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1 A cura del cons. Roberto Garofoli Dispensa di diritto penale 3

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A cura del cons. Roberto Garofoli

Dispensa di diritto penale 3

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1. Sulla perimetrazione degli spazi applicativi rispettivamente

propri dei commi 2 e 4 dell’art. 2 c.p.

A) La “prima” riscrittura del reato di falso in bilancio e la riformulazione del reato

di bancarotta impropria. Cass. Sez. un., 16 giugno 2003, n. 25887.

5. Ciò stabilito occorre prendere più specificamente in considerazione la vicenda legislativa relativa

all’art. 2621 c.c. e all’art. 223, comma 2, n. 1, l. fall., mettendo a confronto vecchie e nuove

disposizioni.

Per quanto riguarda le false comunicazioni sociali il dato che più immediatamente viene in

evidenza è rappresentato dalla suddivisione dell’originaria unica fattispecie nelle due, oggetto dei

nuovi artt. 2621 e 2622 c.c., oltre che dall’enucleazione dalla precedente struttura di autonome

fattispecie di reato, come la contravvenzione prevista dall’art. 2627 c.c. (Illegale ripartizione degli

utili e delle riserve).

Il residuo reato di false comunicazioni sociali è oggi articolato in due distinte ipotesi, disegnate una

(quella del nuovo art. 2621 c.c.) come figura contravvenzionale, l’altra (quella del nuovo art. 2622

c.c.) come figura delittuosa. La condotta e l’elemento psicologico sono identiche; la differenza è

costituita dal danno patrimoniale in pregiudizio dei soci e dei creditori, richiesto solo nella

previsione delittuosa, che però è punibile solo a querela della persona offesa.

Per quanto riguarda l’oggettività della fattispecie, elementi differenziali rispetto alla formulazione

del precedente art. 2621 c.c. sono:

a) l’esclusione dei promotori e dei soci fondatori dal novero dei soggetti attivi;

b) la riduzione delle comunicazioni sociali rilevanti ai fini del reato: alla formula "nelle relazioni

sociali, nei bilanci o in altre comunicazioni sociali" è sostituita quella "nei bilanci, nelle relazioni o

nelle altre comunicazioni sociali previste dalla legge, dirette ai soci o al pubblico";

c) l’esposizione deve riguardare fatti "materiali non rispondenti al vero, ancorché oggetto di

valutazioni", e non più semplicemente "fatti non rispondenti al vero";

d) alla condotta positiva del mendacio è accomunata quella dell’omissione di informazioni la cui

comunicazione è imposta dalla legge, in luogo di quella del nascondimento in tutto o in parte di fatti

concernenti le condizioni economiche della società;

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e) l’oggetto del mendacio o dell’omissione è costituito dalla situazione economica, patrimoniale o

finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene anziché dalla costituzione ovvero

dalle condizioni economiche della società; vi è, poi, un’estensione della punibilità al caso in cui le

informazioni riguardino beni posseduti od amministrati dalla società per conto di terzi;

f) la condotta deve essere anche decettiva, ossia idonea ad indurre in errore i destinatari sulla

predetta situazione, requisito non espressamente previsto dal vecchio dettato normativo;

g) quanto alla componente soggettiva, la locuzione avverbiale "fraudolentemente" è sostituita dalla

previsione della "intenzione di ingannare i soci o il pubblico e al fine di conseguire per sé o per altri

un ingiusto profitto". Dunque, una doppia previsione di dolo: al dolo specifico, ritenuto implicito

nella vecchia fisionomia di reato e oggi esplicitato e tipizzato, se ne aggiunge uno intenzionale o

rafforzato.

Infine deve ricordarsi la differenza dipendente dall’introduzione delle soglie di punibilità, che

sono configurate in modo assai articolato (artt. 2621, commi 3 e 4, e 2622 commi 5 e 6 c.c.) e

segnano l’aspetto maggiormente caratterizzante della nuova normativa.

L’area della punibilità del vecchio art. 2621 c.c. risulta, da un lato, fortemente circoscritta,

attraverso le novità indicate, e, dall’altro, articolata nelle disposizioni degli artt. 2621 c.c. e 2622

c.c. Nell’ambito di una fattispecie alquanto ampia, specie nell’interpretazione che ne aveva dato la

giurisprudenza, sono state ritagliate fattispecie molto più circoscritte e assai più blandamente punite,

ma deve riconoscersi che i fatti rientranti nelle nuove previsioni erano punibili anche in base al

precedente testo dell’art. 2621 c.c., e deve perciò concludersi, in applicazione dei criteri

precedentemente indicati, che i fatti commessi sotto il vigore della precedente legge, nei limiti

in cui rientrano nelle previsioni della nuova legge, rimangono punibili, a norma dell’art. 2

comma 3 c.p., mentre gli altri non costituiscono più reato, per un effetto abolitivo delle nuove

disposizioni che a norma dell’art. 2, comma 2, c.p. travolge anche il giudicato di condanna.

OMISSIS

Ciò significa che il legislatore ha ritenuto sufficiente per il conseguimento degli obbiettivi

perseguiti il complesso e fortemente limitativo intervento svolto sulla fattispecie dell’art. 2621

c.c., senza operare per il passato un’abolizione anche rispetto ai fatti che continuano a

costituire reato.

6. A uguali conclusioni deve pervenirsi per la vicenda legislativa relativa all’art. 223, comma 2, n. 1

l. fall.

Il raffronto testuale tra la vecchia e la nuova formulazione segnala due significative modifiche:

a) la prima è costituita dal diverso elenco dei reati societari che possono costituire la bancarotta

impropria: non figurano più i reati degli artt. 2623 e 2630 c.c.; l’art. 2622 c.c., relativo alle false

comunicazioni sociali in danno dei soci e dei creditori, nel testo precedente riguardava la

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divulgazione di notizie sociali riservate; l’art. 2628 c.c. relativo alle illecite operazioni sulle azioni o

quote sociali o della società controllante, nel testo precedente riguardava le manovre fraudolente sui

titoli della società; sono stati aggiunti i reati degli artt. 2626, 2627, 2629,2632,2633 e 2634 c.c.

b) la più rilevante innovazione riguarda tuttavia l’introduzione del collegamento causale tra il

reato societario e il dissesto della società, che mancava nel testo precedente, a tenore del quale era

sufficiente la commissione di alcuno dei fatti preveduti dagli articoli richiamati ("2621, 2622, 2623,

2628, 2630, comma primo, del codice civile"), cui avesse, poi, fatto seguito la dichiarazione del

fallimento; risulta così modificato anche l’elemento psicologico che ora non può non investire

anche tale collegamento.

OMISSIS

Nel caso in esame viene specificamente in questione la bancarotta societaria dipendente dalla

commissione dei reati degli artt. 2621 e 2622 c.c. e ,la differenza tra la vecchia e la nuova

norma è data sia dalla differenza tra vecchie e nuove false comunicazioni sociali, sia dal

rapporto richiesto tra il reato e il dissesto. Mentre è certo che i fatti precedentemente commessi

che non integrano le nuove false comunicazioni sociali o che non hanno cagionato o concorso a

cagionare il dissesto non costituiscono più reato e rientrano nella sfera operativa dell’art. 2, comma

2, c.p., la questione della continuità si pone per quei fatti che invece presentano puntualmente gli

elementi richiesti dalla nuova norma e deve avere una soluzione affermativa, perché da un lato

esiste la continuità tra le vecchie e le nuove false comunicazioni sociali e dall’altro il collegamento

causale, se non era richiesto (ma non sono mancate voci che anche rispetto alla disposizione del

vecchio art. 223, comma 2, n. 1, 1. fall. hanno cercato di individuare un nesso normativo tra il reato

societario e il fallimento), certo non era escluso, e qualche volta formava oggetto di accertamento

(com’è avvenuto nel caso deciso dalla sentenza Sez. I, 15 maggio 2002, Mazzei, cit.).

OMISSIS

Secondo Sez. V, 8 ottobre 2002, Tosetti, cit. però occorrerebbe distinguere tra specialità "per

specificazione" e specialità "per aggiunta", perché mentre nel primo caso si riscontrerebbero sempre

un’abolizione parziale unita a una parziale continuità, nel secondo caso occorrerebbe valutare il

"peso" dell’elemento aggiuntivo specializzante. Questa sentenza poi rileva che la nuova

disposizione dell’art. 223, comma 2, n. 1, 1. fall. ha dato luogo ad una fattispecie speciale "per

aggiunta" e sostiene che l’elemento aggiunto, la determinazione del dissesto, segna una

discontinuità rispetto alla norma precedente in quanto "è tale da ascrivere alla nuova fattispecie un

significato lesivo del tutto diverso da quello della fattispecie abrogata". In realtà però alla luce dei

criteri indicati non c’è ragione di differenziare ai fini della successione di leggi penali i casi della

specialità "per aggiunta" da quelli della specialità "per specificazione", perché tanto negli uni

quanto negli altri è riscontrabile quella situazione di doppia punibilità in astratto cui si ricollega la

relazione di continuità.

OMISSIS

La sentenza Tosetti merita invece di essere condivisa quando afferma che una volta ritenuta

l’inapplicabilità del nuovo art. 223, comma 2, n. 1, l. fall. ai fatti commessi prima della

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riforma rimane da stabilire se sia o meno applicabile la norma incriminatrice sulle false

comunicazioni sociali (nello stesso senso si è espressa Sez. V, 3 ottobre 2002, De Massa), ma va

precisato che nella ricostruzione operata dalle Sezioni unite la questione si pone solo se, nel

caso concreto, non risulta il collegamento causale tra il reato societario e il dissesto.

* * * * * * *

B1) La “seconda” riscrittura del reato di falso in bilancio. Cass., Sez. V, 30 luglio

2015, n. 33774.

2.1. La riforma dell'art. 2621 c.c., ed il reato di bancarotta impropria da falso in bilancio. Prima di

esaminare alcune delle questioni dedotte dalle parti in relazione ai reati sopra indicati, si deve

analizzare l'incidenza sulla rilevanza penale dei fatti di bancarotta impropria per cui si procede della

recente riforma introdotta con la L. 27 maggio 2015, n. 69, (Disposizioni in materia di delitti contro

la pubblica amministrazione, di associazioni di tipo mafioso e di falso in bilancio - GU Serie

Generale n. 124 del 30-5-2015 - in vigore dal 14 giugno 2015). Infatti, si pone il problema della

continuità normativa tra la vecchia e la nuova formulazione delle disposizioni in materia di

comunicazioni sociali, giacchè la condotta di bancarotta impropria di cui alla L. Fall., art. 223,

comma 2, n. 1, è quella di aver cagionato, o concorso a cagionare, il dissesto della società

"commettendo alcuno dei fatti" previsti dal codice civile quali reati societari, tra i quali sono

indicati quelli di falsificazione di cui agli artt. 2621 e 2622. E' necessario, quindi, verificare se i fatti

per cui si procede siano tuttora previsti dalla legge come reato, atteso che successivamente alla

proposizione dei ricorsi in esame è entrata in vigore la citata L. n. 69 del 2015, che ha

significativamente ridisegnato le fattispecie di false comunicazioni sociali previste dai testi degli

artt. 2621 e 2622 c.c., vigenti all'epoca dei fatti e della pronunzia della sentenza impugnata.

OMISSIS

2.1.f. Problemi interpretativi suscita la già segnalata epurazione dello specifico riferimento alle

valutazioni contenuto nel testo previgente dei due artt. e la sostituzione, riguardo all'ipotesi

omissiva, del termine "informazioni" con la locuzione "fatti materiali". Scelta che finisce per

determinare, per quanto qui di seguito si dirà, un ridimensionamento dell'elemento oggettivo delle

false comunicazioni sociali, con effetto parzialmente abrogativo ovvero limitato a quei fatti che non

trovano più corrispondenza nelle nuove previsioni normative.

2.1.g. OMISSIS

2.1.h. OMISSIS

2.1.i. Quindi, il dato testuale e il confronto con la previgente formulazione degli artt. 2621 e

2622, come si è visto in una disarmonia con il diritto penale tributario e con l'art. 2638 cod.

civ., sono elementi indicativi della reale volontà legislativa di far venir meno la punibilità dei

falsi valutativi, ancorchè si sia sostenuto, sempre nei primi commenti alla novella, come non possa

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del tutto escludersi che l'eliminazione di qualsiasi espresso riferimento a questi ultimi sia da

imputarsi alla ritenuta superfluità di una loro evocazione. Tale tesi si fonda soprattutto sul

dichiarato timore di una riduzione della portata operativa della normativa e finisce per fare ricorso

soprattutto ad una interpretazione sistematica, partendo dall'assunto che le voci di bilancio sono

costituite quasi interamente da valutazioni. Tuttavia in tale ottica si dovrebbe ritenere che la riforma

abbia inteso affermare che la distorsione nella valutazione di un fatto rilevi nella misura in cui la

comunicazione sociale finisca per rappresentare una realtà materiale oggettivamente falsa. E ciò in

quanto la valutazione deve considerarsi comunque la misurazione di qualcosa che esiste nella realtà

"materiale", per rimanere in sintonia con l'aggettivo "materiali" attribuito ai "fatti". Sotto tale profilo

non si trascura come in effetti la locuzione "fatti materiali" possa ritenersi solo un'endiadi, giacchè

mal si comprende quali possano essere i fatti "immateriali" penalmente irrilevanti. Come si dirà più

avanti, però, la scelta della riforma del 2002 di aggiungere l'aggettivo "materiali" nell'espressione

"fatti non rispondenti al vero" di cui all'art. 2621 cod. civ. previgente, con l'ulteriore richiamo

espresso alle "valutazioni", era stata letta da molti come conseguenza della necessità di risolvere

definitivamente i dubbi interpretativi insorti in relazione alla vecchia formulazione della norma.

OMISSIS.

2.1.n. In tale tormentato contesto interpretativo, la riforma del 2002 apportò delle parziali modifiche

alla condotta, con attribuzione di rilevanza penale all'esposizione di "fatti materiali non rispondenti

al vero ancorchè oggetto di valutazioni". Il riferimento specifico ai fatti "materiali" e la

necessità di precisare, con il ricorso alla congiunzione "ancorchè" (come si è detto, con valore

chiaramente "concessivo"), che in essi vanno ricompresi anche le valutazioni, sono stati

evidentemente supportati proprio dalla necessità di superare i contrasti interpretativi

originati dalla precedente formulazione della norma e di dovere fissare nell'art. 2621 cod. civ.,

comma 4 (e nell'art. 2622 cod. civ., speculare comma 8) una soglia di punibilità avente ad

oggetto proprio le "valutazioni estimative", ribadendo così come anche le valutazioni

potessero assumere rilievo penale laddove dovessero travalicare i confini della soglia in

questione. In tal senso si era espressa, come già ricordato, una parte degli interpreti, secondo la

quale la nuova locuzione definitivamente sanciva quanto dottrina e giurisprudenza prevalenti

avevano ritenuto nell'esegesi del previgente dettato normativo. Anche le Sezioni Unite di questa

Corte, che si sono occupate dei contrasti giurisprudenziali creatisi in sede di prima applicazione

della riforma del 2002, nell'affrontare specificamente il problema della continuità normativa, con

tutte le implicazioni poste dall'art. 2 cod. pen., ebbero a sottolineare, nel confronto tra vecchia e

nuova normativa, che "l'esposizione deve riguardare fatti "materiali non rispondenti al vero,

ancorchè oggetto di valutazioni", e non più semplicemente "fatti non rispondenti al vero"" (in

motivazione Sez. U, n. 25887 del 26/03/2003, Giordano ed altri, Rv. 224605, che ha chiarito come

la nuova formulazione delle norme che prevedono i delitti di false comunicazioni sociali e di

bancarotta fraudolenta impropria "da reato societario" ad opera, rispettivamente, del D.Lgs. 11

aprile 2002, n. 61, artt. 1 e 4 non ha comportato l'abolizione totale del reati precedentemente

contemplati, ma ha determinato una successione di leggi con effetto parzialmente abrogativo in

relazione a quei fatti, commessi prima dell'entrata in vigore del citato decreto legislativo, che non

siano riconducibili alle nuove fattispecie criminose).

