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L LA RELAZIONE COMUNICATIVA PROF.SSA MARIAANTONIETTA BATTISTA

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““LLAA RREELLAAZZIIOONNEE CCOOMMUUNNIICCAATTIIVVAA””

PPRROOFF..SSSSAA MMAARRIIAAAANNTTOONNIIEETTTTAA

BBAATTTTIISSTTAA

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Università Telematica Pegaso La relazione comunicativa

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

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Indice

1 LO SCHEMA DELLA COMUNICAZIONE ----------------------------------------------------------------------------- 3

2 LA RELAZIONE COMUNICATIVA: RIFERIMENTO A E LEGAME CON ------------------------------------- 6

3 CONTESTI DELLA COMUNICAZIONE -------------------------------------------------------------------------------- 7 4 LE CONDIZIONI E LE DISPOSIZIONI SOGGETTIVE DELLA COMUNICAZIONE ---------------------- 9

5 LE CONDIZIONI E PRE-REQUISITI STRUTTURALI DELLA COMUNICAZIONE ---------------------- 13

BIBLIOGRAFIA --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 22

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1 Lo schema della comunicazione

La teoria matematica della comunicazione era mossa da esigenze tecniche molto precise:

studiare dal punto di vista fisico-matematico le condizioni di migliore efficienza del trasferimento

di segnali attraverso apparati tecnici di trasmissione. Non a caso il suo sviluppo è parallelo alla

grande evoluzione delle telecomunicazioni. Ma l’influenza delle ricerche di Shannon e Weaver1 è

andata ben al di là di questo ambito specialistico. Dobbiamo loro, infatti, oltre alla definizione di

comunicazione che ancora oggi utilizziamo, anche l’elaborazione di uno schema generale dei

processi comunicativi, che ha goduto di una fortuna vastissima negli anni seguenti.

Tale schema ha l’obiettivo di individuare sia la forma generale di ogni processo comunicativo,

sia i fattori fondamentali che lo costituiscono, quegli elementi, cioè, che devono essere presenti ogni

qual volta si verifichi un passaggio di informazione.

La figura seguente lo riporta in una versione fedele all’originale di Shannon e Weaver:

Tabella 1 - Lo schema della comunicazione di Shannon e Weaver

La fonte è l’origine dell’informazione; essa genera un messaggio che un apparato trasmittente

trasforma in segnali; i segnali a loro volta sono trasmessi mediante un canale fisico fino al ricettore

che li converte nuovamente nel messaggio ricevuto dal destinatario. Elemento di ostacolo al buon

fine del processo comunicativo è il rumore, cioè la presenza di disturbi lungo il canale che possono

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danneggiare i segnali (quali le interferenze elettriche o magnetiche che si possono generare lungo

un cavo di trasmissione). Il meccanismo di risposta, il feed-back avvia un nuovo processo

comunicativo, in cui il destinatario originale diventa fonte di un messaggio.

Come lo stesso Warren Weaver ha detto, quando parlo con un’altra persona il mio cervello è

la fonte dell’informazione, l’apparato vocale il trasmettitore, le vibrazioni sonore il canale della

comunicazione, l’orecchio del mio interlocutore il ricettore e il suo cervello il destinatario finale del

messaggio. Insomma, lo schema di Shannon e Weaver ci consente di cogliere e collocare in un

quadro unitario i tratti essenziali di processi apparentemente diversissimi: dal funzionamento degli

apparati omeostatici come il termostato, all’interazione tra macchina e uomo, alla comunicazione

tra due esseri umani (l’interazione linguistica). Ma soprattutto ci consente di considerare tutti questi

processi di interazione come manifestazioni di quello stesso fenomeno primitivo che è la

comunicazione, e dunque di giustificare una teoria generale della comunicazione.

Proprio al fine di rendere conto della complessità della comunicazione umana, ed in

particolare della comunicazione linguistica, il famoso linguista Roman Jakobson2, ha proposto una

rielaborazione dello schema comunicativo di Shannon e Weaver che ha avuto un grande influenza

in discipline come la linguistica strutturalista, la semiotica e la teoria della letteratura, ma che ha

dato spunto anche a molti modelli adottati negli studi sulle comunicazioni di massa.

Secondo lo schema della comunicazione di Jakobson il mittente invia un messaggio al

destinatario.

