1.3. Aggressività: cos’è e come si manifesta p. 20 1.4. Il bullismo … · 2009. 6. 9. · 1.3....
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INDICE
INTRODUZIONE P. I
CAPITOLO Ι DISAGIO GIOVANILE E DEVIANZA
1.1. Disagio, disadattamento e devianza p. 1
1.2. Aggressività come indicatore di disagio, disadattamento e devianza p. 11
1.2.1. Il piano sociologico p. 12
1.2.2. Il piano psicologico p. 17
1.2.3. Il piano bio-medico p. 19
1.3. Aggressività: cos’è e come si manifesta p. 20
1.4. Il bullismo p. 25
1.4.1. Tipi di bullismo p. 33
1.4.2. Il bullo p. 35
1.4.2.1. Il bullo aggressivo p. 37
1.4.2.2. Il bullo ansioso p. 38
1.4.2.3. Il bullo passivo p. 39
1.4.2.4. Bulli temporanei p. 40
1.4.3. La vittima p. 41
1.4.3.1. La vittima passiva p. 42
1.4.3.2. La vittima che provoca p. 43
1.4.3.3. Lo spettatore silenzioso p. 44
CAPITOLO ΙΙ IL GRUPPO DI PARI TRA “CENTRO” E “PERIFERIA”
2.1. Le caratteristiche del gruppo dei pari p. 48
2.2. Il linguaggio adolescenziale e la cultura Hip Hop p. 58
2.2.1. Il gergo p. 61
2.2.2. La cultura Hip Hop p. 65
2.3. I luoghi di aggregazione p. 69
2.3.1. La scuola p. 70
2.3.2. I centri aggregazionali p. 71
2.4. La strada e il tempo libero p. 74
2.4.1. Il tempo libero p. 77
CAPITOLO ΙΙΙ EDUCARE IN STRADA
3.1. Cos’è l’educazione di strada p. 80
3.1.1. La strada come luogo educativo p. 89
3.2. Ruolo e compiti dell’educatore di strada p. 91
3.3. Intervista ad un operatore p. 98
3.3.1. L’intervista p. 98
3.4. Il progetto “On The Road” p. 104
3.4.1. Ex legge 285/97 una legge a tutela dei minori p. 104
3.4.2. Il progetto p. 106
ΙNTRODUZIONE
Il fenomeno delle bande giovanili è una realtà immanente nella società
contemporanea e allo stesso tempo è un argomento problematico da affrontare
data la particolare fase evolutiva in cui si trovano gli adolescenti.
E' solo uno stereotipo culturale la convinzione, piuttosto diffusa, che
l'infanzia e l'adolescenza costituiscano una irrepetibile fase della vita umana
in cui non sono presenti preoccupazioni e angosce e l'esistenza scorre sempre
in una atmosfera serena e gioiosa. In realtà la condizione di chi si affaccia alla
vita è tutt'altro che facile: la fatica di crescere è notevole perché l'esperienza
di fallimento è continua, perché i dubbi predominano sulle certezze, perché
un profondo disagio è sempre presente anche se spesso non viene esplicitato.
La condizione di disagio è comune a tutta la generazione che si apre
alla vita ed il bisogno di un particolare e significativo sostegno da parte della
famiglia e della società in generale è identico per tutti i soggetti in
formazione. Alcuni, purtroppo, aggiungono alle normali difficoltà del
processo evolutivo situazioni di insufficienze oggettive individuali, familiari e
sociali che rendono molto più a rischio l'itinerario evolutivo e che rendono più
facile che il disagio si trasformi in disadattamento prima e devianza poi.
Alla base del fenomeno delle bande giovanili vi è appunto un disagio
caratteristico dell’età adolescenziale che può rimanere inespresso, ma che in
alcuni casi può portare alla devianza vera e propria. La mia analisi del
fenomeno delle bande giovanili parte proprio dallo studio del disagio in tutte
le sue forme, come base, per poi analizzare i vari comportamenti devianti
I
caratteristici dell’età adolescenziale. Uno di questi è proprio il bullismo che si
costituisce come una degenerazione del comportamento aggressivo degli
adolescenti, in cui si assiste a prevaricazione, minacce, ricatti e aggressioni
fisiche da parte di un ragazzo o gruppi di ragazzi verso compagni della loro
stessa età. È stato questo l’argomento della prima parte del mio lavoro.
Nella seconda parte invece, ho analizzato le caratteristiche dei “gruppi”
di giovani, le abitudini, il modo di interagire tra loro e con la società, ed infine
il contesto in cui vivono. Durante l’adolescenza infatti, il giovane sente
l’esigenza di staccarsi dalla famiglia per intraprendere rapporti significativi
con i coetanei. Se, da una certa età in poi, la conferma della propria identità
viene ricercata fuori dai rapporti familiari, si può facilmente immaginare
quanta importanza abbiano i coetanei, soprattutto i compagni di classe,
durante l’adolescenza e quanto il rapporto con loro possa influire sul proprio
stato d’animo.
I giovani ricercano se stessi, prendendo le distanze dagli adulti, con un
linguaggio tutto loro cui solo loro hanno accesso o con il linguaggio del corpo
che sostituisce quello dell’abito; non più capi firmati dalla testa ai piedi per
proclamare una identità, ma tatuaggi e piercing, anche segreti, che parlano a
loro stessi e ai membri della stessa compagnia, in privato. Tutto ciò porta alla
formazione di una vera e propria subcultura, alternativa a quella degli adulti.
Ma per una riflessione adeguata sui giovani e sul loro modo di vivere
non si può prescindere dall’analisi dei luoghi in cui i giovani trascorrono il
loro tempo libero, i luoghi in cui i giovani si incontrano ed hanno modo di
interagire tra di loro. Luoghi che possono essere formali o informali. Tra i
II
luoghi formali c’è sicuramente la scuola che costituisce il primo luogo in cui
un giovane può incontrare i suoi coetanei. Tra i luoghi informali invece, il più
importante è la strada, la piazza, il parcheggio, il muretto, le vie, i cortili,
giardini, campetti e panchine sono i luoghi della strada in cui i ragazzi si
ritrovano.
La strada rappresenta il luogo in cui i giovani ricercano l’aggregazione,
è il luogo dove si creano culture alternative, stili e modelli di comportamento,
ma è anche il luogo del disagio, di situazioni a rischio di emarginazione e
devianza se non addirittura di irrecuperabilità.
È in questo contesto che si colloca l’argomento della terza parte del
mio lavoro che si propone di offrire una risposta alla situazione di disagio in
cui si trovano i giovani che hanno fatto della strada il loro primo luogo
d’incontro. Questa risposta è costituita dal lavoro di strada. L’educativa di
strada è un approccio pedagogico che ha l’obiettivo di trasformare la strada da
luogo che produce disagio a spazio di relazioni e socialità in cui tanti ragazzi
crescono e passano il loro tempo. Questa metodologia, ad ogni modo,
rappresenta una rivoluzione rispetto alla tradizionale logica di intervento
educativo, secondo cui l’utente deve incontrare gli operatori recandosi nei
luoghi strutturati e predisposti a fornire servizi. In questo caso è l’educatore
che va incontro e raggiunge gli adolescenti nei luoghi della loro quotidianità.
Per approfondire i temi trattati precedentemente e per avere una
visione totale dell’argomento, ho pensato che sarebbe stato utile avere un
responso “sul campo”. È per questo che ho deciso di contattare un’educatrice
di strada, la quale mi ha fornito, attraverso una breve intervista, informazioni
III
dettagliate circa l’educativa di strada ed in particolare sul progetto svolto
dalla cooperativa per cui lavora.
Il risultato di questo incontro, è stato la possibilità di raccontare la vita
di questi operatori ed illustrare dettagliatamente il progetto “On the Road”,
che li ha visti protagonisti.
IV
CAPITOLO I: DISAGIO GIOVANILE E DEVIANZA
1.1. Disagio, disadattamento e devianza
L’identità dell’adolescente e del pre-adolescente è mutata nel corso
degli ultimi decenni con l’avvento della “società di massa”, della “società dei
consumi”, della cultura dei “media” e poi della crisi e trasformazione della
famiglia, del mutamento radicale dei valori sociali, dello stile di vita
complessivo. Il pre-adolescente e l’adolescente sono oggi dentro una fase
della vita che si è prolungata, per la dipendenza dalla famiglia, per
l’insicurezza economica, per lo stare a lungo in formazione. Tutto ciò
provoca disagio espresso in molte forme: nel ribellismo; nell’auto-lesionismo
(tipo bulimia o anoressia), nel vivere al limite le esperienze (sfide coi motori,
etc.) e delinea uno stato d’animo diffuso di tensione, di rabbia, di insofferenza
che si manifesta in famiglia, nella società e anche nella scuola con
atteggiamenti di rifiuto delle regole, di indifferenza alla cultura, di resistenza
all’impegno.
Questo, però, manifesta un disagio profondo di cui la scuola non può
ignorare l’esistenza, anzi: lo deve saper riconoscere e prepararsi a trattarlo
senza demarcarlo come devianza. Deve saperlo capire: cioè diagnosticare,
interpretare e affrontare.
Sempre più spesso capita di non distinguere più i reali significati dei
termini, utili a dare un giusto peso al lavoro degli operatori sociali così, il
1
termine “devianza” appare facilmente sostituibile da quello di “disagio”,
oppure il “disadattamento” con quello di “emarginazione”.
In realtà, per comprendere correttamente questi termini occorre
conoscere le trasformazioni che hanno caratterizzato la nostra società negli
ultimi decenni. È avvenuta infatti, una modifica nel rapporto tra mondo
dell’infanzia e quello degli adulti e una modifica nel rapporto dei più giovani
con la famiglia e la società. Nuove forme di disagio e di povertà incombono
su questo universo ed incidono sulla qualità della vita. Alcune delle principali
cause della situazione a rischio dei giovani possono essere individuate
nell’altalenarsi delle relazioni significative, nella scarsa frequenza dei rapporti
di tipo primario e nell’inadeguatezza e precarietà delle relazioni familiari.
Per tutti questi motivi quindi appare evidente l’esigenza di prestare una
maggiore attenzione a questa fascia d’età e di conseguenza quella di attribuire
ad ogni termine il corretto significato. Per fare ciò è indispensabile analizzare
i quattro periodi che hanno caratterizzato il malessere giovanile:
1. in un primo periodo, intorno agli anni sessanta, c’è stata una
forte presenza di manifestazioni organizzate e visibili dell’insoddisfazione
giovanile. I giovani cominciarono a porre seri problemi di controllo sociale e
a farsi portavoce delle trasformazioni sociali di quei tempi. Nacque così un
primo interesse della ricerca sociale nei loro confronti;
2. negli anni settanta, i giovani furono attori passivi del diffondersi
della disoccupazione giovanili e attori attivi della rivoluzione elettorale che
provocò un aumento dei consensi nei confronti della sinistra. La categoria
2
giovanile fu anche considerata come “classe” sfruttata dal mercato del lavoro
e dell’industria, una classe priva di diritti e opportunità;
3. nella terza fase, intorno agli anni ottanta, i giovani furono
considerati un problema degli adulti che, di fronte ad un futuro incerto,
investivano i figli delle loro attese e speranze. In questa fase si introdusse la
convinzione che il concetto di disagio fosse sintomo della difficoltà degli
operatori e dei ricercatori di inquadrare il malessere diffuso tra i giovani;
4. la quarta fase, infine, stabilisce il progressivo dissolversi del
concetto di disagio a causa dell’estendersi dei suoi vari significati. Si può
quindi definire il disagio come frutto dell’incapacità di trovare una soluzione
alla contraddizione fra centralità soggettiva e marginalità oggettiva1.
Esiste, tuttavia, un’ampia letteratura sul disagio giovanile, i cui termini
correlati sono disadattamento, devianza, marginalità. Associata ad esso è una
vasta tipologia di comportamenti messi in atto da soggetti in età evolutiva,
soprattutto preadolescenti e adolescenti, con un livello di gravità variabile. Si
parla di disagio:
non grave: che consiste in stati di malessere per esperienze di
insuccesso (scolastico, sportivo, relazionale) e che si esprime con
comportamenti di chiusura, di aggressività, di autosvalutazione;
intermedio, che si manifesta con comportamenti trasgressivi
spesso agiti nel gruppo e con il gruppo (uso occasionale di stupefacenti,
appartenenza a bande, intimidazioni a soggetti più deboli);
1Cfr., P. ALLUM, DIAMANTI, 50/’80, Vent’anni, Lavoro edizioni., Roma 1986.
3
grave, che si manifesta con comportamenti autolesivi (bulimia,
anoressia, tossicodipendenza) e trasgressivi illegali (furti, spaccio,
ricettazione).2
Il disagio, quindi, è uno stato di malessere riferito al soggetto prima
che ad un ambiente esterno ad esso e può essere:
evolutivo: è il disagio legato alla crisi di crescita. Lo si ritrova in
tutte le epoche storiche, è un disagio transitorio e superabile3. Può
manifestarsi attraverso la conflittualità con i genitori o con attacchi di
malinconia;
socio-culturale: è il disagio legato al fatto di vivere in una
società complessa e in transizione. È tipico della società del benessere e come
quello evolutivo è superabile. L’adolescente è disorientato, confuso ed
incapace di orizzontarsi in questa complessità.
cronicizzante: è il disagio di quella minoranza che non avendo
risorse sufficienti si trova in una situazione di inadeguatezza. Rappresenta la
linea di confine tra disagio e disadattamento.
Il disagio scolastico è un esempio del disagio giovanile, che può
manifestarsi con comportamenti di disturbo in classe, irrequietezza,
iperattività, difficoltà di apprendimento,di attenzione, difficoltà di inserimento
nel gruppo.
2 Cfr. M. COLOMBO,articolo, Politiche Sociali e Servizi,1994. 3 Il disagio evolutivo può essere identificato con il disagio adolescenziale in cui il soggetto
si trova in una fase di transizione tra età infantile ed età adolescenziale, naturalmente il bambino non è preparato ai vari mutamenti nella sua persona, sia a livello affettivo e cognitivo, che a livello fisico e può reagirvi in modi differenti. Sono proprio questi cambiamenti a provocare disagio.
4
Quindi è un fenomeno complesso legato sì alla scuola, come luogo di
insorgenza e di mantenimento, ma anche a variabili personali e sociali, come
le caratteristiche di personalità da una parte e la situazione familiare dall’altra.
Pensare a semplici spiegazioni causali per individuare i fattori responsabili
del disagio è riduttivo e potrebbe essere fuorviante.
Il disagio evolutivo, inoltre, può scatenare nei soggetti più deboli ed
esposti vere e proprie forme di disadattamento ed in questo senso il disagio
appare:
relazionale, perché interessa i rapporti che il giovane instaura con
se stesso, con la famiglia, con la scuola, con la religione, con i coetanei e con
i gruppi;
dinamico, perché è un fenomeno che può aumentare o diminuire
a seconda delle risposte e degli stimoli che il soggetto riceve dall’ambiente
educativo, connesso cioè, con gli atteggiamenti e gli stili
educativi che la famiglia e le altre agenzie formative riescono ad instaurare;
socio-culturale, in quanto collegato con condizioni strutturali di
vita che possono contenerlo.
Tutto ciò conferma come il disagio e il disadattamento siano connessi
ai processi di formazione dell’identità e si producono nell’ampia rete di
relazioni in cui l’adolescente vive questo delicato momento della sua
esistenza.
5
L’uso a volte equivoco dei termini con cui si segnalano all’attenzione
degli studiosi e degli operatori i comportamenti dei minori “difficili”, richiede
una riconsiderazione anche dei concetti di marginalità4 e devianza.
Il concetto di “marginalità”, in particolare, è stato frequentemente
associato alla condizione minorile, e per comprenderlo nel suo spessore è
importante sottolineare che esistono diverse teorie che ne evidenziano le
caratteristiche, ma queste analisi sono state condotte per lo più su un piano
economico, in quanto pochi autori hanno affrontato il problema sul piano
culturale.
Secondo F. Ferrarotti “va inteso come marginale quel gruppo sociale
che vive e si è insediato lontano dal centro”5. Secondo F. Alberoni e G.
Baglioni invece, “nel marginale i livelli di aspirazione sono modesti, il
marginale secondo loro ha interiorizzato la scarsità come stile di vita, è
disposto alla rinuncia, diffida di un inquadramento economico-politico e le
sue aspettative sono disgreganti rispetto alla realtà razionalizzata”6.
Anche E. Fromm, che “definisce la marginalità psicologica come un
fallimento esistenziale da collegare alla irrazionalità dei comportamenti
sottolinea come i marginali abbiano relazioni primarie ed espressive, un
4 Il termine marginalità indica in sociologia, la non partecipazione, propria dei gruppi
marginali, ai privilegi propri delle strutture sociali, infatti i gruppi marginali sono proprio quelli che vivono ai margini delle strutture sociali
5F. FERRAROTTI, Sviluppo urbano e marginalità sociale, in La critica sociologica, 1970, n. 29, pp 151-155.
6 Cfr. F. ALBERONI, G. BAGLIONI, L’integrazione dell’immigrato nella società industriale, Il Mulino, Bologna 1965.
6
controllo sulle tensioni più debole, ma nel contempo hanno una struttura
morale e culturale più forte”7.
Tuttavia, è stato opportunamente notato che occorre distinguere la
marginalità a livello di personalità dalla marginalità come situazione sociale,
essendo la prima un problema a carattere culturale e psicosociale e la seconda
il risultato di condizioni storico-culturali.
Il presupposto comune, in ogni caso, è che la definizione di marginalità
non caratterizza per un gruppo solo la mancanza di partecipazione bensì la
mancanza di partecipazione in quelle sfere che si considerano dover essere
incluse nel raggio di azione e di accesso dell’individuo o del gruppo.
In questa prospettiva la “devianza” si può caratterizzare come una delle
strategie di risposta messe in atto consapevolmente da soggetti in condizione
di marginalità rispetto alla fruizione delle risorse sociali. La devianza, quindi,
sarebbe nello stesso tempo, un indicatore, causa ed effetto di una società nel
suo complesso malata8.
L’esistenza di culture devianti con regole, tradizioni, codici
comportamentali, rivela infatti un mondo che vive ai margini della società, ed
è questa marginalizzazione che costituisce un concetto chiave
nell’interpretazione della devianza, poiché determina processi di
autoesclusione dei soggetti che non si identificano con la cultura della società.
7E. FROMM, Fuga dalla libertà, trad. dall’inglese, , Editore di Comunità Milano, 1972;
Anatomia della distruttività, , Mondatori, Milano 1975, p. 331. 8 Con il termine devianza si intende, nel senso generale del termine, l’allontanamento
patologico da ciò che è normale per natura o imposto come regola, quindi, ancora più in generale si configura come un allontanamento dalla norma. Nel senso più specifico però, la devianza rappresenta la risposta degli individui che, trovandosi in una situazione marginale all’interno della società di appartenenza, assumono comportamenti non conformi alle regole della società stessa, generando un ulteriore motivo di emarginazione dalla vita sociale.
7
In questi anni più recenti, tuttavia, l’ottica si è alquanto modificata perché la
marginalità è ricondotta non solo all’autoesclusione dei soggetti, ma anche
alla organizzazione emarginante delle realtà urbane e sociali spesso dettate da
ragioni politico-economiche9.
Tutti i giovani, infatti, non possono fruire, nella maggior parte dei casi
di spazi e servizi idonei alla promozione sociale, culturale ed alla costruttiva
utilizzazione del tempo libero, e questo discorso vale soprattutto per i giovani
delle periferie urbane, la cui marginalizzazione si acuisce per gli aspetti di
deprivazione socio-economica-culturale che accompagna la loro situazione.
Ad ogni modo se spesso si tende ad identificare marginalità e devianza,
è importante specificare la differenza tra le due situazioni, in quanto anche da
una analisi superficiale si rileva come la disapprovazione o censura che si
realizza nei confronti dei devianti non avviene, invece, nei confronti di chi è
vittima delle ingiustizie e delle contraddizioni sociali. I marginali, infatti, non
sono necessariamente devianti, ma sono solo soggetti che vivono ai margini
di più estesi gruppi sociali.
Per devianza, invece, si intende ogni atto o comportamento (anche solo
verbale) di una persona o di un gruppo che viola le norme di una collettività e
che di conseguenza va incontro a una qualche forma di sanzione10.
9 Fino a qualche tempo fa si riteneva erroneamente la marginalità come una scelta di alcuni
individui di vivere un ruolo marginale nella società. Purtroppo non è sempre così in quanto ci sono soggetti che pur non scegliendo di far parte della “categoria” dei marginali, si ritrovano ad esserlo. La realtà delle periferie fornisce un esempio, in quanto, nella maggioranza dei casi le persone che vivono al di fuori del centro non possono usufruire dei servizi di cui disporrebbero altrimenti. Cfr. M. L. DE NATALE – Devianza e Pedagogia- Ed. La Scuola- - Brescia 1998, pp. 40-41.
10 Giuridicamente un individuo è ritenuto deviante quando i suoi comportamenti contrastano con le norma della società di cui fa parte. Infatti si parla di delinquenza o criminalità quando la devianza viene posta in relazione alla legge penale: ibidem p. 46.
8
Intendiamo come devianti, dunque, quei comportamenti che vanno a
trasgredire le regole comuni di convivenza. La devianza può essere primaria
(contingente, occasionale), o secondaria (quando il soggetto assume
un’identità deviante) e può assumere una modalità autolesiva o
delinquenziale.
autolesiva: è quel tipo di devianza che rivolge la propria aggressività
verso il soggetto stesso (comportamenti suicidari, forme di
dipendenza,nevrosi alimentari).
delinquenziale: invece, è la devianza che rivolge la propria tensione
distruttiva contro terzi (vandalismo, risse, furti, aggressioni…).
Una definizione canonica vuole la devianza come comportamento che
viola le aspettative istituzionalizzate di una data norma sociale. Tutti i popoli
del mondo, da quelli organizzati in società e stati complessi a quelli che sono
ancora fermi ad una sorta di comunità tribale, convivono con la devianza, cioè
con comportamenti devianti dalle norme scritte o non scritte che regolano la
vita della comunità.
Il tema della devianza, è venuto assumendo sempre maggiore
importanza negli stati contemporanei, ricchi di leggi e diritti che regolano in
modo assai minuto tutta la vita, tutti i comportamenti delle persone. Nessuno
ormai se ne accorge, ma la libertà autentica di vita e di comportamenti si è
andata lentamente spegnendo, soprattutto nei popoli che vantano civiltà
complesse, a loro volta evolutesi in stati dalla normativa complessa. Quanto
più i popoli sono cresciuti e industrializzati, tanto più i loro membri sono stati
privati delle più elementari libertà, tanto più sono cresciuti i comportamenti
9
devianti. La devianza si è affermata subito nella storia, e soprattutto nei tre
settori chiave della vita umana: il sesso, la proprietà, la rivalità fra le persone
ed ha avuto sviluppi notevoli nel tempo collegati anche alla crescita
tecnologica delle società. Il sesso ha visto la diffusione, accanto al
matrimonio monogamico, dell'adulterio, della pedofilia, del libero amore,
della poligamia, della prostituzione, dell'omosessualità, atteggiamenti devianti
soltanto in taluni casi e per talune norme, non devianti per altre, addirittura
criminali per alcune religioni e per alcune norme. La proprietà, invece, ha
stimolato il furto e la rapina, espressi talvolta nelle truffa, nell'usura, negli
intrecci truffaldini nelle società. La rivalità fra le persone, derivata da affari di
sesso, da affari veri e propri, da contrasti religiosi, dinastici, politici, ha spinto
alla violenza, alla tortura, all'omicidio. Sono queste le vere e proprie devianze
nei confronti di norme "naturali" insieme ad altre che da esse derivano e ad
esse fanno contorno.
Il comportamento deviante si manifesta in genere nel periodo
adolescenziale, l’adolescenza, in quanto fase di passaggio dall’infanzia alla
maturità della persona, è uno stadio nel quale entrano in gioco forze interne
ed esterne al singolo, psicologiche e sociali, la cui interazione può favorire,
accelerare, ritardare, impedire l’accesso consapevole alla vita adulta.
