1. GILBERT La Semplicità del PRINCIPIO (Metafisica)

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PAUL P. GTLBERT S.J.

DEL PRINCIPIO Introduzione alla metafisica

PIEMME

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'I'raduzione italiana a cura di Maria Teresa La L1eccchia

Copertina; Studio Aemrne IElustrazione di copertina: Giovanni Boldini, Dipinti murali della "lulconicra "

Marina (Particolare)

I Edizione 1992

O 1992 - EDIZIONI PIEMME Sp* 15033 Casale Monferrato (AL) - Via dci Carmine, i Tel. 0142/7361 - Fax 0142174223

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INTRODUZIONE

Vorremmo, in questa opera, introdurre alla metafisica. I1 compito non è semplice. Certamente, esistono dei buoni manuali che, in tutte le lingue, ne presentano i punti essen- ziali. Ma una cosa è informare su una disciplina intellettuale, altra è formare alla sua pratica. I meriti dei manuali non sono da trascurare: il loro scopo è di informare; essi non sono da sopravvalutare: non devono veramente formare. Nel caso del- la metafisica, i loro limiti sono evidenti; si potrebbe infatti immaginare che delle definizioni chiare e ben congegnate sia- no sufficienti a meditare su ciò che essa cerca, il principio asso- lutamente primo. Ma il. principio sfugge di per sé ad una tale +da; esso impone una messa in questione che non ha fine. I manuali forniscono concetti chiari per risolvere problemi ben circoscritti, mentre la metafisica medita su ciò che sfugge a qualsiasi soluzione di questo genere, su un mistero che con- cerne l'uomo nel più profondo di tutto il suo essere.

Questa opera vorrebbe elaborare nella maniera più lineare e sistematica la questione del principio. Porre questa questio- ne e ricercare ciò che la rende possibile è un'avventura che coinvolge tutto l'uomo e che può entusiasmarlo. Certo, il pudo- re del17inteIligenza e l'asprezza dei probIemi incontrati non lasciano spazio ai facili entusiasmi. Ma nel momento in cui il pensiero affronta ciò che costituisce l'essenza delle interro- gazioni umane, e che sostiene tutti i nostri sforzi culturali e scientifici, esso tocca iI nostro bene pih prezioso e compie ciò

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per il quale è veramente fatto. Occorre ancora per questo accet- tare il procedere paziente dell'indagine, seguendo le sue trac- ce passo dopo passo.

a) La diffacold delh metafisica

Le discussioni metafisiche non mancano oggi, ma sono com- plesse. Le questioni poste sul mondo, sull'altro e sull'r(io», o ancora su Dio, non sono marginali; ma, articolate intorno a1 tema della <<differenza antologica>>, esigendo di superare tutte le nostre rappresentazioni derivate dalla esperienza per pen- sare ciò che la trascende in una maniera o in un'aitra, esse non sono facili da comprendere nella loro giusta profondità. Applicarsi a queste senza una preparazione adeguata rischie- rebbe di fare disconoscere il loro giusto significato. Prima di trattarle con profitto, occorre partecipare alle ragioni che le fanno porre piuttosto che alle soIuzioni concettuali che si potrebbero recare loro, mascherando distrattamente le loro reali poste in gioco. Noi tenteremo qui di introdurre d a metafisi- ca quale si presenta oggi, recuperando le articolazioni essen- zidi delia interrogazione che Ia sostiene.

Ma che cos'è la metafisica? Impegnarci ai nostri giorni nel suo studio richiede coraggio. Le pubblicazioni recenti sull'ar- gomento sono infatti numerose e svariate e le critiche che le vengono mosse sono più aspre che mai; la comprensione di ciò che essa è ne risulta più difficile. Noi passeremo in rasse- gna aicune di queste pubblicazioni d'inizio del nostro primo capitolo. Diciamo fin da adesso che, d'incirca, esse si divi- dono in due campi, queUo della metafisica anglosassone e quello della metafisica continentale. La prima, originata nell'empiri- smo, ma adesso molto presente anche sul continente europeo, si preoccupa di fondare le scienze; poiché le scienze sono dei discorsi, il suo interesse si porta in più larga misura verso la linguistica. La «filosofia analitica*, che si colloca in quest'o- rientamento di pensiero, seduce molto i ricercatori attuali; essa si interroga sulla pertinenza di ogni discorso con strumenti tec- nici sempre più affinati; sembra così determinare e verificare le condizioni che rendono valido ogni discorso, e dunque anche

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della metafisica; essa giunge perfino a costituirsi come Ia sola metafisica valida.

La metafisica che noi abbiamo chiamato continentaie è più attenta al destino dell'uomo, al suo mistero, ai valori della sua esistenza, all'arte; è più variegata, meno tecnica e verificabi- le, apparentemente meno precisa. Non pensa che il linguag- gio sia l'orizzonte ultimo delle questioni umane. Non si limi- ta a precisare le condizioni del sapere, benché, per poter essere sviluppata e riflessa legittimamente, essa implichi evidentemen- te un discernimento critico sul potere della ragione e suile sue condizioni linguistiche.

La nostra ricerca condivide la mentalità contemporanea. Noi pensiamo che la metafisica non possa essere chiusa nell'oriz- zonte dell'analisi del linguaggio. Essa non tende ad analizzare i nostri giochi linguistici o la loro struttura formale, ma a coglie- re il Logos in atto. I1 Logos (questo termine greco vuole dire «parola») è un atto di sintesi; qualsiasi analisi suppone preli- minarmente questo atto; prima di poter analizzare una pro- posizione nei suoi diversi elementi, occorre che questa propo- sizione sia effettivamente pronunciabile e che sia riconosciu- ta sensata o meno in un atto che noi diremo di consenso o di adesione. ZI riconoscimento del Logos in atto interessa di più la metafisica che l'analisi dei suoi elementi separati gli uni dagli altri. I1 fondamento del linguaggio non appartiene a ciò che noi potremmo determinare mediante le nostre descrizioni e i nostri ragionamenti, ma a ciò che noi esercitiamo quando parliamo. Al principio è ii <<verbo», ma I'espressione verbale non è il suo proprio principio.

Tuttavia, come parlare del principio senza esprimerlo e sot- tometterlo alle regole del linguaggio? Ai nostri giorni la meta- fisica continentale è così contestata dalla mentaIi tà empirista. Una prima critica concerne la sua definizione originaria. Per Aristotele, la metafisica è un certo sapere deIl'ente in quanto ente, vale a dire essenzialmente della sostanza l. Ma che cos'è la sostanza? La si può conoscere veramente per poterIa espri- mere? Gli empiristi, di cui noi ora mettiamo in caricatura le

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posizioni, pretendono che solo i fenomeni o le apparenze ci siano accessibili; la sostanza, o questo centro profondo che, secondo Aristotele, li unisce e dà loro significato, resta un mistero; non si potrà mai conoscerla in modo adeguato; non vale perciò la pena di preoccuparsene. Queste critiche impe- discono di prendere sul serio quelli che si interrogano sulla crprofondità* delle cose, su ciò che oltrepassa l'esperienza sen- sibile. Esse affermano che se si penetrasse fino a1 centro miste- rioso della sostanza, non se ne potrebbe ugualmente dire nul- la; il linguaggio non può, infatti, abbandonare la sua terra nata- le, l'esperienza della molteplicità delle apparenze sensibiii. La sostanza, indicibde, è dunque priva di interesse per la cono- scenza; «altra cosa» che il fenomeno, essa è al di Ià di ciò che ci è normalmente accessibile. La metafisica, che si sgancia dal sensibile, vale quanto valgono le favole e le poesie. Del suo oggetto si può dire tutto, ed anche ii contrario; non si può in nessun modo verificarne nulla.