Contesto/messaggio

mittente - - - - - - - - - - - - - - - destinatario

Contatto/codice

1 Shannon, C.E. e Weaver, W., The Mathematical Theory of Communication, University of Illinois Press, Urbana 1949. 2 Jakobson, R., Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, Milano 1966.

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Per essere operante, il messaggio richiede in primo luogo il riferimento a un contesto, contesto

che possa essere afferrato dal destinatario, e che sia verbale o suscettibile di verbalizzazione; in

secondo luogo esige un codice interamente, o almeno parzialmente, comune al mittente e al

destinatario; infine un contatto, un canale fisico e una connessione psicologica fra il mittente ed il

destinatario, che consenta loro di stabilire e mantenere la comunicazione. Come vediamo, in questo

modello viene meno la distinzione tra fonte e trasmittente da un lato e ricettore e destinatario

dall’altro, e scompaiono le nozioni di segnale e di rumore. In un certo senso possiamo dire che si

tratta di un modello che coglie la comunicazione ad un livello di astrazione maggiore.

Shannon e Weaver avevano l’obiettivo primario di descrivere gli apparati meccanici di

comunicazione, e di studiare in che modo potessero essere formati i segnali al fine di ottimizzare

l’efficienza della comunicazione e ridurre i danni provocati dal rumore. Jakobson invece vuole

costruire un modello della comunicazione umana che ci permetta di capire come e perché siamo in

grado di parlare su qualcosa e di comprendere ciò che ci viene detto.

Gli schemi della comunicazione proposti dai vari autori descrivono efficacemente la struttura

e il processo della comunicazione. Tutti gli elementi di un processo comunicativo sono presenti

sempre e in ogni caso in una relazione comunicativa e non si attivano in una logica sequenziale ma

interagiscono simultaneamente in modo che assumendo come prospettiva di osservazione uno solo

di essi è possibile analizzare il funzionamento di tutti gli altri.

Questo è l’assunto di base dal quale parte l’analisi di Gili3 che vede nella posizione del

ricevente una via di accesso privilegiata per comprendere le dinamiche della comunicazione.

3 Gili G., Il ricevente: un punto di vista privilegiato per comprendere la relazione comunicativa, in De Blasio E., Gili G. , Hibberd M., Sorice M., La ricerca sull’audience, Hoepli, Milano, 2007.

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2 La relazione comunicativa: riferimento a e legame con

Coloro che comunicano, sia nella posizione di emittente sia in quella di ricevente, sono

soggetti in relazione. La relazione comunicativa è un sistema dove i comportamenti sono circolari:

non è possibile stabilire quale è la causa e quale l’effetto, cosa viene prima e cosa viene dopo. Ogni

comportamento è, insieme, azione e risposta ad un’altro comportamento. Il sistema delle persone-

che-comunicano-con-altre-persone è sempre un universo a sé stante, governato da regole e processi

propri. Nella comunicazione si apre la relazione, ovvero la relazione con l’altro è già implicita nella

stessa esistenza umana. L’identità personale, quello che noi pensiamo di noi stessi e quello che

pensiamo che gli altri pensino di noi, si mette assieme, pezzo dopo pezzo, in tutti gli scambi di

parole e azioni che abbiamo con gli altri esseri umani.

La condizione affinché gli agenti sociali si possano intendere e possano comprendere le

reciproche intenzioni si fonda sulla comune natura umana ovvero nella condivisione di universali

comunicativi e pre-condizioni della comunicazione che sottintendono sensatezza e verità di ciò che

l’altro afferma. Ogni relazione comunicativa si basa cioè su un accordo portante4 ovvero quelle

espressioni, codici o sistemi di rappresentazione comuni. Ad esempio secondo le regole

conversazionali ad una domanda segue una risposta, ad un saluto segue un altro saluto ecc..

4 Gadamer H.G., Die Universalitat des hermeneutischen Problems, in Gadamer H.G., Kleine Schriften, Bd. I, Tubingen: Mohr 1967 (trad.it L’universalità del problema ermeneutico, in Gadamer H.G. Ermeneutica e metodica universale, Torino, Marietti, 1973)

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3 Contesti della comunicazione

Il contesto è un aspetto della comunicazione linguistica molto importante. Per comunicare

infatti non basta avere in comune un codice. Ed in ogni caso, nella comunicazione linguistica questa

comunanza non è mai perfetta, come avviene per i codici più semplici. Infatti, quando parliamo

effettivamente con qualcuno parliamo di qualche cosa, in una data situazione e in un dato momento

temporale. Affinché ci sia comunicazione è necessario che tutti questi elementi di contesto siano

condivisi, o, se non lo sono, che almeno siano condivisibili mediante la lingua.