Gli adolescenti, alla ricerca di una identità distinta da quella fornita
dalla famiglia, diversa dal modello offerto dal mondo degli adulti, cercano un
rapporto con gli altri, con i coetanei, una interazione formale, uno stare
insieme non precisato da norme di sottomissione. Sono alla ricerca di se
stessi, in una condizione di continua insicurezza e mediante i linguaggi, gli
10
abbigliamenti, i gusti musicali ed estetici, esprimono quella che può essere
definita “una propria cultura”, o meglio una “subcultura”11 rispetto a quella
degli adulti.
1.2 Aggressività come indicatore di disagio, disadattamento e
devianza
Pochi argomenti di studio sono oggi più attuali di quello che riguarda
l’aggressività nell’uomo. Dalle violenze terrificanti e dichiarate alle più sottili
manifestazioni di intolleranza e di protesta, è un dilagare di atteggiamenti e
comportamenti che qualifichiamo genericamente aggressivi, spesso senza
comprenderne appieno il significato. Ma aggressive sono anche
manifestazioni di altro tipo, quelle per esempio che piuttosto che tendere alla
distruzione dell’altro e al sovvertimento clamoroso di uno status ampiamente
condiviso portano l’individuo a costruirsi un proprio spazio personale. E
aggressive possono anche essere considerate le motivazioni che inducono
gruppi minoritari ad affermare la propria identità e il proprio diritto ad un
confronto paritetico con gruppi di maggioranza.
Il discorso, dunque, si presenta lungo e difficile, ma ciò che più
interessa in questo caso è affrontare il problema dell’aggressività come
indicatore di disagio, disadattamento e devianza soprattutto per quanto
riguarda le generazioni più giovani. Per poter fare ciò, tuttavia, bisogna
considerare le prospettive che offrono i diversi saperi che si sono interrogati
11 L’espressione subcultura, nel senso generale del termine, indica una cultura inferiore e
scadente, riferita spesso alla cultura delle popolazioni primitive.
11
sul problema dell’aggressività in relazione ai disturbi di comportamento dei
giovani.
1.2.1. Il piano sociologico
Affrontare il problema dell’aggressività, connessa ai disturbi di
comportamento dal punto di vista sociologico, significa superare le
concezioni che nel XIX e XX secolo escludevano i fattori sociali ed
economici come cause determinanti nella formazione della personalità
aggressiva.
Oggi, invece, fare riferimento alle nozioni di devianza, disagio e
aggressività, impone agli interlocutori che affrontano le questioni ad esse
legate, un riferimento culturale e scientifico forte al paradigma sociologico; al
punto che si può affermare che per potere definire correttamente tali concetti
si deve ricorrere obbligatoriamente alla teoria sociologica nelle sue diverse
espressioni.
Un’interpretazione sociologica complessiva dei fenomeni di devianza,
disadattamento, disagio e aggressività nella società industrializzata venne
messa a punto da E. Durkheim12 alla fine del XIX secolo; l’importanza del
contributo del sociologo francese è data dall’individuazione di un rapporto
12 Émile Durkheim (, Francia 15 aprile 1858 - Parigi 15 novembre 1917) è un pensatore
francese che si richiama all'opera di Auguste Comte (sebbene consideri alcune idee comtiane eccessivamente vaghe e speculative), e può considerarsi, con Karl Marx, Max Weber e Herbert Spencer, uno dei fondatori della moderna sociologia. Egli analizza soprattutto la divisione del lavoro, ovvero il farsi strada di differenze sempre più complesse e influenti tra le varie posizioni occupazionali. Pian piano, il lavoro viene considerato da Durkheim come il principale fondamento della coesione sociale, ancora prima della religione. Inoltre, con la divisione delle attività, gli individui diventano sempre più dipendenti gli uni dagli altri, perché ognuno ha bisogno di beni forniti da coloro che svolgono un lavoro diverso dal proprio.
12
fondamentale tra “divisione del lavoro” e produzione dei “conflitti” come
elemento costante nella società capitalistica.
Infatti egli evidenzia come il sistema capitalista, attraverso le proprie
modalità di organizzazione del lavoro, produca la possibilità del conflitto ed è
proprio in rapporto alla costante presenza di tensioni e conflitti in seno alla
società che gli
individui sono esposti al rischio dell’ ”anomia”13, cioè al progressivo
distacco dal tessuto delle relazioni sociali e dal sistema comunicativo che
regge la solidarietà sociale, dovuto alla percezione di una mancanza di norme
e di regole.
Durkheim tuttavia, non ha un posizione critica nei confronti della
società capitalista, ma evidenzia nella conflittualità ad essa immanente
l’elemento di deviazione da un modello sociale naturale e normale basato
sulla solidarietà sociale. Partendo da questo presupposto Durkheim prende le
mosse per introdurre un secondo ribaltamento epistemologico relativo alla
definizione sociologica del rapporto tra normalità e devianza.
Egli spiega come i comportamenti devianti si configurino come
necessità sociale la cui funzione è di tipo positivo; i reati infatti,
rappresentano un fattore normale, oltre che inevitabile, di una società sana in
quanto ne misurano la moralità collettiva e ne rafforzano la coesione sul piano
del diritto. Infatti il reato necessita la sanzione, anche se essa, in termini di
13 Secondo il pensiero di Emile Durkheim , l'anomia è uno stato di dissonanza cognitiva tra
le aspettative normative e la realtà vissuta. Il concetto di anomia significa letteralmente "assenza o mancanza di norme". Parola derivante dal greco a-nomos. Nel caso di Durkheim il significato è quello di mancanza di norme sociali, di regola atte a mantenere, entro certi limiti appropriati, il comportamento dell'individuo. PIERANGELO BARONE, Pedagogia della marginalità e della devianza, Guerini Studio editore, Milano 2001, pp. 64.
13
pena, non deve essere intesa come rimedio alla questione della criminalità,
quanto come un dispositivo che rinforza il principio della legittimità della
società e del potere che punisce e che dunque, permette alla società stessa di
riconoscersi sul piano della differenza con i comportamenti delinquenziali14.
Secondo questa prospettiva quindi, criminalità e devianza non sono
fenomeni patologici, di cui sia possibile valutare scientificamente le
dimensioni e analizzare le cause, ma sistemi complessi in cui determinati atti
e comportamenti vengono definiti, amplificati, riprodotti e utilizzati per
difendere interessi e sistemi di mantenimento del controllo.
Durante la prima metà del 1900, invece, è rilevante il ruolo che venne
ad assumere la Scuola sociologica di Chicago15, la cui importanza
sociologica, ma soprattutto quella delle sue ricerche, è relativa ai contributi
sui concetti di devianza e di marginalità che vengono definiti all’interno del
paradigma interpretativo della patologia sociale. In questa prospettiva la
devianza appare contemporaneamente come causa ed effetto della
disorganizzazione sociale, per cui la condotta deviante appare connotata da
una valenza antisociale.
Pochi anni dopo, intorno agli anni 1950-1960, si sviluppò per opera di
T. Parsons e di R.K. Merton, la corrente dello struttural-funzionalismo16,
riprendendo nei suoi aspetti più generali l’apporto teorico di Durkheim.
14 Ibidem, p. 65. 15 La scuola dell’ecologia sociale urbana, meglio nota come Scuola di Chicago dalla sua
sede, è stata la prima scuola di sociologia urbana negli Stati Uniti d’America. Venne fondata nel 1920 ed ebbe tra i suoi maggiori esponenti Robert Park, Ernest W. Burgess e Roderick D. Mc Kenzie. La suola affrontò per la prima volta uno studio sistematico della città dal punto di vista sociologico attraverso uno studio empirico della società urbana.
16 Lo struttural-funzionalismo spiega la società come un sistema dinamico di attività ripetitive, organizzate e interconnesse, le quali contribuiscono alla stabilità e all’armonia sociale. La
14
A differenza di ciò che sosteneva il sociologo francese, secondo
Parsons17, la società è un organismo integrato che tende all’equilibrio e alla
stabilità, fondato su un bisogno di conformità che è espressione di
un’esigenza di tipo psichico che riguarda in modo generalizzato tutti gli
appartenenti ad un certo tipo di cultura; il sistema di valori, perciò, costituisce
la rappresentazione generale di tipo astratto degli elementi che a livello
concreto sono rintracciabili tanto nei gruppi sociali quanto nelle personalità
individuali.
Ad ogni modo ciò che caratterizza in modo significativo la riflessione
sociologica di Parsons, è la spiegazione del meccanismo di produzione della
devianza vista come il risultato di una socializzazione non riuscita. In tal
senso la devianza appare come un processo di azione motivata del soggetto
che, malgrado la disponibilità del sistema sociale, tende a deviare dalle
aspettative che gli altri si sono fatti rispetto al suo ruolo18.
Merton, invece, nel riprendere da Durkheim il concetto di anomia
sviluppa un’interessante teoria strutturale che vede interagire cultura e società
come vertici di un ipotetico asse fini-mezzi. Se infatti alla struttura culturale
Merton fa corrispondere la definizione delle mete culturali verso cui tendono i
bisogni individuali, alla struttura sociale egli attribuisce il compito di definire
i mezzi legittimi con cui ottenere il soddisfacimento di tali aspirazioni.
Secondo lo studioso l’anomia è quindi il risultato del distacco tra struttura
parola “strutturale” indica il modo in cui sono organizzate le attività ripetitive di una società (forme quali la famiglia, le attività economiche ecc.). Il termine “funzionale”, invece, si riferisce al contributo che un’attività ripetitiva fornisce al mantenimento della stabilità o all’equilibrio della società.
17 Talcott Parsons (Colorado, 13 dicembre 1902 - Monaco, 8 maggio 1979) per lungo tempo è stato il più celebre sociologo degli Stati Uniti, e uno dei più noti al mondo.
18 Ibidem., pp. 67 – 68.
15
culturale e società, a seguito del quale il raggiungimento delle mete risulta
pregiudicato dall’insufficienza dei mezzi e da un indebolimento dell’impegno
dei soggetti nel perseguimento degli obiettivi culturali prescritti19. È la
disuguaglianza sociale dunque, a generare l’anomia.
Merton, inoltre, indica come condizioni che favoriscono l’insorgere del
comportamento deviante, insieme alla stratificazione sociale e al rischio
dell’anomia, la questione di una socializzazione non adeguatamente
sviluppata, che riguarda in particolare i soggetti culturalmente ed
economicamente svantaggiati; per i membri delle classi sociali inferiori,
infatti, la devianza, vista come abbandono dei metodi socialmente legittimati,
appare come l’unico mezzo a disposizione per mantenere vive le aspirazioni
al successo, sulla scorta di una educazione familiare inadeguata.
Un contributo importante alla comprensione del fenomeno è dato
anche da A.K. Cohen, il quale sviluppa e approfondisce ulteriormente la
tematica della devianza in rapporto al fenomeno delle “bande giovanili” e dei
comportamenti violenti e vandalici. Secondo Cohen al fenomeno della
sottocultura delinquenziale è particolarmente esposta la gioventù appartenente
alle classi proletarie, in quanto, esse si trovano in condizione di svantaggio
nel perseguimento degli obiettivi di successo culturale stabiliti dal sistema
sociale; questa situazione determina una reazione di opposizione che sfocia
nel comportamento reattivo verso i valori sociali dominanti, che porta
all’assunzione di atteggiamenti aggressivi e distruttivi20.
19 R. K. MERTON, Teoria e struttura sociale, Il Mulino, Bologna, 1959, pp. 263- 313. 20 Cfr. A. K. COHEN, Ragazzi delinquenti. Una penetrante analisi sociologica della cultura
della gang, Feltrinelli, Milano, 1963.
16
1.2.2 Il piano psicologico
È ancora lontana dall’essere messa appunto una teoria psicologica
della devianza e dell’aggressività capace di fornire le coordinate scientifiche
necessarie a rendere chiara la formazione dei comportamenti e dei fenomeni
antisociali.
Tuttavia, la costante ricerca di un modello esplicativo di tipo causale
dei comportamenti antisociali, che ha caratterizzato la psicologia, rappresenta
l’elemento di maggiore continuità tra il sapere medico e i paradigmi
psichiatrico e psicologico.
Infatti, non si può prescindere dalla legittimazione epistemologica che
la psichiatria e la psicologia hanno ottenuto nel campo medico, ponendo
l’attenzione sulle patologie mentali ed elevandole a malattie organiche.
Partendo da questo presupposto, malattia e pericolosità sociale
costituiscono l’asse attorno al quale si è realizzata la specificità
epistemologica del sapere psichiatrico e psicologico.
Secondo la teoria psicologica se il deviante è pericoloso, è perché è
irresponsabile dal punto di vista psichico, e se è irresponsabile è perché è
malato. Ed è di conseguenza a questa affermazione che la psicologia è
divenuta, durante il XIX secolo, la Scienza della personalità patologica,
anormale e deviante ed è proprio durante questo periodo di tempo che
l’istanza patologica della devianza, nella prospettiva psichiatrica, ha raggiunto
il suo massimo splendore.
17
È stato comunque dopo Freud, che le scienze psicologiche si sono rese
conto della relatività delle categorizzazioni nelle differenze tra normalità e
anormalità, in quanto è stata posta l’attenzione sul rapporto tra coscienza e
inconscio nella psiche di ogni soggetto. Lo stesso Freud, nella formulazione
dei fattori determinanti della condotta delinquenziale, ipotizza nel senso di
colpa del soggetto, legato alla non risoluzione del conflitto edipico21,
l’elemento scatenante dell’atto criminale.
Anche secondo Adler il comportamento criminoso può essere
ricondotto al problema di elaborazione di un sentimento di inferiorità il quale
è presente in ogni individuo, ma che, se non viene superato, può dare origine
ad un complesso di inferiorità che costituisce una delle condizioni scatenanti
dell’azione deviante. Oltre al contributo della psicanalisi, non vanno trascurati
gli studi condotti della psicologia sociale e dello sviluppo, applicati in
particolare all’adolescenza, i quali partono dall’identificazione del rapporto
tra identità e società come punto di analisi nell’insorgenza di fenomeni e
comportamenti devianti e aggressivi.
Lo studioso appartenente a questa branca del sapere che ha dato il
contributo più significativo è senza dubbio E.H. Erickson, il quale elabora un
modello interpretativo caratterizzato in senso psicosociale, pur essendo di
matrice psicoanalitica.
21 Sigmund Freud sosteneva che i primi cinque anni di vita del bambino sono dominati
psicologicamente dal cosiddetto complesso di Edipo (la struttura psichica in cui si organizzano i sentimenti amorosi e ostili che il bambino avverte nei confronti dei genitori e dal cui superamento dipende, secondo S. Freud, il futuro profilo psicologico del soggetto).
Dopo la prima grande frustrazione che il bambino subisce con lo svezzamento, ne subentra una nuova nel momento in cui egli, ancora fortemente legato alla madre, si accorge che questa non riversa tutto il suo affetto su di lui,ma anche sul padre. Questa frustrazione porta il bambino a essere attratto dal genitore di sesso opposto e lo induce a porsi in un atteggiamento di rivalità ostile nei confronti di quello del medesimo sesso.
18
1.2.3. Il Piano bio-medico
Il linguaggio medico, tra la metà del XVIII e la metà del XIX secolo,
ridetermina il proprio oggetto costituendosi come modello di sapere
determinante nella nascita delle scienze umane.
Nell’articolazione discorsiva della medicina moderna si è compiuto il
passaggio epistemologico, che ha fatto del soggetto l’oggetto di indagine
scientifica ed è all’interno di questo sapere che è stato possibile
elaborare una riflessione scientifica sulla individualità.
La medicina riveste un ruolo fondamentale nell’introdurre e
supportare, sul piano della riflessione scientifica, la suddivisione tra
normalità e patologia su cui poggia l’asse epistemologico delle teorizzazioni
sulla devianza. Internamente a questa ripartizione nasce l’interesse scientifico
per l’individualità del soggetto per la lettura dei fenomeni devianti.
Tuttavia, l’importanza del significato dei concetti di salute e malattia
non basta a giustificare fino in fondo il ruolo fondamentale attribuito al sapere
biomedico nello studio dei comportamenti antisociali.
Occorre quindi esplicitare come la medicina sia arrivata a stringere
rapporti con il campo sociale nell’affrontare i problemi relativi allo stato di
salute o di malattia dell’individuo. Infatti, il rapporto tra stato di salute e
rischio di malattia, ha portato ad una condivisione disciplinare tra il campo
biologico e quello sociale, rendendo praticabile un comune terreno
d’indagine che si attestasse attorno alla dimensione della diversità e della
devianza dalla norma.
19
Un altro aspetto da considerare nel rapporto tra medicina e
comportamento deviante riguarda la funzione giuridica del sapere bio-
medico. Quest’ultimo è attivo, nelle vesti della moderna psichiatria, nella
questione della perizia medico-psichiatrica in rapporto alle condotte
delinquenziali e criminali ed è proprio la questione delle perizie il punto di
maggiore evidenza del collegamento tra medicina e scienze umane.
1.3 Aggressività: cos’e’ e come si manifesta
Negli ultimi anni, la nostra società sembra investita da problematiche
educative particolarmente urgenti: aumento dei disturbi della condotta e
dell’aggressività anche nelle fasce d’età più giovani, la diffusione del
bullismo nelle scuole e l’aumento dei comportamenti devianti e antisociali.
Spesso queste espressioni vengono usate in maniera interscambiabile, ma in
realtà si tratta di situazioninon sovrapponibili. “L’aggressività”, ad esempio, è
un termine utilizzato per indicare “un comportamento intenzionalmente
diretto ad arrecare danno a persone, animali o cose”22.
Per quanto possa apparire semplice, tale definizione implica almeno tre
elementi su cui è opportuno riflettere.
In primo luogo, l’aggressività è relativa a ciò che una persona fa o
dice. Qualora un soggetto si limitasse a formulare pensieri o fantasie
aggressive, non è detto che si possa considerarlo aggressivo.
22Rivista GIUNTI – “Psicologia e scuola”, 121 anno XXV OTT/NOV. 2004 p. 43.
20
Il secondo elemento riguarda l’intenzionalità dell’atto, anche se questa
ultima, si collega direttamente alla difficoltà della sua rilevazione.
Il terzo elemento, invece, riguarda il concetto di danno, in quanto
esistono differenti tipologie di danno e soprattutto la soggettività
dell’interpretazione di quest’ultimo23.
I manuali di psicologia definiscono l’aggressività come una “reazione
che produce stimoli lesivi su un altro organismo”24. In termini più semplici,
gli stimoli lesivi sono una fonte di danno fisico o psicologico: una percossa,
un insulto o perfino qualcosa di meno diretto, come diffondere voci spiacevoli
o scrivere lettere offensive. L’aggressività non è una reazione così semplice
come potrebbe apparire, e gli atti che ne derivano sono spesso dettati da un
complesso di emozioni: rabbia, gelosia, paura, odio, frustrazione e molte altre
ancora.
Il termine aggressività dunque, viene usato per designare una vasta
gamma di comportamenti molto diversi tra loro.
L’ambiguità di definizione dell’aggressività non riguarda solo il
linguaggio di tutti i giorni, ma anche in psicologia una delle maggiori
difficoltà nel parlare dell’aggressività deriva dal fatto che sotto questa parola
si celano comportamenti molto diversi tra loro.
Se ricerchiamo l’etimologia della parola aggressività, troviamo che
essa deriva dal verbo latino aggredior, composto di ad e di gradior. Gradior
significa
23 Ibidem., p. 44. 24 S LAWSON - Il Bullismo: suggerimenti utili per genitori e insegnanti, Editori Riuniti
Roma 2001 , p. 68.
21
andare, procedere, avanzare, aggredire, mentre ad invece significa
verso, contro. Aggredior, dunque, significa assalire, andare verso,
intraprendere, cercare di ottenere.
La stessa parola, nella sua radice etimologica, ha in se la stessa
ambiguità che ritroviamo nel cercare di identificarla con un qualsiasi genere
di comportamento.
Il comportamento aggressivo si manifesta principalmente in due forme:
aggressivita’ emotiva: il comportamento aggressivo è scatenato da forti
sentimenti di paura o da una provocazione;
aggressivita’ strumentale: il comportamento aggressivo è usato come
mezzo per raggiungere uno scopo, senza che ci sia stata provocazione o
rabbia nei confronti della vittima25.
Le prime concettualizzazioni dei disturbi aggressivi e di altri
comportamenti socialmente devianti risalgono fino ai filosofi greci, che
cercavano di offrire una sistematizzazione di tali condotte rapportandole a
differenti modelli esplicativi.
Fondamentalmente sono cinque gli approcci alla spiegazione delle
condotte aggressive ed antisociali:
1. l’approccio religioso, per il quale il comportamento aggressivo
era essenzialmente connotato in termini di peccato e di violazione di regole
morali;
25 Ibidem., pp. 69.
22
2. l’approccio legale, la cui attenzione è volta soprattutto alla
definizione dei criteri necessari per definire un atto aggressivo come crimine
da sanzionare;
3. l’approccio sociale, che concettualizza l’aggressività come
sintomo di condizioni sociali inadeguate;
4. l’approccio medico, che sposta il focus dell’indagine dal piano
intersoggettivo a quello intraindividuale, alla ricerca di possibili fattori
all’origine della condotta disturbata;
5. l’approccio psicoeducativo infine, secondo cui i comportamenti
devianti sono spesso il risultato di un carente apprendimento di abilità sociali
e comunicative, necessarie per interagire efficacemente con gli altri26.
Questi cinque approcci appartengono chiaramente a piani in parte
indipendenti, ma le loro interazioni sono talvolta rilevanti e significative, in
quanto le classificazioni dei disturbi della condotta prevedono alla base di
questi problemi una sistematica violazione di norme sociali.
Al fine di sistematizzare le diverse forme di comportamento aggressivo
e deviante, sono state proposte alcune classificazioni:
1. attivi o passivi: sebbene i primi siano più eclatanti, anche i
secondi possono produrre danni rilevanti;
2. diretti o indiretti: nel primo caso c’è un contatto non mediato tra
le persone coinvolte, nel secondo caso, invece, non si verifica un contatto
diretto;
26 Cfr. Rivista GIUNTI, “Psicologia e scuola”, 121 anno XXV OTT/NOV. 2004 pp. 41 –
42.
23
3. autodiretti o eterodiretti: è opportuno mantenere distinti i
comportamenti aggressivi diretti contro terzi da quelli rivolti a se stessi, in
quanto le cause possono essere diverse27.
A seconda invece, delle motivazioni che spingono un individuo a
commettere un atto aggressivo, è possibile distinguere 5 categorie:
1. azioni aggressive strumentali: si tratta di atti volti ad ottenere un
vantaggio;
2. comportamenti irritanti: si concretizzano in una serie di
comportamenti fortemente irritanti e disturbanti per chi circonda il soggetto,
senza che ci sia alcun vantaggio da ottenere;
3. aggressività di tipo emozionale: il comportamento aggressivo è il
risultato di stati emotivi fortemente alterati, ed è un comportamento di tipo
impulsivo;
4. comportamenti aggressivi di tipo difensivo: è la tipica situazione
in cui l’atto aggressivo è provocato da altri ed è volto a difendere il soggetto;
5. comportamento antisociale: è un tipo di comportamento deviante
rispetto alle norme sociali, ma utilizzato per conformarsi al gruppo dei pari28.
Il confine tra queste categorie , ovviamente, non è netto, in quanto lo
stesso atto aggressivo potrebbe assolvere contemporaneamente a più funzioni.
Ne consegue che qualsiasi tipologia di classificazione si voglia
adottare, bisognerà comunque confrontarsi con una fenomenologia
estremamente eterogenea.
27 Ibidem., p. 47. 28 Ivi, pp. 47, 48.
24
1.4 Il bullismo
Il comportamento aggressivo, degenera spesso nel fenomeno del
bullismo29, ma è opportuna una distinzione fondamentale tra aggressività e
bullismo, anche se quando si parla di questo fenomeno, il cui interesse sociale
è sempre crescente, ci si riferisce in realtà ad un insieme di comportamenti
aggressivi.