Una seconda obiezione verte sulla pretesa che ha la metafi- sica di poter spiegare tutto. In realtà, pensano gli ernpiristi, la metafisica non spiega assolutamente niente. Essa dice di cer- care la ragione più universaie di tutto ciò che è. Ma per que- sto motivo riduce tutto ad un'idea semplice e vaga, la «vita>>, l'<iessere», l'<«atto», la «sostanza>>, il «sé», come se potesse illu- minare muovendo da ciò i problemi reali dell'esistenza. Ma le sue soluzioni, a suo parere semplici ed evidenti, non sono in realtà né semplici, né evidenti. Il suo linguaggio, in cui regna la generalità e la confusione, occulta più che non rivela la strut- tura reale del concreto. La metafisica manca di anaIisi e di precisione.

Una terza critica riguarda l'utilità della metafisica. I1 suo discorso non aiuta ad uscire dai nostri drammi umani; si rivolge ad angeli beati piuttosto che ad uomini sprofondati in proble- mi decisamente complessi. La metafisica, che tende verso un principio semplice, che si dice la regina delle scienze, disto- glie le nostre energie spirituali dalle realtà crude della nostra esistenza mortale. E un oppio per irresponsabili ed idealisti. Non si tratta piii, ai nostri giorni, di interpretare il mondo e di trovarne il senso; bisogna piuttosto trasformarlo; ora, la

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metafisica che riduce tutto alla semplicità di un principio ori- ginario e pacifico, ignora le lotte che esistono tra le indivi- dualità concrete. Sul piano politico, sarà senza efficacia; la sua ideologia spontanea la porterà spesso a sostenere i partiti dell'«ordine».

Queste critiche sono mosse alla metafisica dau'esterno, da parte di coloro che non l'apprezzano, rifiutandole qualsiasi valo- re. Ma oggi non pochi metafisici insorgono anche contro di esca, di fatto contro la sua forma antologica. Alcuni autori con- tempor'anei, soprattutto dipendenti da Heidegger, hanno inter- pretato la sua storia come se la cultura mondiale attuale, così orgogiiosa della sua tecnica e dei suoi successi, ne fosse il risul- tato. Si riconosce l'albero dai suoi frutti. L'antologia, vale a dire il discorso sull'ente, pretende di decorticare la struttura ultima e più intima delle cose. Ma costruendo dei sistemi che essa pretende clie siano capaci di abbracciare la totalità del reale, la scompone, facendo così nascere l'idea di poterla anche ricomporre. Di qui la crisi dei tempi moderni, aperta da Car- tesio e da Leibniz. Di ogni analisi il filosofo è responsabile; egli è dunque il padrone del reale. La nostra era è quella del dominio del mondo da parte dell'uomo o piuttosto, lo si deve constatare, da parte di certi tecnici. Alcuni metafisici attuali vogliono rinnovare il senso del reale distruggendo queste onto- logie che hanno reso possibili le manifestazioni di orgoglio della nostra cultura mondiale. Occorre restituire j suoi diritti alla metafisica criticando le sue distorsioni e ripristinando la sua missione, che è quella di conoscere ii reale sulla base del desi- derio e dell'ammirazione piuttosto che per mezzo delle deter- minazioni che le impongono Ie nostre spiegazioni concettuali.

6) I l permanere della domanda metafisica

Le critiche mosse d a metafisica possono essere accolte come degli inviti a purificarne il senso. La maggior parte di queste difficoltà nascono dalle interpretazioni distorte della intenzione che la sorregge o più esattamente dall'arrestarsi della sua domanda fondamentale in alcune rappresentazioni o alcune cer- tezze in apparenza scientifiche, nelle quali essa penserebbe di

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detenere qualche verità definitiva e oggettiva. L? sforzo meta- fisico è inquadrato; esso penetra dei paradossi. E spiegato con I'aiuto del linguaggio, ma non può essere solamente un'analisi del linguaggio. Dirigendosi verso ciò che supera ogni verifica analitica, rischia di apparire così senza fondamento, gratuito, ideologico. Raggiungendo il mistero nella maniera più radica- le, esso vuole tuttavia esprimerlo nel modo più razionale e necessario possibile, pur rimanendo lontano dalle norme tec- niche dei nostri contemporanei.

Tuttavia, nonostante queste oscurità e queste tensioni, I'esi- genza metafisica continua ad affascinare. Aristotele notava s d a soglia della sua Me&fisica2 che tutti gli uomini desiderano conoscere. La metafisica comincia col meditare su questo desi- derio primordiale, di cui essa cerca ii senso e il principio. Di fatto, questo desiderio assume pure delle modalità nelle nostre vite, la conoscenza del mondo per mezzo della scienza, del sen- so dell'esistenza per mezza delle religioni, la conoscenza di sé per mezzo della saggezza. Nondimeno la metafisica non è simile ad una di queste conoscenze; essa è maggiormente attenta a ciò che unisce la loro diversità più che ai loro contenuti. Non si domanda con quali strumenti precisi è possibiie e legittimo conoscere iI mondo, I'uomo o Dio, ma piuttosto come queste diverse conoscenze sono sottomesse ad un medesimo deside- rio che le riunisce nel suo dinamismo. Tutti gli uomini desi- derano conoscere. Ma che cos'è che anima questo desiderio fondamentale?

Fin da quando si sono messi alla ricerca del principio ulti- mo della conoscenza, gli antichi hanno cercato ciò che limita e convalida la ragione nelIe sue diverse attività. Con Aristo- tele, hanno misurato la potenza del discorso e legittimato i suoi principi logici mediante ciò che li trascende, ii riconosci- mento dell'intenzione intellettuale chiarita attraverso proce- dimenti precisi, tale I'operazione logica chiamata in un senso figurativo <<ritorsione» di cui parleremo più tardi, nel capitolo secondo (Ic) e soprattutto nel capitolo terzo (3b). La ragione non è solo un'attività di conoscenza oggettiva; essa è più del-

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l'intendimento che presiede alle nostre costruzioni scientifi- che; ci radica in un desiderio che va aI di là delle nostre cono- scenze determinate. I1 plotinismo ' è stato un testimone pri- vilegiato di questo slancio fondamentale, di cui numerosi Padri, come sant' Agostino in una certa maniera, hanno raccolto l'ere- dità. La metafisica tende verso un principio che conferma la conoscenza ai di là di se stessa, che non è un oggetto da cono- scere, ma I'orizzonte desiderabile di un dinamismo esercitato nella pratica concreta della conoscenza.

Tuttavia, in che modo esprimere questo desiderio senza deter- minarlo per mezzo di ciò di cui esso è il principio? Come dire ciò che fonda ogni linguaggio senza esprimerlo nel linguaggio? La trascendenza ragionevole che è d'orizzonte della conoscenza non è conoscibile che riconducendola in seno a ciò che è già determinato. Noi non conosciamo n d a se non precisandolo nel- la nostra esperienza o determinandolo per renderlo intelligibi- le. La storia delia metafisica è segnata da quest'alternanza di slancio e di ripiegamento, di diastole e di sistole, dal momento che gli stessi termini possono ritrovarsi ora in una prospettiva aperta, ora in un sistema composto da determinazioni stabili, di modo che il loro significato possa moltiplicarsi, diventando ambiguo. La ragione, per esempio, può essere compresa d a maniera del razionalismo scien tis ta o dell'apertura della mtio classica. 11 nostro studio ci condurrà a comunicare con l'intel- ligenza classica della ragione e cleI principio trascendente. Noi vedremo progressivamente come la ragione è un sapere, certa- mente, ma che implica l'impegno di tutto I'uomo, piu che la sola potenza del suo intendimento. La metafisica che noi pro- poniamo condurrà così da una esigenza epistemologica ad un riconoscimento antropologico, per quanto il suo termine non sia l'uomo, ma la realtà del Bene che dona, secondo Platone, I'essenza e l'esistenza a tutto ciò che è'.

Proponiamo una Introdzrxione alla metgfisica: vorremmo mostrare che Ia metafisica, in quanto riflessione orientata verso il principio, è possibile e in che modo. Non seguiremo un iti-

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nerario storico, ma speculativo; la storia della filosofia non apporta infatti risultati che nei filosofi attenti alle problema- tiche fondamentali e capaci di farle proprie; la tradizione tra- smette ciò di cui il metafisico intraprende lo studio in prima persona. Il nostro cammino non sarà descrittivo, ma specula- tivo e riflessivo. Vorremmo svincolare, muovendo dalle espe- rienze più comuni ed universali della conoscenza, le condizio- ni di possibilità che la trascendono; la ragione è più che la conoscenza delle scienze; essa è un'apertura ed una obbedien- za alla trascendenza.