Vediamo di spiegarci meglio con un esempio. Se incontro il mio amico Bruno, e gli dico «Ehi,

hai visto che grande Roma ieri» (i tifosi di altre squadre ci perdoneranno) affinché egli capisca il

senso della mia frase non basta che conosca bene l’italiano. Deve anche sapere che «Roma» si

riferisce alla squadra di calcio e non alla città; deve in altre parole afferrare in qualche modo

l’”oggetto” del mondo di cui io sto parlando.

Come questo afferrare il mondo mediante le parole avvenga è un problema su cui i filosofi si

interrogano da secoli. Ci preme mettere in evidenza come la comprensione di un messaggio, anche

banale, sia un processo di enorme complessità. Infatti al mio amico non basta capire le parole che

gli ho rivolto e collegare i termini individuali ad oggetti reali. Per comprendere realmente il mio

messaggio egli deve possedere una serie di conoscenze di sfondo, una sorta di contesto cognitivo.

Nel momento in cui io mi rivolgo a lui con quella frase presuppongo che possieda in qualche modo

queste conoscenze. Se mi accorgo che la mia presupposizione è errata, allora devo esser in grado di

spiegargli, mediante la lingua (o eventualmente con l’ausilio di messaggi visivi e filmati) almeno

una parte di queste conoscenze di contesto, altrimenti non riusciremo a capirci. Ci possiamo

facilmente rendere conto che una perfetta coincidenza di competenze tra due persone è impossibile.

Infatti tali nozioni sono il frutto della storia personale e sociale di ciascuno.

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La comunicazione quindi affinché abbia successo o insuccesso dipende da una pluralità di

condizioni e requisiti che devono essere condivisi tra soggetti determinati che hanno una relazione

in contesti sociali e culturali strutturati.

Gili5 individua a tal proposito due condizioni e requisiti a) intenzionalità e atteggiamento o

disposizione dei soggetti che entrano nella comunicazione (definito aspetto di “riferimento a” della

relazione comunicativa) b) aspetti strutturali, relativi al contesto sociale e culturale definito in cui la

comunicazione avviene ( aspetto di “legame con” della relazione comunicativa).

5 Gili G., op.cit.

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4 Le condizioni e le disposizioni soggettive della comunicazione

Le condizioni e le disposizioni soggettive che favoriscono il successo o l’insuccesso della

comunicazione sono l’intenzionalità, l’interesse e l’impegno.

INTENZIONALITA’. Sempre secondo Gili può assumere due significati come cioè rapporto

consapevole con il proprio atto comunicativo e intenzionalità nel senso di essere rivolto verso

l’altro con cui comunico. Alcuni gesti dell’uomo possono essere inconsapevoli e automatici, ma in

genere la comunicazione umana si compone di gesti significativi per cui si è consapevole del gesto

che si compie e del suo significato. Comunico sapendo che sto comunicando, che cosa comunico,

come comunico, a chi comunico.

Nell’ottica di Mead l’uomo, osservato attraverso le sue azioni, può essere compreso solamente

in termini di “significato”, non bisogna cercare le cause dell’azione, ma il significato dell’azione

compiuta, ciò che conta è il senso che un certo tipo di gesto ha per l’individuo. In questa cornice

diviene fondamentale l’interpretazione dello “stimolo” da parte dell’uomo, o meglio,

l’interpretazione del gesto da parte di chi lo manifesta. I significati che l’individuo dà agli elementi

del mondo sociale possono provenire solo dal mondo sociale stesso. Nello stesso tempo la vita

sociale è resa possibile dall’interazione tra individui dello stesso tipo e tale interazione è, a sua

volta, costruita dalla comunicazione di significati comuni ai diversi individui. L’espressione più

elementare della comunicazione, presente anche tra gli animali, è appunto il gesto; e la

comunicazione è una “conversazione tra gesti”. Il gesto è sempre connesso a un’intenzionalità

riflessiva ed esprime un significato diventando simbolo di una volontà definita. “I gesti sono

simboli, poiché indicano, rappresentano e provocano un’azione appropriata alle fasi successive