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2.1.o. Fatte queste precisazioni e nella prospettata necessità di verificare in che termini vi sia

continuità normativa, il passaggio della recente riforma ad una tipizzazione delle condotta (sia attiva

che omissiva) che mutua solo la locuzione “fatti materiali", legittima l'interpretazione che

esclude la rilevanza penale ai fatti derivanti da procedimento valutativo. Se, infatti, si è visto

quanto aspro fosse il dibattito allorquando la norma attribuiva rilevanza ai soli "fatti", è chiaro che

ora l'impiego dell'aggettivo "materiali" finisce per inequivocabilmente escludere ogni sorta di

valutazione dalla sfera applicativa della fattispecie. E ciò tanto più se si consideri - come si è già

sopra sottolineato - che, in un primo momento, il disegno di legge oggetto dei lavori parlamentari

attribuiva rilevanza alle "informazioni" false, adottando così un'espressione indubbiamente idonea a

ricomprendere le valutazioni e sicuramente più corretta avuto riguardo proprio alla normativa in

materia di comunicazioni sociali (artt. 2423 e ss. cod. civ.). Insomma, non si può ignorare, in una

interpretazione che faccia buona applicazione dei criteri ermeneutici propri della materia penale, il

non giustificato revirement nella formulazione della fattispecie, con ritorno alla locuzione

"fatti materiali" (in luogo del riferimento al più ampio ed esaustivo concetto di "informazioni"),

espressamente epurati di quell'aggancio alle n valutazioni", che invece aveva voluto la

riforma del 2002, anche ricorrendo all'esplicita previsione di una soglia di punibilità calibrata

proprio su di esse (come si è detto, nei citati art. 2621 c.c., comma 4 e art. 2622 c.c., comma 8). A

tal proposito va sottolineata e ribadita l'esigenza di tipicità della norma nella sua applicazione in

sede penale, che - come si è visto - nei testi previgenti degli artt. 2621 e 2622 finiva per essere

soddisfatta proprio mediante l'individuazione di una soglia di rilevanza delle valutazioni estimative

e l'implicito rinvio relativamente alla condotta alla disciplina dettata dall'art. 2426 cod. civ., che

appunto fissa i criteri da osservarsi nelle salutazioni. Come è noto, l'interpretazione

giurisprudenziale aveva rilevato come le soglie fissate dalla normativa del 2002 non dovessero

considerarsi mere condizioni obiettive di punibilità, e quindi "esterne" alla struttura del reato, ma

concorressero proprio a tipizzare le condotte penalmente rilevanti (si veda Corte Cost. n. 161/2004,

nonchè la già citata Sez. Un., 26/03/2003, Giordano; e in motivazione Sez. 5, n. 44007 del

28/09/2005, Vintaloro ed altro, Rv. 232804). Nella nuova normativa di cui agli artt. 2621 e 2622 la

suddetta esigenza di tipizzazione della condotta non risulta affatto soddisfatta e il mancato esplicito

riferimento alle valutazioni estimative finisce, con una interpretazione estensiva della nozione di

"fatti materiali", per lasciare all'interprete la discrezionalità (e quindi l'arbitrio) di precisarne la

rilevanza, in evidente violazione del principio di tipicità del precetto penale. Ciò risulta ancor più

pregnante ove si consideri pure l'ulteriore incertezza creata dalla struttura della fattispecie di cui

all'art. 2621 cod. civ., nella quale - come si è già evidenziato - i "fatti materiali" devono anche

essere "rilevanti"; precisazione che invece, inspiegabilmente, non viene replicata nella gemella

disposizione di cui all'art. 2622 cod. civ.. L'aggettivo "rilevanti" riferito ai "fatti materiali"

risulta pregno di genericità e in tal modo la determinazione della soglia di penale rilevanza

viene ancora una volta lasciata alla valutazione discrezionale del giudice.

* * * * * * *

B2) Cass., Sez. V, ud. 12 novembre 2015

Nell’art. 2621 c.c. il riferimento ai 'fatti materiali' quali possibili oggetti di una falsa

rappresentazione della realtà non vale a escludere la rilevanza penale degli enunciati valutativi,

che sono anch'essi predicabili di falsità quando violino criteri di valutazione predeterminati o

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esibiti in una comunicazione sociale. Infatti, quando intervengono in contesti che implicano

l'accettazione di parametri di valutazione normativamente determinati o, comunque, tecnicamente

indiscussi, gli enunciati valutativi sono idonei ad assolvere una funzione informativa e possono

dirsi veri o falsi.

* * * * * * *

C) I rapporti successori tra nuova concussione e indebita induzione. Cass. pen.,

Sez. Un., 14 marzo 2014, 12228

23. La ulteriore riflessione deve mirare a stabilire se vi sia o no continuità di tipo di illecito tra la

fattispecie legale astratta delineata dal previgente art. 317 cod. pen. e il nuovo assetto normativo

venutosi a cristallizzare, in relazione agli aspetti penali che qui rilevano, con la novella legislativa n.

190 del 2012.

OMISSIS

23.3. Con riferimento, in particolare, alla concussione per costrizione di cui al novellato art. 317

cod. pen., nulla è mutato quanto alla posizione del pubblico ufficiale. I “vecchi” fatti di abuso

costrittivo da costui commessi continuano a dover essere puniti, sia pure con il più favorevole

corredo sanzionatorio previgente. La formulazione testuale del nuovo art. 317 cod. pen., infatti, è

assolutamente sovrapponibile, nella indicazione degli elementi strutturali della fattispecie, al testo

della norma ante riforma.

Da questa è stata espunta la categoria soggettiva dell’incaricato di pubblico servizio, il quale,

però, ove abbia posto In essere una condotta costrittiva, qualificata dall’abuso di poteri,

continua a dover essere punito, considerato che tale condotta, nella sua struttura, rimane

comunque inquadrabile in altre fattispecie incriminatrici di “diritto comune”.

L’abuso costrittivo dell’incaricato di pubblico servizio certamente sfugge allo statuto penale della

pubblica amministrazione, ma non v’è dubbio che può integrare il reato di estorsione aggravata

(artt. 629 e 61, comma primo, n. 9 cod. pen.) in presenza di deminutio patrimonii ovvero, difettando

questa, il reato di violenza privata aggravata (artt. 610 e 61, comma primo, n. 9 cod. pen.) od

ancora, se la vittima è stata costretta a prestazioni sessuali, il reato di cui all’art. [ f) 609-bis cod.

pen., illeciti — questi — che strutturalmente condividono la stessa fisionomia della vecchia

fattispecie di concussione per costrizione. Ovviamente, t in sede di diritto intertemporale, deve

essere individuato e applicato il regime sanzionatorio più favorevole.

Rimane il fatto che il quadro sanzionatorio, una volta “a regime”, presenta, come già rilevato,

aspetti paradossali ed irragionevoli per le sproporzioni eccesso o in difetto che lo attraversano a

seconda che il fatto incriminato sia commesso dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico

servizio.

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23.4. Sussiste continuità normativa, limitatamente alla posizione del pubblico agente, anche

tra la previgente concussione per induzione e il nuovo reato di induzione indebita a dare o

promettere utilità.

Una parte della giurisprudenza di questa Corte (Sez. 6, n. 17285 dell’11/01/2013, Vaccaro, Rv.

254620) e della dottrina ha risolto positivamente il problema della continuità, facendo leva sul

rilievo che l’art. 319-quater cod. pen. integrerebbe una “norma a più fattispecie”, nel senso che

prevedrebbe due autonome figure di reato monosoggettivo: l’induzione qualificata dell’intraneus, in

tutto identica, nella sua formulazione testuale, alla corrispondente parte del previgente art. 317 cod.

pen.; la promessa o la dazione indotta di utilità da parte dell’extraneus.

Tale orientamento, apprezzabile per la sua chiarezza intuitiva, non si concilia però con il dato

normativo, che postula, per l’esistenza del reato, la necessaria convergenza, sia pure

nell’ambito di un rapporto “squilibrato”, dei processi volitivi di più soggetti attivi e la

punibilità dei medesimi.

Trattasi quindi di reato plurisoggettivo proprio o normativamente plurisoggettivo.

Né vale a contestare tale conclusione la diversità di pena prevista per il pubblico agente (reclusione

da tre a otto anni) e per il privato (reclusione fino a tre anni), considerato che tale previsione, di per

sé, non esclude l’unitarietà della fattispecie: lo dimostra il fatto che, anche per i reati di cui agli artt.

416 e 416- bis cod. pen. (pacificamente a concorso necessario), il legislatore differenzia le pene per

le diverse figure di capo, promotore, dirigente, organizzatore o mero partecipe. La correità

necessaria insita nell’illecito di cui all’art. 319-quater cod. pen. ha certamente innovato, sotto il

profilo normativo, lo schema della vecchia concussione per induzione, che tuttavia, con riferimento

alla posizione del pubblico agente, trova continuità nel novum, venendo così scongiurata

l’operatività della regola di cui all’art. 2, comma secondo, cod. pen. ( Molteplici ragioni militano

per tale continuità: a) il volto strutturale dell’abuso induttivo è rimasto immutato; b) la prevista

punibilità dell’indotto non investe direttamente la struttura tipica del reato, ma interviene, per così

dire, solo “al suo esterno”; c) la vecchia descrizione tipica già contemplava, infatti, la

dazione/promessa del privato e delineava un reato plurisoggettivo improprio o naturalisticamente

plurisoggettivo, inquadramento dogmatico quest’ultimo che non incide sulla ricognizione logico-

strutturale; d) finanche sotto il profilo assiologico, la nuova incriminazione è in linea con quella

previgente, anche se ne restringe la portata offensiva alla sola dimensione pubblicistica del buon

andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione.

Ritenuto il rapporto di piena continuità normativa, compito del giudice intertemporale, per la

valutazione dei fatti pregressi, deve essere solo quello di applicare, ai sensi dell’art. 2, comma

quarto, cod. pen., la lex mitior, che va individuata nella norma sopravvenuta, perché più

favorevole in ragione dell’abbassamento di entrambi i limiti edittali di pena.

* * * * * * *

2. Successione mediata di norme penali

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A) La punibilità della condotta di violazione dell’art. 14, co. 5-ter, d. lgs. n.

286/1998, posta in essere da cittadini rumeni prima dell’adesione del Paese di

appartenenza all’Unione Europea. Cass., Sez. un., 16 gennaio 2008, n. 2451

1. Rispetto alla questione rimessa per la soluzione alle Sezioni unite è preliminare quella, oggetto

del ricorso del Procuratore generale, relativa al contenuto della motivazione del provvedimento del

questore che, a norma dell'art. 14, comma 5 bis, d. lg. n. 286/98, ordina allo straniero di lasciare il

territorio dello Stato entro il termine di cinque giorni. Se infatti si dovesse convenire con il tribunale

che il provvedimento del questore era illegittimo, che l'imputato non era tenuto ad osservarlo e che

quindi non era avvenuta la violazione costituente reato, la questione sugli effetti da ricollegare

all'ingresso della Romania nell'Unione Europea sarebbe priva di rilevanza: il fatto sarebbe

insussistente e non ci sarebbe ragione di chiedersi se esso sia ancora preveduto come reato.

OMISSIS

3. In seguito all'entrata in vigore, il 1 gennaio 2007, del Trattato di adesione della Romania

all'Unione Europea (1. 9 gennaio 2006, n. 16) ha perso efficacia il decreto di espulsione emesso dal

prefetto a norma dell'art. 13 d. lg. n. 286/98, ed è venuto meno l'obbligo per l'imputato di lasciare il

territorio dello Stato, in ottemperanza all'ordine impartito a suo tempo dal questore, e

correlativamente è cessato il reato previsto dall'art. 14, comma 5 ter, d. lg. n. 286/98. Poichè per il

reato era già stato commesso c'è da chiedersi se ne permanga, o meno, la punibilità.

OMISSIS

4. Sulla questione relativa agli effetti della successione di leggi extrapenali in giurisprudenza sono

emerse opinioni diverse e i vari casi che si sono presentati sono stati risolti ora muovendo

dell'affermazione di principio che l'art. 2, comma 2, c.p. si applica anche rispetto alla successione di

leggi extrapenali, ora, invece, dall'affermazione opposta. Se però si considerano attentamente i

diversi casi passati al vaglio della giurisprudenza ci si rende conto che per la loro soluzione non ci si

può affidare all'affermazione di principio che tutte le modificazioni di dati normativi esterni,

implicati dalla fattispecie penale, sono da trattare come un fenomeno di successione di leggi penali

o all'affermazione opposta.

OMISSIS

E' vero che la modificazione di una norma extrapenale non potrebbe dar luogo a un'applicazione

retroattiva, ma non sembra che ciò dipenda dal concetto di "fatto" accolto dall'art. 2, comma 1.

c.p.p., perchè è assai difficile ipotizzare che un fatto divenuto reato per la successiva modificazione

di una legge extrapenale possa essere integrato da condotte precedenti, posto che in precedenza

potevano esistere, e non sempre, gli elementi di fatto, ma non anche le qualificazioni normative

presupposte dalla norma penale.

OMISSIS

11

Perciò non può concludersi che il concetto di "fatto" accolto dal primo comma dell'art. 2 c.p.

è necessariamente comprensivo di tutti gli elementi normativi extrapenali e che questo

concetto è recepito anche dal secondo comma dello stesso articolo.

E' vero che c'è una corrispondenza tra il primo e il secondo comma dell'art. 2 c.p., ma questa

corrispondenza si riscontra nei casi in cui, come si vedrà, la legge extrapenale, per il ruolo che

svolge nella fattispecie o per sua natura, è in grado di operare retroattivamente. E' in questi casi

infatti che l'innovazione, per lo sbarramento del primo comma, non può avere un effetto di

incriminazione retroattiva, mentre può avere l'effetto abolitivo previsto dal secondo comma. In

realtà l'art. 2 c.p. non offre argomenti per sostenere che, benchè nella rubrica si riferisca

letteralmente solo alla legge penale, detti delle regole da valere anche per tutte le leggi

extrapenali, richiamate in qualche modo dalla disposizione incriminatrice; leggi che possono

essere le più varie e possono venire in considerazione anche indirettamente, attraverso una

pluralità di rinvii, dalla legge penale a quella extrapenale e da questa ad altre leggi.

OMISSIS

La fattispecie dell'art. 14, comma 5 ter, d.lg. n. 286/98 è rimasta immutata e la modificazione

intervenuta nella disciplina dei permessi può incidere sulla condizione dello straniero,

consentendogli di ottenere un permesso che prima gli era precluso, ma non può far venir meno la

punibilità di un fatto già commesso.

Diversa a quanto pare dovrebbe essere la conclusione se a cambiare fosse proprio la

definizione di straniero contenuta nell'art. I d.lg. n. 286/98. Se dalla categoria venisse escluso il

cittadino di uno Stato in attesa di adesione all'Unione sarebbe la stessa thttispecie penale a

risultare diversa e a vedersi sottrarre una parte della sua sfera di applicazione, secondo lo

schema tipico dell'abolizione parziale, riconducibile all'art. 2, comma 2, c.p. (Sez. un. 26 marzo

2003, n. 25887, Giordano).

In un caso del genere dall'ambito della precedente fattispecie verrebbe esclusa una sottoclasse,

quella relativa ai cittadini dei Paesi candidati all'ingresso nell'Unione Europea, e rispetto a questa

sottoclasse si potrebbe parlare di abolitio criminis, come avviene quando in una vicenda di

successione di leggi penali una fattispecie più ampia viene sostituita con una più limitata (si pensi

alla modificazione del reato di abuso di ufficio o di quello di false comunicazioni sociali, dei quali

la giurisprudenza ha avuto occasione di occuparsi ampiamente), facendo venire meno la punibilità

dei fatti che, pur integrando precedentemente il reato, non rientrano nella nuova fattispecie.

Lo stesso dovrebbe dirsi se dalla più ristretta categoria degli stranieri che devono essere espulsi,

individuata dall'art. 13, comma 2, d.lg. n. 286/98, venisse escluso lo straniero che si è trattenuto nel

territorio dello Stato in assenza della comunicazione di cui all'art. 27, comma 1 bis, o senza aver

richiesto il permesso di soggiorno nei termini prescritti, nei cui confronti, in ipotesi, una legge

successiva introducesse un regime meno rigoroso di quello stabilito nei confronti dello straniero

entrato nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di frontiera. Anche in questo caso verrebbe

ad essere modificata la fattispecie dell'art. 14, comma 5 ter, cit. attraverso una ridefinizione della

categoria delle persone alle quali è applicabile la normativa sull'espulsione.

Al contrario, la cittadinanza dell'uno o dell'altro Stato, membro oppure no dell'Unione

Europea, rispetto alla fattispecie 14, comma 5 ter, d.lg. n. 286/98 non dà luogo a sottoclassi,

non designa nell'ambito della categoria una parte con caratteristiche specifiche, ma individua

12

più semplicemente l'appartenenza all'una o all'altra categoria, cioè a quella dei cittadini

extracomunitari o dei cittadini comunitari. L'essere rumeno o albanese significa oggi essere o

non essere cittadino dell'Unione Europea, perciò, ai fini del reato in questione, l'ingresso di uno

Stato nell'Unione, così come in ipotesi la sua esclusione, non dà luogo a una successione di leggi

riconducibile all'art. 2, comma 2, c.p., non modifica, sia pure in modo mediato, la fattispecie penale,

ma costituisce un mero dato di fatto, anche se frutto di un'attività normativa.

* * * * * * *

B) I problemi successori innescati dalla nuova disciplina della colpa medica. Cass.

pen., sez. IV, 29 gennaio 2013, n. 16237

15. Occorre infine chiarire quale influenza abbia la nuova normativa sul caso in esame. Si pone un

problema di diritto intertemporale che trova piana regolamentazione alla luce della disciplina legale.