In questo paragrafo, abbastanza condensato vorremmo pro- porre schematicamente gli orientamenti fondamentali della nostra riflessione. Ogni conoscenza opera una sintesi; essa acco- sta un ente ad un altro, al fine di chiarirlo e di comprenderlo; è dunque unificante. Il principio di ogni conoscenza rende pos- sibile questa unificazione. Esso appare in un primo momento come ciò che assicura l'omogeneità di tutte le nostre conoscen- ze, l'<<ente in quanto ente*, per mezzo del quale tutto ciò che è presente d'intendimento è <<qualche cosa» di conoscibile. Tuttavia, il principio non può essere una forma così monoliti- ca da non conoscere nessuna alterità, da non lasciare posto d a molteplicità. I1 principio unificante non può essere una forma che aspirerebbe tutto a sé, distruggendo I'originaliti del diverso. I1 principio unifica senza ridurre d'identico. Dicia- mq perciò che esso è «semplice».

E semplice ciò che, complesso, non è tuttavia complicato, vale a dire ciò i cui elementi sono percepiti nella loro recipro- cità dinamica. Ciò che è complicato è formato da elementi di cui non si vede bene il legame. Gli elementi di un complesso, armoniosi e ben collegati dinamicamente tra loro, formano una struttura semplice. Questa semplicità implica Ia diversità degli elementi che vi sono presenti e la dinamicità delle loro rela- zioni; essa è I'unità di una reIazione. I1 principio che pone la metafisica è l'unità semplice di una relazione originaria e non una forma compatta.

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Ma il principio resta il principio. Che cosa sarebbe dunque questa relazione diilailrica originaria? Noi la pensiamo muo- vendo da una esperienza universale che serve da modello alla sua affermazione. I1 principio è come lo spirito umano che si riconosce nella espressione che esso non è, ma che gli è tutta- via propria e di cui assume la responsabilità: <<Io affermo ciò», «Io sono l'autore di tale azione». Lo spirito si esprime armo- niosamente in ciò che esso non è. Non è l'unità compatta verso la quale tendevano certe forme di idealismo, ma la semplicità stessa; lo spirito, dinamicamente presente a sé, si conosce essen- do in relazione con ciò che esso non è. Tuttavia iI nostro spi- rito non è semplice per se stesso.

Il principio è semplice originariamente in questo senso che la molteplicità proviene da esso come da una fonte sovrab- bondante, mentre, al contrario, il nostro spirito si conquista su ciò che lo separa da se stesso. Lo spirito umano si conosce infatti dapprima nella divisione; esso tenta di conseguire la sua unità, riflettendo sui suo atto. Sant'Anselmo notava che noi non possiamo sempre dire ciò che comprendiamo5; vi sono anzi delle cose che comprendiamo molto bene, ma che siamo incapaci di esprimere in modo adeguato. Tra l'intuizio- ne interiore dell'atto e Ia sua espressione, vi è una distanza che dipende dalla nostra condizione umana. Ora, conosciamo questa distanza e sappiamo che è in sé la propria origine.

I1 cammino di accesso a questa origine traccia il cammino della metafisica. Riflettendo sul nostro atto, ci conosciamo inte- riormente semplici, ma divisi ddla nostra espressione. Cono- sciamo così l'atto semplice che è al principio di sé, all'oriz- zonte che attrae l'indagine della metafisica. Al termine del nostro studio, dovremmo meditare su questo atto con l'aiuto dell'analogia e dei trascendentali; ma riserviamo questa rifles- sione ad un'altra opera.

d) IZ nostro piano

Veniamo adesso al piano di questo libro. I1 cap. I muove dai primi e dall'ultimo tra gli iniziatori della metafisica, Pla- tone ed Aristotele, prima, Heidegger, poi, per mettere in evi-

> ANSELZIU, Monologiurin XXIX.

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denza l'intenzione dei loro sforzi. La metafisica si presenta in un primo momento come una ontologia, vale a dire un discorso suil'ente (ontos-logos) nella sua forma pih generaie; ma essa è anche pi6 di questo. Il primo capitolo ne presenta e discute alcune definizioni recenti. Il cap. 11 precisa la defini- zione classica della metafisica in maniera tale che essa diven- ta un compito ed orienta il nostro studio. La metafisica non tratta dei fatti, ma del principio che articola l'alleanza delI'ente e dello spirito. I1 cap. 111 elabora a quel punto il metodo del nostro studio.

La metafisica è una conoscenza di un certo tipo. La que- stione epis temologica non può dunque essere trascurata. Ma anziché esaminarla in se stessa, in funzione della struttura del- I'intelietto e del discorso, l'assumiamo in seno d'alleanza onto- logica di cui facciamo una esperienza archetipica nello stupo- re (cap. IV), fonte di tutti i nostri dinamismi intellettuali. L'analisi di questa esperienza permette di fissare i tratti più significativi deile categorie ontologiche classiche essenziali (cap. V)

I capitoli che seguono analizzano più nei particolari le diverse potenze deu'atto intellettuale; mostriamo ogni volta come l'al- leanza ontologica vi si arricchisce. Ci applichiamo così alla sen- sibilità (cap. VI), poi ail'intendimento (cap. VII) ed in ultimo alia ragione (cap. VIII), seguendo in ciò una divisione classica da Platone in poi. Questo studio mostra che la conoscenza non culmina nel porre f o r m ~ universali o leggi necessarie; vi è più nella ragione di queste universalità e necessità in cui ha origi- ne il dominio tecnico del mondo.

L'alleanza ontologica apparirà sempre piii, nel corso della nostra esposizione, come l'articolazione vissuta di una dif fe- renza antologica. 11 cap. IX mostra come le scienze esatte arti- coiano questa differenza, ma in maniera tale che esse potreb- bero pure sopprimerla se il loro slancio verso I'unità formale non apparisse limitato o, in un certo senso, destinato d o scac- co. Vedremo come l'alleanza ontologica, nata nello stupore ed esercitata, ma articolata in parte, dalle diverse potenze del- l'intelletto, è nello stesso tempo riconosciuta, superata e man- tenuta nell'atto di affermazione (cap. X).

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L'analisi dell'afferniazione fa riconoscere, d'origine del sape- re, un atto spirituale di consenso che mette in opera la totali- tà delle nostre potenze spirituali. I1 cap. XI, af vertice di que- sta opera, qnalizza l'esperienza dell'incontro con l'altro; lo spi- rito vi esercita la sua trascendenza nei riguardi delle determi- nazioni concettuali e Ia sua apertura verso il reale, con- fermando la sua contingenza radicale. La <<persona>> appare d o - ra come la sostanza che la riflessione metafisica manteneva all'orizzonte della sua meditazione.

La nostra conclusione evocherà in ultimo l'analogia e la par- ! tecipazione; questi filosofemi danno da pensare, se li si com- j prende bene, il principio ricercato dalla metafisica e che è più della <<persona».

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CAPITOLO PRIMO

CHE COS'E LA METAFISICA

Prima di impegnarci nella nostra riflessione, occorre pre- sentare ciò di cui parleremo. Che cos'è la metafisica? Di fatto, dl'inizio del nostro lavoro, in cui siamo come delle tabuhe msae, non ne possediamo nessuna definizione che potrebbe imporsi da se stessa con evidenza. Dobbiamo dun- que informarci presso coloro che ne hanno intrapreso lo stu- dio. Allo stesso modo che la matematica è ciò di cui trattano quelli che si riconoscono tra loro come matematici, così acca- de per la metafisica. Noi abbiamo tuttavia almeno questa nota caratteristica: la metafisica è un discorso che svolge una ricer- ca originaie in quanto al suo oggetto e al suo metodo; ma non abbiamo l'evidenza di ciò che potrebbe determinare una tale ricerca.