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dell’atto di cui essi costituiscono i primi frammenti e, secondariamente, agli oggetti impliciti in tali

atti. “In breve la conversazione di gesti consapevole o significativa è un processo di reciproco

aggiustamento nell’ambito dell’atto sociale – implicante l’assunzione, da parte di ciascuno degli

individui che lo compiono, degli atteggiamenti altrui verso ognuno di loro – di gran lunga più

adeguato ed efficiente della conversazione di gesti inconsapevole o non significativa”6 . Quando un

individuo indica con un gesto a un altro individuo ciò che si attende da lui, egli diventa consapevole

del significato che il suo gesto ha per l’altro, essendo anche in grado di applicare riflessivamente

tale significato al suo stesso gesto. “I gesti diventano simboli significativi quando suscitano

implicitamente nell’individuo che li compie le medesime risposte che essi suscitano esplicitamente,

o si ritiene che suscitino, negli individui a cui sono indirizzati. […] In tal modo ogni gesto viene a

rappresentare, in un determinato gruppo sociale o comunità, un atto o una risposta particolari: cioè

l’atto o la risposta che esso richiama esplicitamente nell’individuo a cui è indirizzato, e

implicitamente nell’individuo che lo compie. Questo atto o risposta particolari da esso rappresentati

costituiscono la sua essenza di simbolo significativo”7. L’evocazione della stessa risposta tanto nel

Sé che nell’altro fornisce il contenuto necessario per garantire la comunità del significato.

Ma l’intenzionalità vuol dire anche aver consapevolezza di rivolgere la propria comunicazione

verso l’altro: indirizzo la mia comunicazione non solo verso di lui ma tengo anche conto di lui nella

mia comunicazione. E’ in altri termini la capacità di assumere il ruolo dell’altro, la prospettiva

dell’altro. Sempre Mead ci aiuta a comprendere questo significato dell’intenzionalità. Egli infatti

teorizzò che gli esseri umani iniziano a conoscere il mondo sociale tramite il “gioco2 e la

“competizione”. Nello sviluppo dei bambini vi è innanzitutto il “gioco”. I bambini assumono i

diversi ruoli che osservano nella società “adulta” e interpretandoli, giocando essi cercano di

6 Mead G.H., Mind, Self and Society, Chicago, The University of Chicago Press, 1934 (trad. it. Mente, sè e società, Firenze, Giunti e Barbera, 1972). 7 Ibidem.

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acquisire una comprensione dei differenti ruoli sociali. E’ proprio grazie a questo “gioco”, a questa

comprensione dell’altro che è possibile comunicare efficacemente.

Tuttavia diversi autori sostengono il contrario ovvero che non occorre alcuna intenzione da

parte dell’emittente di comunicare perché ci sia comunicazione. Una azione non implica

necessariamente un particolare significato comunicativo. Il punto secondo Gili è che se pur non

esiste un’intenzione dell’emittente, l’azione può assumere un significato comunicativo per colui che

la osserva ovvero per un soggetto presente all’azione che assume il ruolo di ricevente. Ad esempio

se sono seduto su una panchina e leggo un libro, un passante che si siede al mio fianco interpreta il

mio comportamento assume cioè il mio ruolo e non cercherà di attaccare un discorso. Ciò vuol dire

che è lui che rivolgendosi verso di me (emittente), intuendo le mie intenzioni di non voler

conversare, attribuisce un significato (comunicativo) al mio comportamento e si comporta di

conseguenza.

In altre parole, potrebbe anche non esserci una intenzionalità dell’emittente, ma non ci può

essere relazione comunicativa senza l’intenzionalità del ricevente.

INTERESSE. In ogni relazione comunicativa c’è un interesse dell’emittente a rivolgere un

messaggio al ricevente e del ricevente a prestare ascolto. L’interesse dei partecipanti ad una

relazione comunicativa produce una “cooperazione” che consente ad essi di perseguire il loro scopo

comunicativo. Cooperare non vuol dire necessariamente condividere gli stessi scopi o approvare il

comportamento dell’altro. Si possono verificare casi in cui esiste complementarietà di interessi pur

in presenza di interessi diversi. E’ il caso ad esempio della relazione comunicativa che si instaura

attraverso i mass media. L’emittente ha sempre un interesse a comunicare ma non può costringere

nessuno a connettersi, quindi deve esserci l’interesse del ricevente che non può essere imposto

della’emittente. Anche nelle forme di comunicazione conflittuale e violenta può esserci interesse

reciproco ad affrontarsi per essere riconosciuto dall’ostilità e dall’odio dell’altro in quanto suo pari.