Quando si parla di bullismo, ci si riferisce in realtà ad un insieme di
comportamenti aggressivi piuttosto eterogenei.
Diciamo che un ragazzo è vittima di bullismo o di maltrattamenti,
quando un altro ragazzo o gruppo di ragazzi, gli dicono cose spiacevoli.
Il bullismo è finalizzato a provocare un danno ad altri o a cose ed
è intenzionale e volontario. Tuttavia mentre il comportamento aggressivo può
essere saltuario, quando si parla di bullismo ci si riferisce ad un fenomeno
caratterizzato dai seguenti aspetti:
esiste una differenza di potere tra il bullo e la vittima. Il bullo
prima di avviare le sue azioni valuta con attenzione la forza e il grado di
isolamento sociale della vittima;
è un atto spesso organizzato e sistematico;
è un comportamento ripetitivo e duraturo nel tempo, colpendo la
vittima o più vittime in maniera reiterata;
29 Il bullismo è un fenomeno sempre più diffuso nelle scuole elementari e medie. Il termine
bullismo è la traduzione italiana dall'inglese "bullying" ed è utilizzato per designare i comportamenti con i quali un singolo o un gruppo, ripetutamente, fa o dice cose per avere potere o dominare una persona o un altro gruppo1nota. Il termine "bullying" include sia i comportamenti del "persecutore" sia quelli della "vittima" ponendo al centro dell'attenzione la relazione nel suo insieme.
25
il bullo si avvale spesso dell’ appoggio di complici, che possono
aiutare il ragazzo aggressivo nel perpetrare i suoi atti, ovvero possono
coprirne le responsabilità di fronte a terzi;
la vittima teme o non è in grado di difendersi, né di riferire ad
altri l’accaduto per diverse ragioni;
gli eventuali spettatori non intervengono per difendere la vittima
per paura di apparire deboli agli occhi del gruppo;
la vittima viene sostanzialmente deumanizzata, indebolendo
progressivamente la sua autostima, così da eliminare qualsiasi senso di colpa
nel bullo30.
Quindi come si può dedurre il bullismo è un fenomeno meno
estemporaneo dell’atto aggressivo e più pianificato.
Il tema del bullismo costituisce, attualmente, uno degli elementi che
maggiormente catalizza l’attenzione di insegnanti, psicologi e quanti si
occupano di problematiche scolastiche.
Si tratta, infatti, di un fenomeno particolarmente preoccupante, in
grado di compromettere in maniera significativa il funzionamento di una
classe o, talvolta, dell’intera istituzione scolastica. Tuttavia, anche se i
problemi di aggressività possono comparire in età prescolare, il bullismo vero
e proprio è raro nelle scuole materne, infatti si manifesta seriamente solo nella
scuola elementare.
A differenza della scuola materna, qui si riunisce un gruppo numeroso
di bambini di età diverse, con minore sorveglianza. La classe si trasformerà
30Rivista GIUNTI “Psicologia e scuola”, 121 anno XXV OTT/NOV. 2004 p. 46.
26
rapidamente in una complessa gerarchia e, nonostante ci siano degli
aggiustamenti negli equilibri di potere, molti bambini assumeranno una
posizione di dominio nei primi anni della scuola primaria, che potrà
addirittura protrarsi in quella secondaria e non si tratta certo di una rosea
prospettiva per chi sta alla base della gerarchia. I modelli di bullismo
pertanto, si consolidano sopratutto in età prescolare e alla scuola elementare.
La maggioranza degli episodi, infatti, si verifica a scuola oppure sulla
strada da e verso la scuola31. Sebbene non sia sempre così, considerando la
struttura del sistema scolastico che concentra moltissimi bambini di età
diverse in un unico luogo da cui non è permesso allontanarsi, la cosa non
dovrebbe sorprendere, tanto più che è concessa loro la massima libertà con la
minima sorveglianza da parte degli adulti.
In alcuni casi, il bullismo e l’intimidazione possono continuare in
classe, e talvolta sono tollerati o addirittura incoraggiati dall’insegnante. A
volte è proprio l’insegnante a designare la vittima, riservandole un
trattamento particolare32.
Il bullismo a scuola, dunque, è senza dubbio un fenomeno di vecchia
data. Il fatto che alcuni ragazzi siano frequentemente e ripetutamente
molestati da altri è stato descritto in opere letterarie e molti adulti lo hanno
sperimentato direttamente. Sebbene molti siano a conoscenza di questo
31 Naturalmente un bambino che viene accompagnato dai genitori a scuola, è molto meno
probabile che sia vittima di bullismo, rispetto ad un altro bambino che va a scuola da solo. Ciononostante non è sempre così in quanto si possono verificare casi di bullismo anche all’interno del cortile o addirittura nella stessa classe.
32SARAH LAWSON Il Bullismo: suggerimenti utili per genitori e insegnanti, Editori Riuniti, Roma 2001, pp. 22, 23.
27
gravoso problema, solo di recente, agli inizi degli anni Settanta, ci si è
impegnati in uno studio sistematico di tale fenomeno.
Per diversi anni questi tentativi sono stati per lo più limitati alla
Scandinavia. Verso la fine degli anni Ottanta e agli inizi degli anni Novanta,
il bullismo è stato oggetto di attenzione da parte sia dell’opinione pubblica
che degli studiosi in diverse nazioni, tra cui Giappone, Regno Unito, Olanda,
Canada, Stati Uniti e Australia. Alla fine degli anni Sessanta e agli inizi degli
anni Settanta, in Svezia, la società ha iniziato a prestare attenzione ai
problemi relativi al fenomeno del bullismo, e tale attenzione si è diffusa
rapidamente negli altri paesi scandinavi. Le autorità scolastiche, tuttavia, non
si sono interessate direttamente al problema sino ad epoca recente.
Solo pochi anni fa, infatti, un’equipe di psicologi, coordinata da Ada
Fonzi33 ha compiuto una vasta indagine in otto regioni italiane da cui è
emerso che circa il 41% dei bambini che frequentano le elementari si dichiara
vittima di qualche forma di violenza a scuola e il 23% ammette candidamente
di compiere
prepotenze sui compagni. Nel passaggio dalla scuola elementare alla
media si registra, invece, una diminuzione significativa di casi di bullismo
che scende dal 41% al 26%.
I dati della ricerca confermano, inoltre, che il nostro Paese, non solo
non si discosta in quanto a presenza del fenomeno da altri Paesi europei, ma
che anzi li supera. Dalle ricerche effettuate, si evince che il numero di
33 Ada Fonzi, sulla base degli studi di Dan Olweus e di Whitney e Smith, ha condotto una ricerca sul bullismo in Italia. Attraverso un questionario anonimo presentato a 1379 alunni, in cui si chiedeva ai soggetti se fossero stati vittime di bullismo o se comunque erano a conoscenza di persone che lo fossero state, ha ottenuto dei dati sconcertanti. Infatti secondo questa ricerca, il fenomeno è risultato più elevato che in altri paesi.
28
bambini italiani coinvolti dal fenomeno è doppio rispetto ai loro coetanei
europei. Se infatti, si riscontra il 6% di bullismo in Finlandia, il 15% in
Norvegia, il 12,5% in Spagna, nel nostro paese la percentuale sale
vertiginosamente. Nelle scuole elementari il 57,2% delle prepotenze fisiche e
verbali avviene in classe o nei cortili dedicati alla ricreazione, nelle medie la
percentuale si abbassa di poco (51,9%)34.
Molto di quello che sappiamo sul bullismo, comunque, lo dobbiamo al
lavoro di Dan Olweus35, un’autorità indiscussa del settore in campo
internazionale, il quale è stato il primo ad interessarsi in modo sistematico al
fenomeno del bullismo.
Una definizione in senso lato di bullismo, compare proprio grazie allo
studioso norvegese, che lo definisce in questo modo: “. Uno studente è
oggetto di azioni di bullismo, ovvero è prevaricato o vittimizzato, quando
viene esposto, ripetutamente nel corso del tempo, alle azioni offensive messe
in atto da parte di uno o più compagni36”.(Olweus, 1986; 1991)
Come nel caso della condotta aggressiva, un’azione viene definita
offensiva quando una persona infligge intenzionalmente o arreca un danno o
un disagio a un’altra. Alcune azioni offensive possono essere perpetrate
attraverso l’uso delle parole (verbalmente), per esempio minacciando,
rimproverando, prendendo in giro o ingiuriando; altre possono essere
commesse ricorrendo alla forza o al contatto fisico, per esempio picchiando,
34 Cfr. DAN OLWEUS, Bullismo a scuola; ragazzi oppressi, ragazzi che opprimono Editore
GIUNTI, Usa 1993, pp. 109, 110. 35 Dan Olweus, professore di psicologia all’Università di Bergen (Norvegia), è stato il
primo studioso, agli inizi degli anni 70, a essersi occupato in modo sistematico del fenomeno del bullismo.
36 Ibidem, pp. 11 – 12.
29
spingendo, prendendo a calci, tormentando o dominando un altro. In certi casi
le azioni offensive possono essere perpetrate anche senza l’uso delle parole o
del contatto fisico: beffeggiando qualcuno con smorfie o gesti sconci,
escludendo intenzionalmente dal gruppo o rifiutando di esaudire i suoi
desideri.
Il bullismo può essere perpetrato da un singolo individuo - il bullo - o
da un gruppo. Il bersaglio del bullismo può essere un singolo individuo – la
vittima - o un gruppo.
Va sottolineato, però, che il termine bullismo non è usato quando due
studenti, pressappoco della stessa forza fisica o psicologica, litigano o
discutono. Per parlare di bullismo è necessario che ci sia un’asimmetria nella
relazione. Lo studente esposto ad azioni offensive ha difficoltà nel difendersi
e si trova, in qualche modo, in una situazione di impotenza contro colui o
coloro che lo molestano.
Il bullismo, quindi, nel senso generale del termine, indica il fenomeno
nel suo complesso comprendendo il comportamento del persecutore e quello
del perseguitato e si manifesta con delle specifiche modalità.
“In ogni classe come in ogni ambiente che permetta l’interazione tra
più individui ci possono essere conflitti e tensioni di vario tipo, ma anche
molte interazioni moderatamente aggressive: alcune hanno come obiettivo il
divertimento, altre il bisogno di autoaffermazione, altre ancora la misurazione
dei rapporti di forza fisica, soprattutto tra coetanei maschi. Se c’è un
potenziale bullo, ciò sortirà dei precisi effetti: le interazioni saranno dure, più
irruente e violente. Il temperamento irascibile del bullo presente all’interno di
30
ogni contesto, i suoi marcati bisogni di autoaffermarsi, di dominare e di
sottomettere gli altri, lo fanno sentire forte. Perfino le avversità e le
frustrazioni di poco conto lo spingono all’uso di mezzi violenti e lo portano a
reagire in maniera intensa, spesso aggressiva. I suoi attacchi, per la forza
fisica di cui è dotato, sono spesso per gli altri motivo di sofferenza.
Il bullo preferisce comunque scontrarsi coi ragazzi più deboli, da cui è
certo di potersi difendere e non ha paura di litigare anche con gli altri: di
solito si sente piuttosto forte e sicuro. Se in classe c’è un ragazzo frustrato e
passivo, ansioso, insicuro, timoroso di essere assertivo e aggressivo e
fisicamente debole, viene presto scoperto dal bullo e diviene l’anello debole
della catena: non reagisce se attaccato, piange, è incapace di difendersi.
Generalmente non partecipa ai giochi pesanti con gli altri ragazzi della classe;
si sente, ed è effettivamente, assai isolato ed emarginato. Per il prevaricatore,
il ragazzo frustrato è il bersaglio ideale; la sua ansietà, la sua incapacità di
difendersi e la sua tendenza al pianto conferiscono al bullo un netto senso di
superiorità e supremazia, fornendo una sorta di soddisfazione a reconditi
impulsi di vendetta.
Il bullo generalmente vuole che gli altri si uniscano a lui,
coinvolgendo i suoi più intimi amici nell’atto di attaccare il ragazzo frustrato.
Vi è sempre qualcosa nell’aspetto esteriore di quest’ultimo, nei suoi vestiti o
nei suoi modi di fare che può essere oggetto di attacco. Per il bullo, osservare
gli altri compagni che molestano la vittima è altrettanto piacevole che farlo in
prima persona. Per diversi motivi, i problemi che si vengono a creare restano
sconosciuti al mondo degli adulti.
31
Di quando in quando anche gli altri ragazzi della classe possono
molestare e ingiuriare il ragazzo preso di mira. E’ un bersaglio sicuro: ognuno
sa che è debole, che non osa reagire e che nessuno dei ragazzi più forti è
pronto a difenderlo. Dopo che uno di questi lo ha attaccato, quelli che lo
molestano successivamente provano di rado sensi di colpa per tali azioni. Si
sviluppano così delle credenze che innescano un processo di
deumanizzazione37 della vittima: è un essere miserabile e privo di valore,
quindi merita di essere picchiato. Si avvia allora una graduale emarginazione
della vittima tra i coetanei. La sua inferiorità nel gruppo dei pari è
ulteriormente comprovata dagli attacchi e dalle ingiurie manifeste: è ovvio,
per chiunque, che è un buono a nulla. Altri compagni non diventano amici
della vittima per il timore di diventare anch’essi oggetto di attacchi, di
disprezzo e di disapprovazione. Altri ancora temono di finire nella stessa
situazione. Alla fine, l’isolamento è totale38”.
Questa è una situazione che potrebbe verificarsi all’interno di ogni
classe e che purtroppo è una realtà per alcuni ragazzi.
Il bullismo, comunque, non si verifica soltanto a scuola, ma sfiora la
vita di tutti, adulti e bambini. Fuori dalla scuola, il bullismo può verificarsi
nei luoghi
di aggregazione dei ragazzi, in famiglia, e perfino tra amici ed in ogni
fase della vita può avere effetti profondi e duraturi sulla vittima. Il timore e
37 Il processo di deumanizzazione della vittima è piuttosto comune quando si parla di
bullismo, in quanto i prevaricatori, tendono a considerare la vittima come un oggetto, come un essere che merita le punizioni e i maltrattamenti che gli vengono inflitti ed il fatto di non considerarlo come una persona, con dei sentimenti e degli stati d’animo, contribuisce alla scomparsa del senso di colpa nei persecutori.
38 Ibidem., pp. 35, 36, 37.
32
l’attesa della prevaricazione successiva possono impadronirsi di ogni
momento del giorno e debordano negli incubi notturni, causando ansia e
depressione che non lasciano tregua.
Il lavoro e la famiglia diventano fardelli insopportabili, e la più piccola
richiesta o il minimo inconveniente possono essere la goccia che fa traboccare
il vaso in un soggetto al limite della sopportazione. Questa situazione può
provocare l’isolamento all’interno della famiglia e l’esclusione dalla vita
sociale con conseguenti fallimenti sul lavoro e a scuola.
1.4.1 Tipi di Bullismo
Ad ogni modo, per comprendere più a fondo le dinamiche e le
caratteristiche di questo fenomeno è possibile distinguere almeno quattro
classi di comportamenti definibili bullismo.
bullismo fisico: la forma più classica ed intuitiva di bullismo,
che si esplica attraverso un contatto diretto tra l’allievo aggressivo e la vittima
(spinte, pugni, calci…). La maggior parte delle indagini epidemiologiche sul
fenomeno compiute in passato, hanno focalizzato l’attenzione soprattutto su
questa forma di bullismo, in quanto è il più semplice da individuare e quello
che produce i danni più evidenti, anche se non sempre i più gravi.
bullismo verbale: schernire, umiliare la vittima attraverso gli
insulti, il sarcasmo o la diffusione di maldicenze sul suo conto. E’ un’altra
33
forma di bullismo piuttosto diffusa, sebbene talvolta considerata, a torto,
meno grave del bullismo fisico. Le conseguenze di questo tipo di aggressività
sono spesso dei danni rilevanti all’autostima ed al benessere emotivo del
ragazzo colpito, nonché un suo progressivo isolamento dai compagni di
classe. Il bullismo fisico può essere spaventoso e pericoloso, ma quello
verbale causa alla vittima danni altrettanto devastanti perché può comportare
depressione, angoscia e perdita di autostima; inoltre passa più facilmente
inosservato da genitori e insegnanti. Il bullismo verbale/emotivo può essere
infatti potenzialmente più rischioso di quello fisico;
bullismo non verbale diretto: talvolta, anche la ripetizione di
gesti volgari ed offensivi compiuti da uno o più allievi nei confronti sempre
dello stesso compagno, può essere considerata atto di bullismo. Le
conseguenze per la vittima sono un serio incremento dei livelli di ansia nei
confronti delle situazioni sociali; tendenza ad evitare i compagni e tutte quelle
occasioni sociali in cui si può essere oggetto di tale forma di derisione;
riduzione della propria autostima ecc… Purtroppo anche questa forma di
bullismo non viene sempre considerata con la dovuta attenzione da parte
dell’adulto, che può erroneamente ritenerla solo una forma di immaturità o di
maleducazione da parte degli allievi coinvolti.
bullismo indiretto e manipolativo: una delle forma più subdole e
preoccupanti di bullismo. Consiste fondamentalmente nella manipolazione e
nella rottura dei rapporti di amicizia di cui gode la vittima, al fine di portarla
34
ad un progressivo isolamento sociale. Anche in questo caso, le conseguenze
possono essere particolarmente destabilizzanti: completo crollo
dell’autostima, sentimenti di depressione collegati al proprio stato di
solitudine, sviluppo progressivo di una radicata incompetenza sociale ecc…
Inoltre questo stato di isolamento rende il soggetto ancora più esposto a tutte
le altre forme di bullismo. Nonostante le conseguenze siano così
drammatiche, spesso questo tipo di bullismo viene trascurato, per due ragioni
fondamentali. In primo luogo, è difficile da rilevare, al contrario
dell’aggressività fisica che lascia segni evidenti e immediati. In secondo
luogo, è problematico comprendere quando l’isolamento sociale di alcuni
allievi è frutto di questa forma di bullismo, oppure è il risultato di scarse
abilità sociali possedute dal ragazzo. Anzi, in alcuni casi, la vittima può
essere accusata dagli adulti di essere incapace a stabilire delle amicizie,
aggiungendo così la beffa al danno già subito. Questa forma manipolativa di
bullismo è più frequente tra le ragazze39.
1.4.2 Il Bullo
Sicuramente i “bulli” nel senso generale del termine, non sono una
novità di oggi, ma fino a qualche anno fa si identificavano con immagini di
personaggi, talvolta divertenti, dal comportamento solo un po’ sfrontato e
ridicolo per mettersi al centro della scena e guadagnarsi l’attenzione degli
altri. Oggi non è più così. Al termine bullo si associa quasi sempre
39Cfr. Rivista GIUNTI – Psicologia e scuola, 122 Anno XXV dic/gen, 2004-2005, pp 46 –
47.
35
un’immagine di persona spavalda, arrogante, trasgressiva e violenta che mira
deliberatamente a intimidire e a fare del male per affermarsi e sottomettere gli
altri40.
Una caratteristica distintiva dei bulli, implicita nella loro stessa
definizione, è l’aggressività verso i coetanei. Ma i bulli sono spesso
aggressivi anche verso gli adulti, sia genitori che insegnanti.
Un comportamento da bullo, dunque, è un tipo di azione che mira
deliberatamente a far del male o danneggiare; spesso è persistente, talvolta
dura per settimane, mesi e persino anni ed è difficile difendersi per coloro che
ne sono vittime. Alla base della maggior parte dei comportamenti
sopraffattori c’è un abuso di potere e un desiderio di intimidire e dominare.
Alcuni comportamenti da bullo possono essere molto sottili. Una volta
che un alunno o un gruppo di alunni abbiano stabilito una relazione di
dominanza rispetto a un altro alunno o gruppo di alunni, talvolta è loro
sufficiente solo uno sguardo minaccioso per ribadire la propria situazione di
forza.
Generalmente, però, i bulli hanno un atteggiamento positivo verso la
violenza e verso l’uso di mezzi violenti. Sono spesso caratterizzati da
impulsività e da un forte bisogno di dominare gli altri, mentre mostrano
scarsa empatia nei confronti delle vittime41. I bulli hanno spesso un’opinione
relativamente positiva di se stessi. Se sono maschi, tendono ad essere
fisicamente più forti dei maschi in generale e delle vittime in particolare. Il
40MARIALINA LEONE, Bullismo:malessere sociale o predisposizione genetica?, Carello editore, 2000, Roma, p. 5.
41 L’empatia è la capacità di immedesimarsi negli stati d’animo dell’altro. L’assenza di questa caratteristica nel bullo è attribuibile alla deumanizzazione della vittima, il non considerarla come una persona con dei sentimenti impedisce l’empatia tra bullo e vittima.
36
bullo prova soddisfazione nel far soffrire, fisicamente e psicologicamente, il
suo bersaglio umano anche se questo manifesta chiaramente il suo profondo
disagio o addirittura dolore fisico e interiore. Il comportamento del bullo si
protrae nel tempo ed anche per questa ragione porta la sua vittima a vivere
l’ambiente scolastico come un luogo insicuro e ostile.
In genere il persecutore utilizza come arma per farsi temere e quindi
per rendere la vittima docile al comando, la sua maggiore età o la sua forza
fisica.
1.4.2.1. Il bullo aggressivo
Questo è il bullo che tutti noi conosciamo: sicuro di se, spavaldo, duro
e insensibile verso i sentimenti degli altri. Probabilmente è circondato da
amici ed è molto popolare nel gruppo dei pari, si da importanza e si prende
quello che vuole, non si sottomette subito all’autorità ed è un elemento
difficile da gestire per insegnanti e adulti. Può essere coinvolto anche in altre
forme di comportamento antisociale, come furti e atti vandalici42. Il bullo
aggressivo deve imparare a controllare la sua aggressività e a riconoscere e
valutare i bisogni e i sentimenti degli altri.
Si tratta di un soggetto con buoni livelli di autostima; generalmente
non presenta difficoltà sul piano cognitivo, anzi possiede delle ottime capacità
di pianificazione, che utilizza per progettare e attuare i propri comportamenti
aggressivi, evitando di essere scoperto dall’adulto. Presenta livelli ridotti di
attivazione emozionale: può apparire freddo, comunque possiede un buon
42 S. LAWSON, Il Bullismo: suggerimenti utili per genitori e insegnanti, Editori Riuniti, Roma 2001, p. 32.
37
livello di autocontrollo emotivo. Queste abilità gli permettono di scegliere
accuratamente la vittima, in modo di evitare rischi di ritorsione. Inoltre è
quasi assente la tendenza ad empatizzare con la vittima: di conseguenza,
raramente prova quei sensi di colpa che, se sperimentati, potrebbero agire da
freno ad ulteriori atti aggressivi. E’ spesso presente anche una forte capacità
di leadership43, che permette al ragazzo di circondarsi di complici fidati. Tali
caratteristiche, nel complesso rendono il bullo un soggetto spesso popolare ed
apprezzato dai compagni. Ha bisogno di essere seguito da vicino sia a casa
che a scuola e gli si impone una serie di regole alle quali attenersi senza
eccezioni, accompagnate da punizioni che dovrà innanzitutto comprendere e
quindi scontare, in caso di trasgressione. Le regole, però, devono essere
realistiche e il comportamento positivo va lodato e premiato con la stessa
assiduità con cui si condanna e si punisce quello negativo.
1.4.2.2. Il bullo ansioso
E’ probabile che questo soggetto sia contemporaneamente vittima e
bullo. La sua personalità è caratterizzata da bassa autostima, ansia e instabilità
emotiva. E’ anche probabile che il bullo ansioso non sia molto popolare tra i
compagni e che vada male a scuola. In questo caso, si registrano elevati livelli
di attivazione emozionale: il ragazzo si presenta impulsivo, con scarso
controllo sui propri stati emotivi, dando luogo spesso ad eccessi di rabbia
imprevedibili ed estemporanei. Presenta di frequente difficoltà a livello
43 La capacità di leadership del bullo spesso lo porta a coinvolgere nelle sue azioni contro le vittime altri compagni i quali lo seguono perchè vogliono stare dalla parte del più forte per paura di diventare una delle sue vittime o per non sentirsi esclusi dal gruppo di amici. Di conseguenza a questa aggregazione si può anche assistere alla formazione delle bande giovanili o meglio baby gang.