Presenteremo dunque per cominciare alcune definizioni della metafisica che illustreremo ricordando qualche autore recen- te, senza tuttavia tracciare con ciò un quadro completo della metafisica contemporanea, e senza pretendere che gli autori citati siano i più rilevanti neIla nostra cultura filosofica attua- le. Ci rivolgeremo in seguito ai fondatori di questa disciplina intellettuaIe, Platone ed Aristotele, per comprendere da essi in che modo analizzare la problernatica che ci hanno lasciato in eredità. Concluderemo questo primo capitolo leggendo alcu- ne pagine di Heidegger. AU'ascolto di questi maestri, noi potre- mo discernere ciò di cui tratta la metafisica.

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1. Alcune definizioni recenti della metafisica

Sono possibili numerose definizioni della metafisica; ne pro- porremo alcune, commentandone successivamente cinque l. Ecco la prima. Nel senso più stretto, la metafisica è la scien- za delI'ente in quanto ente, v d e a dire dei principi essenziali dell'ente e del conoscere. Questa definizione è stata elabora- ta da Aristotele nella sua Mebfisictd '. Essa integra tutto, desi- gnando dunque ciò che è il. pi6 universale. Infatti, che cosa c'è di reale, di immaginario o di teorico, o che cosa c'era, c'è o sarà che rimanga fuori dd'universale? La metafisica pren- de in considerazione tutto, poiché, tutto ciò che è, è un ente; tuttavia, il suo punto di vista è peculiare ad essa. Come ogni scienza, essa ha un oggetto materiale (l'ente) e un oggetto for- male, vale a dire un punto di vista particolare sull'oggetto mate- riale (in quanto ente). Ma, nel suo caso, l'oggetto materiale e l'oggetto formale sono strettamente legati. Ora, l'oggetto materiale è l'oggetto in senso comune, vale a dire la cosa cono- sciuta, mentre l'oggetto formale evoca il modo di rapportarsi dello spirito all'ogget to materiale. Poiché questi due oggetti sono uno, non si può contrapporre il conoscente (oggetto for- male) al conosciuto (oggetto materiale).

I1 problema è di sapere a quali condizioni una tale unità dell'ente conosciuto e deI modo di cqnoscerio può divenire l'og- getto di una conoscenza adeguata. E questa la questione della possibilità della metafisica, che Kanr ha posto in maniera deci- siva, nctando che senza il sostegno del sensibile la nostra cono- scenza non è valida. La relazione deli'ente e del conoscere non pub dunque essere sganciata dall'esperienza sensibile. Per con- seguenza, la prima definizione non può indicare un principio, l 'ente, che sarebbe puramente intelligibile, senza riferimento all'esperienza sensibile.

! 1'. FOLLUGIL ed R. SAI~I~.T-JFAN, Dictionnuirc CIC h iutagwe phi!oropiSiqttr, pp, 437-440. Seguima sii questo punto quesro dizionario che è piu preciso di dtri, per esempio del Lalande.

2 Per Aristotdc, ~ c ' è una scienza che studia I'[entel-in-su~nto-lentel e le proprietà clie gli sono inerenti v r sua stcssa natura» (Me~crJsicn IL' 1, 1003a); a& compito di una ~cienza unica pcr genere srudiac quante siano le s ~ c i e dcll'rentel-in-quanto-rentel, ed è compito dellc parti specifichc di questa scicnza stiidiare Ic parti specifichc dell'[entel» (Mctafr~icu IV 2 , 1003b).

i 18 i. CHE COS'C LA METAFISICA

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Si potrebbe tuttavia uscire da questa ingiunzione kantiana, rimanendo nell'arnbito della logica, come per esempio L. Peiia, per il quale «la logica non è nient'altro che l'ontologia, o - 1. ..] - la metafisica), '. Ma la logica, essendo la prima delle scienze in'quanto ogni discorso Ia utilizza, è anzitutto forrna- le. E non si vede come un principio formale potrebbe rischia- rare la totalità dell'ente in quanto ente. Una metafisica cpie- gata in un quadro unicamente logico mette in opera uno dei momenti della definizione aristotelica, quello del punto di vista del conoscente, riconducendolo alIe condizioni di coerenza dei suoi mezzi di espressione; ma ciò non è altro che considerare qui una parte soltanto della prima definizione proposta.

Per G. Kalinowski, «la teoria delI'[ente] in quanto [ente] non è 1. ..l che l'ultima tappa della riflessione filosofica, la sua rifinitura resa necessaria e possibile solamente quando la spir- gazione degli enti dati nella nostra esperienza, compreso l'uo- mo, beninteso, è pervenuta alla determinazione della loro ulti- ma ragione di essere» La metafisica giustifica dunque gli enti risalendo fino alla Ioro ragione estrema. Essa può realiz- zare questo progetto analizzando i nostri diversi giudizi; que- st'analisi è in grado di condurre a delle conclusioni così sicu- re come quelle delle scienze. Per G. Kalinowski, infatti, <<è possibiIe aspirare ad una metafisica-sapere» 5 che non contie- ne giudizi sintetici a priori, vale a dire giudizi che conclude- rebbero un'argomentazione senza ricorrere ad una definizio- ne o ad una esperienza sensibile. II fatto è che, secondo Kant, la metafisica, che è composta di questi giudizi sintetici a pno- ui, non convince veramente. Mostrare che la metafisica non è così costituita sarà distruggere questa obiezione. Di fatto, secondo Kdinowski, la metafisica concerne la determinazione delle condizioni di possibilità della effettuazione dei nostri giu- dizi. In tal modo, essa teorizza la possibdità di tutte le scien- ze, spiegando la struttura ultima di ciò che esse mettono, tut- te, in opera. La metafisica fonda allora le espressioni intelligi- bili dell'esperienza.

I.. P&A, El ente y C E rer, p. 14. G. K A L ~ U W S K I , L'zmp~ssib!~ métaphysique, p. 12. In., p . 8.

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Seconda definizione: la metafisica è la parte della filosofia che cerca la spiegazione razionale del reale muovendo dall'e- sperienza, ma superandola e mettendo capo così a delle realtà che la trascendono. Questa definizione esprime una intelligenza tanto spontanea quanto classica della metafisica. Di fatto la preposizione meta della parola «meta-fisica» significa <<dopo». Ora, nei trattati di Aristotele, la Mehzfisicd, che viene dopo la Fisica, prende in esame, verso Ia sua conclusione, un ente che è Dio. Allo stesso modo, per il senso comune, gli enti meta- fisici, per esempio l'anima o Dio, vengono dopo o al di là della fisica. Questi enti sono al di fuori dell'esperienza sensibile. Tuttavia, le loro concezioni, che provengono dalle tradizioni religiose più antiche dell'umanità, hanno un vaIore razionale che spetta alla metafisica fissare. Gli enti più elevati servono così come principio di spiegazione del sensibile. Questa seconda spiegazione sembra con ciò infrangere la pretesa universaliz- zante chiarita dalla prima, poiché l'anima e Dio sono degli enti particolari.

Tuxtavia, la riflessione tradizionale sugli enti trascendenti non può andare smarrita; essa testimonia un'esigenza che la riflessione non può abbandonare. Alcuni empiris ti, nondime- no, pensano che ciò non sia necessario. S. Korner6, per esempio, concepisce la metafisica muovendo dalla concezione dell'uomo comune e della sua intersoggettività; soltanto que- sta metafisica, che egli chiama immanente, ha consistenza; essa è formata ai diversi livelli della logica umana; in quanto aJla metafisica degli enti trascendenti, questa ha affinità con la mistica e sfugge alla riflessione. G.N . Schlesinger pensa diver- samente; per lui, l'esperienza alla quale la metafisica si riferi- sce è certo molto pih tenue di queIla che offre la scienza; la rnet afisica, allora, è meno della scienza: infatti <<i problemi metafisici sono i problemi ai quali gli uomini di scienza non si applicano, lasciandoli alle investigazioni dei filosofi* '; tut- tavia, questo residuo lasciato dalle scienze è del tutto essen- ziale. La questione deiia metafisica è quindi quella del suo

6 S. KUK'IF.R, iIletuppbysics. G . h'. SCHLPSNGEH, ~,\f~*ddprlr.~ics, p. 11

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metodo, a cui la maggior parte dell'opera è dedicata; occorre infatti fare di tutto per evitare di concepire gli enti «fondato- ri» come degli enti sensibili; ma questi enti metafisici sono interamente provvisti di senso nel loro ordine.

