genere era cos tuita da una doppia stanga formata da due per che parallele molto lun‐
ghe per consen re l’a acco ad un cavallo, mulo o asino al quale era affidato il compito di trascinarla ,nella parte
finale vi erano fissa regoli o assi di legno che univano le due stanghe in modo trasversale così da potervi appoggia‐
re sopra i prodo che venivano trasporta (fieno, fascine, letame, paglia…). La parte terminale posteriore della
treggia strisciava dire amente sul terreno generando molto a rito che consumava velocemente il legno, per evita‐
re ciò spesso venivano applicate due piccole ruote di ferro len colari imperniate rozzamente su un asse di legno;
altre tregge, invece delle ruote portavano applicata so o la parte posteriore di ciascuna stanga una sli a di legno
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rives ta esternamente di metallo. A causa del forte a rito su terreno difficile e spesso sassoso, la treggia era uno
strumento traballante, pur essendo robusto e di semplice fa ura alcune par necessitavano di una manutenzione
quasi con nua. Il passaggio di una treggia era avver to molto bene anche da lontano perché provocava rumore
con nuo e cigolii, sicuramente è per questa ragione che il termine “treggia” viene ancora oggi usato come termine
di paragone quando si vede passare sulla strada un mezzo rumoroso e scassato. In Casen no venne ricordata per
mol anni la treggia a una sola stanga ( rata da una coppia di bovi) su cui era stata fissata una poltrona che per‐
me eva ad Eleonora Duse di stare comoda, quando spesso andava al castello di Romena a prendere “lezioni di ita‐
liano” da Gabriele D’Annunzio, che aveva messo la propria dimora in una tenda nella piazza d’armi del castello. Per
migliorare il trasporto, mol contadini spesso applicavano nella parte posteriore della treggia un grosso cestone di
vimini o di canne che era chiamato “civea”, probabilmente questo nome deriva dal la no “sic veho”= così traspor-
to, porto, ro. La treggia è rimasta fino ad ieri in uso in montagna, dove oltre il basto del mulo è stato l’unico mezzo
di trasporto possibile. Ci voleva l’avvento del tra ore o della ruspa per segnare il tramonto di questo veicolo perve‐
nutoci dall’an chità più remota.
Maniolo:
Questa parola non è riportata da nes‐
sun vocabolario della lingua italiana,
però sta ad indicare un utensile che
ancora nella nostra montagna, ma an‐
che nel Chian e Casen no, anche se
raramente è tu ’ora in uso. Di conse‐
guenza si tra a di un vocabolo della
an ca civiltà contadino‐montanara che
lentamente sta scomparendo. Il
“maniolo” è una piccola scure, spesso a
forma di mannaia, con una impugnatu‐
ra di legno corta lunga all’incirca 40 cm;
insomma un arnese abbastanza leggero
tanto da essere usato con una mano
sola dai boscaioli. L’e mologia di que‐
sta parola è incerta, probabilmente però deriva dal fa o che l’a rezzo in ques one è dotato di un manico corto; nel
Museo della Civiltà Contadina di Gaville ve ne è presente più di un esemplare. Il termine “maniolo” è riportato an‐
che in due volume che parlano di parole ritrovate e di vernacolo fioren no. Un uso frequente di questo arnese
dai nostri montanari si aveva quando giungeva il tempo di tagliare i polloni (succioni o succhioni) selva ci alle pian‐
te dei castagni innesta , ma veniva molto usato dai boscaioli per abbozzare (squadrare) i tronchi taglia per farne
delle travi, dai carbonai per spaccare la legna e dai contadini per appuntare i pali da vite. Essendo uno strumento
poco ingombrante ma di largo uso, la gente di montagna aveva l’abitudine di portarlo addosso appeso alla cintura
mediante un gancio; questo succedeva quando la persona si allontanava da casa durante il giorno nel bosco ma
anche nei campi, o quando la sera i contadini andavano “a veglia” da qualche famiglia lontana, in effe il maniolo
faceva anche le veci di arma personale. Fra i montanari del Pratomagno, i casen nesi erano i più inclini a portare
addosso questo strumento, tanto che in un libro sugli usi e costumi della nostra montagna si legge che era facile
capire da che vallata venivano i cercatori di funghi, perché quelli che provenivano dal Casen no avevano tu a por‐
tata di mano il maniolo.
Vanne o Vannini
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(RI) CONOSCERE I FUNGHI di Vincenzo Monda Russola virescrens ‐ verdone
Commes bilità
O mo commes bile sia da crudo che da co o,
una delle migliori Russula in assoluto, se non pro‐
prio la migliore.