38
cognitivo, che possono sfociare in veri e propri disturbi dell’apprendimento.
Sono possibili disturbi dell’umore e il ricorso a sostanze stupefacenti.
Le conseguenze per il bullo sono due: in primo luogo un soggetto così
irascibile ed imprevedibile andrà incontro ad un progressivo isolamento
sociale, in secondo luogo, il bullo ansioso non sceglie in maniera razionale le
sue vittime; piuttosto, la sua tendenza a reagire in modo imprevedibile a
qualsiasi atteggiamento provocatorio dei suoi compagni potrà portarlo a
scontrarsi prima o poi, con un ragazzo più forte di lui, col quale finirà in una
posizione di inferiorità: da possibile bullo diventerà vittima dell’aggressività
altrui.
Il senso di fallimento lo spinge al bullismo, da cui ricava una
sensazione di potere e di successo che non riesce ad ottenere altrimenti. Il
bullismo concentra su di lui quella attenzione che tanto desidera, anche se si
manifesta sottoforma di paura e punizione. Comportarsi male può essere un
modo per vivere all’altezza dell’immagine negativa che si ha di se: sentendosi
dei cattivi soggetti, si comportano di conseguenza.
1.4.2.3. Il bullo passivo
Questo bambino ha un ruolo gregario nel branco. Non gli interessa
tanto prevaricare gli altri, quanto invece essere parte del gruppo ed è quindi
disposto a fare cose che sa non essere giuste, in parte per farsi accettare, e in
parte perché non si sente responsabile personalmente di quelle azioni. Il bullo
passivo può anche sentirsi più sicuro all’interno del branco, piuttosto che
correre il rischio di essere vittima. E’ possibile che si rende conto del male
39
che infligge alla vittima, per poi sentirsene colpevole in seguito. Dato che il
bambino non ha un bisogno o un desiderio reale di prevaricare gli altri,
abbandonerà questo atteggiamento se gli svantaggi superano i vantaggi.
1.4.2.4. Bulli temporanei
Non tutti bulli si comportano così per problemi radicati nel loro
processo di crescita o per la loro situazione familiare. A volte eventi
traumatici possono innescare un comportamento aggressivo. Se trattato con
attenzione, il bullismo temporaneo tende a svanire quando le forti emozioni
che lo hanno scatenato si sono placate44.
I bulli sono spesso circondati da un gruppo di due o tre coetanei, da cui
sono sostenuti e che simpatizza per loro.
Il bullismo, infatti, si presenta spesso come fenomeno di gruppo.
Sono cinque i fattori che inducono il bullo e i complici a
coalizzarsi(Menesini, 2000; Sullivan, 2000; Perry, 1988):
compiere un atto aggressivo in gruppo rende molto più difficile
l’ intervento degli insegnanti, sia nell’accertamento dei fatti sia
nell’assunzione di provvedimenti disciplinari. Infatti, è ben diverso adottare
sanzioni nei confronti di un singolo allievo che ha colpito un compagno ed
assumere le stesse misure nei confronti di un gruppo di sette-otto ragazzi, che
insieme hanno aggredito la vittima. Nel secondo caso, gli aggressori potranno
fornirsi giustificazioni a vicenda;
44 Ibidem, p. 33.
40
il bullo può rappresentare un modello positivo per i compagni.
Infatti, si mostra forte, è in grado di sfidare l’autorità dell’insegnante a spesso
i vantaggi che ottiene con il suo comportamento aggressivo possono essere
superiori agli svantaggi ed alle punizioni ricevute;
in gruppo, diminuiscono le inibizioni sociali. Di conseguenza,
talvolta si ritrovano nei gruppi aggressivi anche soggetti che, presi
singolarmente, non metterebbero in atto quei comportamenti devianti;
Il gruppo ha anche l’effetto di diluire le responsabilità
individuali, imitando il comportamento dei compagni e condividendole con
gli altri;
Lo stesso fenomeno di deumanizzazione della vittima può
indurre gli altri compagni a considerarla responsabile, almeno in parte, del
fatto di subire l’aggressività del bullo45.
1.4.3 La vittima
Le vittime del bullismo, invece, presentano una scarsa autostima e
soprattutto nutrono poca fiducia nelle proprie capacità fino a diventare
ansiosi, timidi e chiusi in se stessi. Possono avere difficoltà nel sentirsi
accettati dagli altri, convincendosi di essere incapaci di concludere qualcosa
di positivo.
Questo atteggiamento può attirare ulteriori maltrattamenti e il risultato
del bullismo subìto a scuola è un adulto imprigionato a vita nel ruolo di
45 Cfr. Rivista GIUNTI, “Psicologia e scuola”, 122 Anno XXV dic/gen, 2004-2005, pp.
49,50.
41
vittima. La vittima è un soggetto ipersensibile e percepisce se stesso come
vulnerabile e impotente di fronte al suo torturatore subendone passivamente le
angherie più efferate. Ha paura, inoltre, di raccontare quello che subisce
perché teme ritorsioni e di non essere creduto; scivola, così, giorno dopo
giorno, nel buio della totale disistima verso se stesso, incapace di tagliare i
lacci psicologici della sottomissione che ha ormai interiorizzato. I ragazzi
complici di coetanei aggressori, possono manifestare le caratteristiche che
sono comuni alle vittime. Anche solo chi è testimone del bullismo può
rimanere coinvolto sentendosi angosciato e in colpa, spaventato all’idea di
poter essere la prossima vittima. Il bullismo quindi non è una normale e
innocente marachella da bambini, ma è dannoso e pericoloso per tutti quelli
che ne vengono coinvolti.
Si è cercato di suddividere in categorie le vittime, che si
distinguerebbero sommariamente in due tipi: la vittima passiva e la vittima
che provoca.
1.4.3.1. La vittima passiva
Le vittime passive sono solitamente più deboli dei ragazzi in generale,
più ansiose e insicure degli studenti in generale. Inoltre sono spesso caute,
sensibili e calme. Se attaccate da altri studenti, in genere reagiscono
piangendo e chiudendosi in se stesse. Le vittime passive, soffrono anche di
scarsa autostima e hanno un’opinione negativa di se e della propria
situazione. Spesso si considerano fallite e si sentono stupide, timide e poco
attraenti. Solitamente, vivono a scuola una condizione di solitudine e di
42
abbandono. Di regola, non hanno un buon amico in classe46. Il bambino
timido e tranquillo è una vittima facile e invitante. E’ un soggetto ansioso,
con scarsa autostima, incapace di difendersi, che crolla facilmente di fronte
allo scherno, allo minacce e all’aggressione del bullo.
Il comportamento e l’atteggiamento delle vittime passive segnalano
agli altri l’insicurezza, l’incapacità, nonché l’impossibilità o difficoltà di
reagire di fronte agli insulti ricevuti. Ragazzi con tali caratteristiche hanno
probabilmente difficoltà ad affermare se stessi nel gruppo dei coetanei. Ci
sono perciò buone ragioni per credere che queste peculiarità contribuiscano a
renderli vittime del bullismo. Nello stesso tempo, è ovvio che l’attacco
ripetuto da parte dei coetanei aumenti considerevolmente la loro ansia, la loro
insicurezza e la valutazione negativa di se stessi.
1.4.3.2. La vittima che provoca
Questa vittima attira su di se il bullismo a causa del suo
comportamento sopra le righe47. E’ un soggetto irascibile, che crea situazioni
conflittuali e reagisce agli insulti e al bullismo, forse aggravandoli.
Si tratta di ragazzi che presentano difficoltà di autocontrollo
comportamentale, deficit d’attenzione ed impulsività.
46 Le vittime passive non sono soggetti aggressivi, né molesti; per questo, non si può
spiegare il bullismo attribuendolo alle provocazioni delle vittime stesse. Spesso questi ragazzi hanno un atteggiamento negativo verso la violenza e l’uso di mezzi violenti. Se sono maschi, probabilmente sono fisicamente più deboli della media.
47 Le vittime che provocano a differenza delle vittime passive, con il loro comportamento disturbante possono determinare negli altri tali livelli di irritazione, da indurre una risposta aggressiva nei loro confronti.
43
Questi studenti hanno spesso problemi di concentrazione e si
comportano in modo tale da causare irritazione e tensione; alcuni di questi
possono essere definiti iperattivi. Non è raro che il loro comportamento
provochi reazioni negative da parte di molti compagni o di tutta la classe. Le
dinamiche del bullismo connesse alla presenza di vittime provocative
differiscono in parte da quelle che coinvolgono vittime passive.
Etichettare i bambini/ragazzi come vittime per natura serve soltanto a
spostare la responsabilità e il senso di colpa dal bullo alla vittima. Non v’è
dubbio che alcuni bambini sono meglio equipaggiati di altri a resistere agli
attacchi dei bulli, perché hanno autostima, senso dell’umorismo e la capacità
di prendere la vita come viene, ma sarebbe sbagliato considerare la vittima
come un soggetto con qualche carenza o , in qualche misura, colpevole.
Tuttavia, dal punto di vista del bullo, alcuni bambini/ragazzi sono vittime
molto più facili di altri. Anche se non possiamo predire con certezza quale
singolo individuo diventerà una vittima, possiamo identificare dei fattori che
espongono a rischi decisamente maggiori.
Il bullo è alla ricerca proprio di quei punti deboli che può facilmente
scoprire e quindi sollecitare, provocando una risposta immediata e intensa che
gli conferisce potere sulla vittima. Questo punto debole può avere origine
nella famiglia, essere causato dai genitori o dai compagni, e venire
identificato più facilmente dal bullo per alcuni tratti che contraddistinguono la
vittima dagli altri.
Nel fenomeno del bullismo, oltre alla vittima, al bullo e ai suoi
complici, troviamo un quarto protagonista:
44
1.4.3.3. Lo spettatore silenzioso
Spesso i ragazzi che assistono agli episodi di bullismo preferiscono
tacere o far finta di non aver visto. Le ragioni di questo loro comportamento
sono facilmente intuibili: non si intromettono perché hanno paura di
ritorsioni; oppure, ritengono che la vittima in qualche modo sia responsabile
di quanto accade; ancora, temono di diventare vittime a loro volta; ritengono
che il bullismo sia un fatto inevitabile; infine, non riescono ad empatizzare
con la vittima e, quindi, non sono motivati ad intervenire.
Finora si è parlato genericamente di soggetto bullo o vittima. Tuttavia,
esiste una forte eterogeneità fra i ragazzi che assumono comportamenti
aggressivi, così come tra quelli che diventano vittime.
Le etichette di vittima e di bullo possono essere fuorvianti. In moti casi
le ragioni che spingono un bambino a essere vittima o bullo sono le stesse;
succede addirittura che lo stesso soggetto rivesta simultaneamente entrambi i
ruoli o che si sposti da uno all’altro, in momenti diversi della sua crescita e
vita scolastica.
Peter Stephenson e David Smith48, due psicologi dell’età evolutiva, che
hanno condotto ricerche nelle scuole di Cleveland, individuano la chiave del
fenomeno nello squilibrio all’interno dell’interazione. Il bullo è più forte,
fisicamente o socialmente, o per entrambi gli aspetti, ed è pertanto destinato a
vincere sempre, mentre la vittima, più debole, perderà sempre.
48S. LAWSON, Il Bullismo: suggerimenti utili per genitori e insegnanti, Editori Riuniti– Roma 2001, p. 20.
45
Un altro dato importante riguarda la differenza dei comportamenti
bullistici tra ragazzi e ragazze.
Infatti, anche se non è sempre così, le ricerche e l’osservazione del
fenomeno hanno dimostrato che i ragazzi sono più diretti delle ragazze nel
loro approccio con il bullismo, tanto che fino a poco tempo fa era
universalmente accettato il principio che i ragazzi fossero più inclini al
bullismo delle ragazze, a causa della loro natura più aggressiva.
In realtà, una ricerca più recente ha rilevato che le femmine hanno le
stesse probabilità di commettere episodi di bullismo, anche se questi si
manifestano in forme differenti, e non sono sempre riconosciuti da insegnanti
e genitori come tali. Non sono stati condotti molti studi per stabilire quanto la
separazione dei maschi dalle femmine incida sulla percentuale e sulla natura
del fenomeno, ma i dati esistenti indicano che le scuole miste sono più sicure
per ragazzi e ragazze.
Probabilmente la radice del problema è la mancanza di una guida forte
nella vita dei ragazzi: lo scarso controllo di adulti e genitori. Il fenomeno, in
realtà, colpisce chiunque. Spesso la vittima si trova semplicemente nel posto
sbagliato e al momento sbagliato, il ragazzo che dopo la scuola torna a casa
da solo, è un bersaglio più facile di chi cammina in mezzo agli amici o di chi
si fa venire a prendere dai genitori, ma il fatto che viva in una strada diversa
rispetto agli amici non dice assolutamente nulla di lui come persona.
I parametri migliori per valutare il problema, in ogni caso, sono
probabilmente le osservazioni di coloro che lavorano a stretto contatto con i
ragazzi: insegnanti, assistenti sociali, psicologi e altre figure professionali ed
46
educative. Michelle Elliot, insegnante e psicologa dell’età evolutiva,
fondatrice di Kidscape49, afferma che il bullismo è non soltanto in crescita,
ma che anche le modalità di aggressione dei bulli sono più perverse: si usano
coltelli fiammiferi, quando prima si davano pugni e calci. Questa
accentuazione della violenza e della gravità del fenomeno si accompagnano
all’abbassamento dell’età: è successo addirittura che un bambino di sette anni
desse fuoco a un suo coetaneo.
Sarebbe, comunque poco realistico pensare che si possa cancellare
completamente il fenomeno del bullismo: ci saranno sempre alcuni ragazzi
che sentendosi spaventati, infelici, inadeguati o semplicemente insopportabili,
ritengono che ferire o intimidire gli altri, aiuti a colmare le proprie lacune. Se,
però, genitori, scuola e ragazzi lavorano congiuntamente, gli effetti del
bullismo possono essere minimizzati, talvolta usati addirittura a vantaggio di
tutti.
49 Kidscape è una agenzia di volontariato che si trova in Gran Bretagna che ha il compito di
effettuare ricerche sulla natura e sulla frequenza del bullismo e di approntare programmi di formazione per chi lavora a contatto con i ragazzi al fine di riconoscere e di prevenire il fenomeno.
47
CAPITOLO ΙΙ: IL GRUPPO DEI PARI TRA “CENTRO”E “PERIFERIA”
2.1. Le caratteristiche del gruppo dei pari
Con il termine adolescenza si intende il periodo che intercorre tra
l’infanzia, la fanciullezza e l’età adulta. Durante l’infanzia avviene in modo
ininterrotto un processo di crescita, ma la crescita accelera e acquista un
significato decisivo quando il bambino giunge all’età di dodici anni. Egli
cresce in qualità e quantità. Non c’è solamente un aumento di statura e di
peso, uno sviluppo della capacità mentale e della forza fisica, ma anche un
cambiamento di modo di essere, un’evoluzione della personalità50. È una fase
evolutiva dunque, che va all’incirca dai 14 anni ai 18-19 anni e si caratterizza
per una serie di trasformazioni fisiologiche, psicologiche e sociali, le quali
portano ad una trasformazione globale della personalità del ragazzo che
attraversa questa fase di transizione. A questo proposito M. Debesse afferma
che: “L’adolescenza è un’età chiusa, volutamente segreta, che sfugge ai
perché o dà risposte non sempre attendibili; essa è anche un’età mutevole, il
cui modo di manifestarsi può disorientare l’osservatore più attento; e si
illude facilmente sul proprio conto”.51Il significato peculiare
dell’adolescenza, tuttavia, è stato compreso pienamente solo in epoca recente,
infatti, “ l’adolescenza è stata a lungo trascurata. Oggi invece, essa suscita
un forte interesse in un pubblico sempre più vasto, così come lo farebbe un
nuovo continente appena scoperto. I romanzieri, vi cercano spesso i loro
50G. CASTLLIO, L’adolescenza e i suoi problemi, Ed. Le Monnier, , Pamplona 1981, p. 18. 51M. DEBESSE, L’adolescenza, ed. A.V.E., Roma 1966, p. 17.
48
personaggi. Gli uomini di stato contano su di essa. I giornalisti la incensano
senza riserve e si tende a creare intorno ad essa una specie di mistica”52.
L’idea di gruppo è immediatamente presente all’esperienza quotidiana
di ciascuno, non altrettanto immediata invece è la definizione. Si potrebbe
dire in generale che il gruppo è una forma particolare di vita associativa che si
distingue da ogni altra per le sue particolari caratteristiche di ordine
psicosociale. Le sue dimensioni generalmente ridotte, la vicinanza anche in
senso fisico delle persone che lo compongono, l’immediatezza dello scambio
e della comunicazione, fanno si che i suoi membri possano intrattenere
costanti relazioni reciproche e possano percepirsi vicendevolmente come
persone al di la di ogni possibile mediazione di ruolo e posizione. Questo
comporta uno stretto intersecarsi di dinamiche individuali e sociali, che
costituiscono le peculiarità della vita di gruppo. In effetti tutti i fenomeni
interazionali tra persone che a vicenda si percepiscono e si riconoscono come
tali comportano una serie di processi e di strutture di ordine psicologico sia
sul piano cognitivo sia su quello emozionale: valutazioni, giudizi,
atteggiamenti, correnti di simpatia, repulsioni e attrazioni. Nell’ambito di un
gruppo la partecipazione all’elaborazione delle idee, alle decisioni, ai compiti
è molto più intensa, più immediata e personale, di quanto non sia in altre
forme della vita associativa. La percezione di sé come membro di un gruppo
serve come polo di articolazione particolare del comportamento e della
personalità in quanto il gruppo può diventare punto di riferimento, luogo di
convalida di atteggiamenti e di idee: in sintesi, pensare ed agire in quanto
52 Ibidem, pp. 9 e 21.
49
membro di un gruppo non è come pensare ed agire in quanto individui isolati.
Infine la percezione che la persona ha del gruppo in quanto gruppo, sia verso
l’interno sia verso l’esterno, costituisce una base per la coordinazione
collettiva dell’agire comune e per il sentimento di solidarietà e di
appartenenza53.
Fare parte di un gruppo, rafforza la propria autostima, ci si sente più
forti perché non soli, il gruppo conferisce un’identità e senso di appartenenza
ai suoi membri.
I gruppi, si possono distinguere in gruppi informali54 e gruppi
formali55. I primi si caratterizzano per l’assenza di controllo da parte degli
adulti e per il fatto di non avere particolari finalità e vengono definiti
variamente a seconda del luogo privilegiato in cui svolgono l'attività in
comune56. I gruppi formali invece, a differenza di quelli informali, sono
costituiti da ragazzi che hanno interessi comuni e che in qualche modo si
trovano a far parte dello stesso gruppo perché obbligati da determinate
circostanze, come l’appartenere allo stesso gruppo – classe o ad una squadra
sportiva.
Tuttavia bisogna distinguere ulteriormente i gruppi a seconda delle
dimensioni del gruppo stesso, infatti, esistono i piccoli gruppi (costituiti da
meno di 5-6 ragazzi) all’interno dei quali tendono a stabilirsi rapporti faccia a
53 P. A. AMERIO, P. BOGGI CAVALLO, A. POLMONARI, M. L. POMBENI, Gruppi di
adolescenti e processi di socializzazione, Il Mulino, Bologna 1990, pp. 34, 35. 54 Si intende per gruppi informali quei tipi di gruppi composti da ragazzi che non hanno
necessariamente uno scopo, un obiettivo o un interesse comune, ma che si formano attraverso scelte autonome da parte dei ragazzi stessi.
55 Per gruppi formali si intendono gruppi composti da ragazzi uniti tra loro da interessi, scopi o obiettivi comuni (quali la classe scolastica o la squadra sportiva).
56P. Bertolini ”La responsabilità educativa” p. 227.
50
faccia, scambi centrati su forme di confidenza e di intimità che possono
scivolare in rapporti disdici. Un rapporto privilegiato tra due ragazzi non è
ovviamente controproducente in assoluto, anzi le relazioni amicali possono
suscitare sentimenti di solidarietà e pratiche di aiuto reciproco spesso
favorevoli a un cambiamento del modo di rapportarsi all’altro. Lo scopo della
vita di gruppo non è tanto quello di favorire amicizie, quanto quello di
provocare, attraverso l’esperienza del fare insieme, una rivisitazione del
proprio modo di pensare l’”altro generalizzato” e di rapportarsi ad esso.
Nei grandi gruppi (costituiti da più di dieci ragazzi), invece, tendono a
svilupparsi, in modo quasi automatico, delle gerarchie interne fondate sulla
distribuzione di ruoli e di potere che spesso annullano qualunque forma di
comunicazione e conoscenza reciproca tra i ragazzi. Anche in questo caso, il
dispositivo della gerarchia non è non è da evitare in assoluto in quanto esso
permette una certa organizzazione del gruppo stesso. I ragazzi addestrati a
dominare la realtà trovano nel grande gruppo un terreno favorevole per
riproporsi come leader tendenzialmente indifferenti al punto di vista altrui; i
ragazzi più propensi a subire le costrizioni di una realtà di cui non si sentono
attori, riescono facilmente a mimetizzarsi in un gruppo che per le sue stesse
dimensioni consente loro di scomparire come protagonisti.57
Tuttavia bisogna precisare che lo sviluppo della socialità
dell’adolescente, comincia con il superamento dell'egocentrismo infantile
verso i 9/11 anni, ma è solo verso i 15/16 anni che il sentimento della socialità
57P. BERTOLINI, L. CARONIA, Ragazzi difficili: pedagogia interpretativa e linee di intervento, Ed. La Nuova Italia, , Firenze 1993, pp. 143, 144.
51
orienta il soggetto verso rapporti di parità con gli altri e verso forme ideali di
amicizia che non devono più rispondere alla necessità di avere compagni con
cui giocare e divertirsi ma amici con cui coltivare ideali o condividere idee. In
questo periodo della vita diventano fondamentali gli amici, che non sono più
dei compagni di giochi ma dei confidenti e delle persone con cui confrontarsi.
Si sente l’esigenza di fare parte di un gruppo di coetanei con cui trascorrere il
tempo libero, condividere interessi, confrontarsi.
La figura dell’amico del cuore in questo periodo acquisisce grande
importanza, ci si sente più sicuri quando si è con lui, lo si vede spesso come
uno da imitare, da cui trarre spunto per formarsi un’identità.
Durante l’adolescenza le relazioni con i coetanei acquistano quindi
molta importanza e provocano preoccupazioni ed interessi non trascurabili.
Gli adolescenti sono interessati a stabilire relazioni sociali e, pertanto,
scelgono attività dove tali relazioni possano essere facilmente allacciate. Ed è
in questo interesse sociale che si riscontrano le maggiori differenze tra i
gruppi di adolescenti e quelli dei fanciulli. I primi tendono, quando le
circostanze ambientali lo permettono ad una collettività mista di ragazzi e di
ragazze e a scegliere attività convenienti ad ambedue i sessi; inoltre le attività
dei gruppi di adolescenti sono principalmente di natura sociale mentre quelle
dei fanciulli sono piuttosto di tipo avventuroso. D’altra parte l’adolescente
possiede maggiormente la coscienza di appartenere a un gruppo, dà maggiore
importanza all’esperienza soggettiva nella sua vita di gruppo, ed è più
sensibile ai sentimenti di accettazione o di rifiuto di cui si sente oggetto.
52
All’interno del suo gruppo di pari l’adolescente sperimenta i suoi
bisogni sociali ed affettivi, trova un contenitore e un sostegno, utilizza
l’identità collettiva per consolidare quella personale; è nel gruppo che
l’adolescente si definisce e si attribuisce un valore personale. Il gruppo quindi
è un'area che permette o meglio facilita il passaggio dall'infanzia all'età
adulta, dalla famiglia alla società.