Non pare dubbio, infatti, che la riforma abbia determinato la parziale abrogazione delle fattispecie

colpose commesse dagli esercenti le professioni sanitarie ed, in particolare, per quel che qui

interessa, di quella di cui all'art. 589 cod. pen.. Come si è visto, la restrizione della portata

dell'incriminazione ha avuto luogo attraverso due passaggi: l'individuazione di un'area fattuale

costituita da condotte aderenti ad accreditate linee guida; e l'attribuzione di rilevanza penale, in tale

ambito, alle sole condotte connotate da colpa grave, poste in essere nell'attuazione in concreto delle

direttive scientifiche. Insomma, nell'indicata sfera fattuale, la regola d'imputazione soggettiva è

ora quella della (sola) colpa grave; mentre la colpa lieve è penalmente irrilevante Tale

struttura della riforma da corpo ad un tipico caso di abolitio criminis parziale. Si è infatti in

presenza di norma incriminatrice speciale che sopravviene e che restringe l'area applicativa della

norma anteriormente vigente. Si avvicendano nel tempo norme in rapporto di genere a specie: due

incriminazioni di cui quella successiva restringe l'area del penalmente rilevante individuata da

quella anteriore, ritagliando implicitamente due sottofattispecie, quella che conserva rilievo penale e

quella che, Invece, diviene penalmente irrilevante. Tale ultima sottofattispecie è propriamente

oggetto di abrogazione. La valutazione non muta se, per controprova, si guardano le cose sul piano

dei valori: il legislatore ha ritenuto di non considerare soggettivamente rimproverabili e quindi

penalmente rilevanti comportamenti che, per le ragioni ormai più volte ripetute, presentano tenue

disvalore. Il parziale effetto abrogativo, naturalmente, chiama in causa la disciplina dell'art. 2 c.p.,

comma 2, e quindi l'efficacia retroattiva dell'innovazione. Tale ordine di idee trova conforto nella

giurisprudenza delle Sezioni unite di questa Suprema Corte: si è infatti condivisibilmente affermato

che il fenomeno dell'abrogazione parziale ricorre allorchè tra due norme incriminatrici che si

avvicendano nel tempo esiste una relazione di genere a specie (Sez un., 27 settembre 2007, Magera,

Rv. 238197; Sez. Un. 26 marzo 2003, Giordano, Rv. 224607). Invero, quando ad una norma

generale subentra una norma speciale "ci si trova in presenza di un'abolizione parziale, perchè l'area

della punibilità riferibile alla prima viene ad essere circoscritta, rimanendone espunti tutti quei fatti

che, pur rientrando nella norma generale venuta meno, sono privi degli elementi specializzanti. Si

tratta di fatti che per la legge posteriore non costituiscono reato e quindi restano assoggettati alla

regola dell'art. 2 c.p., comma 2, anche se tra la disposizione sostituita e quella sostitutiva può

ravvisarsi una parziale continuità" (Sez. Un. 26 marzo 2003, Giordano, cit.).

* * * * * * *

13

3. Tempus commissi delicti e reati di durata

A) Usura. Cass. Pen., Sez. II, 13 ottobre 2005, n. 41045

Per risolvere tale problema è necessario partire dalla natura giuridica del delitto di usura, che i

giudici del riesame definiscono "reato istantaneo ad effetti permanenti", rifacendosi a

quell'orientamento giurisprudenziale e dottrinario risalente ai primi anni del codice Rocco,

secondo cui i pagamenti successivi alla pattuizione di interessi usurari costituivano post facta

non punibili, in quanto semplici effetti di un reato istantaneo consumatosi già con la pattuizione

(cfr.: Cass. pen., sez. II, 27 febbraio 1935, Belfiore, in Ann. dir. proc. pen., 1936, 805; Cass.

pen., sez. II, 23 dicembre 1935, Asteriti, in Ann. dir. proc. pen., 1936, 732)

Per il vero, tale qualificazione è stata anche successivamente e per lungo tempo adottata dalla

giurisprudenza prevalente (cfr. tra le più recenti sentenze: Cass. pen., sez. II, 25 ottobre 1984,

Perna, RV 167798, in Riv. pen. 1985, 1040; Cass. pen., sez. II, 18 febbraio 1988, Mascioli, RV

178350, in Riv. pen. econ. 1991, 25; Cass. pen., sez. II, 24 aprile 1990, Di Rocco, RV 186750, in

Riv. pen., 1991, 817); ma come tra breve si vedrà, essa non è più attuale ed è stata superata da

più recenti decisioni, oltre che ripudiata dalla quasi generalità della dottrina.

L'occasione per il mutamento di indirizzo è stata offerta dalla riforma del reato di usura del

1996, che ha introdotto una speciale regola in tema di decorrenza della prescrizione,

l'articolo 644 ter C.P., il quale stabilisce che "la prescrizione del reato di usura decorre dal giorno

dell'ultima riscossione sia degli interessi che del capitale".

Tale statuizione, infatti, non è allineata con l'orientamento che attribuiva all'usura la natura di

reato istantaneo, sia pure con effetti permanenti, e rappresenta - ad avviso di questo Collegio - un

segnale forte di superamento di quella visione del delitto tutta incentrata sul momento della

pattuizione.

Così che, anche questa Corte, in una recente decisione ha affermato che "in tema di usura,

qualora alla promessa segua - mediante la rateizzazione degli interessi convenuti - la dazione

effettiva di essi, questa non costituisce un post factum penalmente non punibile, ma fa parte a

pieno titolo del fatto lesivo penalmente rilevante e segna, mediante la concreta e reiterata

esecuzione dell'originaria pattuizione usuraria, il momento consumativo "sostanziale" del reato,

necessariamente realizzandosi, così, una situazione non assimilabile alla categoria del reato

eventualmente permanente, ma configurabile secondo il duplice e alternativo schema della

fattispecie tipica del reato, che pure mantiene intatta la sua natura unitaria e istantanea, ovvero

con riferimento alla struttura dei delitti cosiddetti a condotta frazionata o a consumazione

prolungata. (Principio enunciato con riferimento a una fattispecie relativa all'incasso degli

interessi usurari da parte di soggetti diversi da quelli partecipanti alla stipula del patto, dei quali

la Suprema corte ha ritenuto la responsabilità a titolo di concorso nel reato)" (Cass. pen., sez. I,

19 ottobre 1998, D'Agata e altri, RV 211610).

Aderendo allo schema giuridico dell'usura intesa appunto quale delitto a consumazione

prolungata o - come sostiene autorevole dottrina - a condotta frazionata, ne deriva che

effettivamente colui il quale riceve l'incarico di recuperare il credito usurario e riesce ad

ottenerne il pagamento concorre nel reato punito dall'articolo 644 C.P., in quanto con la

sua azione volontaria fornisce un contributo causale alla verificazione dell'elemento

oggettivo di quel delitto.

14

Tuttavia, ad avviso di questo Collegio, ben diversa è la situazione nell'ipotesi che colui il

quale ha ricevuto l'incarico da parte dell'usuraio di recuperare il credito non riesca a

ottenerne il pagamento.

In tal caso, infatti, il momento consumativo del reato di usura resta quello originario della

pattuizione, anteriore alla data dell'incarico: e dunque a tale delitto non può concorrere il

"mero esattore" scelto in epoca successiva.

Né può parlarsi di tentata usura, con riferimento alla condotta volta a ottenere il pagamento del

credito, considerata la natura unitaria del reato punito dall'articolo 644 C.P, di cui si è fatto

cenno, la quale preclude in ogni caso che al suo autore possano essere contestati a titolo di

episodi autonomi di usura i singoli pagamenti del credito.

* * * * * * *

B) Corruzione in atti giudiziari. Cass. Sez. un., 21 aprile 2010, n. 15208

Per un’evidente esigenza sistematica deve essere affrontata, in via prioritaria, la questione

controversa sottoposta all’esame di queste Sezioni Unite, consistente nello stabilire: “se il delitto di

corruzione in atti giudiziari sia configurabile nella forma della corruzione susseguente”.

OMISSIS

Premesso che è “susseguente” la corruzione allorquando la retribuzione concerna un atto già

compiuto in precedenza, va rilevato che – secondo un primo orientamento [OMISSIS] – non è

ipotizzabile la corruzione in atti giudiziari nella forma susseguente, benché il generico rinvio

operato dalla disposizione incriminatrice ai fatti di cui agli artt. 318 e 319 cod. pen. possa far

pensare che il legislatore non abbia inteso porre alcuna distinzione o limitazione.

Il dato normativo che gioca un ruolo decisivo nella ricostruzione interpretativa di detta sentenza è

racchiuso nell’inciso “per favorire o danneggiare una parte…”: siccome la condotta incriminata,

costituita dal ricevere denaro o accettarne la promessa, assume rilievo nell’attesa di un atto

funzionale ancora da compiersi, e per il cui compimento il pubblico 14 ufficiale assume un

impegno, la mera remunerazione di atti pregressi resta fuori dell’area di tipicità.

La corruzione in atti giudiziari si qualifica per la tensione finalistica verso un risultato e non è

quindi compatibile con la proiezione verso il passato, con una situazione di interesse già soddisfatto,

su cui è invece modulato lo schema della corruzione susseguente.

Un diverso ragionamento, che punti alla valorizzazione dell’indistinto richiamo contenuto nell’art.

319 ter ai fatti di cui agli artt. 318 e 319 cod. pen., per poi inferire la piena compatibilità della forma

susseguente, si risolverebbe in una forzatura interpretativa in malam partem con l’attribuzione di

una valenza anche causale, oltre che finale, all’espressione “per favorire o danneggiare”, come se ad

essa fosse affiancata anche quella “per aver favorito o danneggiato”. Se si procedesse su questa

strada, peraltro, sarebbe evidente il contrasto con il principio di tassatività.

OMISSIS

Un orientamento nettamente difforme OMISSIS è stato evidenziato che l’affermazione

dell’incompatibilità della forma susseguente si risolve in un’interpretazione abrogatrice del

15

precetto dell’art. 319 ter ove viene richiamato, senza distinzione alcuna, l’integrale contenuto

degli artt. 318 e 319 cod. pen. Il richiamo all’intero contenuto di questi due ultimi articoli

impone l’adattamento della struttura della corruzione in atti giudiziari ad ambedue i modelli,

della corruzione antecedente e di quella susseguente. Tali due modelli di corruzione in atti

giudiziari hanno in comune il presupposto che l’autore del fatto [necessariamente un pubblico

ufficiale, perché l’art. 319 ter non è richiamato dall’art. 320 cod. pen.] viene meno ai doveri di

imparzialità e terzietà, e questo presupposto si realizza anche nella forma susseguente, in quanto il

peculiare elemento 15 soggettivo del “favorire o danneggiare una parte”, che qualifica testualmente

la disposizione incriminatrice, finalizza la tipicità dei fatti. La finalità, in buona sostanza, si

riferisce al fatto ed il dato di rilievo nell’integrazione del fatto-reato è che la promessa o la

ricezione siano avvenute per un atto di giurisdizione o per un comportamento strumentale

all’atto di giurisdizione da compiere o già compiuto per favorire o danneggiare una parte. E’

l’atto giudiziario che deve essere contrassegnato da una finalità non imparziale, sicché

l’elemento del dolo specifico, presente nell’ipotesi di corruzione antecedente, viene meno nel

caso di corruzione susseguente per essere l’atto già stato compiuto. Nella fattispecie di

corruzione antecedente in atti giudiziari il dolo specifico si articola nella doppia finalità, l’una

– propria della corruzione generica – consistente nell’adozione di un atto, conforme o

contrario ai doveri d’ufficio, l’altra – specifica della corruzione in atti giudiziari – consistente

nella violazione, per mezzo del compimento dell’atto, del dovere rafforzato di imparzialità che

connota la funzione giudiziaria; nella corruzione in atti giudiziari susseguente, invece,

l’elemento soggettivo si compone del dolo generico della corruzione generica e del dolo

specifico proprio della corruzione in atti giudiziari che però si atteggia ad elemento

antecedente alla condotta tipica. Il dolo specifico, nella corruzione in atti giudiziari

susseguente, si incentra nel compimento dell’atto, che di per sé non è condotta punibile,

rispetto al quale la successiva condotta di ricezione del denaro o di accettazione della

promessa assume valenza esclusivamente causale, in presenza di un precedente

comportamento orientato specificamente a favorire o danneggiare una parte processuale. Da

detto elemento soggettivo scompare l’ulteriore finalizzazione specifica costituita dallo scopo

tipico della corruzione antecedente. Si ha così che – mentre nella fattispecie di corruzione

antecedente l’atto, contrario o conforme ai doveri d’ufficio, costituisce l’oggetto finalistico

della condotta, il cui compimento non è necessario per la consumazione del reato – nella

fattispecie di corruzione susseguente il dolo, generico, deve investire, oltre che la condotta,

anche l’atto, contrario o conforme ai doveri d’ufficio, e l’elemento soggettivo che dell’atto è

profilo indispensabile, il favorire o danneggiare una parte processuale. Nella fattispecie di

corruzione in atti giudiziari susseguente si ha, dunque, una causalità invertita rispetto alla

fattispecie di corruzione in atti giudiziari antecedente, nel senso che l’atto (conforme o

contrario ai doveri d’ufficio) costituisce il presupposto strutturale indispensabile della

condotta, che assume rilievo penale solo in forza del contributo causale dell’atto stesso.

OMISSIS

Queste Sezioni Unite aderiscono all’orientamento prevalente, espresso nelle sentenze nn.

25418/2007 e 36323/2009, e ciò sulla base delle seguenti considerazioni: 3.1 Nel senso della

configurabilità del delitto di corruzione in atti giudiziari anche nella forma della corruzione

16

susseguente è inequivoca – anzitutto – la formulazione letterale dell’art. 319 ter cod. pen., che

riconnette la sanzione in esso prevista ai “fatti indicati negli artt. 318 e 319”.

OMISSIS

I “fatti indicati negli artt. 318 e 319” – testualmente richiamati dall’art. 319 ter cod. pen. – si

identificano con le condotte poste in essere dai pubblici ufficiali alle quali fanno esclusivamente

riferimento le due disposizioni anzidette [mentre la punibilità di colui che dà o promette il denaro o

altra utilità è sancita dal successivo art. 321, al pari di quanto avviene per la corruzione in atti

giudiziari] e tali condotte vanno individuate nel compimento dell’atto (conforme o contrario ai

doveri) dell’ufficio, più che nella ricezione o nell’accettazione della promessa di denaro o di

altra utilità.

OMISSIS

Osserva al riguardo il Collegio – tenuto anche conto della formulazione del secondo comma

dell’art. 319 ter cod. pen., ove viene prevista un’aggravante ad effetto speciale nel caso in cui “dal

fatto deriva l’ingiusta condanna di taluno …” – che il fine di arrecare vantaggio o danno nei

confronti di una parte processuale va riferito al pubblico ufficiale, 19 poiché è questi che,

compiendo un atto del proprio ufficio, può incidere sull’esito del processo: è l’atto o il

comportamento processuale che deve, dunque, essere contrassegnato da una finalità non

imparziale (non la condotta di accettazione della promessa o di ricezione del denaro o di altra

utilità) e l’anzidetta peculiare direzione della volontà è un connotato soggettivo della condotta

materiale del pubblico ufficiale. Ciò che conta è la finalità perseguita al momento del compimento

dell’atto del pubblico ufficiale: se essa [per qualsiasi motivo: ad esempio, rapporti di amicizia o di

vicinanza culturale o politica; prospettive di vantaggi economici o di benefici pubblici o privati;

sollecitazioni della parte interessata o di altri] è diretta a favorire o danneggiare una parte in un

processo, è indifferente che l’utilità data o promessa sia antecedente o susseguente al compimento

dell’atto, come pure è irrilevante stabilire se l’atto in concreto sia o non sia contrario ai doveri di

ufficio. La finalità si riferisce al fatto ed il valore del profilo soggettivo diviene così preponderante

ai fini della ipotizzabilità del fatto di corruzione giudiziaria da cancellare la distinzione tra atto

contrario ai doveri di ufficio e atto di ufficio, rimanendo esponenziale il presupposto che l’autore

del fatto sia venuto meno al dovere di imparzialità e terzietà (non solo soggettiva ma anche

oggettiva) costituzionalmente presidiato, così da alterare la dialettica processuale. L’elemento

soggettivo peculiare [come rilevato nella sentenza Giombini] “finalizza la stessa tipicità dei fatti

previsti dagli artt. 318 e 319 cod. pen. entro un ambito puntualmente delimitato dalla finalità del

contegno”. Trattasi di un comportamento psicologicamente orientato, riconducibile a quelli che,

come viene rilevato in dottrina, “per la loro stessa natura o per i modi di estrinsecazione nella realtà,

parlano, per così dire, il linguaggio del dolo”.

OMISSIS

E’ vero che, nel caso della corruzione antecedente, la condotta del pubblico ufficiale, rivolta a

favorire o danneggiare una parte, trova la sua ragione in un accordo corruttivo già

intervenuto, laddove invece, nella corruzione susseguente, la condotta medesima non

costituisce la controprestazione rispetto ad una promessa o ad una dazione di denaro o di

17

altra utilità: l’attività giudiziaria, però – in entrambi i casi – resta comunque influenzata dall’atto o

dal comportamento contrario ai doveri d’ufficio, mediante il quale si realizza il fine perseguito dal

pubblico ufficiale. In tutte le forme di corruzione antecedente (e quindi anche nella corruzione

antecedente in atti giudiziari) l’atto o il comportamento del pubblico ufficiale si inserisce nel

contesto di una condotta del corrotto penalmente rilevante già in itinere. Nelle ipotesi di corruzione

susseguente, invece, l’atto del pubblico ufficiale si inserisce nel contesto di una condotta che non ha

ancora assunto rilevanza penale con riferimento al delitto di corruzione e che tale rilevanza assume

se, successivamente all’atto o al comportamento, il pubblico ufficiale accetta denaro o altra utilità

(ovvero la loro promessa) per averlo realizzato. Pure in 20 questo caso, comunque, si è in presenza

di una strumentalizzazione della pubblica funzione, sotto l’aspetto particolare, quanto alla

corruzione in atti giudiziari, di uno sviamento della giurisdizione (anche solo tentato), non essendo

necessario, infatti, per il perfezionamento del reato, che la finalità avuta di mira sia conseguita.

OMISSIS

Alla stregua delle argomentazioni dianzi svolte, va quindi affermato il principio di diritto

secondo il quale “il delitto di corruzione in atti giudiziari, di cui all’art. 319 ter cod. pen., è

configurabile anche nella forma della corruzione susseguente”.