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IMPEGNO. Si legge nella Pragmatica della Comunicazione Umana8 che “ogni

comunicazione implica un impegno e perciò definisce la relazione. E' un altro modo per dire che

una comunicazione non soltanto trasmette informazione, ma al tempo stesso impone un

comportamento.” Ogni comunicazione ha un aspetto informativo, di contenuto, e un aspetto di

“comando”, di relazione. Ed è questo secondo aspetto che imprime una forma al contenuto, che ne

definisce il significato come metacomunicazione. La disponibilità ad impegnarsi e a sacrificare

energie dipende dall’interesse e dalla motivazione a comunicare, senza i quali non si è disposti ad

affrontare la comunicazione.

L’impegno/sforzo si manifesta in due processi: nell’apprendimento delle capacità e delle

competenze comunicative necessarie alla comunicazione e nell’organizzazione.

L’interiorizzazione e la conoscenza dei codici comunicativi sono aspetti del più complesso

processo di socializzazione, processo di apprendimento che porta gli individui, inseriti in un

determinato contesto sociale e culturale dal quale assimilano le norme e condividono il linguaggio e

il riferimento ai valori, a preferire specifici codici di comportamento, modalità e dinamiche,

interpretazioni della realtà sociale. Anche la capacità di assunzione del ruolo dell’altro è un aspetto

rivelante che attiene al processo di socializzazione e comporta un percorso spesso complesso e

faticoso.

La comunicazione richiede poi uno sforzo nell’organizzazione. Anche questo aspetto è un

sistema complesso che richiede un impegno e un’azione congiunta di forze per l’organizzazione dei

grandi sistemi della comunicazione mediatica o più semplicemente di uno spettacolo teatrale o di un

concerto.

8 Watzlawick Paul, Beavin J. H., Jackson D. D. Pragmatica della comunicazione umana. Studio dei modelli interattivi, delle patologie e dei paradossi Astrolabio Ubaldini 1971.

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5 Le condizioni e pre-requisiti strutturali della comunicazione

Le condizioni e i pre-requisiti che consentono, influenzano e condizionano la relazione

comunicativa sono:

La condivisione di un mondo comune

La posizione/status sociale degli interlocutori

Il possesso/conoscenza di codici e canali

Un mondo comune. Per mondo comune si deve intendere la condivisione di conoscenze,

valori, significati, simboli, norme di una società o di un gruppo sociale o più semplicemente si

potrebbe parlare di cultura. La definizione del concetto di cultura implica infatti, altre componenti

quali i valori, le norme, i concetti e i simboli. Émile Durkheim, ponendosi il problema del perché la

società mantenga un livello minimo di coesione, ritiene che ogni società si stabilisce e permane solo

se si costituisce come comunità simbolica. Nel suo studio, e in quello dei suoi allievi, hanno una

grande importanza le rappresentazioni collettive, cioè insiemi di norme e credenze condivise da un

gruppo sociale, sentite dagli individui come obbligatorie. Esse sono considerate da Durkheim vere e

proprie istituzioni sociali che costituiscono il cemento della società, consentendo la comunicazione

tra i suoi membri e mutando con il cambiamento sociale. Il possesso di una struttura semantica

comune che deriva dall’appartenenza a uno stesso “contesto” fa sì che coloro che comunicano

possano intendersi e attribuire lo stesso significato ai messaggi. Quindi, si può senz’altro affermare

che la comunicazione umana è senz’altro una dimensione della cultura.

Ma noi apparteniamo e veniamo in contatto con molteplici culture così da creare la nostra

identità individuale in un sistema complesso. Un tempo l’identità individuale veniva a coincidere

con l’identità sociale, strutturata esternamente al singolo. Era l’habitus permanente che ci veniva

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fatto indossare inserendoci in un ben preciso ambito di interazioni significative e significanti.

Ciò limitava indubbiamente la libertà d’azione, di scelta e di pensiero, ma offriva una rete stabile di

significati che ci accompagnava per tutta la vita, determinando comportamenti, aspettative e il

nostro spazio sociale e interattivo, garantendo una sorta di stabilità.

Si tratta però di una visione della società desueta e ormai difficilmente applicabile nel mondo

contemporaneo, che con i suoi canali di in-formazione, i suoi molteplici modelli individuali

veicolati dai mass-media e dalla pubblicità, offre tantissimi nuclei di socializzazione creando

diversificate e reversibili identità sociali.