Il contatto con il gruppo dei pari assume dunque grande rilevanza
proprio in concomitanza con i primi tentativi di emancipazione del ragazzo
dalla famiglia: infatti il tentativo di superamento della dipendenza dagli adulti
è legato all'instaurarsi di nuovi legami nell'ambito del gruppo dei pari e di
nuove regole condivise con i coetanei. Il gruppo adolescenziale fonda un
proprio linguaggio e propri valori orientando atteggiamenti e comportamenti
del singolo. L'appartenenza al gruppo, grazie alle regole stabilite, richiede
autentiche dimostrazioni di fedeltà, determinando quei fenomeni di
conformismo e di contagio che caratterizzano i gruppi adolescenziali. La
psicologia dei gruppi, tuttavia, varia in rapporto all'età di coloro che li
compongono, secondo la loro patologia mentale, secondo la cultura alla quale
essi appartengono.
Ma come accade per gli adulti, le relazioni del gruppo sono presenti
nel corso dell'evoluzione della vita del bambino e dell'adolescente e la
tendenza al raggruppamento presenta un carattere specifico già dalla più
tenera età.
Nell'età scolare, infatti, la proposta del "gruppo-classe" assorbe e
soddisfa la quasi totalità dell'attrazione per il gruppo, che caratterizza allora la
53
dinamica psichica del bambino; questo gruppo organizzato dall'adulto
privilegia i comportamenti di affiliazione, tradizionalmente funzionali
all'apprendimento, danneggiando spesso la creatività. Il gruppo vero e
proprio, tuttavia, si può formare solo in seguito ad una presa di distanza nei
confronti dell'adulto. Questa soluzione sembrerebbe essere per l'adolescente
l'unica possibile per accedere all'autonomia. Così il gruppo gli permetterà di
separarsi dal suo nucleo familiare. Per questo motivo, il riconoscimento e
l'elaborazione del divario tra il suo ideale dell'io e quello del gruppo gli
permetterà di costruirsi il suo futuro ideale dell'io e di accedere ad un'altra
tappa della socializzazione, utilizzando l'ideale gruppale come sostegno dei
suoi oggetti di identificazione.
La socievolezza crescente durante l’adolescenza, il bisogno di far parte
di un gruppo, di essere accettato dai coetanei, quindi, non è fortuita, né
casuale, né senza importanza. Il gruppo “spontaneo” di adolescenti è una
esigenza dello sviluppo adolescenziale nella nostra società moderna. Tuttavia
essendo l’adolescenza una riorganizzazione della personalità su di una base di
indipendenza; tale riorganizzazione è dovuta a molteplici fattori di ordine
personale e ambientale e cambia radicalmente il senso della motivazione
dell’età precedente. Infatti l’adolescente ricerca uno status indipendente, non
si accontenta più di uno status fondato sull’accettazione di una autorità
superiore. L’adolescente per il suo status è più vicino all’adulto che al
bambino, e vuol essere trattato da adulto, vuol essere riconosciuto come
54
persona indipendente. 58 Attraverso la ricerca e la formazione del gruppo gli
adolescenti rispondono all’esigenza appunto di dare una soluzione alla
privazione di status indipendente nella società urbana, ma il gruppo per
l’adolescente risponde anche ad altre esigenze di questa età. Infatti, il gruppo,
con l’appoggio emotivo che fornisce, aiuta l’adolescente ad emanciparsi dai
suoi genitori: perché quando l’adolescente deferisce al gruppo il diritto di
proporre norme di condotta, egli afferma per ciò stesso, il diritto
all’autodeterminazione proprio perché non è diverso dai suoi coetanei. Inoltre
il gruppo è un mezzo protettivo contro l’autorità e le interferenze dell’adulto:
infatti esso permette esperienze ed apprendimenti di ogni genere e, quando lo
permetta l’ambiente, offre la occasione ai ragazzi e alle ragazze di stare
insieme. Infine, il gruppo riduce la massa delle frustrazione, e non solo di
quelle che sono legate all’adolescenza stessa, ma anche di quelle che toccano
solo determinati adolescenti. Una ulteriore componente fondamentale
all’interno dei gruppi è la solidarietà dei componenti che rende i gruppi molto
compatti, infatti, i giovani si sostengono reciprocamente e si contrappongono
al mondo degli adulti.
Il gruppo di compagni domina i pensieri ed il comportamento
dell’adolescente, infatti, è estremamente difficile che egli violi
deliberatamente le regole del gruppo. Il gruppo di compagni è composto da
individui che si trovano approssimativamente allo stesso livello di sviluppo
emotivo; età cronologica o capacità intellettuale, malgrado entrambe abbiano
un certo peso, non sono elementi determinanti. Benché, in apparenza, il
58 G. LUTTE, L’adolescente e il suo gruppo: un reattivo sociometrico per la scuola secondaria, Pas – Verlag, Zurich – Schweiz, 1964, pp. 9, 10.
55
gruppo sembri dominato dall’autorità di alcuni dei suoi componenti, la sua
forza coesiva interna consiste per la maggioranza dei suoi membri, nella
reciproca empatia emotiva. Può accadere che individui eccessivamente incerti
cerchino di inserirsi in un gruppo incompatibile con la loro personalità, ma in
questo caso essi imitano i componenti del gruppo per ottenerne
l’approvazione; tendono però a rimanere al limite del gruppo mentre gli
autentici componenti ne formano l’elemento intrinseco59.
Malgrado il severo controllo che domina il gruppo, l’alleanza non dura
per sempre; quando uno dei componenti si dimostra disubbidiente, viene
escluso dal gruppo. Può anche darsi che egli si allontani di sua spontanea
iniziativa, se il corso del suo sviluppo emotivo si rivela diverso da quello dei
compagni, considerati nel loro complesso. Durante i periodi in cui il grado di
maturazione dell’individuo è soggetto ad accentuate oscillazioni, egli può
entrare a far parte di più di un gruppo. Si atterrà alle norme che regolano la
vita del gruppo che è, per il momento, maggiormente conciliabile col proprio
stato emotivo, per passare in seguito senza eccessive esitazioni ad un altro
gruppo, allorché l’ascesa o il regresso del suo livello di maturità
influenzeranno i suoi bisogni e le sue capacità60.
Accanto ai vantaggi dell’appartenere ad un gruppo, tuttavia, si possono
intravedere degli aspetti negativi: protetti dal gruppo ci si sente forti e si
possono commettere azioni sconsiderate dettate da sensazioni di onnipotenza,
59 Cfr. I. M. JOSSELYN, L’adolescente e il suo mondo, trad. di Giuliana Beretta, Giunti
Barbera, 1964, Firenze. 60 Ibidem, p. 51.
56
si possono assumere comportamenti contrari ai propri principi per la paura di
contraddire il gruppo e rimanere soli.
Spesso infatti gli adolescenti commettono trasgressioni in gruppo, ma
raramente, questi gruppi hanno le caratteristiche della banda dedita
abitualmente ad atti delinquenziali da cui ricavare profitto. Si tratta invece di
solito di gruppi formati da un nucleo di tre o quattro amici, in prevalenza
minorenni, a cui si aggiungono compagni più o meno occasionali, che
trascorrono in luoghi abituali di ritrovo gran parte del proprio tempo libero in
attesa di scoprire cosa fare e dove andare e soprattutto come divertirsi.
Improvvisamente però, e quasi insospettatamente, si ritrovano coinvolti
nell'iter di un procedimento penale per aver commesso un'azione di cui per lo
più ignorano la gravità e le conseguenze.
Ad ogni modo, il fenomeno della devianza di gruppo in Italia è
diversificato rispetto alle bande intenzionalmente organizzate e strutturate
gerarchicamente per commettere reati che si possono riscontrare in Paesi
europei ed extra europei. Laddove si verificano episodi di devianza commessi
da gruppi con modalità più o meno differenziate, si tratta comunque
principalmente di minori che spesso presentano gravi problematiche socio-
economiche e familiari. Considerando quindi l’insieme delle funzioni che il
gruppo di coetanei assume, si comprende la sua importanza nello sviluppo
adolescenziale almeno nella nostra cultura urbana e industriale.
57
2.2. Il linguaggio adolescenziale e la cultura hip hop
L’uomo, nella sua evoluzione sociale e culturale, ha avvertito la
necessità non solo di comunicare con i suoi simili, ma di tramandare le sue
esperienze di vita e le sue invenzioni. L’uomo sociale è nato ed è cresciuto di
pari passo con il linguaggio, cioè con quella somma di suoni (parole)
articolati e ponderati che l'essere umano emette in numero quasi illimitato di
combinazioni.
La lingua ha due generi di espressione: l'intellettuale e l'affettivo.
L'espressione intellettuale permette a chi scrive di vedere quel che ha da dire
con calma, di rileggere il già scritto per disporre il pensiero in proposizioni il
più coordinate possibile, in modo da fornire non solo un pregevole contenuto,
ma anche una forma di espressione comprensibile a tutti. L'espressione
affettiva invece, comporta la necessità non solo di pensare e di esprimersi nel
tempo stesso, ma anche di dover pensare, nel momento in cui si esprime il già
pensato, a quello che si deve dire subito dopo. Ciò comporta,
necessariamente, la volontà di esprimere i nostri pensieri e sentimenti allo
stato grezzo, data la contingente immediatezza, in modo che la parola usata
sia compresa in ogni caso da chi ci ascolta. Ed ecco, quindi, che usiamo non
solo le espressioni immediate di nostri sentimenti, ma anche le frasi fatte, di
dominio comune, ed i modi di dire presi dal nostro dialetto (a volte anche
espressioni volgari): parole che vengono spontanee in mancanza di modi di
dire più ricercati, che non si ha il tempo di realizzare nella mente nell'urgenza
dell'esprimersi. Queste ultime considerazioni comportano una ulteriore
58
distinzione sulle componenti dell'espressione affettiva: la lingua espressiva e
la lingua dell'uso.
La lingua espressiva ama la formulazione imprecisa, istintiva, del
pensiero o del sentimento, poichè conta su un uditorio che è, o può essere
portato, nello stesso stato d'animo di chi parla, e quindi può comprenderlo in
tutto ciò che è sottinteso, ma è richiamato all'attenzione da determinate parole
come da gesti abituali o mnemonici.
La lingua dell'uso, altra componente dell'espressione affettiva, obbliga
chi parla o scrive di porsi al livello medio degli ascoltatori o lettori; ciò
perchè, per farsi comprendere, bisogna usare soltanto quelle parole che si è
certi tutti riescono a capire. Praticamente la lingua dell'uso è una lingua
approssimativa, generica, fatta più di segni di idee e di cose piuttosto che di
parole che servono ad indicare quelle idee e quelle cose.
Ogni contesto, ogni luogo ed ogni situazione richiede un modo di
comunicare e dunque anche un linguaggio differente ad ogni occasione.
Anche nel gruppo di adolescenti si può notare un utilizzo abbastanza
particolare del linguaggio comune.
Come ben sappiamo l’adolescenza è una fase molto ampia in cui
avviene un’evoluzione continua e significativa, ed in cui non è possibile
proporre delle generalizzazioni. Si costituisce essenzialmente come un
periodo di “iniziazione” alla vita adulta, che comporta la celebrazione di
alcuni rituali, elementi visibili attraverso i quali le società conferiscono il
riconoscimento dello stato adulto. I più anziani avevano il dovere di
trasmettere ai giovani il loro sapere e, una volta che questi erano diventati
59
adulti, il potere. Oggi questi rituali sono sempre meno frequenti e le
generazioni più anziane spesso non rappresentano più per i giovani né una
fonte di sapere, né un modello da imitare. Ecco perché i giovani tendono a
distinguersi dalle generazioni che li hanno preceduti, anche attraverso
l'utilizzo di particolari codici comunicativi ed interpretativi che consentono
loro di spiegarsi e di comprendersi con un linguaggio nuovo e originale, il
quale porta alla formazione di un vero e proprio lessico adolescenziale61.
All’interno del lessico adolescenziale è poi possibile ricavare lessici ancora
più particolari e ristretti a gruppi di dimensione molto variabile, classificabili
secondo una vasta tipologia di appartenenze.
Si passa così da un “dialetto di riferimento” (o parlata geografica) ad
una “categoria sociale e di ambientazione” (studenti, operai, città, periferia,
paese…) ad una “categoria di gruppi” (metallari, skinhead, ambientalisti,
motorizzati …). La caratteristica dominante del lessico giovanile riguarda
l’uso di termini non convenzionali e di espressioni che sarebbero considerate
improprie e censurabili in altri contesti.
Così si viene a creare un vero e proprio gergo62 che i giovani utilizzano
per nascondere le loro situazioni camuffe (quelle "in cui si fa qualcosa di
nascosto"). Come se proteggessero i loro atti più proibiti - o più deprecati
61 Per lessico adolescenziale si intende il particolare modo di esprimersi dei giovani, allo
scopo di prendere le distanze dagli adulti e comprende una serie di espressioni esclusive di una determinata fascia di età. Il modo di parlare degli adolescenti è costituito da parole che la maggior parte delle volte sono sconosciute agli adulti, ed in questo modo, arrivano a costituire un vero e proprio gergo o anche dialetto, paragonabile ai dialetti comunemente riconosciuti dalle popolazioni dei vari centri urbani.
62 La parola “gergo” deriva probabilmente dall’antico francese jargon, che significava “gorgheggio degli uccelli”, quindi una lingua incomprensibile. In effetti, anche oggi parliamo di “gerghi” quando vogliamo riferirci a una varietà particolare di lingua usata da un numero ristretto di persone, spesso (ma non sempre) a fini criptici, di segretezza (pensiamo per esempio al gergo della malavita!).
60
dagli adulti - non solo frequentando luoghi interdetti a chi è più vecchio e
isolandosi fisicamente, ma anche erigendo una barriera linguistica. Che è, tra
l'altro, una barriera sicura: così sicura che permette di trasgredire senza
nemmeno sottrarsi allo sguardo degli eventuali censori.
2.2.1. Il gergo
Il termine gergo (molto in uso anche slang, preso dall'inglese) è un
vocabolo usato comunemente per definire un qualsiasi sotto-linguaggio
utilizzato da specifici gruppi di persone. Generalmente ogni generazione o
gruppo etnico sviluppa un suo gergo, per il semplice fatto che parlano più
spesso "tra loro" che "con gli altri", oppure deliberatamente per non farsi
capire da chi non fa parte del gruppo.
I gerghi o varietà giovanili condividono con gli altri alcune
caratteristiche importanti: prima di tutto, il linguaggio gergale ha sempre
come utenti un gruppo omogeneo di persone legate da un’attività lavorativa o
un interesse o una condizione (per es., andare a scuola, frequentare la stessa
palestra, la stessa discoteca, lo stesso bar, nel caso dei giovani); in secondo
luogo, i gerghi hanno come fine l’autoaffermazione del gruppo
(particolarmente sentita è l’appartenenza al “branco” nel periodo
dell’adolescenza) e, nel caso degli studenti e dei giovani, anche il
divertimento; infine, i gerghi hanno tutti un carattere convenzionale, nel senso
che si innestano in modo parassitario nella lingua, ne rubano e ne trasformano
il lessico.
61
Le varietà giovanili, tuttavia, presentano un altro aspetto importante e
peculiare: la loro instabilità e transitorietà. Infatti, il gruppo di utenti cambia
continuamente e questo fa sì che anche il gergo usato si rinnovi a un ritmo
incredibile (un ritmo “generazionale”).
È difficile quindi parlare di un unico gergo giovanile, poiché, oltre alla
rapidità con cui si trasformano queste varietà linguistiche, dobbiamo
considerare anche la loro eterogeneità dal punto di vista dello spazio e dei
registri di formalità: un adolescente di Napoli si esprimerà in modo diverso da
uno di Venezia, ed entrambi useranno parole differenti parlando con un
professore invece che con un amico.
Esistono poi all’interno del gergo giovanile dei termini particolari che
descrivono alcune categorie di persone: soprattutto di giovani e soprattutto in
base al loro abbigliamento, al comportamento e alla musica che ascoltano. A
parte i truzzi e i fighetti (altro termine rassicurante, non solo adolescenziale,
indicante "ragazzi vestiti con abiti griffati e costosi"), si parla anche di
cabina, "ragazzi metà truzzi metà fighetti che si muovono sempre in
autovetture particolarmente elaborate soprattutto dal punto di vista estetico,
vestiti da truzzi, gomito fuori, e musica da discoteca a palla": chiunque e a
qualunque età ha presente questi cabina; ma nessuno che non sia adolescente
ha mai trovato un termine così divertente per definirli - forse non ha mai
neppure trovato un termine, divertente o meno. E il divertimento è un aspetto
pregevole di questa famiglia di termini: perché il loro intento non è solo
descrivere, ma prendere in giro alcune categorie di individui.
62
Il mondo adolescente è una galassia di pianeti a volte in collisione fra
di loro, e non solo con i meteoriti provenienti dal mondo adulto. E ogni
pianeta vuole distinguersi dagli altri: definendo cos'è attraverso
comportamenti, vestiti e generi musicali; e definendo cosa non è - un truzzo,
un fighetto, un cabina.
Il linguaggio giovanile appare dunque piuttosto pittoresco. L'originalità
di linguaggio è una caratteristica specifica dell'adolescenza. Per la sua
connotazione affettiva si presenta dotata di spontaneità, mosso dalle
impressioni e che appare più agile e sciolto che non linguaggio logico.
”La sua tendenza all'originalità lo porta a far uso di pronuncie
stravaganti, che talvolta possono essere capolavori di finezza ed altre volte
sguaiatezze plateali. Frequente è pure l'uso dell'antitesi per l’indubbio vigore
che conferisce all'idea. L'adolescente poi, facilmente confonde l'idea giusta
con la formula elegante. Così, egli raccoglie, quanto più può, parole ed
espressioni di proprio gusto, ne crea altre, mutua vocaboli e locuzioni
straniere, credendo di riuscire ad incarnare più compiutamente e più
vivamente quelle sue idee, che per lui stesso hanno contorni indefiniti è in
una parola un phraseur”63.
Inoltre vi è uno sforzo di adeguazione espressiva che è già cosciente
nell'adolescente, tanto cosciente da divenire talvolta tormentoso.
L'adolescente dimostra di tendere a portare "impressione" ed "espressione"
sopra uno stesso "livello" affettivo… da questa constatazione deriva un primo
tratto fondamentale del fenomeno di espressività, o meglio, di
63R: TITONE, L'insegnamento delle materie linguistiche e artistiche, Zurich, Pas-Verlag, 77, 78.
63
“autoespressività” nell'adolescente: l'inadeguatezza dell'espressione di fronte
all'impressione ed il conseguente senso di insufficienza. A tale inadeguatezza
espressiva collegata al desiderio di annullarla non risponde, tuttavia,
praticamente un effettivo sforzo per colmarla.
Ci si può, infine, chiedere se l'adolescente abbia coscienza
dell'evolversi del significato delle parole, specie di quelle di carattere
affettivo. “Il significato delle parole sono io, e quando cambio io…”, afferma
suggestivamente un adolescente. Pertanto, il problema della mutazione di
significato è caratteristicamente legato alle parole concernenti direttamente o
indirettamente il mondo affettivo; non esiste tale problema per le parole che
riguardano gli argomenti più comuni, più superficiali: non vi è in questi
campi un vero dissidio tra parola ed “impressione” 64.
Secondo alcuni psicologi, il fatto centrale del fenomeno pubertario
risulta essere la scoperta e l'affermazione dell’”Io” personale, insieme ad una
tendenza dinamica egocentrica che dominerà e influenzerà l'orientamento
generale del comportamento adolescenziale in funzione “auto-affermativa”65.
Anche il linguaggio assumerà questo tipo di caratteristica.
L'auto-affermatività del linguaggio adolescenziale ha inoltre una
connotazione più a tonalità affettiva che lo pervade. La dialettica sentimentale
64Ibidem, pp. 80, 81, 82. 65 L'auto-affermatività o assertività può essere definita come lo stile comunicativo che
caratterizza un individuo socievole, sicuro di sé e aperto al confronto. La condotta assertiva rimuove gli ostacoli che impediscono il contatto con gli altri e minimizza i rischi di in comprensione. La persona assertiva, infatti, sa innanzitutto comprendere gli altri e rispettarli; allo stesso modo, però, è in grado di salvaguardare i propri diritti. L'ambiente scolastico è molto importante per correggere alcuni squilibri che la nostra società continua a mantenere; a volte si tratta di un'occasione di crescita irripetibile per allievi che provengono da particolari contesti socioculturali. Scegliendo di educare all'assertività si può favorire il benessere dell'allievo, ma si può anche incidere, indirettamente, sul tessuto sociale.
64
dell'adolescente è, infatti, il derivato di una logica di sentimenti espressa in un
linguaggio di sentimenti.
L'adolescente quando parla tende ad affermare il suo personale
pensiero, il quale a sua volta è legato al suo personale modo di sentire. Egli è
un deciso affermatore delle sue ragioni pertanto, la psiche dell'adolescente è
trasportata da due opposte tendenze: la tendenza a seguire le suggestioni della
sua sentimentalità “immaginativa”, e la tendenza ad affermare dei puri
rapporti logici tra le idee. Ma le due tendenze nell'adolescente non si
oppongono: esse tendono costantemente a fondersi nella “logica
sentimentale”, la quale fa si che il giovane, pur credendo di affermare
l'universale validità di un concetto, non fa che dare sfogo ad un impulso
sentimentale larvato di rigore logico.
Quando si parla di lingua dei giovani, dunque, in genere si intende
lingua degli adolescenti: il loro gergo, quel bagaglio di neologismi,
deformazioni, iperboli di cui nessuno, a parte loro, deve possedere le chiavi.
Anno dopo anno, quel linguaggio che era stato una carta d'identità, e un
simbolo di appartenenza a un gruppo, a un'età, a un mondo, può sfuggire.
Così si inizia a usare un modo di parlare più neutro, con confini meno
marcati: il linguaggio degli adulti. Una lingua che serve a comprendersi, non
a distinguersi.
2.2.2. La cultura hip hop
La funzione primordiale del gruppo dei coetanei durante l’adolescenza
è quella di soddisfare le esigenze dello status indipendente durante questo
65
periodo della vita. Ciò spiega perché di frequente in questi gruppi regni un
orientamento anti-adulto pronunciato.
L’adolescente, cioè, è contro gli adulti perché questi sono i
rappresentanti di una casta privilegiata, che gli nega ciò a cui aspira.
L’opposizione è spiegata anche dal fatto stesso dell’esistenza di una
sottocultura, che sopravvive come tale nella misura in cui diverge dalla
cultura più generale.
La sopravvivenza della sottocultura come fonte di status, spiega anche
il conformismo che è stato spesso rilevato come caratteristica dei gruppi di
adolescenti. Questo conformismo, molto più forte che nei gruppi di bambini e
di adulti, si manifesta in vari modi: nel modo di parlare e di vestire, nelle
preferenze, nelle opinioni, nei disgusti, nei pregiudizi. Una delle
contraddizioni dell’adolescente è proprio questo gregarismo, questo
conformismo, e perfino questa schiavitù all’opinione degli altri, di fronte al
bisogno e al desiderio di indipendenza che è la linea maestra
dell’adolescenza. In realtà tale opposizione è solo apparente: nella nostra
società, l’adolescenza trova nel gruppo la forma più soddisfacente di status;
ma questo è legato a una determinata struttura di valori che non esisterebbe se
ognuno fosse libero di agire secondo la propria volontà66.
Una delle sottoculture più largamente diffuse è la cultura hip hop che
ha delle origini proprio nella disgregazione della società e nel non
riconoscimento del ruolo di gruppi di adolescenti all’interno della società
66CFR. G. LUTTE, L’adolescente e il suo gruppo: un reattivo sociometrico per la scuola
secondaria.
66
stessa, fino alla formazione di una cultura alternativa e di opposizione alla
cultura dominante.