I1 problema posto dalla seconda definizione concerne dun- que la possibilità razionale degli enti più elevati che il sensi- bile. Seguendo Kant, per il quale la necessità logica degli enti trascendenti non può condurre all'affermazione della loro <mi- stenza*, J. Juszezak pensa che ala metafisica deve essere con- siderata come una delle imprese più alte della ragione umana, e che la ricerca deU'Ideale, per il quale essa si costituisce, rima- ne la semplice dimostrazione deIla necessità di questo Ideale, indipendentemente da qualsiasi concezione dogmatica* X ; I'au- tore cerca dunque di differenziare credenza e pensiero razio- nale; ci interessa qui la riflessione suIl'immaginazione attra- verso la quale la credenza pone come +esistente» ciò che potreb- be non essere che una norma necessaria per l'uso del pensie- ro. La metafisica deve dunque riflettere con cura sullo statu- to delle proprie affermazioni riguardo agli enti trascendenti; tuttavia essa non può rifiutare a priori ogni realtà a questi enti.

Terza definizione: la metafisica è la parte della filosofia che determina le condizioni priori della conoscenza. Questa defi- nizione, tipica da Kant in poi, vale tuttavia fin da prima del- la Critica de2h rwgion pzdm. Essa rivela la preoccupazione mag- giore della filosofia moderna. Cartesio aveva già rinunciato ad un mondo stabile, in definitiva senza movimento, che offriva un sostrato sicuro alle scienze classiche; per questo motivo gli occorreva determinare prima su quale nuova base affermare le proposizioni scientifiche: «Per non essere però sempre incerti su ciò che lo spirito possa e perché non ci si affatichi alla cie- ca ed in modo errato, bisogna, prima di accingersi a conosce- re le cose in particolare, e almeno una volta nella vita, aver cercato con diligenza di quali cognizioni sia capace la ragione umana. Per meglio riuscirvi, si deve sempre, tra le cose ugual- mente facili, cercare per prime quelle che sono più utili [.- .3.

qJ. JC,SZTZAK, &,L+? & la mctdphysiyuc, p. 9 . Per ~onceziont- dogmntica si iiitende ;lui I'affermaarone dell'csjstenza dell'Idcdc iii manitra tde che gli si attrihilire iin'esi- stenza sinlile a sucila delle cose sensibili. l

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Ora, non c'è niente di pih utile che cercare che cosa è la cono- scenza umana e fino a dove possa estendersi>>9.

In una lettera al traduttore dei suoi Principi dz filosofia lo,

Cartesio paragona I'ordine delie scienze ad un albero; la meta- fisica ne formerebbe le radici, la fisica il tronco, la medicina, la meccanica e la morde i rami principali. La metafisica moder- na fonda infatti i giudizi sintetici sulla struttura della cono- scenza e non più sulla reaità delle cose ingenuamente cono- sciute. Kant, pur insistendo sulla origine sensibile di ogni vera conoscenza, ha formulato in un'espressione celebre questo capo- volgimento della prospettiva classica: «Si faccia, dunque, [. . .] la prova di vedere se saremo più fortunati nei problemi della metafisica, facendo l'ipotesi che gli oggetti debbano regolarsi sulla nostra conoscenza>> ". La conoscenza non è misurata dall'oggetto, ma I'oggetto conosciuto è misurato dalla facoltà di conoscenza.

Questa maniera di considerare la metafisica risuona in G. Bontadini, per il quale la metafisica approfondisce le condi- zioni dell'esperienza in generale e della conoscenza che ne deri- va. L'esperienza non è fondata sulla sua immediatezza sensi- bile. Una scuola vigorosa prosegue questa indagine; si rivolge alla questione del divenire in cui avviene ogni esperienza. Per P. Faggiotto, che vuole rendere intelligibile l'«esperienza inte- grale» nel suo sviluppo attivo, e per quanto questa esperienza del divenire sia sempre penetrata da qualche oscurità che ne impedisce la completa intehgenza, ({nel discorso metafisico ciò che viene trasceso è il livello sensibile dell'esperienza, ma non I'esperienza nella sua integralità, ponendosi anzi tale discorso come Ia esplicitazione di quelia mediazione che già all'interno deli'esperienza si intuisce originariamente tra il polo sensibile e quello noetico)) 12. In questa prospettiva, la metafisica libe- ra il principio di ragione sufficiente del divenire, ciò che implica la posizione di qualche principio fermo; «la ragione di ciò che diviene è in un altro ente, e taIe [affermazione] non sarà esau-

R. DPSCARTES. Regole per lu gui& dell~inteltigenzu, VIII . p1>- 74-75 'l' R. DESCAK.I,ES, Ler pnncipes Je In philosopbic, li. 566. :' LWI', Cfirica delh ragiion punr, Prefazione &I 1787, p . 20. :' P. F A G G I ~ O . Pcr aria metufi~zca dpll'esperi~nni iinkgralc, pii- 9- 1 O.

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riente fino a che non si perverrà ad un ente immobile. La ragio- ne che il divenire domanda è dunque una ragione che trascende il divenire: in quanto problematico il divenire non p ò essere originario» ".

E. Agaizi, che incentra la sua ricerca sull'articolazione del- la scienza e della fede rrarnite la mediazione della metafisica, nota che la scienza ha preteso di rendere inutile il discorso metafisico sulla trascendenza. Ma occorrerebbe distinguere, da una parte, la mediazione scientifica e il suo livello di spiega- zione e, dall'altra, la mediazione metafisica, o ancora la inte- rezza di ciò che è accessibile all'esperienza e la interezza come tale: il principio di spiegazione del mondo sperimentato non è irnrnanente all'esperienza stessa; «la metafisica deve impe- gnarsi a mostrare che il superamento dell'intero dell'esperien- za è condizione "necessaria", e dunque assoluta, per la com- prensione e Ia spiegazione del mondo stesso dell'esperienza; il che implica il carattere non ipotetico, incondizionatamente valido e irrefutabile delle affermazioni met afisiche» 14, in quanto condizione di possibilità dell'esperienza stessa.

Quarta definizione: la metafisica ricerca il senso del reale e principalmente della vita umana, assumendo un punto di vista antropologico. Questa definizione ha portato frutti durante gli ultimi decenni. Essa si imbatte nelle inquietudini della filoso- fia esistenziale, per la quale la metafisica non può essere una scienza formale, un ordito di definizioni, ma una meditazio- ne che tende a legittimare il valore primo verso il quale tende Ia nostra esistenza. I1 punto di ~risra antropologico introdotto da questa definizione non danneggia l'approccio alla totalità del reale. Al contrario, corregge ciò che questo approccio potrebbe avere di parziale, essendo troppo oggettivante. D'altra parte, astraendo dalla metafisica colui che pone la questione del reale, non si può tener conto della totalità di ciò che è; chi pone la questione metafisica è reale, ma senza far parte del mondo degii oggetti. Heidegger, su cui noi ritorneremo

;j In., p. 210. l 4 E. ACAZZI, Science ct fui/Scienia cfr&, p. 150

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un po' piii avanti, ha posto l'accento su questa definizione della metafisica.