Pur con questa pluralità e, talvolta, indeterminatezza, l’identità individuale nasce e si compone

da una pluralità di appartenenze e di riferimenti, più o meno coerenti tra loro, più o meno stabili e

duraturi. Nonostante questa diversità di componenti l’individuo agisce entro i confini della cultura

che sono anche i confini della comprensione/incomprensione. L’incomprensione si riduce

all’interno delle stesse categorie sociali e tra coloro che condividono la stessa cultura .

La posizione/status sociale. La posizione che i soggetti occupano in una relazione

comunicativa rispecchia lo status che essi hanno in una società o in un gruppo sociale. Le azioni

degli individui riproducono i modelli di comportamento, le norme e i valori che questi hanno nella

società. Danzinger suddivide le relazioni sociali in base a tre dimensioni: verticale, orizzontale e

della profondità. La dimensione verticale è l’asse dello status, della posizione sociale ed esprime le

differenze e la gerarchia sociale. La dimensione orizzontale è la dimensione dell’uguaglianza e della

solidarietà; caratterizza la relazione tra coloro che occupano la stessa posizione o lo stesso status e

possono avere rapporti più o meno stretti. La dimensione della profondità esprime le relazioni di

intimità tra le persone.

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Questo schema delle relazioni sociali influenza in modo significativo anche le forme di

comunicazione. Le regole sociali diventano così anche regole comunicative.

Le forme e i modi che si utilizzano indicano che tipo di relazione sociale lega due persone che

comunicano. Nel caso di relazioni verticali con ruoli asimmetrici ad esempio gli allocutivi

assumono una forma asimmetrica. Colui che occupa una posizione superiore userà una formula

confidenziale come il “tu” e colui che occupa una posizione inferiore si troverà ad usare una

formula di deferenza nei confronti del suo superiore. Diversa invece la situazione di due persone

che si trovano in una stessa posizione sociale. Queste useranno delle formule più o meno

distanziate. Nel caso invece di rapporti di intimità si useranno addirittura diminuitivi o soprannomi.

Anche la prossemica, cioè la definizione delle distanze personali in funzione comunicativa,

segue le regole sociali. Hall9 nel 1966 ha individuato quattro tipi diversi di distanza che ci separano

dagli altri a seconda del tipo di relazione che abbiamo con gli altri. il principale criterio con il quale

9 Hall E. The Hidden Dimension, New York, Doubleday, 1966 (Trad. it. Il linguaggio silenzioso, Milano, Bompiani 1968.

posizione/status sociale

Intimità delle relazioni

Eguaglianza/solidarietà

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Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

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selezioniamo le persone che ci circondano è dato dal tipo di relazione interpersonale, dalla

maggiore o minore familiarità.

C’è una distanza intima in cui ci si può toccare facilmente con l’altro individuo, e a questa

distanza accedono solo le persone con cui si hanno familiarità e fiducia, una distanza personale che

necessita di uno spostamento in avanti il proprio baricentro corporeo. A questa distanza si svolgono

le relazioni caratterizzate da una buona familiarità. Nella distanza sociale per toccarsi è necessario

lo sforzo di entrambi gli individui partecipanti all’interazione. È la distanza tipica delle relazioni

sociali di tipo formale. E infine la distanza pubblica è usata negli avvenimenti pubblici. Di solito si

tende a mantenere una distanza inferiore con persone con le quali vi è maggiore affinità. Nonostante

ciò, va sottolineato che è molto importante non invadere la zona personale del nostro interlocutore,

a meno che non si siano ricevuti segnali che abbiano mostrato disponibilità da parte sua. La regola

della non invadenza segue la regola sociale che impone il rispetto delle distanze.

io

“Il linguaggio silenzioso” della prossemica di Hall

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Gili quindi dice che le regole comunicative della prossemica sono anche regole sociali e il

rapporto sociale detta le corrette modalità che consentono al linguaggio silenzioso delle distanze

interpersonali di essere correttamente inteso e decodificato.

Il possesso/conoscenza di codici e canali. Una terza condizione strutturale da condividere

sono i mezzi di comunicazione. Gli elementi fondamentali a cui si fa riferimento sono i codici

(linguistici, paralinguistici, cinesici e prossemici ) e i canali (naturali e artificiali). Il codice è il

sistema di segni dai significati condivisi che ci permette di comunicare. I significati, ovvero le cose

che vogliamo comunicare, sono inizialmente solo all’interno della nostra mente. Per poter uscire

all’esterno, debbono essere codificati, ovvero tradotti in suoni, gesti, segni che possiedano un

significato condiviso. Se non fossimo in grado di associare a una serie di segni discreti dei

significati non potremmo comunicare nulla, o quasi nulla. L’uomo dispone di una complessa serie

di codici di cui può fare un uso creativo: ad esempio il linguaggio, o i gesti, ecc.