L'hip hop nello specifico è un movimento culturale che nasce alla fine
degli anni Settanta come espressione della cultura di strada del South Bronx,
quartiere di New York caratterizzato da una dura quotidianità fatta di
violenza, droga e criminalità. L'abbondante presenza di palazzi abbattuti o
abbandonati, nella zona, era una conseguenza del progetto di ricostruzione
autostradale realizzato in quegli anni, che avrebbe permesso ai veicoli
provenienti da Manhattan, l'area ricca della Grande Mela, di uscire
rapidamente dalla città passando sopra agli edifici della zona povera senza
doverla attraversare. In questo contesto di degradazione urbana bande di
ragazzini pieni di immaginazione, ma a corto di soldi, iniziano a forgiare un
nuovo stile che stravolgerà completamente il concetto d'arte riportandolo, per
certi versi, alla sua più originale purezza quella che per generazioni era stata
soppressa nell’intento di cancellare le vecchie origini.
Dalla musica alla danza, dalla pittura alla vita vera e propria, l'arte
viene concepita come creazione spontanea e dirompente ovunque e
comunque, al di fuori dell'ambito commerciale. Dipingere illegalmente
graffiti su di un vecchio muro nel ghetto avversario significa crearsi un
proprio codice di autoregolamentazione e rinnegare il sistema d'arte
convenzionale, in quanto si produce un'opera non vendibile, accessibile a
tutti,e anonima per glie sterni.
Proprio per le circostanze di illegalità che circondano il disegno, il
nome nella firma viene sostituito con uno pseudonimo, chiamato "tag"
67
(firma), che talvolta compone il graffito stesso. I creatori della nuova cultura
si autodefiniscono "bboys" (termine tuttora utilizzato per i seguaci dell'hip
hop), e cioè i ragazzi del Bronx, ma anche i "black boys", i "bad boys" e i
"break-boy" o "boogie-boy" - coloro che ballano ai "block party" (evento di
strada che coinvolge il vicinato); le ragazze vengono invece definite "fly-girl"
o "b-girl".
I fattori che hanno influenzato la cultura hip hop sono complessi e
numerosi. Sebbene la maggior parte delle influenze possono essere
rintracciate nella cultura africana, la società multiculturale di New York è il
risultato di diverse influenze musicali che hanno trovato il loro modo di
esprimersi all'interno della musica hip hop. Il fenomeno hip hop si presenta
come un vero e proprio movimento d’avanguardia, di tipo composito, teso a
raccogliere la sfida del profondo sradicamento esistenziale, e del
disorientamento nella percezione e nella costruzione dell’identità del
soggetto. Con la denominazione di cultura hip hop, ci si riferisce alle diverse
forme che ne caratterizzano l’espressione sociale e sono:
1. lo MC abbreviazione del termine Master of Ceremonies (maestro
di cerimonie);
2. il DJ;
3. il Writing ovvero l’arte dei graffiti;
4. la Breakdance stile dinamico di danza introdotto dai portoricani.
68
Attraverso queste forme si delineano le tracce di una vera e propria
filosofia di vita che rivela un approccio culturale trasgressivo e dirompente
rispetto ai modelli sociali dominanti67.
La composizione delle modalità di espressione attraverso cui si è
affermato l’hip hop, evidenziano una grande attenzione verso le più
importanti forme della comunicazione, dalla parola al corpo, attraverso
l’immagine e il suono, affinché si potesse dare espressione al disagio
giovanile, alle storie di quotidianità marginale, alla rabbia legata al degrado
sociale ed esistenziale dei giovani che abitano le strade delle periferie;
permettendo di amplificare attraverso la musica, la gestualità, le ritualità, le
tags sui muri, il bisogno di comunicazione e di affermazione dell’identità;
permettendo, insomma, a milioni di ragazzi appartenenti alle comunità
socialmente marginali di poter dire “io ci sono e non mi arrendo68”.
2.3. I luoghi di aggregazione
Per una adeguata riflessione pedagogica sulla devianza e sul disagio
minorile non si può prescindere da un’analisi dei luoghi in cui giovani
trascorrono il loro tempo, luoghi in cui un ragazzo può conoscere altri ragazzi
della sua età o quasi, con cui potrà scambiare opinioni, punti di vista, in cui
potrà dare sfogo alla sua voglia di socialità. I luoghi elettivi dei giovani non
possono essere altri che gli scenari quotidianamente abitati, più o meno
67 Cfr. PIERANGELO BARONE, Pedagogia della marginalità e della devianza, Ed. Guerini
Studio, , Milano 2001, p. 171. 68 Ivi
69
volontariamente o consapevolmente dai minori, dagli adolescenti e dai
giovani.
I luoghi di incontro dei giovani possono essere luoghi formali e
informali. Tra i luoghi formali vi è indubbiamente la scuola che oltre ad avere
una funzione pedagogica per i giovani che la frequentano, si costituisce allo
stesso tempo come luogo ideale di incontro tra giovani. Il secondo luogo di
incontro che si propone a metà strada tra formalità e informalità è il centro
aggregazionale in cui i giovani sono liberi di partecipare alle attività che più
preferiscono, sotto il vigile controllo però, di educatori specializzati. I luoghi
informali invece sono quei luoghi scelti autonomamente dai giovani ed in cui
trascorrono il loro tempo libero. Questi luoghi possono essere la sala giochi
sotto casa o il bar dell’angolo o ancora la piazzetta o più in generale la
“strada”.
2.3.1. La scuola
La scuola occupa uno spazio tutt’altro che trascurabile del tempo e
dell’esperienza esistenziale dei ragazzi. Essa può essere indubbiamente
esperienza significativa e importante, in termini sia oggettivi che soggettivi,
ma non sempre assolve alla funzione educativa alla quale è deputata.
A volte accade che un ragazzo “difficile” a scuola incontri
stimolazioni e motivazioni nuove, capaci di coinvolgerlo in un impegno
gratificante e di fargli provare il senso di relazioni interpersonali costruttive,
ma allo stesso modo può accadere che la scuola venga vissuta dal ragazzo
come un ulteriore banco di prova contrassegnato da insuccessi che intaccano
70
la sua autostima, mettendolo in un confronto impari con compagni più
fortunati, dal quale difficilmente non esce perdente69. Indubbiamente i primi
processi di socializzazione avvengono proprio nella scuola. Nella scuola
materna questa socializzazione avviene in maniera spontanea, per il desiderio
di giocare con i compagni e quindi quasi inconsapevolmente. A partire dalle
scuole elementari e medie fino alle superiori questo desiderio di avere un
compagno con cui giocare, si trasforma gradualmente in desiderio di
socializzazione. La scuola si configura come il luogo più adatto allo scopo in
quanto l’adolescente frequentandola quotidianamente ha la possibilità di
interagire con altri adolescenti e di instaurare rapporti di amicizia. Oltretutto
l’adolescente non essendo libero di muoversi autonomamente non avrebbe
molte possibilità di incontrare altri ragazzi della sua età con cui interagire, la
scuola gli offre questa possibilità che altrimenti non avrebbe. Inoltre i rapporti
che si instaurano in questo modo possono portare alla formazione di gruppetti
all’interno della stessa classe, rapporti che possono durare anche dopo la fine
del ciclo di studi. All’interno delle mura scolastiche ad ogni modo si assiste ai
primi processi di socializzazione dell’adolescente e quindi al suo ingresso nel
circuito di rapporti interpersonali che condizionerà il corso della sua stessa
esistenza.
2.3.2. I centri aggregazionali
La realtà italiana dei centri di aggregazione, destinati ai minori, agli
adolescenti e ai giovani, con una esplicita finalità pedagogica di carattere
69 Cfr. G. MILAN, Disagio giovanile e strategie educative, Città Nuova, Roma 2001, p. 32.
71
extrascolastico, ha una storia piuttosto recente che può essere fatta risalire alla
metà degli anni Settanta; ciò riguarda soprattutto la gestione di questi da parte
degli Enti Locali, delle congregazioni religiose e delle associazioni culturali
laiche o cattoliche di quei centri con una caratterizzazione prevalentemente
orientata alla fruizione del tempo libero di tipo ricreativo.
Negli anni Ottanta, tuttavia, si possono intravedere i primi progetti
pilota. Il cento di aggregazione si inserisce in qualche modo, nello spazio
istituzionalmente scoperto del tempo libero extrascolastico, con un obiettivo
di “prevenzione secondaria70”, cioè orientato all’intervento su quelle fasce
sociali considerate “a rischio” di devianza. Si configura sul piano
organizzativo come luogo con una bassa regolamentazione e strutturazione
interna: facilmente accessibile anche solo con modalità di carattere
occasionale, con una rarefazione di esplicite forme di controllo rispetto alla
presenza e alla partecipazione alle attività e con una pronunciata variabilità
interna delle proposte ludiche e animative che vanno dalle realizzazioni di
feste all’organizzazione di eventi musicali o culturali, all’organizzazione di
tornei sportivi ecc…
Si può comprendere dunque la differenza del centro di aggregazione
con il suo apparato caratterizzato da flessibilità e variabilità continua, rispetto
al dispositivo dell’istituzione scolastica caratterizzato da rigidità e formalità.
L’elemento chiave che differenzia i due dispositivi non è solo basato sul fatto
che l’insegnante deve mantenere la disciplina per poter trasmettere qualche
70 La definizione di “prevenzione secondaria” appartiene ad uno schema di origine
sociosanitaria che individuava tre livelli di prevenzione dei fenomeni di devianza, di tipo primario, secondario e terziario, oggi ampiamente superato.
72
contenuto cognitivo mentre l’educatore o l’animatore deve solamente far
divertire per farli socializzare meglio. La questione rinvia alle modalità
attraverso cui viene declinato il dispositivo dei centri di aggregazione, nelle
sue dimensioni specifiche di strutturazione dello spazio, di articolazione del
tempo e di messa in gioco dei corpi.
Per quanto riguarda la strutturazione dello spazio va considerato il fatto
che lo spazio costituisce un operatore essenziale nella definizione del rapporto
con i minori, adolescenti e giovani in quanto l’uso degli spazi del centro, la
loro strutturazione, diventa condizione la fondamentale nella relazione
educativa caratterizzandosi, soprattutto nella prima fase del contatto e
dell’accoglienza , come contenitore aperto, destrutturato e di libero accesso,
su cui impostare un lavoro di condivisione e costruzione di regole e codici
d’uso. In generale comunque l’uso degli spazi e la loro destinazione ad
attività strutturate sono soggetti ad una continua rimappatura sulla base delle
esigenze e delle domande dei ragazzi.
Allo stesso modo per quanto riguarda la dimensione del tempo, anche
l’articolazione e i ritmi delle attività dei centri di aggregazione sono definiti
prevalentemente in funzione dell’utenza che interagisce con gli educatori. Le
programmazioni delle attività settimanali o mensili sono soggette a continue
evoluzioni sulla base di ciò che i gruppi spontanei possono volta per volta
determinare. I centri di aggregazione quindi cercano di valorizzare le esigenze
e le domande inespresse dei ragazzi.
La dimensione della corporeità rappresenta infine un terzo operatore
significativo nella definizione del dispositivo dei centri aggregazionali. Per
73
corpo qui si intende l’elemento di mediazione della relazione tra adulto e
adolescente, in quanto nelle maggior parte dei rasi gli educatori sono parte
attiva nelle proposte che fanno e nelle attività che conducono a livello di
presenza concreta e materiale, a livello, appunto, corporeo. Quindi si può
facilmente notare come la messa in gioco dei corpi che scaturisce
dall’esperienza dei centri di aggregazione sancisca la definizione di un
modello che si propone come alternativa pedagogica al dispositivo
scolastico71.
2.4. La strada come luogo d’incontro e il tempo libero
La “strada” è, anche nell’immaginario collettivo, il luogo di fuga per
eccellenza e, in questa funzione di “contenitore” di tanti vagabondaggi
esistenziali, essa coinvolge tutti i suoi accessori: piazze, muretti, sagrati e
giardinetti.72
L’appellativo “ragazzi di strada” si riferisce, nel linguaggio comune,
alle crude esperienze di tossicodipendenza e prostituzione giovanile, presenti
soprattutto nelle squallide periferie di grossi centri urbani, che non
risparmiano molti preadolescenti. Sono situazioni limite che, pur non essendo
molto diffuse, richiedono naturalmente interventi mirati sul piano educativo e
spesso terapeutico. Esperienze “di strada” più comuni e fortunatamente meno
dense di problematicità sono invece quelle che coinvolgono un numero
71P. BARONE, Pedagogia della marginalità e della devianza: modelli teorici e specificità
minorile, Guerini Studio, Milano, 2001, pp. 111, 112, 113. 72 Cfr. G. MILAN, Disagio giovanile e strategie educative, Città Nuova, Roma 2005, p. 36.
74
maggiore di adolescenti, spesso nel complesso arcipelago dei gruppi
spontanei, senza tuttavia condurli nella devianza precedentemente citata.
E. Toffano Martini scrive che “nel raggrupparsi spontaneo di soggetti
d’ogni età, oggi come ieri, possono tuttavia insinuarsi dinamiche pericolose,
che sfociano in esiti diseducativi”73. Queste esperienze comuni di strada
raccolgono dunque, soprattutto ragazzi che a scuola o a casa hanno
accumulato una serie di microtraumi affettivi e relazionali, di squalifiche e
rifiuti, e che cercano compensazioni proprio nella “strada”, luogo di “fuga” da
quei contesti formali e controllati, aggregandosi quasi sempre in piccoli
gruppi spontanei e naturali.
I luoghi dove ragazzi e giovani si ritrovano, possono essere la piazza, il
parcheggio, le vie, i cortili, il muretto, spiazzi in prossimità del bar, angoli di
parchi, giardini, campetti e panchine. I molti piccoli “gruppi informali”, che si
danno appuntamento quotidianamente nei diversi luoghi eletti a loro prima
dimora, costituiscono un arcipelago di esperienze che, pur essendo a rischio
di devianza, occupano per lo più un’area intermedia tra il disagio e la
devianza. Resta prevalente, ad ogni modo, l’esperienza di una trasgressione
soft, leggera, fuori dalla norma quel tanto che basta a percepire e raccogliere
qualche nuova immagine di sé e qualche risposta alle molte domande che né a
casa, né a scuola trovano ascolto.
Leopoldo Grosso afferma che “Fuori non c’è nessun incontro
drammatico, per lo meno all’inizio. Il vero dramma è che fuori si incontra
esattamente l’altro identico a sé. Fuori questi ragazzi incontrano esattamente
73 E. TOFFANO MARTINI, Lo scenario problematico dei contesti di vita, op. cit. pp. 90.
75
la loro fotocopia […], coloro che hanno fatto l’identico percorso […]. Se
fuori incontri la tua fotocopia non c’è nessuno stimolo di crescita, di
imitazione, di identificazione per le differenze, non c’è nessuno stimolo per
avviare a quello che non sei; se fuori c’è la tua controfigura, il problema
principale da risolvere è come passare il tempo. Il tempo è un enorme tempo
vuoto che non ha niente a che vedere col tempo libero, perché il tempo libero
è qualcosa che uno pensa quando sta studiando, sta lavorando, se lo
immagina, se lo prefigura ed in qualche modo ne anticipa il consumo già
mentalmente, prima ancora di goderselo. Questo è , invece, un tempo vuoto
tutto da riempire, dove la dimensione principale è la noia e, quindi, la
principale attività di ricerca è come “ammazzare” il tempo”.74
La vita di strada, dunque, anche se prevede il continuo parlare tra i
compagni, presenta in certi casi un appiattimento relazionale all’interno di
una informe propinquità di tanti “esseri-eco”75, ed è caratterizzata
dall’assenza di progettazione, dal vivere il tempo senza valorizzarlo come
reale risorsa per la propria crescita e per quella altrui. Il concetto di strada ad
ogni modo racchiude in sé numerosi elementi negativi, infatti, la strada come
tutti i luoghi aperti, sono luoghi difficilmente controllabili. Ma la strada
rappresenta anche il luogo in cui i giovani ricercano l’aggregazione, in cui
ricercano delle relazioni che non siano quelle familiari o della scuola. È il
luogo in cui si creano delle culture alternative , degli stili e dei modelli di
74 L. Grosso, “Il disagio, la strada, quali interventi possibili?”, Gruppo Abele, Milano, 1999. 75Cfr. A. Mitscherlinch, “Verso una società senza padre. Idee per una psicologia sociale”,
Feltrinelli, Milano 1970, pp. 353.
76
comportamento, ed è soprattutto il luogo in cui vivono i gruppi di giovani e
dove si possono osservare le implicazioni emotive da cui sono coinvolti.
La strada, però, non è solo il luogo di relazioni e di divertimento, ma
anche il luogo del disagio, di situazioni a rischio di emarginazione e devianza,
abbandono e solitudine, se non addirittura di irrecuperabilità.
2.4.1. Il tempo libero
È libero il tempo che possiamo dedicare ad attività gradevoli,
frequentemente l’espressione “tempo libero”, viene utilizzata come sinonimo
della parole “ozio”, quando in realtà si tratta di due concetti molto diversi tra
loro. La natura del tempo libero tuttavia, si comprende solo se confrontata con
il concetto di lavoro; si può intendere il lavoro come un’attività faticosa e
posta al servizio di qualche fine.
Le attività del tempo libero sono più piacevoli di quelle lavorative, si
realizzano con meno sforzo e con più possibilità di scegliere cosa si vuol fare.
Il concetto di tempo libero però è mutato nel corso della storia. In Grecia il
tempo dedicato all’ozio aveva un senso positivo, fin dall’inizio dell’età
moderna invece, l’importanza attribuita ai valori legati all’utilità, ha condotto
a una valutazione negativa dell’ozio, considerato come oziosità, pigrizia e
veniva tollerato solo come un mezzo per riposarsi e poter affrontare poi un
lavoro ancora più arduo. Attualmente dedicare il tempo libero all’ozio ha
77
riacquistato un significato positivo, anche se la parola ozio conserva nel
linguaggio comune un senso peggiorativo76.
Il problema del tempo libero si pone a tutte le età della vita , perché è
una necessità permanente, ma nell’adolescenza assume particolare importanza
a causa dell’influsso che può avere per la maturazione della personalità del
giovane e per la sua integrazione sociale. Il processo di mutamento a cui è
sottoposto l’adolescente causa conflitti e frustrazioni che rendono necessario
il riposo, lo svago e la compagnia degli altri. Gli interessi del tempo libero
cambiano di oggetto a seconda della fase evolutiva che si attraversa, ad
esempio i giochi infantili sono sostituiti da divertimenti nuovi, come il ballo,
gli spettacoli sportivi e i motori. Tuttavia il tempo libero di cui dispongono i
giovani è meno di ciò che si pensa infatti il 35% dei ragazzi ed il 50% delle
ragazze del liceo dispongono ogni giorno di una sola ora o meno di tempo
libero, le cause possono essere individuate nell’intensità dell’orario
scolastico, nel numero eccessivo di compiti e nella carenza del metodo di
lavoro.
Un dato significativo è la notevole mancanza di buon senso
nell’utilizzo del tempo libero quando esiste. Si avverte la mancanza di
hobbies; l’estrema passività dovuta alle influenze ambientali; la mancanza di
criteri per la scelta di letture e films; l’assenza di senso critico in ordine ai
programmi televisivi; la scarsa partecipazione ad attività culturali e artistiche;
la preferenza per lo sport standardizzato a scapito di pratiche sportive come la
marcia ed escursioni con la tenda; l’abuso di divertimenti commercializzati.
76 Cfr. G. CASTILLO, L’adolescenza e i suoi problemi, Le Monnier, Pamplona, 1981, pp. 129, 130.
78
Gli studenti però, lamentano la mancanza di luoghi adatti per divertirsi,
l’indifferenza degli adulti per il tempo libero dei giovani e la dipendenza
economica dai genitori, non avendo la possibilità di autofinanziare i loro
divertimenti. Tuttavia la mancanza di buon senso nell’uso del tempo libero si
manifesta in tre modi: omissione di attività formative, interesse per attività
dannose e atteggiamenti inadeguati. Le attività inadeguate in relazione all’uso
del tempo libero può portare alla pigrizia, al disordine e noia. Gli adolescenti
infatti, sono più inclini alla noia dei bambini perché la loro curiosità è meno
ampia e poi perché hanno più bisogno di novità. La noia genera, a sua volta,
attività distruttive con cui cercano di compensare la mancanza di novità delle
occupazioni abituali.
L’abuso di divertimenti commercializzati ha effetti importanti sugli
adolescenti: l’eccessiva spesa e la necessità di trovare denaro in qualche
modo; la massificazione; il divismo cinematografico e sportivo.
Le attività del tempo libero dannose per gli adolescenti si collegano
all’uso dei mass media. Insieme con le grandi possibilità educative che vanno
indicate e utilizzate, i mass media producono spesso il gregarismo,
l’infantilismo mentale, la mancanza di riflessione77.
77 Ibidem pp. 132, 133.
79
CAPITOLO ΙΙΙ: EDUCARE IN STRADA
3.1. Cos’ è l’educazione di strada
L’ultimo decennio ha visto entrare in gioco anche in Italia, dopo
lunghe e significative esperienze sia in Sudamerica che in Europa, il “lavoro
di strada”. Anche se su basi sperimentali, questo tipo di approccio educativo
si è progressivamente legittimato dal punto di vista dell’intervento
pedagogico nelle situazioni di maggiore problematicità sociale, fino a
diventare un punto di riferimento per le politiche istituzionali di carattere
socio – sanitario.
Il lavoro di strada appare come uno scenario pedagogico composito
che vede al suo interno approcci e metodologie non sempre raccordabili, e
che lascia affiorare differenze importanti sul piano degli obiettivi da
perseguire e dei destinatari a cui rivolgersi. Emergono priorità di intervento
che si configurano soprattutto sul versante della prevenzione mirata in
particolare ai gruppi di adolescenti, considerati come soggetti maggiormente
esposti ai rischi di devianza . Tuttavia in rapporto alle tipologie di intervento,
il lavoro di strada copre una vasta gamma di obiettivi strategici in rapporto ai
minori, agli adolescenti e ai giovani, che vanno dalla promozione, passando
per la prevenzione, alla “riduzione del danno78”.
Il lavoro di strada nasce intorno agli anni ’70 in America e poi in
Europa, sperimentando delle azioni di carattere preventivo soprattutto con
soggetti devianti come tossicodipendenti e prostitute; si sviluppa poi in
78 Cfr. R. Maurizio, “Il lavoro di strada in Italia: rassegna di eventi e temi”, op cit., pp. 13,
15.
80
America Latina con riferimento ai minori, poveri o abbandonati. Negli anni
seguenti questo tipo di lavoro si è via via presentato anche in Italia,
soprattutto quando si è fatto il passaggio dalla centratura sul servizio alla
centratura sulla persona e il lavoro sociale si è trasformato da interno alle
istituzioni a lavoro sul territorio. Si è riusciti a vedere la strada non più come
luogo a rischio e pericoloso, ma come uno spazio di relazioni e di socialità in
cui tanti ragazzi crescono e passano il loro tempo. Da qui è nata l’idea del
lavoro di strada come supporto alla persona nel contesto in cui vive, senza
sradicarlo dal proprio territorio. I diversi tipi di lavoro di strada:
Prevenzione terziaria: Si rivolge a soggetti che hanno un disagio
conclamato (ad esempio tossicodipendenti, persone sieropositive, persone
senza fissa dimora, prostitute....): andando in strada, a contatto con questi
soggetti, si cerca di ridurre i danni della loro situazione e eventualmente
preservare e riattivare le risorse ancora presenti in loro.
Prevenzione secondaria: Si rivolge a dei soggetti o a dei gruppi
che sono a rischio, cioè in contatto con certe problematiche, ma non ancora
completamente coinvolti in esse. Un esempio può essere quello dei gruppi che
vivono in contesti economicamente sfavorevoli oppure in situazioni degradate
o vicino a situazioni di uso di sostanze. La prevenzione, in questo caso, si
avvale della presenza dell’educatore in strada, della relazione con questi
gruppi, dell’informazione su tematiche specifiche e dell’animazione del
territorio.