* * * * * * *

4. Efficacia nel tempo di norme dalla dubbia natura processuale

A) Custodia cautelare. Cass., Sez. Un., n. 8 del 1992

MASSIMA: La modificazione dell'art. 275 comma 3 c.p.p. - "Quando sussistono gravi indizi di

colpevolezza (in ordine ai più gravi delitti elencati nel comma predetto) è applicata la custodia

cautelare, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistano esigenze cautelari" -

operata dall'art. 1 d.l. 9 settembre 1991, n. 292, si applica anche agli imputati nei confronti dei quali

all'entrata in vigore del decreto erano in corso gli arresti domiciliari sulla base del testo precedente

dell'articolo. È pertanto legittima la revoca di tali arresti e la loro sostituzione con la custodia

cautelare.

B) Sospensione del processo con messa alla prova. Corte cost., 26 novembre 2015,

n. 240

Con ordinanza del 28 ottobre 2014 (r.o. n. 260 del 2014), il Tribunale ordinario di Torino, in

composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117, primo comma,

della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione europea per la

salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950,

ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (d’ora in avanti «CEDU»), questioni di

legittimità costituzionale dell’art. 464-bis, comma 2, del codice di procedura penale, «nella parte in

cui, in assenza di una disciplina transitoria, analoga a quella di cui all’art. 15-bis, co. 1 della legge

11 agosto 2014, n. 118, preclude l’ammissione all’istituto della sospensione del procedimento con

18

messa alla prova degli imputati di processi pendenti in primo grado, nei quali la dichiarazione di

apertura del dibattimento sia stata effettuata prima dell’entrata in vigore della legge 67/2014».

Ad avviso del giudice a quo, sarebbe violato l’art. 3 Cost., in quanto la norma impugnata,

individuando un «discrimine unico», valido tanto per i processi nuovi quanto per quelli già in corso,

disciplina in modo identico situazioni nettamente difformi, consentendo solo agli imputati dei primi

di aver accesso al nuovo, più favorevole, istituto. Sarebbe violato anche l’art. 117, primo comma,

Cost., in relazione all’art. 7 della CEDU, in quanto, rispetto ai processi pendenti in primo grado per

i quali la preclusione era già maturata al momento dell’entrata in vigore della nuova legge, la

deroga al principio della retroattività della lex mitior non sarebbe sorretta da una sufficiente ragione

giustificativa. Inoltre, la norma impugnata contrasterebbe con l’art. 24 Cost., risolvendosi «in una

lesione del pieno esercizio del diritto di difesa (nel quale va inclusa anche la facoltà di richiedere

l’accesso a riti alternativi)». Si configurerebbe, infine, la lesione dell’art. 111 Cost., venendo

pregiudicato «il diritto ad essere sottoposto ad un giusto processo (inteso come diritto ad una scelta

del rito pienamente consapevole, assunta in base alla previsione ed alla ponderazione di rischi

connessi alla possibilità di previamente valutare le opzioni offerte e ad una ordinata, corretta e

fisiologica successione di atti processuali)».

2.– Le questioni non sono fondate.

2.1.– L’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova degli adulti è stato

introdotto con la legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non

carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del

procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili). La messa alla prova comporta,

oltre alla tenuta da parte dell’imputato di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose

o pericolose derivanti dal reato e, ove possibile, al risarcimento del danno, l’affidamento al servizio

sociale con un particolare programma. La concessione della messa alla prova è inoltre subordinata

alla prestazione di lavoro di pubblica utilità (art. 168-bis del codice penale). L’esito positivo della

prova «estingue il reato per cui si procede» (art. 168-ter cod. pen.).

Il nuovo istituto ha effetti sostanziali, perché dà luogo all’estinzione del reato, ma è connotato

da un’intrinseca dimensione processuale, in quanto consiste in un nuovo procedimento

speciale, alternativo al giudizio, nel corso del quale il giudice decide con ordinanza sulla

richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova. La norma impugnata

stabilisce i termini entro i quali, a pena di decadenza, l’imputato può formulare la richiesta:

sono termini diversi, articolati secondo le sequenze procedimentali dei vari riti. Nel

procedimento con citazione diretta, oggetto del giudizio a quo, la richiesta può essere proposta

fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento.

OMISSIS

In una prospettiva processuale però ben si giustifica la scelta legislativa di parificare la

disciplina del termine per la richiesta, senza distinguere tra processi in corso e processi nuovi.

È allo stato del processo che il legislatore ha inteso fare riferimento e sotto questo aspetto ben

può dirsi che ha trattato in modo uguale situazioni processuali uguali. Il termine entro il quale

l’imputato può richiedere la sospensione del processo con messa alla prova è collegato alle

19

caratteristiche e alla funzione dell’istituto, che è alternativo al giudizio ed è destinato ad avere

un rilevante effetto deflattivo. Consentire, sia pure in via transitoria, la richiesta nel corso del

dibattimento, anche dopo che il giudizio si è protratto nel tempo, eventualmente con la

partecipazione della parte civile (che avrebbe maturato una legittima aspettativa alla

decisione), significherebbe alterare in modo rilevante il procedimento, e il non averlo fatto

non giustifica alcuna censura riferibile all’art. 3 Cost. La preclusione lamentata dal giudice

rimettente dipende solo dal diverso stato dei processi che la subiscono e questa Corte ha già

avuto occasione di affermare che il legislatore gode di ampia discrezionalità nello stabilire la

disciplina temporale di nuovi istituti processuali o delle modificazioni introdotte in istituti già

esistenti, sicché le relative scelte, ove non siano manifestamente irragionevoli, si sottraggono a

censure di illegittimità costituzionale (ordinanze n. 455 del 2006 e n. 91 del 2005).

OMISSIS

2.3.– Secondo il giudice rimettente, la mancanza della norma transitoria di cui si vorrebbe

l’introduzione, impedendo l’applicazione retroattiva di una norma penale di favore, sarebbe pure in

contrasto «con il principio di rango costituzionale – attraverso il parametro interposto di cui all’art.

117 Cost., sancito dall’art. 7 C.E.D.U. (cfr. sentenza della Corte EDU 17 settembre 2009, Scoppola

c. Italia resa dalla Grande Camera della Corte di Strasburgo) – della retroattività della lex mitior». Il

giudice rimettente però non considera che la preclusione di cui lamenta gli effetti è conseguenza

non della mancanza di retroattività della norma penale ma del normale regime temporale della

norma processuale, rispetto alla quale il riferimento all’art. 7 della CEDU risulta fuori luogo.

Il principio di retroattività si riferisce al rapporto tra un fatto e una norma sopravvenuta, di cui viene

in questione l’applicabilità, e nel caso in oggetto, a ben vedere, l’applicabilità e dunque la

retroattività della sospensione del procedimento con messa alla prova non è esclusa, dato che la

nuova normativa si applica anche ai reati commessi prima della sua entrata in vigore.

L’art. 464-bis cod. proc. pen., nella parte impugnata, riguarda esclusivamente il processo ed è

espressione del principio “tempus regit actum”. Il principio potrebbe essere derogato da una diversa

disciplina transitoria, ma la mancanza di questa non è certo censurabile in forza dell’art. 7 della

CEDU. È da aggiungere che, come questa Corte ha già avuto occasione di affermare, la Corte

europea dei diritti dell’uomo, ritenendo che il principio di retroattività della legge penale più

favorevole «sia un corollario di quello di legalità, consacrato dall’art. 7 della CEDU, ha fissato dei

limiti al suo ambito di applicazione, desumendoli dalla stessa norma convenzionale. Il principio di

retroattività della lex mitior, come in generale “le norme in materia di retroattività contenute

nell’art. 7 della Convenzione”, concerne secondo la Corte le sole “disposizioni che definiscono i

reati e le pene che li reprimono” (decisione 27 aprile 2010, Morabito contro Italia; nello stesso

senso, sentenza 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia)». Perciò «è da ritenere che il principio di

retroattività della lex mitior riconosciuto dalla Corte di Strasburgo riguardi esclusivamente la

fattispecie incriminatrice e la pena, mentre sono estranee all’ambito di operatività di tale principio,

così delineato, le ipotesi in cui non si verifica un mutamento, favorevole al reo, nella valutazione

sociale del fatto, che porti a ritenerlo penalmente lecito o comunque di minore gravità» (sentenza n.

236 del 2011).

OMISSIS

20

Le ragioni precedentemente indicate a conferma della legittimità costituzionale della norma

impugnata fanno apparire prive di fondamento anche le questioni relative alla violazione

degli artt. 24 e 111 Cost., sollevate nell’erroneo presupposto che nei processi in corso al

momento dell’entrata in vigore della norma impugnata dovrebbe riconoscersi all’imputato,

come espressione del diritto di difesa e del diritto a un giusto processo, la facoltà di scegliere il

nuovo procedimento speciale, del quale, invece, come si è visto, è stata legittimamente esclusa

l’applicabilità. Deve quindi concludersi che le questioni di legittimità costituzionale sollevate

dal Tribunale ordinario di Torino sono prive di fondamento.

* * * * * * *

C1) Speciale tenuità del fatto ex art. 131 c.p.p. Cass. pen., sez. III, 15 aprile 2015,

n. 15449;

9. Resta da esaminare la questione, sollevata in udienza, dell'applicabilità, nella fattispecie, della

causa di non punibilità ora prevista dall'art. 131-bis cod. pen., introdotto dal d.lgs. 282015.

Il menzionato decreto legislativo non prevede una disciplina transitoria, cosicché va

preliminarmente verificata la possibilità di applicare la nuova disposizione anche ai procedimenti in

corso al momento della sua entrata in vigore.

La natura sostanziale dell'istituto di nuova introduzione induce ad una risposta positiva, con

conseguente retroattività della legge più favorevole, secondo quanto stabilito dall'art. 2,

comma 4 cod. pen.

Può anche ritenersi che la questione della particolare tenuità del fatto sia proponibile anche

nel giudizio di legittimità, tenendo conto di quanto disposto dall'art. 609, comma 2, cod. proc.

pen., trattandosi di questione che non sarebbe stato possibile dedurre in grado di appello.

L'applicabilità dell'art. 131-bis cod. pen. presuppone, tuttavia, valutazioni di merito, oltre che la

necessaria interlocuzione dei soggetti interessati.

Da ciò consegue che, nel giudizio di legittimità, dovrà preventivamente verificarsi la sussistenza, in

astratto, delle condizioni di applicabilità dei nuovo istituto, procedendo poi, in caso di valutazione

positiva, all'annullamento della sentenza impugnata con rinvio al giudice dei merito affinché valuti

se dichiarare il fatto non punibile.

10. Dovendosi quindi procedere a tale apprezzamento, rileva il Collegio che l'art. 131-bis, comma 1

cod. pen. delinea preliminarmente il suo ambito di applicazione ai soli reati per i quali è prevista

una pena detentiva non superiore, nel massimo, a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o

congiunta alla predetta pena.

I criteri di determinazione della pena sono indicati dal comma 4, il quale precisa che non si tiene

conto delle circostanze, ad eccezione di quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie

diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale. In tale ultimo caso non si tiene

21

conto dei giudizio di bilanciamento di cui all'articolo 69. Il comma 5, inoltre, chiarisce che la non

punibilità si applica anche quando la legge prevede la particolare tenuità del danno o del pericolo

come circostanza attenuante.

La rispondenza ai limiti di pena rappresenta, tuttavia, soltanto la prima delle condizioni per

l'esclusione della punibilità, che infatti richiede (congiuntamente e non alternativamente, come si

desume dal tenore letterale della disposizione) la particolare tenuità dell'offesa e la non abitualità

del comportamento.

Il primo degli «indici-criteri» (così li definisce la relazione allegata allo schema di decreto

legislativo) appena indicati (particolare tenuità dell'offesa) si articola, a sua volta, in due «indìci-

requisiti» (sempre secondo la definizione della relazione), che sono la modalità della condotta e

l'esiguità del danno o del pericolo, da valutarsi sulla base dei criteri indicati dall'articolo 133 cod.

pen., (natura, specie, mezzi, oggetto, tempo, luogo ed ogni altra modalità dell'azione, gravità dei

danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato intensità del dolo o grado della colpa).

Si richiede pertanto al giudice di rilevare se, sulla base dei due «indici-requisiti» della modalità

della condotta e dell'esiguità del danno e del pericolo, valutati secondo i criteri direttivi di cui al

primo comma dell'articolo 133 cod. pen., sussista l'«indice-criterio» della particolare tenuità

dell'offesa e, con questo, coesista quello della non abitualità del comportamento. Solo in questo

caso si potrà considerare il fatto di particolare tenuità ed escluderne, conseguentemente, la

punibilità.

11. Date tali premesse, va rilevato, procedendo alla preliminare verifica della possibile sussistenza

delle condizioni di applicabilità dell'art. 131-bis cod. pen. al caso in esame, che il reato contestato al

ricorrente è quello previsto e sanzionato dall'art. 11 d.lgs. 742000, commesso il 25/2/2009, data di

costituzione del trust, cosicché, avuto riguardo alla pena prevista dalla menzionata disposizione

nella formulazione vigente all'epoca dei fatti (prima dell'intervento modificativo ad opera dei d.l.

78/2010, convertito con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122 la sanzione era quella

della reclusione da sei mesi a quattro anni) i limiti di pena indicati dall'art. 131-bis, comma 1 cod.

pen. non risultano superati.

Va quindi accertata la sussistenza delle ulteriori condizioni di legge per l'esclusione della punibilità.

* * * * * * *

C2) Trib. Milano, Sez. XI, decreto 3 novembre 2015

Sulla richiesta ex art. 673 c.p.p avanzata dal difensore di A. V. ad oggetto la revoca della sentenza

emessa dal tribunale di Milano in data 17.12.2008, irr. il 9.7.2014, acquisito il parere del p.m.,

osserva:

1. Si tratta di un’argomentazione che non ha pregio, non potendo trovare applicazione

l’istituto ex art. 131 bis c.p. con riguardo ai fatti già giudicati con sentenza irrevocabile, stante

lo sbarramento posto dall’art. 2, comma 4, c.p.

22

2 Invero, affinché vi sia abolitio criminis, che può essere dedotta anche in executivis ai sensi

dell’art. 673 c.p.p., è necessario che il fatto, già previsto dalla legge come reato, non rivesta più, per

effetto di una nuova legge, alcun carattere di illiceità penale, non essendo più astrattamente

sussumibile né in nuove fattispecie incriminatrici, né in altre preesistenti. Si tratta di una

situazione affatto diversa da quella in esame, per l’assorbente ragione che l’istituto previsto

dall’art. 131 bis c.p. non solo non ha inciso sul carattere di illiceità di qualsivoglia reato, ma,

per la sua applicazione, presuppone l’esistenza di un fatto di reato, che, per ragioni di

opportunità, il Legislatore, attese le peculiari connotazioni del fatto concreto come di

particolare tenuità, ritiene di non doverlo perseguire. In altri termini: per l’operatività dell’art.

131 bis c.p. il fatto concreto deve rivestire rilevanza penale: deve cioè - sia pure marginalmente -

ledere o porre in pericolo il bene protetto dalla singola norma incriminatrice; nel caso di abolitio

criminis, invece, per effetto di una diversa opzione del Legislatore, il fatto (astratto) non riveste più

carattere di illecito penale. Pertanto, la più favorevole disciplina introdotta dall’art. 131 bis c.p.

– che, si ripete, incide non sul disvalore astratto del fatto, ma semplicemente sulla punibilità in

concreto di un fatto che mantiene carattere di illiceità penale – soggiace al disposto del comma

4 dell’art. 2 c.p., e, quindi, non trova applicazione per i fatti giudicati con sentenza

irrevocabile. Poiché, dunque, l’istanza non è riconducibile nella previsione dell’art. 673 c.p.p.,

l’istanza deve essere dichiarata inammissibile per difetto delle condizioni di legge.

* * * * * * *

5. Responsabilità degli enti

A) I criteri dell’interesse “o” vantaggio: equivalenza o diversità ed alternatività?

Cass. pen., Sez. V, 15 ottobre 2012, n. 40380

L’art. 5 co. 1 del d. lgs. 231/01 prevede che il fatto, in grado di consentire il trasferimento di

responsabilità dalla persona fisica all’ente, sia commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente.

Precisando al co. 2 d. lgs. 231/01 che la responsabilità cessa ove il fatto sia commesso

nell’”esclusivo interesse proprio o di terzi”. In sostanza per un fine che non avvantaggia in alcun

modo l’ente stesso.

Dalla relazione governativa si apprende che la nozione di “interesse” (l’art. 25 ter non

contempla il “vantaggio”) esprime la proiezione soggettiva dell’autore (non coincidente,

peraltro, con quella di “dolo specifico”, profilo psicologico logicamente non imputabile

all’ente), e rappresenta una connotazione accettabile con analisi ex ante.

Si tratta di una tensione che deve esperirsi in un piano di oggettività, concretezza ed attualità,

sì da potersi apprezzare in capo all’ente, pur attenendo alla condotta dell’autore del fatto,

persona fisica.

L’accertamento in merito a queste due condizioni risulta essenziale poiché l’art. 5 co. 2 d. lgs

cit. - come dianzi osservato - specifica che può affermarsi l’assenza di responsabilità dell’ente

soltanto quando si accerti l’”interesse esclusivo” di terzi o di persone fisiche.

L’assenza dell’interesse rappresenta, dunque, un limite negativo della fattispecie. Poiché il rapporto

che lega il fatto al suo autore è momento fondante della responsabilità dell’ente, al pari di

23

qualsivoglia profilo dell’”illecito presupposto”, è indefettibile onere del giudice corredare il proprio

convincimento con una qualche precisa motivazione al riguardo.