C1. Bruaire, che prendiamo come esempio per illustrare que- sta quarta definizione, non è esistenzialista come Sartre o Gabriel Marcel; tuttavia la sua riflessione, estremamente rigo- rosa, esige come la loro di superare la forma astratta. EgIi defi- nisce dapprima la metafisica in modo conforme alla nostra seconda definizione: <<La metafisica è semplicemente lo stu- dio, la ricerca di ciò che non è riducibile alla fisica. E in ter- mini attuali, di ciò che, nelIa realtà, è irriducibile ai fenomeni sensibili che si possono studiare in un laboratorio» 15. Si supe- ra tuttavia questa seconda definizione attraversando la totali- tà degli aspetti dell'esistenza umana e non solamente le sue operazioni di conoscenza. Ricordando i procedimenti es sen- zidi seguiti nelle sue opere precedenti, l'autore scrive infatti che «la questione deil'essere, noiosa ma tormentosa, fu senza tregua rinviata aIl'elaborazione di un' antropologia filosofica sistematica, proposta secondo le sue istanze maggiori, logica dell'esistenza, fiiosofia del corpo, e filosofia politica, nelle quali si riflettono le tre sfere hegeliane: logica, natura, spirito. Ogni volta, noi tentavamo di scrivere la metafisica necessariamente chiamata per dare senso e fondamentoi, La metafisica ten- de dunque verso il principio, dopo aver percorso i diversi campi di espansione deila libertà umana. Il principio è al termine del- l'indagine, il fine dell'esistenza, e non pi6 solamente il fonda- mento o ii principio del sapere. I1 centro antropologico della rglessione è così più aperto del campo fisico garantito dall'<<esperienza» accennata nelle definizioni precedenti.

La metafisica estende così il suo orizzonte al di là dei fatti che coglie la scienza; essa impegna la riflessione dell'uomo sul suo destino e sulla sua storia concreta. La questione del lin- guaggio si ripropone allora come luogo di creazione del senso, e non più come un fatto che si potrebbe analizzare in manie- ra oggettiva o scientifica. Per V. Melchiorre, la dialettica del- I'ontologia e della coscienza storica implica di centrare la rifles-

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sione sul linguaggio in atto, poiché «la questione dell'essere è1 inseparabile da quella della persona che dice delI'essere: il rapporto essere-parola doveva infine rivelarsi come un rapporto di circolarità. E la stessa indagine metafisica doveva precipi- tarsi non nella costruzione di un cisterna, bensì nella ricerca di un metodo ermeneutico o di un criterio per decifrare la "dizione" dell'essere nel linguaggio e nella stessa vita della persona), ". La ricerca metafisica è spesso incentrata attual- mente su queste preoccupazioni; vi fanno eco gli studi sull'ar- ticolazione della metafisica e della fenomenologia e l'insisten- za sul linguaggio come luogo necessario deila riflessione.

Quinta definizione, la più debole: in senso lato, è metafisi- ca ogni conoscenza approfondita sulla natura delle cose. Ma che cos'è la natura delle cose? La fisica, come la storia, è una conoscenza approfondita della natura delle cose. Tutto dipen- de da ciò che si intende per cinatura delle cose» e per «pro- fondità». Questa quinta definizione è così vaga che non ha per noi grande utilità.

La parola <<metafisica» ha dunque numerosi significati. Tutti sono peraltro compresi nel primo che congiunge l'ente cono- sciuto con chi Io conosce. Il secondo insiste sugli enti che sareb- bero i principi, il terzo sulle forme intellettuali di quello che conosce; il quarto presenta la totalità delle attività della per- sona implicate nell'affermazione del principio. Noi vorremmo mostrare adesso come la prima definizione è stata ideata e in che modo le aitre ne esprimono delle sfaccettature particola- ri; riteniamo che la quarta sia la piii consistente.

2 , Platone e il significato delia parola «ente»

Le diverse definizioni della metafisica che noi abbiamo com- ment ato convergono nella prima, aristotelica: la metafisica medita sull'ente in quanto ente e sui suoi attributi. Ma che cos'è l'ente in quanto ente? I filosofi non hanno evidentemente atteso Aristorele per riflettere su questo punto, ma hanno

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avvolto i loro pensieri in immagini che non lasciavano molto spazio. Si sono così interrogati prima sugli enti naturali che sarebbero i principi, poi sui principi razionali degli enti.

L'anima e Dio sono enti che sono dei principi. La questio- ne sull'essenza dell'anima è presente nei pitagorici; qiiella sul- l'essenza divina è discussa dall'insieme dei presocratici. I pri- mi filosofi hanno purificato questi enti dalle rappresentazioni che li sovraccaricavano di usanze indegne o strane.

In quanto alla riflessione sui principi razionali degli enti, questa è stata animata da Platone con un vigore sconosciuto fino ad aliora. Benché non si possa ignorare l'apporto di Par- menide a questo proposito, si deve riconoscere che I'Ateniese l'ha problematizzata di piii deU'Eleate, il quale ne aveva descritto piuttosto le condizioni di intelligibilità con l'aiuto delle immagini sensibili della sfera e di una liturgia iniziatica. PIatone supera Parmenide, invitando a pensare l'intelligibili- tà dell'ente senza altro sostegno alI'infuori di sé. E ciò che noi vedremo adesso, rinunciando, beninteso, ad un'esposizio- ne completa della metafisica platonica. Vorremmo sottolinea- re solamente come Platone presenta il problema ontofogico, in modo tale che l'intelligibilità riceverà una struttura Iibera- ta dalle rappresentazioni del sensibile.

a) Il Sofista

La questione ontologica è stata elaborata da Platone nel suo Pamenide e nel suo Sofista. La problemat-ica di questi dido- ghi è fortemente segnata dalle ricerche sul linguaggio e sulla sua capacità di esprimere correttamente le idee. I1 Pa~menide è dedicato al rapporto dell'uno e dell'ente, vale a dire dell'i- dea e dell'esistente. Se l'ente è uno, siccome l'idea dell'uno esclude evidentemente qualsiasi divisione, I'idea dell'uno esclu- de ogni divisione dell'ente; ma l'ente è; dunque, l'ente è, l'uno è, ed essi sono identici. Le poste in gioco di questa problema- tica sono importanti. Se l'idea dell'uno è la norma dell'intelli- genza, il. lavoro inteuettuale non è forse inutile, poiché gli enti reali sono ugualmente molteplici? D'altro canto, per pensare bisogna commisurare l'intelligenza d ' idea ; ma se l'idea «è»

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una, che cos'è questo <<è» e in che modo permette un'intelli- genza reale del molteplice? Per fondare il nostro sapere del diverso, non si può dire che l'idea dell'uno <<è)>, e che perciò il molteplice non è; ciò sarebbe sottrarre al sapere ogni ogget- to reale. Sarebbe assurdo che, per conoscere il molteplice, occorresse conoscere l'uno che impedisce di conoscere il mol- teplice.

Nel Sofista Platone affronta un problema fondamentale deri- vato d,aUe dottrine provocatorie dei sofisti. Per questi, figli

di Parmenide, se l'ente è e se non si può né dire, né pensare che non è, tutto ciò che si dice e si pensa è; qriin- di, poiché si può pensare e dire qualunque cosa, qualunque cosa è e l'ente è qualunque cosa, compreso il suo contrario, il non-ente, I'impasse razionale, l'errore verboso, la turpitudi- ne moraIe. Secondo i sofisti <<non è possibile contraddire, vale a dire enunciare delle proposizioni contraddittorie su un mede- simo soggetto, perché se due interlocutori parlano deUa stessa cosa, non possono che dire la stessa cosa; e se essi dicono del- le cose differenti, è perché non parlano della stessa cosa. Non e più possibile mentire o ingannarsi, perché parlare è sempre dire qualche cosa, vale a dire qualche cosa che è, e ciò che non è nessuno lo può dire: non c'è dunque via di mezzo tra "non dire nulla" e "dire il vero" 18. Al fine di dimostrare l'assurdità di questo ragionamento e di esonerarne Parmeni- de, conviene contrarre il pensiero dell'Eleate, liberarlo dalle rappresentazioni che ne dissimulano la verità profonda, con- traddirne Ie interpretazioni che non comprendono nulla delle vie della verità, dell'errore e dell'apparenza. Si pone dunque

' il non-ente su1 fondo del cammino verso l'ente. Il Sofista si risolve in questo «parricidion che preparava il Teeteto ''.