Secondo Umberto Eco, la semiotica (ovvero la scienza che studia i segni) è la scienza che

studia "tutto ciò che può essere utilizzato per mentire". Affermazione paradossale, ma condivisibile:

solo quando si è in grado di mentire utilizzando un codice di segni, si raggiunto il grado di

consapevolezza necessario a parlare di comunicazione umana. Ma un processo di comunicazione

reale non è solo un astratto trasferimento di informazioni codificate.

I veicoli sui cui viaggia l’informazione, i segnali, sono entità fisiche: possono essere corpi

fisici, o flussi di energia, come vibrazioni sonore, correnti elettriche, radiazioni elettromagnetiche.

Per trasmettere e ricevere informazione sono dunque necessari degli apparati fisici, in grado di

produrre energia o oggetti, di trasferirli e riceverli, attraverso un canale, e percepirli mediante dei

recettori. L’evoluzione ha dotato il nostro organismo di alcuni apparati naturali di trasmissione e

ricezione: l’apparato vocale è un esempio dei primi, così come la capacità di movimento di alcuni

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arti, che ci consentono di gesticolare; l’apparato uditivo e quello visivo sono esempi dei secondi.

Tuttavia questi apparati naturali hanno molti limiti. In primo luogo non ci permettono di

comunicare a grandi distanze. La voce, ad esempio, riesce a “viaggiare”, conservando la sua

capacità di veicolare informazione, per poche decine di metri. E i nostri occhi possono percepire

solo le radiazioni dello spettro visivo che giungono loro in linea retta. Inoltre i nostri apparati di

comunicazione naturale non ci permettono di conservare l’informazione in modo stabile nel tempo.

Per aumentare la sua capacità di comunicare e di conservare l’informazione nel tempo e

nello spazio, dunque, l’uomo è stato costretto ad estendere le potenzialità dei suoi apparati naturali

mediante degli apparati artificiali di comunicazione. Questi apparati sono le tecnologie della

comunicazione. Dobbiamo allo studioso canadese Marshall McLuhan l’idea che lo studio della

comunicazione umana non possa prescindere da una analisi delle tecnologie della comunicazione.

Nei suoi molti libri e saggi, scritti a partire dagli anni 60, McLuhan ha proposto una analisi

innovativa ed affascinante di numerosi strumenti della comunicazione, dalla scrittura fino alla

televisione ed ai computer (anche se purtroppo è scomparso prima della nascita e della diffusione

del personal computer, che è stato il primo vero propulsore della rivoluzione digitale). Per designare

tali strumenti egli ha utilizzato il termine media (in latino medium significa mezzo), che è divenuto

uno dei termini chiave nelle scienze della comunicazione.

Uno dei punti su cui la controversia si è maggiormente soffermata riguarda proprio il

concetto di medium. Egli, infatti, non ne ha mai dato una definizione rigorosa, limitandosi a scrivere

che un medium è “qualsiasi tecnologia che crei estensioni del corpo e dei sensi, dall’abbigliamento

al calcolatore”. In questo modo fu portato a riunire in una sola categoria fenomeni che ricadono

nella sfera dei codici, come il linguaggio verbale e le scrittura, tecnologie che faremmo rientrare tra

i canali della comunicazione, come la stampa, l’elettricità ed il telefono, o altri che diremmo

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piuttosto messaggi, come gli abiti, o i quadri. E non solo: per McLuhan anche il treno, le autostrade,

l’automazione nelle fabbriche erano dei media.

Ancora più controversa è stata la sua celebre affermazione “il medium è il messaggio”.

Molti hanno interpretato questo aforisma nel senso che nella comunicazione ciò che conta non è il

contenuto, quello che si vuole comunicare, ma il mezzo strumentale utilizzato per comunicare. E

dunque, se ne potrebbe dedurre, il contenuto è ininfluente. Se si tiene conto che questa affermazione

cadeva proprio nel mezzo della polemica scatenatasi negli anni 60 sulla funzione dei mezzi di

comunicazione di massa (e soprattutto della televisione) nei processi di massificazione culturale, ci

si può rendere conto della sua carica provocatoria, e della conseguente reazione di gran parte degli

intellettuali tradizionali.