* * * * * * *

B) Interesse o vantaggio dell’ente e natura colposa del reato-presupposto. Cass.,

S.U., 18 settembre 2014, n. 38343, in caso Thyssenkrupp.

63. Il criterio d'imputazione oggettiva.

Il D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 5 detta la regola d'imputazione oggettiva dei reati all'ente: si

richiede che essi siano commessi nel suo interesse o vantaggio. La L. 3 agosto 2007, n. 123,

art. 9, ha introdotto nella normativa l'art. 25-septies che ha esteso l'ambito applicativo della

disciplina ai reati di omicidio colposo e lesioni colpose gravi o gravissime commessi con

violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro. L'art. in questione è

stato successivamente riscritto dal D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, art. 300 senza differenze rilevanti

nella presente sede.

Secondo l'impostazione prevalente, ispirata anche dalla Relazione governativa al D.Lgs., i due

criteri d'imputazione dell'interesse e del vantaggio si pongono in rapporto di alternatività,

come confermato dalla congiunzione disgiuntiva "o" presente nel testo della disposizione. Si

ritiene che il criterio dell'interesse esprima una valutazione teleologia del reato, apprezzabile ex

ante, al momento della commissione del fatto, e secondo un metro di giudizio marcatamente

soggettivo; e che il criterio del vantaggio abbia una connotazione essenzialmente oggettiva,

come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione

dell'illecito.

Non è mancata, tuttavia, qualche voce dissenziente che ha ritenuto che i due criteri abbiano

natura unitaria. Il criterio d'imputazione sarebbe costituito dall'interesse, mentre il vantaggio

potrebbe al più rivestire un ruolo strumentale, probatorio, volto alla dimostrazione dell'esistenza

dell'interesse.

La tesi dualistica trova accoglimento anche in giurisprudenza (Sez. 2, n. 3615 del

20/12/2005, D'Azzo, Rv. 232957; Sez. 5, n. 10265 del 28/11/2013, dep. 2014, Banca Italease

s.p.a., Rv. 258577; Sez. 6, n. 24559 del 22/05/2013, House Building s.p.a., Rv. 255442).

Il tema, peraltro, non presenta significativo interesse nel giudizio in esame, sia perchè la

questione non è stata oggetto di specifica deduzione, sia perchè le pronunzie di merito

argomentano ampiamente sia sull'interesse che sul vantaggio pertinenti alla vicenda in esame.

Di ben maggiore interesse è invece il fatto che l'art. 25-septies ha segnato l'ingresso dei delitti

colposi nel catalogo dei reati costituenti presupposto della responsabilità degli enti, senza

tuttavia modificare il criterio d'imputazione oggettiva di cui si è detto, per adattarlo alla diversa

struttura di tale categoria di illeciti. E' allora insorto il problema della compatibilità logica

tra la non volontà dell'evento che caratterizza gli illeciti colposi ed il finalismo che è sotteso

all'idea di interesse. D'altra parte, nei reati colposi di evento sembra ben difficilmente

ipotizzabile un caso in cui l'evento lesivo corrisponda ad un interesse o vantaggio dell'ente.

Tale singolare situazione ha indotto qualcuno a ritenere che, in mancanza di un esplicito

adeguamento normativo, la nuova, estensiva disciplina sia inapplicabile. E' la tesi sostenuta

dal ricorrente.

24

Tali dubbi e le estreme conseguenze che se ne desumono sono infondati. Essi condurrebbero alla

radicale caducazione di un'innovazione normativa di grande rilievo, successivamente confermata

dal D.Lgs. 7 luglio 2011, n. 121, col quale è stato introdotto nella disciplina legale l'art. 25-

undecies che ha esteso la responsabilità dell'ente a diversi reati ambientali.

Il problema prospettato deve essere allora risolto nella sede propria, che è quella

interpretativa. I risultati assurdi, incompatibili con la volontà di un legislatore razionale, cui

condurrebbe l'interpretazione letterale della norma accredita senza difficoltà l'unica alternativa,

possibile lettura: i concetti di interesse e vantaggio, nei reati colposi d'evento, vanno di

necessità riferiti alla condotta e non all'esito antigiuridico. Tale soluzione non determina

alcuna difficoltà di carattere logico: è ben possibile che una condotta caratterizzata dalla

violazione della disciplina cautelare e quindi colposa sia posta in essere nell'interesse

dell'ente o determini comunque il conseguimento di un vantaggio. Il processo in esame ne

costituisce una conferma. D'altra parte, tale soluzione interpretativa, oltre a essere logicamente

obbligata e priva di risvolti intollerabili dal sistema, non ha nulla di realmente creativo, ma si

limita ad adattare l'originario criterio d'imputazione al mutato quadro di riferimento, senza che i

criteri d'ascrizione ne siano alterati. L'adeguamento riguarda solo l'oggetto della valutazione che,

coglie non più l'evento bensì solo la condotta, in conformità alla diversa conformazione

dell'illecito; e senza, quindi, alcun vulnus ai principi costituzionali dell'ordinamento penale. Tale

soluzione non presenta incongruenze: è ben possibile che l'agente violi consapevolmente la

cautela, o addirittura preveda l'evento che ne può derivare, pur senza volerlo, per corrispondere

ad istanze funzionali a strategie dell'ente. A maggior ragione vi è perfetta compatibilità tra

inosservanza della prescrizione cautelare ed esito vantaggioso per l'ente.

Dunque, neppure sotto tale riguardo, le censure difensive hanno pregio.

C) Natura giuridica dei modelli organizzativi. Corte d’appello Milano, 21 marzo

2012, n. 1824

A fondamento giuridico di tale responsabilità amministrativa v'è la finalità , perseguita dall'agente

responsabile con la commissione del reato e consistente nel favorire anche solo parzialmente la

società. Peraltro, il legislatore, tenuto conto del fatto che le società come soggetti giuridici sono

prive di strumenti di autodifesa estranei alla sfera dei loro organi ai quali possono imputarsi i reati

la cui commissione comporta la responsabilità amministrativa delle medesime società, ha dato loro

la possibilità di elaborare un modello di organizzazione dell'attività dell'impresa idoneo alla

prevenzione de reati dalla cui commissione nasce la loro responsabilità.

In base agli artt.6 e 7 del predetto Decreto Legislativo 8.6.2001, n.231, l'organo dirigente, ossia

quello amministrativo, ha la competenza per l'adozione e l'attuazione del modello di

organizzazione in questione; tuttavia , se i soci, che hanno costituito la società volessero

premunirla rispetto ad una condotta negligente o imprudente dell'amministratore riguardo

alla facoltà di elaborare il modello organizzativo, potrebbero prevederne l'obbligatoria

adozione ed elaborazione da parte dell'organo amministrativo, riservandone all'assemblea la

preventiva approvazione prima della sua attuazione.

25

OMISSIS

Tali regole debbono essere nel loro insieme idonee a prevenire la commissione dei reati

rilevante ai fini della responsabilità amministrativa della società; quindi spetta all'organo

dirigente, di propria iniziativa o in osservanza di una regola statutaria elaborare un insieme

di prescrizioni, divieti e coordinamenti che consentano, nello stesso tempo, il proficuo

funzionamento dell'azienda e la prevenzione specifica dei reati nella cui commissione

potrebbe essere coinvolta la società.

In base al comma terzo dell'art. 6 del predetto Decreto Legislativo le società possono adottare i

modelli di organizzazione sulla base dei codici di comportamento redatti dalle loro associazioni

rappresentative e comunicati al Ministero della Giustizia che, di concerto con i Ministeri

competenti, può approvarli o formulare, entro trenta giorni, osservazioni sull'idoneità dei modelli

alla prevenzione dei reati rilevanti ai fini della responsabilità amministrativa. Il fatto che sia stato

elaborato un modello idoneo di organizzazione esclude che in concreto, in relazione alla

commissione di reati rilevanti ad opera di personale dipendente da soggetti apicali

dell'organizzazione , possa configurarsi un difetto di direzione e vigilanza come causa di

agevolazione dei reati. Peraltro, essa non basta ed esimere una società da responsabilità

amministrativa essendo anche necessaria l'istituzione di una funzione di vigilanza sul

funzionamento e sull'osservanza di modelli attribuita ad un organismo dotato di autonomi

poteri di iniziativa e di controllo.((art.6 lett. c) Decreto Legislativo n.231/01).

Il compito dell'organismo di vigilanza consiste nell'osservazione del funzionamento del

modello, al fine di verificarne l'idoneità, rilevarne eventuali deficienze che dovranno essere

segnalate all'organo dirigente perché provveda alla loro eliminazione. Detto organismo di

vigilanza, .in quésta attività di osservazione utilizzerà ogni possibile e legittimo potere,

avvalendosi dell'ampia autonomia riconosciutagli dalla legge e di tutte le comunicazioni s

relative alle attività aziendali che, a norma del modello, gli vengono trasmesse.

Va rilevato poi che l'art. 6 comma 1 lett. c) prevede la violazione del modello organizzativo ma

dispone che, se l'elusione è stata fraudolenta, la prevenzione del reato con essa attuata dovrà

essere considerata efficace e la società non dovrà rispondere del reato.

OMISSIS

Occorre ora evidenziare che la valutazione di idoneità del Modello non deve e non può essere

rapportata semplicemente al fatto che, se esso fosse stato osservato, allora il reato non si

sarebbe verificato; indubbiamente il fatto che venga commesso un reato rilevante, come

l'aggiotaggio , nonostante l'esistenza di una specifica misura di prevenzione può avere un alto

valore semantico rispetto all'efficacia del modello; peraltro, l'art.6 comma 1 lett. c) prevede la

violazione del modello organizzativo, ma dispone che, se l'elusione sia stata fraudolenta, la

prevenzione del reato con esso attuata dovrà essere considerata efficace e la società non dovrà

rispondere amministrativamente del reato.

Quindi in presenza della commissione di un reato rilevante non può automaticamente essere

giudicato inefficace il modello di organizzazione della società, ma occorre verificare la causa

26

della elusione che ha agevolato la consumazione dei reati. Quanto alla validità de modello

adottato e alla sua idoneità non può dubitarsi al riguardo, in quanto esso risulta elaborato

secondo le linee guida della Confindustria a loro volta elaborate in base ai principi espressi

dal codice di autodisciplina di Borsa Italiana;

OMISSIS

Né un modello potrebbe ritenersi inefficace per il solo fatto che da parte dei responsabili della

persona giuridica siano stati commessi degli illeciti, eludendo fraudolentemente le procedure

previste dal modello, perché altrimenti l'esimente non avrebbe mai pratica applicazione.

In conclusione il modello organizzativo era corretto valido e in sé efficace, dato il contenuto dello

stesso che è stato sopradescritto e che contiene i requisiti di cui all'art.6 Decreto legislativo 231/01;

esso risulta violato ed eluso dai vertici della società; si tratta di elusione fraudolenta in quanto

responsabili della società, come si è visto anziché approvare i dati e la bozza di comunicato

elaborati dagli uffici manipolavano i dati medesimi per poi inserirli nel comunicato stampa in modo

da renderli soddisfacenti al mercato cui erano destinati.

* * * * * * *

D1) La consistenza del “profitto” confiscabile. Cass. pen., Sez. un., 2 luglio 2008,

n. 26654;

3- La questione centrale portata all’attenzione delle Sezioni Unite può essere così sintetizzata:

come debba configurarsi il “profitto del reato” nel sequestro preventivo funzionale alla

confisca disposto, ai sensi degli art. 19 e 53 d. lgs. 8/6/2001 n. 231, nei confronti di una società

indagata per un illecito amministrativo dipendente da reato.

6- Quanto al profitto, oggetto della misura ablativa, osserva la Corte che non è rinvenibile in alcuna

disposizione legislativa una definizione della relativa nozione né tanto meno una specificazione del

tipo di “profitto lordo” o “profitto netto”, concetti questi sui quali s’incentra la principale doglianza

delle società ricorrenti, ma il termine è utilizzato, nelle varie fattispecie in cui è inserito, in maniera

meramente enunciativa, assumendo quindi un’ampia “latitudine semantica” da colmare in via

interpretativa.

Nel linguaggio penalistico il termine ha assunto sempre un significato oggettivamente più ampio

rispetto a quello economico o aziendalistico, non è stato cioè mai inteso come espressione di una

grandezza residuale o come reddito di esercizio, determinato attraverso il confronto tra componenti

positive e negative del reddito.

6a- La validità di tale approdo interpretativo, maturato nell’ambito della previsione di cui

all’art. 240 c.p. e riferito al profitto tratto da condotte totalmente illecite, va verificata anche

in relazione alle previsioni di cui al d. lgs. n. 231/’01. Il termine “profitto” è menzionato in

diverse disposizioni del decreto, che disciplinano situazioni eterogenee.

OMISSIS

27

Per quanto qui interessa, deve, invece, farsi riferimento al profitto collegato alle ipotesi di

confisca di cui agli art. 6, 15, 17 e 19, che si preoccupano di assicurare allo Stato quanto

conseguito in concreto dall’ente, sia pure in situazioni diverse, per effetto della commissione

dei reati-presupposto.

La ratio sottesa a queste ultime norme, ad eccezione -come si dirà- dell’art. 15, e alcuni passaggi

della Relazione allo schema del decreto legislativo additano all’interprete, per l’individuazione

dell’oggetto della confisca e della cautela reale ad essa funzionale (ove prevista), sempre la

pertinenzialità del profitto al reato quale unico criterio selettivo, essendo il primo definito

“come una conseguenza economica immediata ricavata dal fatto di reato”.

Interessante è il passaggio della Relazione che chiarisce il disegno sotteso alle condotte riparatorie

di cui all’art. 17 e il ruolo svolto in tale contesto dalla messa a disposizione del profitto da parte

dell’ente. Si legge testualmente: “come terzo concorrente requisito, si prevede che l’ente metta a

disposizione il profitto conseguito. La ratio della disposizione è trasparente: visto che il profitto

costituisce, di regola, il movente che ispira la consumazione dei reati, l’inapplicabilità della

sanzione interdittiva postula inevitabilmente che si rinunci ad esso e lo si metta a disposizione

dell’autorità procedente…In definitiva le contro-azioni di natura reintegrativa, riparatoria e

riorganizzativa sono orientate alla tutela degli interessi offesi dall’illecito e, pertanto, la

rielaborazione del conflitto sociale sotteso all’illecito e al reato avviene non solo attraverso una

logica di stampo repressivo ma anche, e soprattutto, con la valorizzazione di modelli compensativi

dell’offesa”. L’esplicito riferimento alla natura “compensativa” delle condotte riparatorie accredita,

al di là di ogni ambiguità, una funzione della confisca del profitto come strumento di riequilibrio

dello status quo economico antecedente alla consumazione del reato, il che contrasta con la tesi del

profitto quale “utile netto”.

Nella parte della Relazione dedicata alla confisca di valore si legge: “la confisca , già conosciuta nel

nostro ordinamento, ha invece ad oggetto somme di denaro, beni o altra utilità di valore equivalente

al prezzo o al profitto del reato. Essa opera, ovviamente, quando non è possibile l’apprensione del

prezzo o del profitto con le forme della confisca tradizionale e permette così di evitare che l’ente

riesca comunque a godere illegittimamente dei proventi del reato ormai indisponibili per

un’apprensione con le forme della confisca ordinaria”. L’esplicito riferimento alla necessità di

evitare l’illegittimo godimento da parte dell’ente dei “proventi del reato” induce a ritenere che con

tale espressione si sia inteso evocare quanto complessivamente percepito dall’ente in seguito alla

consumazione del reato, prescindendo da qualunque raffronto tra profitto lordo e profitto netto.

OMISSIS

Il profitto del reato, in definitiva, va inteso come complesso dei vantaggi economici tratti

dall’illecito e a questo strettamente pertinenti, dovendosi escludere, per dare concreto

significato operativo a tale nozione, l’utilizzazione di parametri valutativi di tipo

aziendalistico. La confisca del profitto di cui all’art. 19 d. lgs. n. 231/01, concepita come

misura afflittiva che assolve anche una funzione di deterrenza, risponde sicuramente ad

esigenze di giustizia e, al contempo, di prevenzione generale e speciale, generalmente

condivise. Il crimine non rappresenta in alcun ordinamento un legittimo titolo di acquisto

della proprietà o di altro diritto su un bene e il reo non può, quindi, rifarsi dei costi affrontati

28

per la realizzazione del reato. Il diverso criterio del “profitto netto” finirebbe per riversare

sullo Stato, come incisivamente è stato osservato, il rischio di esito negativo del reato ed il reo

e, per lui, l’ente di riferimento si sottrarrebbero a qualunque rischio di perdita economica.

Soltanto nell’ipotesi di confisca del profitto della gestione commissariale di cui all’art. 15 d. lgs. n.

231/’01, misura concepita come sanzione sostitutiva, il profitto s’identifica con l’utile netto,

conclusione -questa- legittimata dalla lettura combinata della citata norma e di quella di cui al

successivo art. 79/2°. In questo caso la confisca, come si è sopra precisato, ha una funzione diversa,

essendo collegata ad un’attività lecita che viene proseguita -sotto il controllo del giudice- da un

commissario giudiziale nell’interesse della collettività (garantire un servizio pubblico o di pubblica

necessità ovvero i livelli occupazionali) e non può che avere ad oggetto, proprio per il venire meno

di ogni nesso causale con l’illecito, la grandezza contabile residuale, da assicurare comunque alla

sfera statuale, non potendo l’ente beneficiare degli esiti di un’attività dalla quale, in luogo

dell’applicazione della corrispondente sanzione interdittiva, è stato estromesso.