Lo «straniero», che è l'interlocutore di Teeteto nel Sofkstu, ricorda innanzitutto le diverse concezioni dell'ente ereditate dai filosofi precedenti, prima dal punto di vista dei numero,

l" A ~ ~ B E N U U E , 1.e pmhDmc de l'$tre cAcz Arisfoft, p. 100. lY Cfr. PLATONE, Sofkta, 211d Yannuncia e 258a-259b lo realizza. eNiuna cosa C . prc-

sa isolatamente in se stessa, ma scmprc diviene relativamenic a iin'mitra; e dunque quesra parola "essere" si Jeve levar via in ogni modo; sehbene più volte e anchc or urn, F r con- suetudine e per ignoranza, si sia stati costretti ad adoperarlai, (Teftfto, 15ia-b).

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poi della natura. Dal punto di vista del numero degli enti, Pla- tone riferisce ogni sorta di opinioni; egli si ispira senza dub- bio ad Isocrate ' 0 , ii quale osservava che, per alcuni filosofi, vi è una infinità di enti; per Empedocle, a1 contrario, sono quattro, ma sotto I'influenza di due fondamentali, l'amore e l'odio; per Ione sono tre; due per Alcmeone; Parmenide e Melisso non ne vedono che uno; e Gorgia finalmente nessu- no. Questo ironico elenco testimonia che il problema dell'en- te può essere condotto in maniera assurda; <<ciascuno di que- sti mi pare ci racconti una favola, quasi fossimo bambini» 21. Ma la questione dell'ente è troppo importante, poiché tutte le ricerche umane vi convergono; si esige dunque di parlare dell'ente, rispettando la ragione orientata nello stesso tempo verso la semplicità dell'uno e la molteplicità delle cose.

I presocratici, fatta eccezione per gli scettici, avevano posto alcuni enti fondamentali al principio delle cose. L'aff ermazio- ne di questi enti fondamentali serviva a semplificare il reale, a riassumerlo in qualche modo, affinché l'intelletto potesse meglio comprenderlo. Per costruire l'intelligenza del reale, il pensiero deve infatti unificare i suoi contenuti grazie ad un gioco delimitato di principi. Da questo punto di vista, lo sforzo dei presocratici, benché rudimentaie, è già prodigioso. Tutta- via, non basta delimitare alcuni elementi del mondo per ren- dere conto di ciò che è; bisogna ancora mostrare in che modo questi elementi possono unirsi gli uni agli altri, quali sono le leggi che sovrintendono alla loro fecondità nelle cose molte- plici. Empedocle, al quale Platone si riferisce come a «certe Muse di Jonia e di S i c i l i a ~ ~ ~ , concepisce il presente all'incro- cio dell'arnore e dell'odio, vale a dire di due principi che, pur differenti dagli elementi fisici, generano la storia del mondo come sue cause efficienti ed irnmateriaii.

Vi sono diversi livelli di enti: le cose molteplici, gli enti- principi, materiali o non ed in numero finito, e i principi razio- nali che uniscono questi enti-principi e le cose molteplici. I1 principio è difficile da pensare se le parole per esprimerlo non

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cono state rese disponibiii. L'espressione immaginata dai pre- socratici lascia Platone insoddisfatto. Eraclito è stato poco gra- dito ai suoi occhi: come pensare veramente che «nel disaccor- do [il discordante] sempre concorda>> 23? Queste contraddizio- ni non mancano senza duhhio di profondità. Ma come elimi- nare Ie pretese dei sofisti che Ja loro identificazione con degli «enti-principi* lascerebbe passare liberamente?

Certamente, la realtà è fatta di tensioni fra contrari; si pensa anche, dopo il P~menide , che l'uno e I'ente non si giustap- pongano interamente, che l'idea sia più ricca in realtà della concretezza dei sensi. Ma non si può essere soddisfatti di questi facili paradossi, di queste illusioni sofis tiche, benché molto spesso semplici giochi di parole. Platone pone allora il proble- ma antologico per la prima volta nelia storia. Non si potreb- be vedere nella parola cosi comune to on, l'ente, l'espressione del principio razionale pih inglobante e più semplice, che non sia una causa prima alla maniera delle altre cose, un ente- principio, ma che unisca in sé le tensioni lasciate vive dai pen- sieri precedenti, un ente che sarebbe anche l'ente molteplice dei nostri sensi, ma soprattutto più di questo? Per tentare una risposta a questa domanda, occorre passare all'anaiisi della natu- ra dell'ente.

6) La parola e ka cosa

Che cos'è I'ente? Non è né una cosa sensibile, pé un pen- siero intelligibile, ma tutto ciò al tempo stesso. E uquesto» e anche ciò che non è questo; è perfino ciò che è <<non-questo*. Come intenderlo correttamente senza provocare lo stesso imba- razzo deile favole antiche? Il senso della parola <<ente» dipen- de da ~n' intel l i~enza che sa liberarlo da qualsiasi rappresen- tazione che Io fisserebbe come un oggetto determinato della nostra esperienza; Platone ne intraprende dunque il chiari- mento.

Prendiamo le mosse dd'opinione antica secondo cui tutto è composto di contrari, per esempio di caldo e di freddo, e

2' ID., 212e; per Eraclito, cfr. DIELS, fragm. 5 1

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domandiamoci se il caldo, il freddo e iI loro composto sono degli <<enti>> allo stesso modo, essendo beninteso che, secondo Parmenide, l'ente è <<uno». <<Voi tutti che affermate tutte le cose essere cddo o freddo o l'unione di altri due simili ele- menti, che cos'è mai dunque questo che dite in relazione ad ambedue quando affermate I"'essere" di ambedue e di cia- scuno pure dei due? Che cosa mai dobbiamo intendere per quest"'essere" che voi dite? E una terza cosa oltre a quelle due e di conseguenza dobbiamo anche pensare con voi che ii tutto è composto di tre elementi e non più di due? Perché se voi chiamate senz'altro "ente" l'uno o l'altro di questi due elementi, non venite più ad affermare che ambedue parimen- ti sono. Nell'un caso e nell'altro io direi infatti che ciii equi- varrebbe ad affermare l'essere di uno dei due, ma non l'esse- re dei due>> 24 .

I1 problema è posto in una prospettiva quasi nominalista: la parola è la cosa. Da questo punto di vista, una molteplicità di paroIe riflette una molteplicità di cose. E di fatto, il lin- guaggio non conosce sinonimi esattamente identici gli uni agli dtri; i sinonimi si differenziano infatti per questa o quella sfu- matura, di modo che non si possono sostituire gli uni agIi altri senza trasformare, non fosse altro che leggermente, il senso delle nostre proposizioni. Ciascuna delle nostre parole evoca una circostanza particolare della nostra esperienza; esse non possono venire confuse senza perdere il. loro senso proprio.

l Ora, non vi è discorso sicuro che non sia provvisto di un voca- bolario ben fissato; la certezza deUe nostre proposizioni dipende

i dalla precisione dei concetti impiegati. Un discorso accertato non può dunque giocare con i sinonimi. A ciascuna cosa, una

I parola. Posti questi principi ermeneutici, che cosa ne è del rap- porto dell'uno e dell'ente? La parola <{ente» ha, in Parmeni- de, un senso chiuso su se stesso, ciò che il poema vuole signi- ficare attribuendogli l'immobilità o la sfericità; ma se un ente corrisponde a questa parola, questo ente deve essere uno come la parola; non si può dunque fare corrispondere ad essa una molteplicità di enti. In questa prospettiva, ii plurale <<enti>> è improprio.

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Tuttavia, questa posizione oltranzis ta non regge alla rifles- sione: noi diciamo che l'ente è uno, e d'altra parte quando diciamo «ente» non diciamo «unor>! La pluralità di queste parole è sensata. «E cosa che fa ridere, in certo senso, ammettere che ci siano due nomi senza porre altro che una sola cosa>rZ5; se vi sono due nomi, vi sono dunque due cose. «Uno» ed «ente» sono due parole del tutto intelligibili; occorre dunque porre una molteplicità di <<cose>> intelligibili.