Osservazioni
Questa specie è facilmente riconoscibile per il co‐
lore verde‐azzurro marmorizzato della cu cola,
per la compa ezza (alto peso specifico) ed il buon
sapore della sua carne.
Russola cyanoxantha
Commes bilità:
o mo commes bile
Cappello da verde a viola bluastro sovente l'insieme dei tre
colori, cu cola parzialmente separabile. La carne so ostante
spesso ha tonalità lilla. Gambo bianco,possono essere presen
tonalità lievemente violacee. Carne bianca e sapore mite. Cre‐
sce dall'estate al tardo autunno nei boschi di la foglie. Cara e‐
ris ca dis n va sono le lamelle lardacee, alla pressione e sfre‐
gamento non si spezzano, caso del tu o unico tra le Russula
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Russola foetens
Carne
Consistente ma fragile, bianca ma diventa rosso bruna
a conta o con l'aria o con l'età. Odore fe do, sapore
acre e nauseante quello delle lamelle, mite a volte
quello del gambo.
Commes bilità
russola tossica, anche se la sgradevolezza dell'odore
cos tuisce un deterrente quasi automa co.
Russola eme ca
Carne
Bianca, immutabile, un po' rossiccia so o il cappello,
fragile, di sapore molto acre e piccante con odore dolcia‐
stro, simile a fru a, più o meno accentuato
Commes bilità
russola tossica, irritante delle mucose, responsabile della sin‐
drome gastroenterica, anche con gravi conseguenze.
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A vità Sezionale
APRILE — GIUGNO 2015 Lunedì 6 Aprile (Pasque a)
VALDAMBRA: + Mountain Bike Mezzi propri DIFFICOLTA’: percorso di po T Accompagnatori sez.: Romano RESTI — Gabriele PICCAR‐DI
* * * Domenica 19 Aprile
INTERSEZIONALE Appennino Tosco Romagnolo Pullman DIFFICOLTA’: percorso di po E Accompagnatore sez.: Mario BINDI
* * * Sabato 25 Aprile Con il CAI di Arezzo
IL PERCORSO DELLA MEMORIA: Civitella—S. Pancrazio Mezzi Propri DIFFICOLTA’: percorso di po E Accompagnatori sez.: Elio ROSSI — Sauro VASAI
* * * 1 ÷ 3 Maggio
MARCHE—PESARO Parco di S. Bartolo con Bici Pullman DIFFICOLTA’: percorso di po E Accompagnatori sez.: Roberto Zaganelli — Antonio RI‐GHESCHI
Domenica 17 Maggio UMBRIA: Bevagna—Montefalco Pullman DIFFICOLTA’: percorso di po E Accompagnatori sez.: Lorenzo BIGI — Stefano DEL CUCI‐NA
* * * Domenica 24 Maggio
GIORNATA DEI SENTIERI Mezzi Propri DIFFICOLTA’: percorsi di po T/E Accompagnatori sez.: Romano RESTI — Elio ROSSI
* * * Dal 30 Maggio al 2 Giugno
CAMPANIA: Napoli e trekking sul Vesuvio Pullman DIFFICOLTA’: percorsi di po E/EE Accompagnatori sez.: Mauro Brogi — Mauro Borchi
* * * Domenica 14 Giugno
BABY CAI Mezzi Propri DIFFICOLTA’: percorso di po E Accompagnatore sez.: Daniele MENABENI
* * * Domenica 28 Giugno
CASENTINO: Anello di S a Mezzi Propri DIFFICOLTA’: percorso di po E Accompagnatori sez.: Luigi CARDELLI — Guido BARTOLI
Valdarno Superiore
Ogni martedì Il Gruppo “...QUELLI DEL MARTEDÌ” organizza escursioni infrase manali, solitamente di po “E” e
sempre con mezzi propri, sul territorio regionale; il programma delle escursioni è visibile, aggiornato mese per me‐
se, sul sito “www.caivaldarnosuperiore.it” nella sezione PROGRAMMA, in sede e presso le varie Pro Loco. Si racco‐
manda a tu gli interessa (soci e non soci) di conta are il referente della singola escursione (nome e recapito te‐
lefonico nella circolare) il pomeriggio del lunedì per avere conferma.
EDITORE DIRETTORE
RESPONSABILE REDAZIONE COLLABORATORI
Mario BINDI Vanne o VANNINI Lorenzo BIGI
Ermanno CARNIERI
Daniele MENABENI
Vincenzo MONDA
QUEL MAZZOLIN DI FIORI
Web Magazine della Sezione Valdarno Superiore del
CLUB ALPINO ITALIANO