Né può farsi leva su quest’ultima disposizione, per accreditare la tesi -sostenuta nei ricorsi-

che il profitto del reato tratto dall’ente collettivo debba sempre essere inteso come “utile

netto”, e ciò sulla base del rilievo della sostanziale coincidenza tra l’attività proseguita sotto la

gestione commissariale e quella oggetto di incriminazione. Si omette, invero, di considerare

che l’intervento del commissario giudiziale determina una netta cesura della pregressa attività

illecita e non si pone in continuità con questa. Significativamente, peraltro, il quarto comma

dell’art. 15 citato si riferisce al “profitto derivante dalla prosecuzione dell’attività” e non al

“profitto derivante dal reato”.

Le stesse ragioni inducono a ritenere priva di consistenza l’ulteriore argomentazione dei ricorrenti,

con riferimento specifico al caso in esame, circa la prosecuzione del servizio di smaltimento dei

rifiuti nella regione Campania sotto la direzione e il coordinamento esclusivi del Commissario

delegato, dopo la risoluzione dei contratti d’appalto disposta con d.l. n. 245/05 convertito nella

legge n. 21/06, per inferirne che proprio la prosecuzione dell’attività in tutto omogenea a quella

oggetto dei contratti di appalto stipulati con l’ATI confermerebbe che i corrispondenti profitti non

possono che essere calcolati, nell’uno e nell’altro caso, sulla base del principio economico-

contabile.

6b- La delineata nozione di profitto del reato s’inserisce -certo- validamente, senza alcuna

possibilità di letture più restrittive, nello scenario di un’attività totalmente illecita.

Può anche accadere, però, di dovere distinguere da quest’ultima, specialmente nel settore

della responsabilità degli enti coinvolti in un rapporto di natura sinallagmatica, l’attività

lecita d’impresa nel cui ambito occasionalmente e strumentalmente viene consumato il reato.

E’ di agevole intuizione, infatti, la diversità strutturale tra l’impresa criminale - la cui attività

economica si polarizza esclusivamente sul crimine (si pensi ad una società che opera nel solo

traffico di droga) - e quella che opera lecitamente e soltanto in via episodica deborda nella

commissione di un delitto.

Deve, inoltre, considerarsi che un comportamento sanzionato penalmente, dal quale derivi

l’instaurazione di un rapporto contrattuale, può avere riflessi diversi sul medesimo.

Più nel dettaglio, nel caso in cui la legge qualifica come reato unicamente la stipula di un

29

contratto a prescindere dalla sua esecuzione, è evidente che si determina una

immedesimazione del reato col negozio giuridico (c.d. “reato contratto”) e quest’ultimo risulta

integralmente contaminato da illiceità, con l’effetto che il relativo profitto è conseguenza

immediata e diretta della medesima ed è, pertanto, assoggettabile a confisca.

Se invece il comportamento penalmente rilevante non coincide con la stipulazione del

contratto in sé, ma va ad incidere unicamente sulla fase di formazione della volontà

contrattuale o su quella di esecuzione del programma negoziale (c.d. “reato in contratto”), è

possibile enucleare aspetti leciti del relativo rapporto, perché assolutamente lecito e valido

inter partes è il contratto (eventualmente solo annullabile ex artt. 1418 e 1439 c.c.), con la

conseguenza che il corrispondente profitto tratto dall’agente ben può essere non ricollegabile

direttamente alla condotta sanzionata penalmente.

E’ il caso proprio del reato di truffa di cui si discute, che non integra un “reato contratto”,

considerato che il legislatore penale non stigmatizza la stipulazione contrattuale, ma

esclusivamente il comportamento tenuto, nel corso delle trattative o della fase esecutiva, da

una parte in danno dell’altra. Trattasi, quindi, di un “reato in contratto” e, in questa ipotesi, il

soggetto danneggiato, in base alla disciplina generale del codice civile, può mantenere in vita il

contratto, ove questo, per scelta di carattere soggettivo o personale, sia a lui in qualche modo

favorevole e ne tragga comunque un utile, che va ad incidere inevitabilmente sull’entità del

profitto illecito tratto dall’autore del reato e quindi dall’ente di riferimento.

Sussistono, perciò, ipotesi in cui l’applicazione del principio relativo all’individuazione del profitto

del reato, così come illustrato al punto che precede, può subire, per così dire, una deroga o un

ridimensionamento, nel senso che deve essere rapportata e adeguata alla concreta situazione che

viene in considerazione.

Ciò è evidente, in particolare, come si è detto, nell’attività d’impresa impegnata nella dinamica di

un rapporto contrattuale a prestazioni corrispettive, in cui può essere difficile individuare e

distinguere gli investimenti leciti da quelli illeciti.

V’è, quindi, l’esigenza di differenziare, sulla base di specifici e puntuali accertamenti, il vantaggio

economico derivante direttamente dal reato (profitto confiscabile) e il corrispettivo incamerato per

una prestazione lecita eseguita in favore della controparte, pur nell’ambito di un affare che trova la

sua genesi nell’illecito (profitto non confiscabile).

S’impone, pertanto, la scelta di sottrarre alla confisca quest’ultimo corrispettivo che, essendo

estraneo all’attività criminosa a monte, è distonico rispetto ad essa.

In sostanza, non può sottacersi che la genesi illecita di un rapporto giuridico, che comporta obblighi

sinallagmatici destinati anche a protrarsi nel tempo, non necessariamente connota di illiceità l’intera

fase evolutiva del rapporto, dalla quale, invece, possono emergere spazi assolutamente leciti ed

estranei all’attività criminosa nella quale sono rimasti coinvolti determinati soggetti e, per essi,

l’ente collettivo di riferimento.

Più concretamente, in un appalto pubblico di opere e di servizi, pur acquisito a seguito di

aggiudicazione inquinata da illiceità (nella specie truffa), l’appaltatore che, nel dare

30

esecuzione agli obblighi contrattuali comunque assunti, adempie sia pure in parte, ha diritto

al relativo corrispettivo, che non può considerarsi profitto del reato, in quanto l’iniziativa

lecitamente assunta interrompe qualsiasi collegamento causale con la condotta illecita. Il

corrispettivo di una prestazione regolarmente eseguita dall’obbligato ed accettata dalla

controparte, che ne trae comunque una concreta utilitas, non può costituire una componente

del profitto da reato, perché trova titolo legittimo nella fisiologica dinamica contrattuale e non

può ritenersi sine causa o sine iure.

D’altra parte, non va sottaciuto che, in base alla previsione di cui all’art. 19 del d. lgs. n. 231/’01, la

confisca del profitto del reato non va disposta per quella “parte che può essere restituita al

danneggiato”. Costui quindi ha diritto di riottenere, fatte salve le ulteriori pretese risarcitorie, ciò di

cui è stato privato per effetto dell’illecito penale subito. Nella peculiarità che caratterizza il rapporto

sinallagmatico, si verifica una situazione speculare alla citata previsione normativa, nel senso che la

parte di utilità eventualmente conseguita ed accettata dalla vittima va inevitabilmente ad incidere,

per l’equivalenza oggettiva delle prestazioni, sulla destinazione da riservare al relativo corrispettivo

versato alla controparte, la quale, proprio per avere fornito una prestazione lecita pur nell’ambito di

un affare illecito, non ha conseguito, in relazione alla medesima, alcuna iniusta locupletatio, con la

conseguenza che anche in questo caso deve essere sottratta alla confisca (e quindi alla cautela reale)

la controprestazione ricevuta, perché non costituente profitto illecito.

Diversamente opinando, vi sarebbe un’irragionevole duplicazione del sacrificio economico imposto

al soggetto coinvolto nell’illecito penale, che si vedrebbe privato sia della prestazione

legittimamente eseguita e comunque accettata dalla controparte, sia del giusto corrispettivo

ricevuto, dal che peraltro conseguirebbe, ove la controparte fosse l’Amministrazione statale, un

ingiustificato arricchimento di questa.

7- Alla luce di tutte le argomentazioni sin qui svolte, deve essere enunciato, ai sensi dell’art. 173/3°

disp. att. c.p.p., il seguente principio di diritto: “il profitto del reato nel sequestro preventivo

funzionale alla confisca, disposto -ai sensi degli art. 19 e 53 del d. lgs. n. 231/’01- nei confronti

dell’ente collettivo, è costituito dal vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale

dal reato ed è concretamente determinato al netto dell’effettiva utilità eventualmente conseguita dal

danneggiato, nell’ambito del rapporto sinallagmatico con l’ente”.

* * * * * * *

D2) Cass. pen., Sez. II, 29 marzo 2012, n. 11808

Com'è noto, le Sezioni unite di questa Corte hanno affrontato espressamente il problema di come

debba configurarsi il "profitto del reato" nel sequestro preventivo funzionale alla confisca c.d.

per equivalente, seppure con riferimento alla previsione contenuta dal D.Lgs. n. 231 del 2001,

per il caso di responsabilità degli enti collettivi (Sez. U., 27/03/2008 n. 26654 Rv. 239924).

E' stato osservato al riguardo che secondo l'impostazione del diritto penale classico (art. 240 c.p.)

la confisca andava ascritta tra le misure di sicurezza patrimoniale, fondata sulla pericolosità

derivante dalla disponibilità di cose servite o destinate a commettere il reato; la misura era quindi

finalizzata a prevenire la commissione di ulteriori reati. Successivamente sono state però

introdotte nell'ordinamento, in maniera sempre più marcata, ipotesi di confisca obbligatoria del

31

profitto ricavato dal reato (si pensi ad esempio, per restare alla sola disciplina codicistica, alla

confisca di cui agli artt. 322 ter, 600 septies, 640 quater, 644 e 648 quater c.p.); in tal modo sotto

un nomen iuris unitario hanno finito per trovare spazio istituti di diversa natura.

Tale diversa natura emerge a chiare note nella confisca c.d. per equivalente, cui è certamente

estranea la finalità special- preventiva e che persegue l'unico obiettivo di privare l'autore del

reato del profitto che gliene è derivato.

Con particolare riguardo a quest'ultima ipotesi, si pone il problema ermeneutico della

determinazione dell'oggetto dell'ablazione.

Pur in assenza di una definizione legislativa delle nozioni di profitto e provento del reato, è

indubbio che queste assumono significati diversi in relazione ai differenti contesti normativi in

cui sono inserite.

Si ritiene, in particolare, che nel contesto di un'attività totalmente illecita, la nozione di profitto

del reato finisce col comprendere "qualsiasi cosa" riveniente dal fatto delittuoso, individuata

esclusivamente secondo il criterio selettivo della "pertinenzialità" del profitto al reato medesimo,

ossia della circostanza che l'uno costituisca una conseguenza economica immediata dell'altro. In

tal caso, non può farsi spazio all'uso di parametri valutativi di tipo aziendalistico e, in particolare,

non è possibile distinguere fra il profitto e l'utile "netto", cioè l'effettivo guadagno percepito dal

reo. Tutta la prestazione è, per così dire, geneticamente marchiata di illiceità e deve essere

confiscata.

Altra valutazione deve essere compiuta, invece, nel caso in cui il fatto-reato si inserisce nel

contesto di una attività che in sè sarebbe lecita, tanto più se caratterizzata da un rapporto di

scambio di natura sinallagmatica.

Assume rilievo, quindi, la distinzione fra il "reato contratto", cioè il caso in cui vi è una vera a

propria immedesimazione del reato con il negozio giuridico, ed il "reato in contratto", che si ha

allorquando il comportamento penalmente rilevante non coincide con la stipulazione del

contratto in sè, ma va ad incidere solamente sulla fase di formazione della volontà contrattuale o

su quella di esecuzione del programma negoziale.

In questa seconda ipotesi, il contratto "a valle" è lecito ed eventualmente annullabile ex art. 1439

c.c..

E' di tutta evidenza che nel caso di "reato in contratto" il profitto tratto dall'agente non è

interamente ricollegabile alla condotta penalmente sanzionata, giacchè la legge penale non

stigmatizza la stipulazione contrattuale tout court, ma esclusivamente il comportamento

tenuto, nel corso delle trattative o della fase esecutiva, da una parte in danno dell'altra.

Ed allora, il profitto del reato confiscabile non corrisponde a qualsiasi prestazione

percepita in esecuzione del rapporto contrattuale, ma solo al vantaggio economico

derivante dal fatto illecito. Per cui, se il fatto penalmente rilevante (ad esempio, una

corruzione) ha inciso sulla fase di individuazione dell'aggiudicatario di un pubblico

appalto, ma poi l'appaltatore ha regolarmente adempiuto alle prestazioni nascenti dal

contratto (in sè lecito), il profitto del reato per il corruttore non equivale all'intero prezzo

dell'appalto, ma solo al vantaggio economico conseguito per il fatto di essersi reso

aggiudicatario della gara pubblica. Tale vantaggio corrisponde, quindi, all'utile netto

dell'attività d'impresa.

9. Allo stesso modo si è pronunziata, più di recente, altra sezione di questa Corte, osservando

che ai fini del sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente di cui all'art. 322 ter

32

c.p., in presenza di un contratto di appalto ottenuto con la corruzione di pubblici funzionari, la

nozione di profitto confiscabile al corruttore non va identificata con l'intero valore del rapporto

sinal-lagmatico instaurato con la P.A., dovendosi in proposito distinguere il profitto direttamente

derivato dall'illecito penale dal corrispettivo conseguito per l'effettiva e corretta erogazione delle

prestazioni svolte in favore della stessa amministrazione, le quali non possono considerarsi

automaticamente illecite in ragione dell'illiceità della causa remota (Sez. 6, 26/03/2009 n. 17897

Rv. 243319; Sez. 6, 17/03/2009 n. 26176 Rv.

244522).

* * * * * * *

E) Reati tributari e confisca per equivalente in danno della società. Cass. pen., Sez.

un., 30 gennaio 2014, n. 10561

2. Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato, ma nell'esaminarlo per dar conto di tale

manifesta infondatezza è necessario chiarire la questione rimessa all'esame delle Sezioni Unite che

può così riassumersi:

“Se sia possibile o meno disporre il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta o per

equivalente nei confronti di beni di una persona giuridica per le violazioni tributarie

commesse dal legale rappresentante o da altro organo della stessa”.

OMISSIS

2.8. Si deve invece ritenere che non sia possibile la confisca per equivalente di beni della persona

giuridica per reati tributari commessi da suoi organi, salva l'ipotesi in cui la persona giuridica stessa

sia in concreto priva di autonomia e rappresenti solo uno schermo attraverso cui l'amministratore

agisca come effettivo titolare, come affermato in numerose pronunzie (Sez. 3, n. 42476 del

20/09/2013, Salvatori, Rv. 257353; Sez. 3, n. 42638 del 26/09/2013, Preziosi; Sez. 3, n. 42350 del

10/07/2013, Stigelbauer, Rv. 257129; Sez. 3, n. 33182 del 14/05/2013, De Salvia, Rv. 255871, già

citata; Sez. 3, n. 15349 del 23/10/2012, dep. 2013, Gimeli, Rv. 254739; Sez. 3, n. 1256 del

19/09/2012, dep. 2013, Unicredit s.p.a., Rv. 254796; Sez. 3, n. 33371 del 04/07/2012, Failli; Sez. 3,

n. 25774 del 14/06/2012, Amoddio, Rv. 253062; Sez. 6, n. 42703 del 12/10/2010, Giani). In una

simile ipotesi, infatti, la trasmigrazione del profitto del reato in capo all'ente non si atteggia alla

stregua di trasferimento effettivo di valori, ma quale espediente fraudolento non dissimile dalla

figura della interposizione fittizia; con la conseguenza che il denaro o il valore trasferito devono

ritenersi ancora pertinenti, sul piano sostanziale, alla disponibilità del soggetto che ha commesso il

reato, in 'apparente' vantaggio dell'ente ma, nella sostanza, a favore proprio.

Le Sezioni Unite non ritengono fondato il diverso orientamento espresso in talune pronunzie.

La tesi della possibilità di procedere alla confisca per equivalente in capo alla persona giuridica per

reati tributari attribuiti al legale rappresentante è stata sostenuta sull'assunto che tale possibilità

“deriva proprio dal rapporto organico esistente tra il soggetto indagato [...] e detta società” (così

Sez. 3, n. 26389 del 09/06/2011, Occhipinti, Rv. 250679), ovvero sull'assunto che “nei rapporti tra...

la persona fisica, alla quale è addebitato il reato, e la persona giuridica, chiamata a risponderne, non

33

può che valere lo stesso principio applicabile a più concorrenti nel reato stesso, secondo il quale a

ciascun concorrente devono imputarsi le conseguenze di esso” (così Sez. 3, n. 17485 del

11/04/2012, Maione, n.m.).

Inoltre è stato affermato che è possibile la confisca per equivalente dei beni della società, allorché

l'autore del reato ne abbia la disponibilità (Sez. 3, n. 28731 del 07/06/2011, Società cooperativa

Burlando, n.m.).

Il primo argomento trascura che il rapporto fra ente ed un suo organo, di per sé, non è suscettibile di

fondare l'estensione della confisca per equivalente, che si basa su specifiche disposizioni di legge,

tanto più che è persino possibile che la persona giuridica, attraverso altri organi, promuova azione

di responsabilità verso il suo amministratore che l'ha esposta a responsabilità (civile) conseguente a

reato.