Prevenzione primaria: Si rivolge a tutta la popolazione,
indipendentemente dal disagio o da un possibile rischio, quindi tutti i soggetti
81
sono il target di questa prevenzione. Naturalmente il nostro obiettivo primario
sono i giovani; anche qui gli strumenti di lavoro sono la relazione,
l’animazione, l’informazione e il contatto anche con gli adulti, proprio per
creare una rete di sostegno al singolo individuo.
Tra le diverse forme di impegno sociale, il lavoro di strada è forse
quella più difficile da definire. Si tratta, infatti, di un modo di intervenire sul
territorio a cui si fa ricorso per le finalità più diverse. Ci sono, ad esempio, le
unità di lavoro di strada che si occupano in particolare di tossicodipendenza, e
che operano nel quadro delle politiche di prevenzione e di “riduzione del
danno79”. E ci sono operatori presenti sulla strada per raggiungere altre
categorie di persone emarginate, come le ragazze prostitute e i senza-casa. In
tutte le ipotesi il lavoro di strada si configura come un servizio sociale vero e
proprio, dai contenuti predefiniti, e che prevede l’utilizzo di figure
professionali competenti, accanto agli operatori volontari.
L’educativa di strada si configura, dunque, come una strategia
pedagogica che si indirizza a luoghi e contesti di vita ben definiti, e risulta nel
contempo coerente con l’idea della “pedagogia di comunità80” e con
79 La politica della “riduzione del danno” (RdD) detta anche “teoria della limitazione del
danno” nasce dalla constatazione della presenza di uno o più danni collegati alle tossicodipendenze(cfr. Manconi,1991). Si può definire in alcune sue forme un tentativo di mediare sia le posizioni estremiste del proibizionismo sia quelle dell’antiproibizionismo anche se, nella gamma di interventi che propone vi è una tendenza verso una soluzione non repressiva dei problemi e soprattutto dei comportamenti di consumo. L’idea di fondo è quella di riuscire a convivere con la droga limitando il più possibile i danni da essa causati
80 Il concetto di “comunità” viene utilizzato nel linguaggio corrente con accezioni non sempre concordi. Etimologicamente il termine comunità deriva da cum-munia (doveri comuni) o da cum-moenia (mura, fortificazioni). Il prefisso cum esprime l’idea di relazione. La comunità tuttavia, è una dimensione aperta e complessa, alla quale è quasi impossibile dare confini stabili a causa delle dinamiche psico-socio-culturali che la costituiscono. Il compito dell’educatore è quello di rinforzare pedagogicamente, attraverso proposte che stimolino la promozione pedagogica del tessuto sociale di riferimento.
82
l’impostazione del “lavoro di rete81”. È in altre parole uno degli ambiti di
applicazione del lavoro di comunità, una delle direzioni attraverso cui è
possibile potenziare le reti e il sostegno sociale ed educativo in un
determinato territorio82. Il lavoro di strada con bambini e ragazzi non è
dunque autocentrato, ma prende significato sociale nella misura in cui si
sviluppa nel quadro di una rete di persone e di realtà organizzate che si
incontrano per lavorare insieme, avendo come obiettivo prioritario
l’accoglienza e la promozione di chi è più debole. Ne deriva che la
collaborazione con le famiglie dei ragazzi e con le altre realtà presenti nel
territorio è parte essenziale dell’impegno di radicamento sulla strada.
Questa metodologia, ad ogni modo, rappresenta una rivoluzione
rispetto alla tradizionale logica di intervento educativo, secondo cui l’utente
deve incontrare gli operatori recandosi nei luoghi strutturati e predisposti a
fornire servizi. In questo caso, è l’operatore che va incontro e raggiunge gli
adolescenti nei luoghi della loro quotidianità.
L’educazione esce dagli spazi e dai tempi formali ed artificiali delle
istituzioni e si fa presente nella quotidianità della vita dei ragazzi83. Il lavoro
di strada infatti, si configura come un’azione dal basso. Agire dal basso
significa provare a vivere una esperienza di radicamento nel territorio. Ci si
radica nelle situazioni di marginalità sociale quando si sceglie di “starci”,
mettendoci tempo, passione, la vita propria con la vita altrui.
81 Il lavoro di rete viene realizzato con e sulle reti formali e informali presenti sul territorio. Riguarda la formazione e la connessione di gruppi di auto-aiuto in presenza di disagio. In altre parole, l’intervento di rete non si dirige sui singoli individui, né sulle strutture sociali, ma sulle reti di relazioni come possibili fonti di problemi e come luoghi di loro possibile soluzione.
82 Cfr. G. MILAN, Disagio giovanile e strategie educative, Città Nuova, Roma 2005, p. 147. 83 Cfr. F. SANTAMARIA, Per una qualificazione educativa del lavoro di strada, in
Animazione Sociale, 6-7, 1998, p. 58.
83
L’educativa di strada perciò, rappresenta un tipo di risposta nuova al
disagio adolescenziale , rappresenta un nuovo modo di incontrare il piccolo
mondo dei ragazzi. In altre parole si configura come un insieme di modalità
innovative attraverso le quali riproporre i problemi cruciali del rapporto io-tu,
della dimensione del noi, dello stare insieme efficacemente , facendo qualcosa
di costruttivo e di educativo, rivolgendosi al protagonismo giovanile84. Gli
interventi educativi, nella prospettiva “di strada”, dovrebbero orientarsi nelle
tre direzioni, tra loro correlate e integrate, del “soggetto”, della “relazione” e
del “contesto”.
Per quanto riguarda la dimensione del soggetto, l’educazione di strada,
deve arrivare al singolo, l’azione pedagogica ha il compito di rispondere alla
crisi di identità del ragazzo, sul piano dell’identità personale, lasciando in
secondo piano l’operatività nella direzione dell’animazione socioculturale.
Nella direzione della “relazione”, invece, gli interventi educativi hanno lo
scopo di sollecitare e migliorare varie competenze relazionali, interpersonali e
sociali, dei soggetti educativi. In tal senso, l’educazione di strada può essere
luogo di apprendimento, di abilità, di comunicazione con l’altro e gli altri. La
vicinanza relazionale di un educatore capace di incontro, di dialogo, può
offrire un coerente modello di impostazione dei rapporti interpersonali, che
può influenzare positivamente il minore, orientandolo a mettere in atto
modalità relazionali simili.
La metodologia pedagogica, specifica dell’educativa di strada,
dell’”accompagnamento” o dell’”affiancamento”, che implica un camminare
84 Ibidem, pp. 32.
84
insieme, fianco a fianco, condividendo le esperienze dell’adolescente,
permette l’esercizio di una relazione intensa.
È proprio nel gioco della relazione che l’educatore acquisisce sul
campo credibilità e autorevolezza , la relazione quindi, viene a configurarsi
come un autentico valore dal quale prendere le mosse e, nel contempo, al
quale tendere costantemente in tutto il processo educativo. Le relazioni
interpersonali che si stabiliscono “nella strada” possono esprimersi in modo
spontaneo, creativo, attribuendo poca importanza alle formalità, che spesso
inibiscono la comunicazione di aspetti sostanziali dell’esperienza di ciascuno,
e valorizzando invece i momenti ricchi e pregnanti dell’incontro a tu per tu.
L’educatore quindi, non deve trascurare l’importanza dei momenti
come l’incontro casuale od occasionale con i ragazzi, la reciproca
presentazione, l’invito, il fissare un appuntamento, le fasi di arricchimento e
consolidamento di una relazione di fiducia, le dinamiche di attaccamento e di
stanziamento e le possibili fughe.
È evidente dunque, se si pensa all’importanza di tali momenti, che
possono stabilire e potenziare legami interpersonali forti, quanto debba essere
di qualità l’atteggiamento relazionale di fondo dell’educatore rispetto a
ciascuno dei ragazzi che incontra. Altra metodologia tipica nell’educativa di
strada è il lavoro pedagogico con i piccoli gruppi. Il piccolo gruppo può
essere l’ambito ideale per la pratica di esperienze costruttive, perché può
essere palestra di innumerevoli esercitazioni relazionali e progettuali capaci di
affinare il senso di appartenenza, la socialità, la collaborazione e la
solidarietà. Il piccolo gruppo può favorire nel ragazzo la consapevolezza di
85
non essere un’identità isolata, ma una identità plurale che si esplica solo con
gli altri e per gli altri.
Il lavoro di strada, dunque, proprio attraverso l’acquisizione di valori
umani e sociali, può promuovere l’educazione di ciascuno, nel senso di
aiutare gli adolescenti a riscoprire il principio del dono che crea vincoli, ma
non dipendenza, e il principio conseguentemente dell’aver cura di un qualche
noi, in modo che investendo sul noi si apprenda un modo diverso di aver cura
di sé85.
Operare pedagogicamente nei confronti del contesto, secondo
l’approccio dell’educativa di strada, significa far sì che i singoli ragazzi e i
piccoli gruppi informali possano ritrovare se stessi, più autenticamente,
all’interno di un tessuto socio-culturale-educativo integratore, capace perciò
di ascoltare, accogliere e valorizzare i loro bisogni, coinvolgendoli in
esperienze e attività delle quali essi dovrebbero essere protagonisti,
provocando così in loro il recupero di quella personalità, personale e sociale.
Si tratta perciò di allestire un contesto di rete e di comunità in cui i ragazzi si
sentano ospitati, non rifiutati.
L’educativa di strada, dunque, in sintesi, prevede le seguenti fasi:
1. osservazione partecipata – conoscenza – comprensione del
gruppo, delle sue dinamiche, delle sue risorse;
2. contatto – aggancio con i gruppi, prima costruzione di relazioni
significative, assertiva comunicazione della funzione dell’educatore e del
patto di reciproca collaborazione;
85 Ibidem, pp. 32.
86
3. progettazione comune delle attività da svolgere;
4. individuazione dei possibili legami e delle alleanze da stabilire
con le reti formali e informali della comunità;
5. consolidamento delle relazioni interpersonali e del senso di
appartenenza al gruppo e alla comunità;
6. conclusione dell’intervento – pratiche di restituzione –
separazione86.
L’importanza dell’educativa di strada comunque, è costituita dal fatto
di permettere ai giovani di avere una possibilità di relazione con una figura
adulta, un tipo di relazione che gli permetta di poter affrontare argomenti che
rimarrebbero inespressi altrimenti, perché sono argomenti che non si possono
affrontare con i coetanei e tantomeno con la famiglia. L’educativa di strada
inoltre, permette agli operatori di conoscere in tempo reale tutto ciò che
avviene sul territorio ed in particolare agli adolescenti ed in questo senso
funge da monitoraggio costante di una eventuale situazione a rischio.
Il lavoro di strada impone di operare in modo flessibile, tra normalità e
disagio, facendo attenzione ai cambiamenti del disagio, costruendo la
condivisione di regole e promuovendo la dignità della persona con risposte
progettuali. Svolge funzioni connotate in senso preventivo e promozionale
attraverso l'ascolto, informazione e orientamento, educazione come
valorizzazione delle potenzialità e delle risorse delle persone.
Il lavoro di strada richiede l’adattamento delle tecniche di
comunicazione e delle modalità d’intervento in base al contesto, al fine di
86 Cfr. G. MILAN, Disagio giovanile e strategie educative, op cit. pp. 157, 158.
87
rendere il servizio accessibile alla persona che realmente vive il disagio,
consentendo l’individuazione e la condivisione dei rischi per la persona, sia
dal punto di vista sanitario che in termini di degrado psicologico e sociale.
Come supporto all’operatività di strada, il lavoro con gli operatori grezzi
consente di costruire dei percorsi che attivino processi di consapevolezza, del
proprio ruolo sociale, nelle figure di riferimento o di contatto con i giovani
che abitano la strada. Per questo motivo gestori di locali, autisti di mezzi
pubblici, baristi, edicolanti, negozianti, adulti, quotidianamente sono i
terminali di una rete sociale che va consapevolizzata, valorizzata e supportata
nel proprio agire a favore delle giovani generazioni.
L’educativa di strada, inoltre, si sviluppa in tre sostanziali livelli di
intervento nel territorio:
Animazione di strada: un lavoro di connessione delle risorse del
territorio attraverso la funzione di facilitatore sociale e mediatore
dell’animatore che permette ai giovani di dare corpo alle esigenze di
realizzazione personale e di gruppo, stimolandoli nell’autogestione di attività
e promuovendo al contempo le relazioni intergenerazionali all’interno della
stessa comunità locale.
Educativa di strada: un lavoro finalizzato alla prevenzione del
disagio e della devianza dei gruppi informali, facilitandone la comunicazione
interna ed esterna per migliorare l’inserimento nel tessuto sociale.
L’identificazione e l’approccio di gruppi “a rischio” permette di offrire anche
un supporto nel percorso di crescita degli adolescenti inseriti in tali contesti.
88
Lavoro di comunità: si propone di organizzare e promuovere
l’autosviluppo della comunità territoriale in modo che risponda ai bisogni dei
diversi soggetti che in essa vivono, attivando processi comunicativi e
partecipativi per aumentare la soggettività e il protagonismo.
Ad ogni modo, l’attenzione che viene rivolta all’educativa di strada
dipende da diverse ragioni, in primo luogo essa rappresenta una possibile
risposta al bisogno di trovare nuove forme di intervento sociale capaci di
superare gli insuccessi delle politiche socio-educative centrate sulla
realizzazione di centri e servizi di accoglienza, in secondo luogo per trovare
nuove modalità di avvicinare le istituzioni ai giovani che non presentano
situazioni di disagio o devianza, ma non aderiscono a proposte organizzate di
socializzazione.
3.1.1. La strada come luogo educativo
Per strada si può intendere una via, un itinerario, un percorso, un
cammino. La strada è un luogo geografico carico di significato, ha una
dimensione simbolica per i giovani anche nella realtà attuale. La strada va
intesa sia come luogo fisico, che come luogo simbolico e sociale. Un luogo
fisico perché in strada le persone passano una parte considerevole del loro
tempo, però è anche il luogo dove tante forme di disagio si manifestano, si
formano o comunque si possono incontrare (ad esempio: barboni, prostitute,
situazioni di spaccio e consumo di droga, gruppi giovanili devianti ecc). La
strada è anche un luogo simbolico e sociale, cioè uno spazio in cui ci si può
89
relazionare con gli altri, con il proprio territorio, dove si può intessere una
rete sociale, al di fuori delle proprie mura, le mura di casa.
La strada può essere concepita come luogo di socialità, cioè spazio
privilegiato di incontro e aggregazione, comunicazione, di relazioni
interpersonali, come luogo che può diventare educativo, come un nuovo
spazio di azione pedagogica.
La strada come dispositivo pedagogico rinvia ad una significazione
simbolica particolare, in quanto evoca un immaginario profondamente
contaminato da rappresentazioni e miti culturali che sono stati prodotti, in
particolare nel corso del xx secolo, quando la strada ha cominciato ad indicare
la possibilità ambivalente di un’espressione metaforica dello sviluppo e della
crescita, insieme a quella del rischio e alla pericolosità sociale. Questa
ricchezza metaforica aumenta sensibilmente se la strada diviene luogo
principale dell’intervento pedagogico, come accade nel lavoro di strada, per
cui i richiami culturali assumono una valenza senza precedenti nella
definizione di uno specifico immaginario pedagogico. Nell’immaginario
culturale la strada appare in prevalenza come il luogo in cui va in scena volta
per volta l’emarginazione, la trasgressione, la follia, il rischio, e che nello
stesso tempo è stata celebrata come persistente mito romantico e libertario87.
Tuttavia la strada, grazie all’azione di diverse agenzie di volontariato,
che fin dagli anni sessanta hanno fondato un nuovo collegamento con gli
svantaggiati delle zone urbane, ha intrapreso un nuovo percorso verso una
riconsiderazione del suo ruolo.
87 Cfr. P. BARONE, Pedagogia della marginalità e della devianza: modelli teorici e specificità minorile, Guerini Studio, Milano 2001, pp. 117, 118.
90
Attraverso gli anni e soprattutto grazie all’avvento di questa nuova
strategia educativa, l’immagine della strada come luogo che produce disagio,
si sta gradualmente trasformando nell’immagine di un luogo d’incontro sano
e protetto. La strada è diventata un luogo in cui poter raggiungere ragazzi in
difficoltà che in altri luoghi non si potrebbero incontrare, ragazzi che con
poca probabilità raggiungerebbero gli educatori per esprimere i loro
problemi, le loro perplessità. Gli educatori, incontrando questi ragazzi nel
loro luogo d’incontro privilegiato, offrono loro la possibilità di avere un
contatto con delle persone che possono aiutarli ad uscire da un brutto “giro” o
almeno gli offrono la possibilità di essere ascoltati. In questo modo la strada
può divenire un luogo privilegiato di lavoro per gli educatori ed un luogo
educativo per i ragazzi che la frequentano. La strada è considerata, dunque,
un nuovo spazio di azione pedagogica, un luogo nel quale è possibile attivare
il processo educativo, alla pari di quelli istituzionali e strutturati, come, ad
esempio, la scuola.
3.2. Ruolo e compiti dell’educatore di strada
È difficile riuscire a chiarire il profilo professionale dell'educatore di
strada, sia perché tale figura è relativamente nuova, sia perché è
continuamente aperta ad evoluzioni legate all'operatività stessa. Descrivere
con accuratezza cosa si intenda quando si parla di lavoro di strada è
un'operazione ardua in quanto non vi è un'uniformità terminologica per
denominare tale figura professionale. Vi è una proliferazione terminologica
per indicare chi svolge lavoro di strada, chiamandolo ora operatore di strada,
91
ora educatore di strada, ora animatore socio-culturale o ancora unità mobili. È
come se, pur riferendosi spesso alla stessa figura professionale, ogni progetto
tentasse di dare una propria definizione di quello che è il lavoro di strada
testimoniando così una arretratezza concettuale della teoria della tecnica
rispetto all'operatività stessa.
Ad ogni modo l’educatore di strada, in linea di massima deve avere un
atteggiamento non giudicante, ma di curiosità verso ogni tipo di soluzione
culturale che il giovane proponga per stabilire un rapporto significativo, e che
contemporaneamente riesca a sollecitare la curiosità stessa dei ragazzi al fine
di un lavoro produttivo con loro. Ciò però non significa accettare e
giustificare in maniera incondizionata gli stili individuati nel gruppo.
Deve presentarsi come un mediatore delle comunicazioni con le
istituzioni (scuola, assistenti sociali), e con gli adulti in genere nei luoghi, per
lo più informali, in cui questi si rapportano con i giovani; Ed infine deve
sapersi impegnare in un rapporto stabile.
Una delle scommesse con la quale, oggi, sono chiamati a confrontarsi
gli operatori che si occupano di lavoro sociale è quella di riuscire a mettere a
punto "macchine preventive" capaci al contempo di soddisfare i bisogni
naturali di protagonismo dei giovani e di ridurre i rischi cui possono andare
incontro durante il loro percorso di ricerca di significati da attribuire alla
propria esistenza. Non a caso gli operatori sociali vengono sempre più visti
come agenti di cambiamento e di sviluppo sociale e culturale, opera tanto
92
difficile quanto complessa poiché significa confrontarsi con "setting88" di
lavoro sostanzialmente diversi da quelli "tradizionali" (quali le istituzioni
pubbliche e private) e che sono caratterizzati da confini (formali e mentali)
più sfumati e dall'introduzione di una molteplicità di variabili che possono
interferire e decretare il successo o il fallimento di un intervento.
Nell’educativa di strada e più in generale in ogni fase del percorso
educativo, gli atteggiamenti dell’educatore possono aiutare il ragazzo ad
acquisire maggiore autostima, a promuovere la propria autonomia, a diventare
soggetto di relazioni positive con se stesso, con gli altri e con il mondo.
L’educatore, la sua personalità, il modo di interagire con i ragazzi, hanno un
ruolo fondamentale ai fini dell’educazione, per questa ragione è importante
chiarire i compiti dell’educatore ed in particolare dell’educatore di strada.
Lo specifico dell’educatore è vivere con il ragazzo e questo vivere si
trasforma in un punto di vista privilegiato se mediato da un buon livello di
competenza professionale. Infatti, il punto centrale non è spendere del tempo
con il ragazzo, vivere semplicemente accanto a lui, ma trasformare una
prossimità spaziale, temporale e affettiva in un rapporto di comunicazione
tendente alla conoscenza autentica dell’altro. La strada privilegiata per fare
ciò è proprio la condivisione di esperienze purchè l’educatore partecipi a
88 Il setting è un luogo fisico e mentale, temporalmente determinato, che permette la lettura
dei fenomeni che accadono e che determina l'individuazione di ciò che è significativamente importante. Gli educatori di strada normalmente si recano là dove i giovani si incontrano, svolgendo lavoro di animazione e di socializzazione volto al miglioramento delle relazioni interpersonali, alla conoscenza di nuove opportunità sociali, culturali, di lavoro e modi altri di impiegare il proprio tempo libero. Il setting dell'educatore è, quindi, la strada, un contesto strutturalmente più aperto e meno rigido rispetto a quello che fino ad ora siamo stati abituati a pensare quando si parla di setting.
93
queste con quel sottile dosaggio tra implicazione e di stanziamento che
costituisce lo strumento di una conoscenza89.
L’educatore dovrebbe far in modo di partecipare a esperienze di vita
del ragazzo il più possibile autentici, il che può essere partecipare ad un
gioco, conoscere i suoi amici, frequentare il suo ambiente abituale. Questa
strategia o modo di agire è valido soprattutto per gli educatori di strada.
L’educatore di strada quando decide di intraprendere questo percorso di
lavoro è consapevole di dover adottare delle strategie diverse conseguenti alla
differenza di contesto e di utenza. Infatti nell’educativa di strada è l’educatore
che deve, in un certo senso, attirare l’attenzione del ragazzo in modo di
intraprendere una relazione significativa con quest’ultimo. Il fatto di scendere
sul campo ed andare incontro a dei ragazzi e cercare una relazione con loro
implica innanzitutto un strategia di approccio adeguata alla circostanza e
naturalmente delle tecniche e metodologie differenti. Proprio per il fatto che
l’educativa di strada non si aggancia, almeno inizialmente, ad una richiesta
esplicita dei possibili utenti, che raramente intendono affidarsi alle agenzie
educative tradizionali, l’approccio personalizzante dell’educatore al ragazzo
risulta imprescindibile e va visto come momento–chiave di accesso alla
relazione educativa, solo così, attraverso atteggiamenti di ascolto e di
empatia, la domanda educativa può essere motivata, compresa e riformulata
dall’educatore stesso.
Un ulteriore compito dell’educatore di strada è quello di favorire la
costruzione di legami, di intrecci educativi tra singoli e istituzioni, tra reti
89 Cfr. P. BERTOLINI, L BARONIA, Ragazzi difficili: pedagogia interpretativa e linee di intervento, La Nuova Italia, Firenze 1993, pp. 98, 99.
94
formali e informali, e la strada, in tal senso, può risultare il più efficace
catalizzatore di incontri, di relazioni, di legami collaborativi.
Quello che viene richiesto all’educatore dalla necessità di orientare in
senso educativo il contesto è un impegno immane, anche perché è per certi
versi nuovo rispetto al suo tradizionale bagaglio di competenze professionali.
Tutto l’ambiente di vita dei ragazzi, diventa campo e oggetto della riflessione
pedagogica e dell’operatività dell’educatore, il quale in questa dimensione,
non si limita ad imprimere significato educativo alla sua relazione con il
singolo ragazzo, o con il gruppo, ma svolge una più ampia funzione di
contatto, collegamento e mediazione tra le fonti formali e informali di
educazione, promuovendo incontri, attività, esperienze che diffondano il
sapere acquisito, e contribuiscano perciò a rendere pedagogicamente più
competente l’intera comunità.
L’educatore, insomma, dovrebbe farsi rappresentante credibile dei
bisogni educativi dei ragazzi, evitando di partire dalle posizioni di forza di
quanti operano all’interno delle tradizionali istituzioni deputate
all’educazione, ma dalla strada.