In realtà, ad una lettura più attenta, e fatta a distanza di alcuni decenni, ci accorgiamo che

dietro alle riflessioni di McLuhan ci sono delle intuizioni importanti e per molti versi

straordinariamente anticipatorie. In primo luogo, pur se in mezzo a molte oscillazioni ed oggettive

contraddizioni, il concetto di medium che egli cercava di elaborare non coincide con quello di

apparato tecnico di comunicazione in senso ingegneristico. Piuttosto egli usava il termine per

indicare il complesso sistema costituito da un apparato tecnologico, dalle relazioni tra tale apparato

e i processi percettivi e cognitivi dell’uomo, dal rapporto tra apparato e linguaggi della

comunicazione, dalla funzione che tale sistema assume nel contesto delle relazioni sociali. Talvolta

uno di questi aspetti veniva accentuato in una singola trattazione o affermazione, ma una visione di

insieme ci restituisce questa idea complessa ed assai produttiva del concetto di medium.

A partire da questa idea relazionale dei media, possiamo anche reinterpretare la provocatoria

affermazione che il medium è il messaggio: nel momento in cui la comunicazione viene mediata da

un apparato strumentale artificiale, qualsiasi esso sia, le caratteristiche tecniche di tale apparato

agiscono sulla percezione del messaggio stesso, definendo il campo di possibilità entro cui possono

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svilupparsi sia la forma sia i contenuti della comunicazione. E poiché la comunicazione è il

fondamento su cui si basano sia il pensiero e la conoscenza individuale, sia quella forma di pensiero

e conoscenza collettiva che chiamiamo cultura, ne consegue che la natura degli strumenti del

comunicare diventa un fattore di trasformazione del pensiero, della cultura e dunque della società.

Per una adeguata trasmissione e comprensione dei significati, in ogni caso, i partecipanti

alla comunicazione devono disporre di:

competenze linguistiche, che riguardano la comprensione e l’uso del

codice linguistico (competenza fonologica, sintattica, semantica). Secondo Chomsky

la competenza linguistica si esprime nell’idea di Grammatica Universale, cioè

nell’insieme di principi e di regole che governano tutte le lingue umane,

indipendentemente da come queste vengono poi utilizzate. La competenza

linguistica dovrebbe quindi descrivere la lingua per capire come nelle

rappresentazioni mentali si associano forme e significati. L’essere competenti in una

lingua significa saper generare frasi che siano riconosciute come tali dagli altri

membri di quella lingua.

competenze non verbali, che riguardano la comprensione e l’uso di

codice di tipo non verbale (paralinguistica, cinesica e prossemica).

La comunicazione non verbale è quella parte della comunicazione che

comprende tutti gli aspetti di uno scambio comunicativo non concernenti il livello

puramente semantico del messaggio, ossia il significato letterale delle parole che

compongono il messaggio stesso.

Generalmente si tende a considerare questo tipo di comunicazione come

universalmente comprensibile, al punto da poter trascendere le barriere linguistiche.

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In effetti i meccanismi dai quali scaturisce la comunicazione non verbale sono assai

simili in tutte le culture, ma ogni cultura tende a rielaborare in maniera differente i

messaggi non verbali. Ciò vuol dire che forme di comunicazione non verbale

perfettamente comprensibili per le persone appartenenti ad una determinata cultura,

possono invece essere, per chi ha un altro retaggio culturale, assolutamente

incomprensibili o addirittura avere un significato opposto a quello che si intendeva

trasmettere.

competenze specifiche legate all’uso di codici artificiali, quali la

scrittura ma anche la capacità di saper riconoscere e usare codici e linguaggi di altri

media.

Il rapporto tra media e linguaggio, infatti, non è mai estrinseco e strumentale.

Al contrario ogni medium ha la tendenza a generare un linguaggio comunicativo suo

proprio, o a modificare profondamente le caratteristiche dei linguaggi che, prima

della sua comparsa, erano veicolati da media differenti. Questo processo può

richiedere un tempo più o meno lungo. In una prima fase infatti ogni nuovo medium

comunicativo cerca di utilizzare i linguaggi e i modelli comunicativi delle tecnologie

che lo precedevano. Ma successivamente le caratteristiche tecniche del nuovo

strumento influenzano tale linguaggio, fino a modificarlo profondamente o a

produrne uno nuovo.

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