Il secondo argomento da per presupposto quello che dovrebbe essere dimostrato e cioè che la

società sia concorrente nel reato.

Nel vigente ordinamento, è prevista solo una responsabilità amministrativa e non una

responsabilità penale degli enti (ai sensi del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231), sicché comunque la

società non è mai autore del reato e concorrente nello stesso.

In ogni caso il d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, che ha introdotto la responsabilità amministrativa

degli enti conseguente a reato, non contempla i reati tributari fra quelli per cui è prevista tale

responsabilità amministrativa della persona giuridica.

La confisca per equivalente sui beni della società non può fondarsi neppure sull'assunto che

l'autore del reato ne abbia la disponibilità in quanto amministratore (salva sempre l'ipotesi in

cui la società sia un mero schermo fittizio), essendo tale disponibilità nell'interesse dell'ente e

non dell'amministratore.

Sul punto è sufficiente rilevare che l'eventuale appropriazione indebita di beni della persona

giuridica da parte di un amministratore può integrare il reato di cui all'art. 646 cod. pen. aggravato

ai sensi dell'art. 61, n. 11, cod. pen. e quindi perseguibile d'ufficio, stante la distinzione fra il

patrimonio della persona giuridica e quello dei suoi amministratori.

Una volta esclusa la fondatezza di tali argomenti, è necessario verificare se vi sia una base

normativa per la confisca per equivalente in capo alla persona giuridica per i reati tributari

commessi dai suoi organi.

Anzitutto, come già notato, tale confisca (ed il sequestro alla stessa finalizzato) non può avvenire ai

sensi dell’art. 19 del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, ove si proceda per le violazioni finanziarie

commesse dal legale rappresentante della società, atteso che gli artt. 24 e ss. del citato d.lgs. non

prevedono i reati fiscali tra le fattispecie in grado di giustificare l'adozione del provvedimento, con

esclusione dell'ipotesi in cui la struttura aziendale costituisca un apparato fittizio utilizzato dal reo

per commettere gli illeciti. (Sez. 3, n. 1256 del 19/09/2012, dep. 2013, Unicredit, Rv. 254796).

34

L'art. 1, comma 143, legge 24 dicembre 2007, n. 244, non contiene una previsione autonoma di

confisca per equivalente, ma si limita a richiamare l'art. 322-ter cod. pen..

La confisca per equivalente nei confronti della persona giuridica non può fondarsi neppure sull'art.

322-ter cod. pen., dal momento che la citata disposizione si applica all'autore del reato e, come si è

detto, la persona giuridica non può essere considerata tale.

L'art. 11 della legge 16 marzo 2006, n.146, che prevede la confisca obbligatoria, anche per

equivalente, per i reati di cui all'art. 3 della stessa legge, cioè i reati transnazionali, non riguarda

l'ipotesi della quale ci si occupa nel presente procedimento.

Si deve altresì escludere che sia possibile una interpretazione analogica delle citate

disposizioni.

L'analogia sarebbe in malam partem e come tale non consentita in sede penale.

Infatti le Sezioni Unite hanno già chiarito che la confisca per equivalente, introdotta per i

reati tributari dall'art. 1, comma 143, legge 27 dicembre 2007, n. 244, ha natura

eminentemente sanzionatoria (Sez. U, n. 18374 del 31/01/2013, Adami, Rv. 255037).

2.9. Le Sezioni Unite sono consapevoli che la situazione normativa delineata presenta evidenti

profili di irrazionalità, oltre che per gli aspetti già segnalati nell'ordinanza di rimessione, anche

perché il mancato inserimento dei reati tributari fra quelli previsti dal d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231,

rischia di vanificare le esigenze di tutela delle entrate tributarie, a difesa delle quali è stato

introdotto l'art. 1, comma 143, legge n. 244 del 2007.

Infatti è possibile, attraverso l'intestazione alla persona giuridica di beni non direttamente

riconducibili al profitto di reato, sottrarre tali beni alla confisca per equivalente, vanificando o

rendendo più difficile la possibilità di recupero di beni pari all'ammontare del profitto di reato, ove

lo stesso sia stato occultato e non vi sia disponibilità di beni in capo agli autori del reato. Dovendosi

anche sottolineare come la stessa logica che ha mosso il legislatore nell'introdurre la disciplina sulla

responsabilità amministrativa degli enti finisca per risultare non poco compromessa proprio dalla

mancata previsione dei reati tributari tra i reati-presupposto nel d.lgs. n. 231 del 2001, considerato

che, nel caso degli enti, il rappresentante che ponga in essere la condotta materiale riconducibile a

quei reati non può che aver operato proprio nell'interesse ed a vantaggio dell'ente medesimo.

Tale irrazionalità non è peraltro suscettibile di essere rimossa sollevando una questione di

legittimità costituzionale, alla luce della costante giurisprudenza costituzionale secondo la quale il

secondo comma dell'art. 25 Cost. deve ritenersi ostativo all'adozione di una pronuncia additiva che

comporti effetti costitutivi o peggiorativi della responsabilità penale, trattandosi di interventi

riservati in via esclusiva alla discrezionalità del legislatore. (Sez. U, n. 38691 del 25/06/2009,

Caruso, Rv. 244189).

35

Le Sezioni Unite non possono quindi che segnalare tali irrazionalità ed auspicare un intervento del

legislatore, volto ad inserire i reati tributari fra quelli per i quali è configurabile responsabilità

amministrativa dell'ente ai sensi del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231.

2.10. Devono pertanto essere affermati i seguenti principi di diritto:

“È consentito nei confronti di una persona giuridica il sequestro preventivo finalizzato alla

confisca di denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto di

reato tributario commesso dagli organi della persona giuridica stessa, quando tale profitto (o

beni direttamente riconducibili al profitto) sia nella disponibilità di tale persona giuridica”.

“Non è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei

confronti di una persona giuridica qualora non sia stato reperito il profitto di reato tributario

compiuto dagli organi della persona giuridica stessa, salvo che la persona giuridica sia uno

schermo fittizio”.

“Non è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei

confronti degli organi della persona giuridica per reati tributari da costoro commessi, quando

sia possibile il sequestro finalizzato alla confisca di denaro o di altri beni fungibili o di beni

direttamente riconducibili al profitto di reato tributario compiuto dagli organi della persona

giuridica stessa in capo a costoro o a persona (compresa quella giuridica) non estranea al

reato”.

“La impossibilità del sequestro del profitto di reato può essere anche solo transitoria, senza

che sia necessaria la preventiva ricerca generalizzata dei beni costituenti il profitto di reato”.

2.11. Tutto ciò premesso, si deve rilevare che, nel caso in esame, è lo stesso ricorrente ad

evidenziare che il profitto del reato fu utilizzato dalla Trento Pack s.r.l. per il pagamento dei

dipendenti e per mantenere l'impresa in vita (p. 8, 9, 17 e 19 del ricorso) e l'assenza del

profitto o comunque di adeguate disponibilità finanziarie in capo alla predetta società è

confermata dalla ulteriore affermazione, contenuta nel ricorso, dell'essere intervenuto un

accordo con l'Agenzia delle Entrate per un rientro rateale delle somme ancora dovute (p. 1, 2,

15 e 16 del ricorso).

* * * * * * *

F) Natura giuridica della responsabilità degli enti. Cass. pen., 9 maggio 2013, n.

20060

Conclusivamente, ritiene questa corte che la violazione di legge sussista e sia configurabile

nell'avere il tribunale ritenuto automaticamente esclusa la responsabilità amministrativa dell'ente in

conseguenza dell'assoluzione del suo funzionario. Il giudice di rinvio potrà procedere ad una nuova

assoluzione, corredata però di adeguata giustificazione ed eliminando le contraddizioni che

affliggono il provvedimento impugnato, ovvero - considerato che l'illecito amministrativo

dell'ente ha carattere autonomo e può quindi sussistere anche in mancanza di una concreta

36

condanna del sottoposto o della figura apicale societaria (come accade appunto nel caso di

mancata individuazione del responsabile) - procedere in concreto all'esame degli elementi

costitutivi dell'illecito contestato alla Citibank e poi concludere di conseguenza, restando libero

nelle proprie valutazioni di merito.

G1) Natura giuridica della responsabilità e costituzione di parte civile contro l’ente.

Cass. pen., Sez. VI, 22 gennaio 2011, n. 2251;

11.2.1. - Il problema dell'ammissibilità della costituzione di parte civile nel procedimento a carico

degli enti ha dato luogo a interpretazioni contrastanti sia nella dottrina, che nella giurisprudenza di

merito.

In alcuni casi l'esclusione della parte civile è stata giustificata con riferimento alla natura

formalmente amministrativa della responsabilità prevista nel d.lgs. n. 231/2001, mentre quanti

propendono per la natura sostanzialmente penale di questo tipo di responsabilità da reato sono

favorevoli a riconoscere tale possibilità in capo alla parte civile. In altri termini, il dibattito sulla

questione in oggetto ha finito per investire il tema della natura della responsabilità degli enti,

tema quanto mai incerto, su cui la giurisprudenza, almeno quella di legittimità, non si è

ancora pronunciata in termini definitivi, mentre la dottrina si è divisa, proponendo una

molteplicità di interpretazioni, che vanno dal riconoscimento della natura di vera e propria

responsabilità penale, alla negazione di essa, per affermare che si tratti di una responsabilità

amministrativa, fino a ritenere che ci si trovi dinanzi ad una sorta di tertium genus di

responsabilità, diversa dalle tradizionali categorie della responsabilità penale e

amministrativa, ma comunque riconducibile ad un modello latu sensu criminale, in cui

vengono coniugati elementi del sistema penale e amministrativo, nel tentativo di

'contemperare le ragioni dell'efficacia preventiva con quelle, ancor più ineludibili, della

massima garanzia'.

Sebbene questa Corte si sia pronunciata, per incidens, sulla natura della responsabilità,

ritenendo che si tratti di un tertium genus (Sez. VI, 18 febbraio 2010, n. 27735, Brill Rover s.r.l.

ed altro), tuttavia deve ritenersi, condividendo quanto sostenuto da autorevole dottrina, che lo

specifico problema relativo alla ammissibilità della costituzione di parte civile nel

procedimento a carico degli enti non dipenda, in maniera decisiva, dalla risposta sulla natura

della responsabilità prevista nel d.lgs. 231/2001. La soluzione, infatti, può essere svincolata dal

tema relativo alla definizione della tipologia della responsabilità da reato, che rischia di

diventare una questione meramente nominalistica, per essere affrontata attraverso l'esame

positivo dei contenuti della speciale normativa che disciplina il processo nei confronti degli

enti, vagliandone la compatibilità con l'istituto codicistico della costituzione di parte civile.

In questo approccio ermeneutico il punto di partenza non può che essere la constatazione che nel

d.lgs. 231/2001 manca ogni riferimento espresso alla parte civile. La sistematica rimozione, nel

d.lgs. 231/2001, di ogni richiamo o riferimento alla parte civile (e alla persona offesa) porta a

ritenere che non si sia trattato di una lacuna normativa, quanto piuttosto di una scelta consapevole

del legislatore, che ha voluto operare, intenzionalmente, una deroga rispetto alla regolamentazione

codicistica: la parte civile non è menzionata nella sezione II del capo III del decreto dedicata ai

soggetti del procedimento a carico dell'ente, né ad essa si fa alcun accenno nella disciplina relativa

alle indagini preliminari, all'udienza preliminare, ai procedimenti speciali, alle impugnazioni ovvero

37

nelle disposizioni sulla sentenza, istituti che, invece, nei rispettivi moduli previsti nel codice di

procedura penale contengono importanti disposizioni sulla parte civile e sulla persona offesa.

Peraltro, accanto alla materiale 'assenza' di riferimenti riguardanti la parte civile, il d.lgs. 231/2001

contiene alcuni dati specifici ed espressi che confermano la volontà di escludere questo soggetto dal

processo. Da un lato, vi è l'art. 27 che nel disciplinare la responsabilità patrimoniale dell'ente la

limita all'obbligazione per il pagamento della sanzione pecuniaria, senza fare alcuna menzione alle

obbligazioni civili; dall'altro lato, appare particolarmente significativa la regolamentazione del

sequestro conservativo, di cui all'art. 54. L'omologo istituto codicistico di cui all'art. 316 c.p.p. pone

questa misura cautelare reale sia a tutela del pagamento della 'pena pecuniaria, delle spese del

procedimento e di ogni altra somma dovuta all'erario', sia delle 'obbligazioni civili derivanti dal

reato', in quest'ultimo caso attribuendo alla parte civile la possibilità di richiedere il sequestro;

invece, il citato art. 54 d.lgs. 231/2001 limita il sequestro conservativo al solo scopo di assicurare il

pagamento della sanzione pecuniaria (oltre che delle spese del procedimento e delle somme dovute

all'erario), sequestro che può essere richiesto unicamente dal pubblico ministero. Anche qui il

legislatore ha compiuto una scelta consapevole, escludendo la funzione di garantire le obbligazioni

civili, funzione che, nella struttura della norma codicistica, presuppone la richiesta della parte civile.

11.2.2. - Già queste osservazioni, che fanno leva sull'interpretazione letterale delle norme che

disciplinano il processo a carico degli enti, evidenziano la scelta, compiuta dal legislatore del 2001,

favorevole ad escludere la parte civile e dimostrano come il tentativo di proporre un'interpretazione

che porti ad applicare, in via estensiva o analogica, le disposizioni codicistiche sulla costituzione

della parte civile si presenti di difficile attuazione, soprattutto perché manca una vera e propria

'lacuna normativa' da colmare. L'ampliamento della competenza del giudice penale ad occuparsi

anche dell'azione civile avrebbe dovuto avvenire attraverso una esplicita previsione di legge e a

questo proposito si è rilevato, da parte di attenta dottrina, che l'art. 111 Cost., così come modificato,

pretende il rispetto del principio di stretta legalità quale 'criterio direttivo di tutta la disciplina del

processo penale', sicché non sarebbe ammissibile ricorrere ad una interpretazione analogica degli

artt. 185 c.p. e 74 c.p.p.

Tuttavia, parte della giurisprudenza di merito e della dottrina ritiene che sia possibile applicare

direttamente gli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p. attraverso la clausola generale di cui all'art. 34 d.lgs.

231/2001, sul presupposto della piena compatibilità dell'istituto della costituzione di parte civile nel

processo a carico degli enti.

Invero, il tentativo di applicare direttamente nel d.lgs. 231/2001 le due disposizioni menzionate non

tiene conto del particolare meccanismo attraverso cui l'ente viene chiamato a rispondere per i reati

posti in essere nel suo interesse o vantaggio. Il reato che viene realizzato dai vertici dell'ente,

ovvero dai suoi dipendenti, è solo uno degli elementi che formano l'illecito da cui deriva la

responsabilità dell'ente, che costituisce una fattispecie complessa, in cui il reato rappresenta il

presupposto fondamentale, accanto alla qualifica soggettiva della persona fisica e alla sussistenza

dell'interesse o del vantaggio che l'ente deve aver conseguito dalla condotta delittuosa posta in

essere dal soggetto apicale o subordinato. In altri termini, all'accertamento del reato commesso dalla

persona fisica deve necessariamente seguire la verifica sul tipo di inserimento di questa nella

compagine societaria e sulla sussistenza dell'interesse ovvero del vantaggio derivato all'ente: solo in

presenza di tali elementi la responsabilità si estende dall'individuo all'ente collettivo, in presenza

cioè di criteri di collegamento teleologico dell'azione del primo all'interesse o al vantaggio

38

dell'altro, che risponde autonomamente dell'illecito 'amministrativo'. Ne deriva che tale illecito non

si identifica con il reato commesso dalla persona fisica, ma semplicemente lo presuppone.

Di conseguenza, se l'illecito amministrativo ascrivibile all'ente non coincide con il reato, ma

costituisce qualcosa di diverso, che addirittura lo ricomprende, deve escludersi che possa farsi

un'applicazione degli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p., che invece contengono un espresso ed esclusivo

riferimento al 'reato' in senso tecnico. L'ostacolo maggiore all'applicazione diretta dell'art. 185 c.p.

nella disciplina del processo ex d.lgs. 231/2001 - non importa se attraverso una interpretazione

estensiva o analogica - è costituito dagli stessi limiti ermeneutici ed applicativi della norma citata,

che si riferisce esclusivamente ai danni cagionati dal reato, nozione quest'ultima che non può

coprire anche l'illecito dell'ente, così come delineato nel citato d.lgs. 231/2001. Allo stesso modo,

anche l'art. 74 c.p.p. non può trovare applicazione attraverso la clausola di chiusura contenuta

nell'art. 34 d.lgs. 231/2001, in quanto esso consente la costituzione della parte civile in funzione del

ristoro dei danni previsti dall'art. 185 c.p., espressamente richiamato, cioè dei danni derivanti dal

reato.

In sostanza, l'impossibilità di procedere all'applicazione delle due norme richiamate discende dal

fatto che per entrambe il presupposto per la costituzione di parte civile è rappresentato dalla

commissione di un reato, non dell'illecito amministrativo.

11.2.3. - Queste stesse obiezioni valgono anche nei confronti della tesi sostenuta nella articolata e

approfondita memoria presentata nell'interesse di (U) s.p.a. ed (V) s.p.a. che, riprendendo

argomentazioni proposte da un'autorevole dottrina, ritiene ammissibile la costituzione di parte civile

nel processo a carico degli enti, assumendo che la nuova ipotesi di illecito delineata dal d.lgs.