Fondamentalmente dunque, le funzioni dell’educatore di strada sono:
1. costituzione di relazioni significative con i singoli, sostenute dai
fondamentali atteggiamenti educativi;
2. esercizio della relazione a-simmetrica accompagnata da una
parità dialogica e dalla capacità di porgere elementi della propria storia e, in
particolare, della propria adolescenza;
95
3. accostamento a valori, inclusi pure nella dimensione
dell’educazione autentica: responsabilità, testimonianza, rispetto
dell’originalità-unicità di ciascuno, creatività, socialità, altruismo;
4. pratica dell’intenzionalità e della ricerca rispetto al senso
dell’esistenza e alla scelta di una filosofia di vita, di una fede religiosa,
all’apertura alla trascendenza;
5. orientamento all’azione sostenuta dalla riflessione e da una
coerente progettualità;
6. potenziamento dei legami con le reti formali e informali, del
senso di appartenenza alla comunità, empowerment90 di comunità91.
Tuttavia per la difficoltà, appena evidenziata, del compito
dell’educatore di strada, la maggioranza delle volte questo lavoro viene svolto
in equipe, infatti l’educatore di strada è un co-educatore e per questo motivo
vengono costituite unità mobili formate da almeno due educatori.
L’educatore di strada, quindi, è una persona fortemente motivata che
sta in mezzo ai giovani laddove questi si incontrano. Frequenta le
aggregazioni formali ed informali, svolge un’azione di collegamento tra i
giovani e le istituzioni, sa operare con elasticità e pone la sua attenzione in
particolare verso le fasce di disagio.
90 Empowerment è la parola inglese che può essere tradotta in italiano con "conferire
poteri", "mettere in grado di". Deriva dal verbo "to empower" che include una duplice sfumatura di significato intendendo sia il processo per raggiungere un certo risultato, sia il risultato stesso, cioè lo stato "empowered" del soggetto. Empowerment si connota come "processo" e "prodotto", risultato cioè di un'evoluzione di esperienze di apprendimento che portano un soggetto a superare una condizione di impotenza. Un "saper fare" e "saper essere" caratterizzati da una condizione di fiducia in sé, capacità di sperimentare, di confrontarsi con la realtà circostante.
91 Cfr. G. MILAN, Disagio giovanile e strategie educative, op cit. p. 158.
96
Il ruolo dell’educatore di strada consiste nell’attivare una relazione che
comporta la conoscenza dello stile di vita e della cultura di base e l’indagare
costantemente sulla percezione che il soggetto ha dei servizi e dell’operatore.
È una persona costantemente attenta ai messaggi espressi e inespressi della
strada, capace di inserirsi nelle aggregazioni naturali degli adolescenti, per
individuare situazioni particolarmente a rischio e casi di disagio non evidenti,
nonché operare in un’ottica di prevenzione dell’assunzione di comportamenti
devianti. Deve conoscere la realtà territoriale, le varie organizzazioni e
istituzioni in ambito di disagio giovanile e possiede abilità organizzative e
tecniche di animazione necessarie per un intervento di strada.
Nell’avvicinare il ragazzo l’educatore di strada gli offre la possibilità
di sperimentare relazioni sociali positive, di sentirsi accolto e accettato, di
recuperare un’immagine positiva di se attraverso la valorizzazione delle sue
capacità. L’approccio, quindi, è orientato a creare un clima di accoglienza
incondizionata, accettazione, ascolto, per poter instaurare un rapporto di
fiducia tale da supportare i ragazzi nell’itinerario di crescita. In particolare,
l’educatore sa “perdere tempo” con i ragazzi, seguirli nei loro giochi e
distaccarsi dalla rigidità dei servizi strutturati. In definitiva l’intervento
dell’educatore di strada ha una duplice funzionalità:
1. migliorare la condizione di singoli adolescenti e i loro rapporti
con gli adulti;
2. prevenire il disagio agendo sulle situazioni definite a rischio
attraverso la promozione del benessere delle comunità locali.
97
3.3. Intervista ad un operatore
Per approfondire i temi trattati precedentemente e per avere una
visione totale dell’argomento, ho pensato che sarebbe stato utile avere un
responso “sul campo”. È per questo che ho deciso di contattare la Cooperativa
sociale “Hakuna Matata”, sita in Bari, e nello specifico, l’educatrice Eleonora
Lascaro, la quale mi ha fornito, attraverso una breve intervista, informazioni
dettagliate circa l’educativa di strada ed in particolare sul progetto svolto
dalla cooperativa per cui lavora.
L’incontro è avvenuto presso la loro sede, dove ho potuto attestare le
competenze del singolo operatore e l’efficienza della loro unità di intenti.
Attraverso delle semplici domande ho potuto comprendere a fondo
l’importanza di questa strategia educativa, ma soprattutto la difficoltà di
realizzazione di un così grande impegno. La mia intervista è stata a domande
aperte e molto flessibile proprio per dare spazio all’esplicazione di tutte le
sfaccettature di un argomento così vasto.
3.3.1. L’intervista
L’incontro tra me e l’educatrice intervistata ha avuto inizio attraverso
una breve esplicazione del motivo della mia presenza in cooperativa e
dell’intervista. Dopo aver spiegato la ragione che mi ha portato ad
approfondire l’argomento dell’educativa di strada, ho dato inizio all’intervista
vera e propria. Le domande poste all’educatrice avevano l’obiettivo di
chiarire, attraverso la sua esperienza in prima persona, le dinamiche che si
98
sviluppano durante lo svolgimento di un progetto di educativa di strada.
Queste sono state le domande da me poste all’educatrice Eleonora Lascaro:
D. Da quanto tempo lavora in questa cooperativa?
R. Lavoro all’interno della cooperativa “Hakuna Matata” da 4 anni.
D. Qual è e in cosa consiste il suo ruolo all’interno della cooperativa?
R. Sono entrata a far parte della cooperativa in un primo momento
come educatrice professionale lavorando per sei mesi in strada, in seguito
sono diventata coordinatrice del progetto, per poi diventare coordinatrice di
tutta l’area socio – educativa della cooperativa.
D. Di cosa si occupa e quali sono gli obiettivi che si prefigge di
realizzare un progetto di educativa di strada?
R. L’educativa di strada è una metodologia di intervento per la
prevenzione e risocializzazione dei giovani a rischio assolutamente
innovativa. La differenza con le precedenti risposte al problema sta nel
superamento del vecchio schema, in cui l’utente si reca presso l’istituzione in
cerca di un servizio, nell’educativa di strada invece, è l’operatore che cerca un
contatto con l’utente anche senza una esplicita richiesta di aiuto da parte di
quest’ultimo. Gli operatori si recano nei luoghi di aggregazione dei giovani,
cercano un contatto con loro, trascorrono del tempo il loro compagnia ed è la
condivisione di esperienze e momenti di quotidianità che permette agli
operatori di capire i disagi nascosti e poterli quindi risolvere.
99
D. In che modo vi proponete di raggiungere i vostri obiettivi?
R. Il primo passo da compiere è effettuare un monitoraggio della città
in generale per poi soffermarsi sui quartieri considerati più a rischio. Una
volta individuate le aree in cui operare, gli animatori si adoperano per attirare
l’attenzione dei ragazzi attraverso la musica o l’utilizzo di semplici giochi
come il pallone. Successivamente ai primi contatti è il turno degli educatori
che con l’aiuto di domande apparentemente comuni cercano di delineare il
background sociale di ciascun ragazzo. Gli operatori di strada solitamente
preferiscono non svelare la loro professione e i loro veri intenti per poi
esplicarli una volta ottenuta la fiducia dei ragazzi. A questo punto si da inizio
alle attività messe in preventivo nel progetto. Spesso, gli operatori
conquistano una piccola vittoria accogliendo le richieste dei ragazzi
dimostrando l’effettiva riuscita dell’intento.
D. Quali sono le caratteristiche dei destinatari dei vostri interventi?
R. L’educativa di strada si rivolge ad un’utenza di giovani di età
compresa tra i 13 ed i 18 anni all’incirca. A volte può capitare che ragazzi più
grandi o più piccoli rientrino a far parte dei nostri progetti senza tuttavia
sconvolgere le nostre attività ed i nostri metodi. I giovani a cui faccio
riferimento sono ragazzi che hanno fatto della strada una seconda casa,
ragazzi che trascorrono le loro giornate a cercare un modo di impegnare il
tempo libero e la maggior parte delle volte non è un modo costruttivo, anzi. Il
nostro obiettivo è appunto quello di fornire a questi ragazzi si una valida
100
alternativa di impiego del loro tempo, ma anche aiutarli a comprendere i
valori basilari che molte volte le famiglie non sono state in grado di
spiegargli.
D. Ci sono degli strumenti in particolare che utilizzate per svolgere al
meglio il vostro compito?
R. Gli strumenti che utilizziamo nei nostri progetti sono dei più
svariati, a cominciare dal mezzo di trasporto, fino ad arrivare agli oggetti che
utilizziamo per far giocare i ragazzi. Per quanto riguarda il bus “On the
Road”, oltre a permetterci gli spostamenti da una zona all’altra della città, si è
rivelato uno strumento utile al nostro scopo. Il bus, attrezzato con quattro
computer e tutto il materiale che serve per l’educativa (giochi, libri, volantini
ecc…), è diventato una caratteristica distintiva della nostra cooperativa in
quanto uno dei ragazzi ha avuto la possibilità di dare sfogo alla sua creatività
artistica realizzando un murales sul bus indicante i nomi delle due equipe che
facevano parte del progetto (Rap e Hip Hop).
D. Quali sono i contesti in cui si rende necessario il vostro intervento?
R. I contesti che richiedono l’intervento dell’educativa di strada cono
costituiti da quartieri in cui i giovani non hanno luoghi dove incontrarsi se
non la strada, la maggior parte delle volte queste zone non sono neppure
collegate dai mezzi di trasporto con il resto della città creando una sorta di
isolamento per i giovani che non hanno possibilità di spostamento. Come
accade spesso nelle medio – grandi città la periferia, quindi, con i suoi scarsi
101
collegamenti con le zone centrali, dimostra di essere il fulcro nonché il
principale motivo di disagio per i giovani che, per passare il tempo non hanno
che una panchina, una piazza o un bar.
D. Quali sono le figure professionali coinvolte in un progetto di
educativa di strada?
R. Il lavoro di strada si avvale della cooperazione tra diverse figure
professionali. Un responsabile del progetto, con la funzione di coordinatore
delle attività, delle equipe e del progetto nel complesso. Oltre a questa, vi è la
figura dell’animatore che si occupa della realizzazione delle attività ludiche e
di animazione ed infine vi è l’educatore professionale che si occupa di
favorire il processo di crescita dei minori e di coordinare la collaborazione
all’interno dell’equipe.
D. Quali caratteristiche e competenze deve possedere un educatore di
strada?
R. Sulla figura professionale dell’educatore di strada purtroppo c’è
poca chiarezza, fondamentalmente le competenze che deve possedere sono le
stesse che deve possedere ogni educatore, ma con qualche caratteristica
distintiva. Innanzitutto deve avere un atteggiamento non giudicante nei
confronti dei comportamenti dei ragazzi, deve sapersi comportare da amico
ma al contempo da educatore, quindi accettare gli atteggiamenti dei ragazzi e
cercare di far comprendere la scorrettezza di questi ultimi qualora ci fosse,
deve saper lavorare in equipe e soprattutto deve essere fortemente motivato.
102
Inoltre deve essere capace di recepire i messaggi inespressi dei giovani e
sapersi inserire nel mondo di questi senza sconvolgerlo, semplicemente
vivendolo insieme a loro.
Studiare da un libro un argomento come l’educativa di strada,
sicuramente chiarisce le idee su questa metodologia di intervento rivolta ai
giovani in difficoltà, ma certamente non spiega implicazioni emotive che
coinvolgono gli operatori durante lo svolgimento di questo tipo di progetto
educativo. Apprendere dall’esperienza di un addetto ai lavori, le sfumature
imprevedibili dei progetti che gli educatori mettono in pratica, aiuta a
comprendere a pieno sia le dinamiche concrete di cui essi si avvalgono, che i
testi puramente didattici e nozionistici. Vista l’importanza e la complessità di
questo argomento, la complementarietà di teoria e pratica è a mio parere la
soluzione ideale per avere ben chiaro il concetto di educativa di strada.
Durante l’intervista, molte delle informazioni ottenute dall’educatrice
Eleonora Lascaro, hanno trovato riscontro sui testi da me utilizzati per
l’apprendimento teorico.
Queste congruenze dimostrano la piena autorevolezza delle ricerche fin
qui fatte sull’argomento, ma anche che nessun testo universitario, così come
nessun ricercatore, sarà mai in grado di quantificare il rapporto di complicità
e confidenza instaurato tra un educatore ed un giovane che, altrimenti,
sarebbe rimasto in difficoltà. Il paragrafo che segue rappresenta la risposta
all’ultima domanda da me posta all’educatrice Eleonora Lascaro:
103
D: Tra i tanti progetti di educativa di strada portati a termine dalla
vostra cooperativa può descrivermene uno che riassuma al meglio il vostro
modo di operare?
3.4. Il progetto “On the Road”
Il progetto “on the road” nasce il 7 gennaio 2003, nell’ambito del
secondo piano territoriale per l’infanzia e l’adolescenza ex Legge 285/9792,
dal Comune di Bari. La Legge Nazionale 28 agosto 1997, n. 285
“Disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia e
l’adolescenza”, si occupa di realizzare interventi a favore dell’infanzia e
dell’adolescenza, programmando a livello teorico possibilità di intervento.
Grazie a questa legge, per la prima volta, sono stati stanziati dei fondi a
favore di progetti indirizzati agli adolescenti.
3.4.1. Ex legge 285/97 una legge a tutela dei minori
La legge n. 285/97 recante "Disposizioni per la promozione di diritti e
opportunità per l'infanzia e l'adolescenza" assume fra le proprie finalità la
promozione sia di interventi rivolti alle situazioni di difficoltà, marginalità e
disagio in cui si trovano molti minori e le loro famiglie, sia di interventi che
riconoscano i bambini come soggetti di diritti ed offrano loro opportunità
nella vita quotidiana delle proprie comunità. L’ambito di intervento della
92 La legge nazionale 285/97 “Disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia e l’adolescenza” del 28 agosto 1997, assume tra le proprie finalità la promozione sia di interventi rivolti alle situazioni di difficoltà, marginalità e disagio in cui si trovano i bambini, gli adolescenti e le loro famiglie, sia di interventi che riconoscano i bambini e gli adolescenti come soggetti di diritti ed offrano loro opportunità nella vita quotidiana delle proprie comunità.
104
legge consente di attivare iniziative realizzate secondo le seguenti linee
fondamentali:
integrazione degli interventi e delle competenze in particolare tra
finalità sociali ed educative, da perseguire attraverso un lavoro di rete, che
preveda l’adozione di strumenti formali, quali gli accordi di programma;
collaborazione tra tutti i soggetti pubblici e privati, impegnati a
livello istituzionale e non, in attività a favore dell’infanzia e dell’adolescenza:
enti locali, aziende sanitarie, provveditorati agli studi, centri per la giustizia
minorile, associazionismo, cooperazione sociale, volontariato;
promozione del ruolo degli enti locali di coordinamento delle
risorse presenti sul proprio territorio, superando la frammentarietà degli
interventi e la scarsa informazione sugli stessi;
necessità di operare secondo tempi e modalità di lavoro predefiniti
e condivisi da tutti i soggetti coinvolti, al fine di evitare sprechi di risorse.
Gli obiettivi prioritari, della legge sono:
1. promozione e sviluppo di una cultura e di tutte le forme di
accoglienza dei minori,
2. promozione di attività di prevenzione diffusa,
3. sviluppo di interventi specifici per la tutela delle situazioni di
maggior rischio e difficoltà, quali abuso o sfruttamento sessuale, abbandono,
maltrattamento e violenza sui minori,
105
4. miglioramento della qualità dei servizi e degli interventi
fondamentali con cui affrontare le situazioni emergenziali e la
sperimentazione e diffusione sul territorio regionale di servizi innovativi a
livello locale, rivolti alla prima infanzia, ai bambini ed alle famiglie, alla
fascia pre-adolescenziale e adolescenziale.
3.4.2. Il Progetto
Uno dei progetti di attuazione delle legge 285/97 è rappresentato da
quello svolto dalla Cooperativa Sociale “Hakuna Matata”, la quale ha avuto la
possibilità di intraprendere questo percorso di lavoro con e per i giovani di
alcuni quartieri di Bari. Il progetto ha avuto una durata di circa tre anni e
mezzo in cui gli operatori hanno contattato circa trecento ragazzi tra i 14 e i
18 anni dei quartieri di San Paolo-Stanic, Libertà e San Girolamo Fesca. In
questo periodo di tempo hanno lavorato attivamente con circa 180 ragazzi,
svolgendo varie attività allo scopo di attirare l’attenzione dei giovani. Oltre
alla cooperativa “Hakuna Matata”, altri enti hanno partecipato al progetto “in
rete”; la Cooperativa Sociale Gea che si occupa di supervisione e
formazione, la Cooperativa Sociale Esedra che, invece, si occupa di
pubblicità e promozione, ed infine la Cooperativa Sociale Get, la quale si
occupa del settore di produzione di audiovisivi e multimedialità.
Lo svolgimento del progetto ha attraversato diverse fasi, la prima delle
quali, naturalmente è stata la mappatura del territorio e l’osservazione dei
gruppi nel loro ambiente e nella loro quotidianità.
106
Durante la fase di osservazione non c’è stato alcun contatto tra gli
operatori e gli adolescenti. Attraverso la fase di mappatura si è potuto
osservare il contesto in cui il progetto avrebbe avuto luogo. All’interno dei
quartieri osservati la caratteristica più importante che si poteva notare era la
mancanza di strutture adatte ai giovani, l’assenza di collegamenti con la città
e conseguentemente la noia dei ragazzi che non avevano un modo costruttivo
per impegnare il tempo libero.
Successivamente a questa fase di osservazione e alla decisione degli
interventi da realizzare, gli operatori sono entrati in contatto con i giovani. Gli
operatori che hanno partecipato al progetto sono stati suddivisi in due equipe
composte da quattro operatori ciascuna, una denominata “rap” e l’altra “hip
hop”. La prima ha lavorato sul quartiere Libertà, mentre l’altra sul quartiere
S. Paolo. Le equipe sono composte da due animatori e due educatori
professionali con ruoli e compiti differenti. Gli animatori hanno il compito di
entrare per primi in contatto con i ragazzi e, con tecniche animative (palloni,
palloncini, clave e vari strumenti per la giocoleria), attirano l’attenzione dei
ragazzi i quali si avvicinano maggiormente agli operatori. Solo
successivamente a questo primo approccio effettuato dagli animatori vi è
l’intervento degli educatori professionisti, i quali attraverso domande generali
entrano in contatto con i giovani per capire le situazioni eventuali di disagio,
ma soprattutto per cercare di instaurare un rapporto con i ragazzi. In ogni
quartiere ogni gruppetto era composto da circa 30 ragazzi di età compresa tra
i 12 ed i 18 anni, anche se a volte l’età si discostava da quella prestabilita,
senza tuttavia creare problemi agli operatori.
107
OBIETTIVI
Il progetto “on the Road” mira a sviluppare un’azione educativa
“informale” sperimentando nuove forme e metodologie di approccio, tramite
l’educativa di strada e attraverso i cosiddetti “streetworkers”, ovvero
educatori di strada93.
Gli obiettivi prioritari del progetto sono stati:
trasformare la strada da luogo che produce disagio, a spazio
d’incontro sano e protetto, realizzando iniziative di socializzazione e di
aggregazione e offrendo ai giovani nuovi strumenti e opportunità,
innescare processi di valorizzazione e autopromozione
dell’adolescente con il tutoraggio degli animatori e degli educatori di strada
nella loro doppia funzione connettore/filtro verso altri servizi dedicati a
questa fascia d’età,
mettere in risalto il valore della strada intesa come risorsa,
trasformare i luoghi di aggregazione dei giovani, nei contesti
territoriali in cui si trovano, in luoghi sani.
DESTINATARI
I destinatari del progetto sono gruppi di pre-adolescenti e adolescenti
di età compresa tra i 12 e i 18 anni dei quartieri S.Paolo - Stanic, Libertà - S.
Girolamo – Fesca e che hanno fatto della strada, per volontà o per obbligo, il
loro punto di riferimento e di aggregazione.
93 Tutti i dati e le informazioni inerenti il progetto “On the road” e la Cooperativa Sociale “Hakuna Matata”, sono stati forniti da operatori della stessa.
108
METODOLOGIA E ORGANIZZAZIONE DEL PERCORSO
PRIMA FASE
La prima fase di attuazione del progetto è stata la mappatura del
territorio attraverso l’osservazione dei contesti e degli eventuali destinatari
del progetto. La conoscenza dei gruppi naturali presenti nel territorio
rappresenta dunque una tappa fondamentale per intraprendere un
avvicinamento. Il lavoro educativo con i gruppi del territorio è stato costruito
attraverso delle fasi preliminari, nel corso delle quali vengono selezionati
alcuni dei gruppi con i quali si pensa di poter avviare un processo di
avvicinamento. Nella prima fase si cerca di conoscere le realtà informali di
aggregazione attraverso una mappatura dei gruppi naturali. Successivamente
alla scelta dei gruppi con i quali avviare un processo di avvicinamento, si
cerca di completare l’aggancio con il gruppo.
SECONDA FASE
In seguito alla prima fase di mappatura del territorio e di osservazione
dei gruppi, si è passati al momento progettuale, dove gli operatori sono entrati
in contatto con i giovani. Il contatto è avvenuto, in un primo momento, con
gli animatori, i quali, utilizzando diverse tecniche di aggancio e di
animazione, hanno attirato l’attenzione dei giovani. In un secondo momento,
invece, gli educatori, attraverso metodi di aggancio meno espliciti, hanno
cercato di instaurare un clima di relativa fiducia con i ragazzi.
109
TERZA FASE
Una volta stabilito il contatto e soprattutto ottenuta la fiducia dei
ragazzi, si è passati alla fase operativa. Durante la fase operativa, vi è stato
l’inserimento dei giovani in attività socio – educative e ludico – ricreative
scelte e condivise con l’utente stesso attraverso un progetto partecipato.
ATTIVITA’ SVOLTE
Durante il progetto “On the Road”, sono state svolte attività tra le più
svariate, con la partecipazione sia dei ragazzi che degli operatori, e tutte le
attività sono state svolte sulla strada. Le due equipe composte da educatori
professionali ed animatori qualificati, hanno incontrato per circa tre anni i
gruppi agganciati durante lo svolgimento del progetto nei loro principali
luoghi di aggregazione: strade, vie, piazze, bar e circoli dei quartieri.
Durante tutta la durata del progetto gli operatori hanno operato con più
di 300 tra ragazzi e ragazze, tutti coinvolti nelle attività di:
cabaret, scrittura di racconti di strada, cortometraggi, cineforum,
laboratori audio – visivi, radio “On the Road”, tornei sportivi, gruppi di
ascolto, discussione e progettazione di attività di autogestione, tutoraggio
nell’ambito scolastico e lavorativo.
Attraverso le attività svolte con i giovani hanno potuto entrare a far
parte del loro mondo , fatto di panchine, di bar, di incontri che in un certo
senso hanno riempito le loro giornate allontanandoli dall’impiego sbagliato
del tempo libero e consentendogli di fare attività più costruttive e sane.
L’obiettivo non è tanto quello di allontanare i ragazzi dalla strada, quanto
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quello di trasformare la strada da luogo che produce disagio in un luogo di
incontri costruttivi e positivi.
L’obiettivo generale è stato raggiunto, alcuni dei ragazzi incontrati
dagli operatori sono tornati a frequentare la scuola, altri hanno intrapreso un
percorso lavorativo e qualcuno di loro proprio all’interno della cooperativa
che ha dato vita al progetto “On the Road”. Tutto ciò dimostra che qualcosa si
può fare; operando nel modo giusto, con i metodi giusti e con le persone
giuste si possono aiutare dei giovani in difficoltà che hanno fatto della strada
un modo di vivere.
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