231/2001 è, comunque, fonte di responsabilità civile ai sensi dell'art. 2043 c.c., sicuramente

azionabile in sede civile e poiché costituisce principio generale che anche in sede penale vi sia la

possibilità di azionare tali pretese in base agli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p., una volta che la competenza

del giudice penale è stata estesa all'illecito dell'ente non vi sarebbero ragioni per introdurre una

diversa disciplina in materia, soprattutto considerando che l'ente risponde per fatto proprio e in

misura del tutto autonoma rispetto alla condotta della persona fisica. Il ricorso all'art. 185 c.p. viene

giustificato sia per la sostanziale natura civilistica della norma, che ne consente l'applicazione anche

analogica, sia per l'inscindibile collegamento della responsabilità dell'ente con l'illecito penale,

situazione questa che legittima l'ingresso nel processo a carico dell'ente delle disposizioni in materia

di costituzione della parte civile.

Invero, tanto l'inquadramento dell'illecito dell'ente come fatto produttivo di danni risarcibili ex art.

2043 c.c., quanto il riconoscimento che quella dell'ente sia una responsabilità per fatto proprio, non

paiono argomenti idonei a dimostrare che in questo processo debba trovare spazio la disciplina sulla

costituzione di parte civile, in mancanza di dati normativi positivi che autorizzino una tale

conclusione.

Sotto un primo profilo, si osserva come la gestione dell'azione civile nel processo penale, lungi

dall'essere un principio generale dell'ordinamento, si presenti in realtà sotto specie di una deroga al

principio della completa autonomia e separazione del giudizio civile da quello penale, affermato nel

codice del 1988 (in particolare dall'art. 75 c.p.p., espressione del c.d. favor separationis), tanto che

le disposizioni processuali che consentono la decisione nel giudizio penale dell'azione civile sono

da considerare di natura quasi eccezionale. Sicché deve convenirsi con chi, in assenza di ogni

esplicito riferimento ad azioni diverse da quella penale e in mancanza di una qualunque base

normativa al riguardo, esclude che nel processo ex d.lgs. 231/2001 possa avere ingresso un'azione

39

civile nei confronti dell'ente: per ritenere che il giudice competente a conoscere l'illecito dell'ente

sia anche competente a conoscere i danni derivanti da esso sarebbe stata necessaria una previsione

espressa.

Inoltre, la scelta del legislatore di non prevedere la costituzione di parte civile nel processo a carico

degli enti può trovare una ulteriore e ragionevole spiegazione sotto il profilo sostanziale, nel senso

che non pare individuabile un danno derivante dall'illecito amministrativo, diverso da quello

prodotto dal reato.

Non convince la tesi, sostenuta nella memoria depositata dal difensore dell'(U) s.p.a. e dell'(V)

s.p.a., secondo cui 'il danno prodotto dall'illecito amministrativo è pur sempre cagionato dal

medesimo fatto che è reato per la persona fisica e illecito per l'ente', sicché si tratterebbe di un 'fatto

di entrambi' i soggetti con la conseguenza che anche l'ente 'risponde dei danni causati dal suo

contributo concorsuale al reato'.

In questo modo si finisce per sostenere che l'esercizio dell'azione civile nel processo disciplinato dal

d.lgs. 231/2001 riguardi il danno derivante dal reato, attribuendolo indifferentemente alla persona

fisica e all'ente e negando, contraddittoriamente, che quella dell'ente sia una responsabilità per fatto

proprio, che trova la sua ragione nella commissione di un illecito complesso, in cui il reato è solo

uno degli elementi.

Invece, va ribadita l'autonomia dell'illecito addebitato all'ente, dovendo distinguersi la sua

responsabilità da quella della persona fisica e riconoscendo che l'eventuale danno cagionato dal

reato non coincide con quello derivante dall'illecito amministrativo di cui risponde l'ente.

In realtà, deve convenirsi con quella dottrina che, molto acutamente, ha evidenziato come 'i danni

riferibili al reato sembrano esaurire l'orizzonte delle conseguenze in grado di fondare una pretesa

risarcitoria', escludendo che possano esservi danni ulteriori derivanti direttamente dall'illecito

dell'ente. E' stato posto in risalto come non possano essere considerati danni prodotti dall'illecito

amministrativo quelle ripercussioni negative che si determinano sugli interessi dei soci, dei creditori

e dei dipendenti dell'ente per effetto dell'applicazione delle sanzioni a seguito dell'accertata

responsabilità dell'ente, in quanto l'eventuale lesione dei diritti di questi soggetti non trova la sua

causa diretta nell'illecito amministrativo; peraltro, anche i danni subiti dai soci e dai terzi

incolpevoli cui faceva riferimento la direttiva contenuta nell'art. 11 lett. v) della legge delega n.

300/2000, a cui non è stata data attuazione, non erano quelli derivanti direttamente dall'illecito

amministrativo, ma costituivano anch'essi ricadute negative derivanti dall'applicazione delle

sanzioni, pecuniarie o interdittive.

Se non è ipotizzabile l'esistenza di un danno che possa presentarsi come conseguenza immediata e

diretta dell'illecito amministrativo allora 'l'ostinato silenzio' del legislatore sulla parte civile e sulla

possibilità di costituirsi in giudizio per far valere le pretese risarcitone assume un significato ancor

più preciso, apparendo del tutto ragionevole l'esclusione della parte civile dalla cerchia dei

protagonisti del processo a carico dell'ente.

In ogni caso, anche a voler ammettere, in astratto, che un danno possa derivare direttamente

dall'illecito amministrativo, mancherebbe comunque, per le ragioni che si sono già illustrate, ogni

appiglio normativo che giustifichi la costituzione della parte civile nel processo ex d.lgs. 231/2001.

11.2.4. - Un altro argomento utilizzato nella memoria difensiva dell'(U) s.p.a. e dell'(V) s.p.a. a

sostegno dell'ammissibilità della costituzione della parte civile nel processo degli enti fa leva sulle

disposizioni del d.lgs. 231/2001, che pongono le premesse per il soddisfacimento delle pretese

risarcitone e restitutorie della persona offesa, sottolineando come la ratio del decreto sia quella di

40

tutelare l'interesse dei danneggiati dal fatto illecito, al pari dell'interesse alla punizione dell'ente. Il

riferimento è, in particolare, agli artt. 12 e 17, che consentono all'ente di ottenere l'esclusione

ovvero la riduzione delle sanzioni pecuniarie e interdittive in caso di avvenuto risarcimento dei

danni patiti dalla vittima, nonché all'art. 19, che prevede la riduzione della confisca per la parte di

profitto che può essere restituita al danneggiato.

A questo proposto si osserva, preliminarmente, che dalla formulazione inequivocabile delle

disposizioni menzionate si ricava che il danno cui si riferiscono è quello derivante dal reato e non

quello determinato dall'illecito amministrativo commesso dall'ente, sicché le argomentazioni

possono essere rovesciate e sostenere che il legislatore, ancora una volta, ha escluso la

configurabilità di conseguenze dannose derivante dall'illecito amministrativo, limitandosi a

prevedere 'sconti' di sanzioni collegate esclusivamente a forme di 'reintegrazione' di danni da reato.

In ogni caso, è stato notato come il fatto che in materia di responsabilità degli enti si sia costruito un

sistema di riduzione sanzionatoria collegato a condotte di c.d. 'ravvedimento operoso' è circostanza

del tutto neutra rispetto al problema dell'ammissibilità della costituzione di parte civile, come è

dimostrato dalla disciplina del processo penale a carico di imputati minorenni, in cui è prevista la

possibilità di adottare prescrizioni volte a riparare le conseguenze del reato (art. 28) e nello stesso

tempo è esclusa l'ammissibilità dell'esercizio dell'azione civile nel processo penale (art. 10).

11.2.5. - In conclusione deve ritenersi che nel processo a carico dell'ente, così come

disciplinato nel d.lgs. 231/2001, non sia ammissibile la costituzione della parte civile.

Questa deroga rispetto a quanto previsto nel modello di processo penale ordinario non è in contrasto

con gli artt. 3 e 24 Cost., così come ritiene il difensore delle società (U) s.p.a. e (V) s.p.a. nella

richiesta subordinata della sua memoria.

La 'disparità' di trattamento con il processo ordinario disciplinato dal codice può ritenersi sorretta da

adeguata giustificazione in considerazione dell'illecito oggetto dell'accertamento nel processo a

carico dell'ente che, prescindendo dalla definizione della sua natura (amministrativa o penale

ovvero di un terzo genere), appare strutturato nella forma di una fattispecie complessa, in cui, come

si è visto, il reato costituisce solo uno degli elementi fondamentali dell'illecito, sicché appare

ragionevole che il legislatore abbia escluso, per le ragioni che si sono sopra illustrate, la

costituzione della parte civile.

Anche il dedotto contrasto con l'art. 24 Cost. appare manifestamente infondato. Innanzitutto deve

escludersi che la norma citata elevi a regola costituzionale quella del simultaneus processus; inoltre,

nel processo ex d.lgs. 231/2001 la posizione del danneggiato è comunque garantita, in quanto oltre a

poter tutelare immediatamente i propri interessi davanti al giudice civile, può citare l'ente come

responsabile civile ai sensi dell'art. 83 c.p.p. nel giudizio che ha ad oggetto la responsabilità penale

dell'autore del reato, commesso nell'interesse nella persona giuridica, e lo può fare - normalmente -

nello stesso processo in cui si accerti la responsabilità dell'ente.

Invero, un'analoga questione si è posta in passato, seppure in un contesto diverso. La Corte

costituzione con la sentenza n. 60 del 1996, modificando una sua precedente giurisprudenza

(sentenze n. 106 del 1977 e n. 78 del 1989), ebbe a dichiarare l'illegittimità costituzionale dell'art.

270 cod. pen. mil. pace che, nei processi di competenza del giudice militare, escludeva la

proponibilità dell'azione civile per le restituzioni e il risarcimento dei danni.

Tuttavia, in quella decisione il giudice delle leggi ha ritenuto irragionevole l'esclusione della parte

civile dal processo, valutando come non giustificabili le differenze di disciplina tra i due modelli

processuali, il cui oggetto di accertamento era comunque costituito, in entrambi i casi, da reati,

41

sicché non vi era ragione perché il giudice militare non potesse conoscere anch'egli degli interessi

civili nascenti da questi. Inoltre, l'illegittimità costituzionale dell'art. 270 cod. pen. mil. pace è stata

affermata perché rendeva impossibile l'inizio immediato dell'azione per le restituzioni ed il

risarcimento del danno: infatti, tale norma, al secondo comma, prevedeva la sospensione

obbligatoria del giudizio civile fino all'esito di quello penale militare, realizzando in questo caso

l'ingiustificata disparità di trattamento raffrontata con la corrispondente disciplina del processo

penale ordinario.

Nel caso in esame, invece, la situazione è profondamente diversa, in quanto la deroga in ordine alla

posizione della parte civile nel processo a carico degli enti trova ampia giustificazione con

riferimento alla diversa regiudicanda oggetto di accertamento, cioè l'illecito amministrativo, rispetto

all'oggetto del procedimento ordinario; inoltre, nella specie trova piena applicazione l'art. 75 c.p.p.,

che consente l'esercizio immediato dell'azione civile nella sede propria, senza alcuna sospensione

sino all'esito del giudizio penale.

* * * * * * *

G2) Corte di giustizia 12 luglio 2012 C-79/11

35 Con la questione proposta il giudice del rinvio chiede se le disposizioni del decreto

legislativo n. 231/2001 relative alla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche,

laddove non prevedono la possibilità che esse siano chiamate a rispondere, nell’ambito del

processo penale, dei danni da esse cagionati alle vittime di un reato, siano compatibili con la

direttiva 2004/80 e con l’articolo 9 della decisione quadro.

36 Se, conformemente a una reiterata giurisprudenza della Corte, quest’ultima, nell’ambito di un

rinvio pregiudiziale, non può pronunciarsi né su questioni attinenti al diritto interno degli Stati

membri né sulla conformità delle disposizioni nazionali con il diritto dell’Unione, essa può

nondimeno fornire elementi interpretativi di tale diritto atti a consentire al giudice nazionale

di dirimere la controversia di cui è investito (v., in particolare, sentenza dell’8 giugno 2006,

WWF Italia e a., C-60/05, Racc. pag. I-5083, punto 18).

37 Innanzitutto occorre porre in evidenza l’irrilevanza della direttiva 2004/80. Difatti, come

risulta segnatamente dal suo articolo 1, essa è diretta a rendere più agevole per le vittime della

criminalità intenzionale violenta l’accesso al risarcimento nelle situazioni transfrontaliere,

mentre è pacifico che, nel procedimento principale, le imputazioni riguardano reati commessi

colposamente, e, per di più, in un contesto puramente nazionale.

38 Per quanto riguarda la decisione quadro, l’articolo 9, paragrafo 1, della stessa dispone che

ciascuno Stato membro garantisce alla vittima di un reato il diritto di ottenere, entro un

ragionevole lasso di tempo, una decisione relativa al risarcimento da parte dell’autore del

reato nell’ambito del procedimento penale, eccetto i casi in cui il diritto nazionale preveda

altre modalità di risarcimento.

39 Conformemente all’articolo 1, lettera a), della decisione quadro, ai fini della stessa si

considera come «vittima» la persona fisica che ha subito un pregiudizio «causat[o]

42

direttamente da atti o omissioni che costituiscono una violazione del diritto penale di uno

Stato membro».

40 Non è in discussione che il diritto italiano consente alle vittime di cui al procedimento

principale di far valere le loro pretese risarcitorie nei confronti delle persone fisiche, autrici

dei reati cui rinvia il decreto legislativo n. 231/2001, rispetto ai danni cagionati direttamente

con siffatti reati costituendosi, a tal fine, parti civili nell’ambito del processo penale.

41 Una situazione del genere si concilia con lo scopo perseguito dall’articolo 9, paragrafo 1,

della decisione quadro, consistente nel garantire alla vittima il diritto di ottenere una decisione

relativa al risarcimento, da parte dell’autore del reato, nell’ambito del procedimento penale ed

entro un ragionevole lasso di tempo.

42 Il giudice del rinvio si domanda se detto articolo non debba essere interpretato nel senso

che la vittima deve inoltre avere la possibilità di chiedere, nell’ambito del medesimo

procedimento penale, il risarcimento dei danni in parola alle persone giuridiche

imputate in base all’articolo 25 septies del decreto legislativo n. 231/2001.

43 Tale interpretazione non può essere accolta.

44 Innanzitutto, se, come dichiarato al quarto considerando della decisione quadro, occorre

offrire alle vittime della criminalità un livello elevato di protezione (v., in particolare,

sentenza del 9 ottobre 2008, Katz, C-404/07, Racc. pag. I-7607, punti 42 e 46), la decisione

quadro è unicamente volta all’elaborazione, nell’ambito del procedimento penale quale

definito all’articolo 1, lettera c), di norme minime sulla tutela delle vittime della criminalità

(sentenza del 15 settembre 2011, Gueye e Salmerón Sánchez, C-483/09 e C-1/10, Racc.

pag. I-8263, punto 52).

45 Si consideri poi che la decisione quadro, il cui unico oggetto è la posizione delle vittime

nell’ambito dei procedimenti penali, non contiene alcuna indicazione in base alla quale il

legislatore dell’Unione avrebbe inteso obbligare gli Stati membri a prevedere la

responsabilità penale delle persone giuridiche.

46 Infine, dalla formulazione letterale stessa dell’articolo 1, lettera a), della decisione quadro

risulta che quest’ultima, in linea di principio, garantisce alla vittima il diritto al risarcimento

nell’ambito del procedimento penale per «atti o omissioni che costituiscono una violazione

del diritto penale di uno Stato membro» e che sono «direttamente» all’origine dei pregiudizi

(v. sentenza del 28 giugno 2007, Dell’Orto, C-467/05, Racc. pag. I-5557, punti 53 e 57).

47 Orbene, dall’ordinanza di rinvio emerge che un illecito «amministrativo» da reato come

quello all’origine delle imputazioni sulla base del decreto legislativo n. 231/2001 è un

reato distinto che non presenta un nesso causale diretto con i pregiudizi cagionati dal

reato commesso da una persona fisica e di cui si chiede il risarcimento. Secondo il

giudice del rinvio, in un regime come quello istituito da tale decreto legislativo, la

responsabilità della persona giuridica è qualificata come «amministrativa», «indiretta» e

43

«sussidiaria», e si distingue dalla responsabilità penale della persona fisica, autrice del

reato che ha causato direttamente i danni e a cui, come osservato al punto 40 della

presente sentenza, può essere chiesto il risarcimento nell’ambito del processo penale.

48 Pertanto, le persone offese in conseguenza di un illecito amministrativo da reato commesso

da una persona giuridica, come quella imputata in base al regime instaurato dal decreto

legislativo n. 231/2001, non possono essere considerate, ai fini dell’applicazione dell’articolo

9, paragrafo 1, della decisione quadro, come le vittime di un reato che hanno il diritto di

ottenere che si decida, nell’ambito del processo penale, sul risarcimento da parte di tale

persona giuridica.

49 Dalle suesposte considerazioni risulta che occorre rispondere alla questione posta

dichiarando che l’articolo 9, paragrafo 1, della decisione quadro deve essere interpretato nel

senso che non osta a che, nel contesto di un regime di responsabilità delle persone giuridiche

come quello in discussione nel procedimento principale, la vittima di un reato non possa

chiedere il risarcimento dei danni direttamente causati da tale reato, nell’ambito del processo

penale, alla persona giuridica autrice di un illecito amministrativo da reato.