Supponiamo quindi che il linguaggio sia anche cosi rnolte- $ice come il reale e che, se il inguaggio è composto di ele- menti diversi, il reale sia composto anch'esso di una diversità simile; supponiamo dunque che il linguaggio sia lo specchio del mondo ed il mondo lo specchio del linguaggio; noi ponia- mo d o r a diverse realtà quando proponiamo differenti parole. Ma vi son vari gradi nell'esperienza linguistica; noi abbiamo delle parole, la cui verità non è materiale, ma riflessiva. Se la struttura grammaticale del linguaggio raddoppia così la strut- tura complessa deli'ente, occorre porre una gerarchia di enti. AIcune parole riguardano le cose (parole), altre parole orga- nizzano queste parole che prendono in considerazicine le cose (idee), altre parole ancora considerano il legame tra le parole che riguardano le cose e le parole che prendono in considera- zione queste parole che riguardano le cose {principi). Non si possono confondere tutti questi livelli. I norninaiisti distingue- ranno nel secolo mv la s.appositio naakridfis e la sappositio per- sonali~; nella prima il predicato significa il soggetto in quanto parola: «Luca è un bisillah», neUa seconda il predicato è appli- cato ai soggetto in ragione delle circostanze e della sua natu- ra: aLuca è felice*. Questa distinzione vale già per Platone che sapeva bene che una parola può cisupporre}) per se stessa: «e se sostiene che il nome è identico a ciò di cui è nome, o sarà costretto a dire che è il nome di niente, oppure, se dirà che è nome di qualche cosa, ne conseguirà che il nome è tale solo del nome e di niente altro>> La parola prende in con- siderazione dunque <<qualche cosa» che non è necessariamen-

I. CHE COS'e LA MF.TAFIST(.A 3 1

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te un oggetto materiale, che può essere uno strumento di pen- siero che si conosce e si dice come tale.

Ritorniamo a i parallelismo tra la parola e la cosa. Si distin- guono diversi livelli di parole parallelamente ai diversi livelli di enti; il rapporto del mondo e del linguaggio è un rapporto tale che Ia struttura disposta a piani del linguaggio riflette quel- la del mondo. Parola, idee e principi sono tutti delle parole, e anche degli enti se si considerano come degli oggetti pensa- ti, ma in modi realmente differenti; una gerarchia di enti tra- duce allora la gradazione della conoscenza conquistata rifles- sivamente. Vi è prima l'ente che esiste, poi l'idea che ne costi- tuisce la presenza mentale, in seguito il principio che conosce I'idea come tale e ne1 suo rapporto con l'ente. PardeIamente a questa gerarchia linguistica Platone pone la gerarchia onto- logica del sensibiie (parola), del dialogico (idea) e del raziona- le (principio).

Dopo queste considerazioni linguistiche, possiamo prende- re a trattare il problema antologico. To un si irradia attraver- so tutti gli enti della gerarchia ontologica. Esso è qualunque ente colto in una relazione di,conoscenza nelia qude subisce lo sguardo di chi lo conosce. E così unito all'ousia, la sostan- za che, al termine di ogni atto di conoscenza, patisce questo sguardo. Una tale sostanza è dunque caratterizzata come una potenza passiva. Il Sofista attribuisce agli onta una dunamis 27,

una «potenza». Egli distingue anche la potenza attiva e la potenza passiva. La potenza attiva appartiene a ciò che «può» compiere qualche cosa. La potenza passiva, che caratterizza l'ousia, concerne ciò su cui poggia la potenza attiva.

Secondo A. Diès, la dunamis dell'ousia è una passione che consegue all'azione della conoscenza. In realtà, non bisogna sperare di trovare nella «potenza» deli'owia qualunque cosa che sia somigliante ad una «attività vitale e cosciente^^^. Ogni sostanza è in potenza di essere conosciuta, e non di più; essa non ha in se stessa, come sostanza, l'energia che la fa

2' ID., 2 4 7 ~ . 28 Cfr A. D I ~ s , La defrmztion de !'&re ef Iri nature des idées &tu Ic Sophirtc Jc Platun,

p. 39.

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essere. Tuttavia resiste aile prese della conoscenza; non si modi- fica veramente un ente conosciuto, altrimenti non vi sarebbe più nessuna ousia da conoscere e non conosceremmo mai nul- la di sostanziale.

Ciò che è non è soltanto passivo dinanzi alla conoscenza. Platone distingue la potenza passiva e inerte dell'ousia e il pan- teZ6s un, questo ente semplicemente ente, il mondo che con- tiene qualche cosa del vitaiismo greco, poiché è in qualche modo vivente; <<per il Filebo [per esempio] il mondo è [...I un corpo animato, intelligente, divino}>29.

Ora, I'ousia come potenza passiva e il pantclds on come potenza attiva sono l'uno e I'dtro degli onta; sono dunque interni a tu oo, di cui determinano la struttura immanente. L'ente è nello stesso tempo passivo ed attivo, inerte ed ener- getico. Nel Sofistca, tu on significa l'ente con la sua divisione interna in ousza che sostiene la conoscenza e p~ntek61 on che ha l'energia vitale. Si concIude da ciò che to on è indefinibi- le, perché tutti gli elementi della sua definizione sono ad esso interni e parziali.

La metafisica di Platone non è evidentemente l imitata a que- sta considerazione deil'ente; avremo occasione di accennare suc- cessivamente a molti altri temi platonici.

Abbiamo indicato qui come la questione antologica è stata posta suila soglia della storia delta metafisica. L'ente, su cui Platone medita nella semplicità della sua essenza di ente, in quanto ente, non è un <<oggetto» da descrivere come una cosa fisica. La parola <<ente», che è unica nel suo significato ed abbraccia tutto ciò che è nella sua più grande intimità, è pen- sata mettendo in moto tutte le risorse del pensiero e del lin- guaggio. Tuttavia ii suo significato non nasce da questa mobi- litazione. Tutto avviene come se noi ne avessimo una inteui- genza a p ~ o r i , e come se questa intelligenza attirasse tutte le nostre potenze di meditazione e di rifIessione. Aristotele con- tinuerà la stessa riflessione, ma in una prospettiva molto dif- ferente da quella di Platone.

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3. Aristotele e la comprensione dell'ente

La definizione classica della metafisica come scienza dell'ente in quanto ente viene dal libro IV (Gamma) della Metafisica di Aristotele. Quantunque non sia possibile penetrare in tutti i problemi critici posti da questo testo fondamentale, si può cre- dere che la sua economia generaie segua un ordine riflesso. Ci proponiamo dunque di scorrere i suoi primi libri che ren- dono nota la sua problematica. La metafisica è la scienza pri- ma; in quanto scienza, essa si applica allo studio delle cause; in quanto scienza prima, tratta della causa prima.

La prima frase delia Metafiszcca dispone ii quadro generale dell'irnpresa: «tutti gli uomini sono protesi per natura alla cono- scenza» (I 1, 980a) Ora, noi acquisiamo la conoscenza di qualche cosa quando ne conosciamo la causa. Ma certe cause sono anche causate, sono effetti che rinviano a cause più alte. Per questo motivo Aristotele sostiene che «noi affermiamo di conoscere un oggetto particolare solo quando reputiamo di conoscerne la causa prima» (I 3, 983a). Questa <(prima» causa non è la causa immediata dell'effetto, vale a dire quella che Io precede immediatamente (si parlerebbe do ra di causa <<pros- sima»), ma la causa al di là deila quale non si deve più esiger- ne altre. Secondo Aristotele, la conoscenza ricerca Ia causa pri- ma. Ma qual è dunque questa causa?

aj La conoscenza e le cause

11 desiderio di conoscere ha spinto i presocratici ad elabo- rare delle sintesi che propongono d a loro maniera una o &une cause prime, rispondendo così ad un'esigenza inteilettuale defi- nitivamente acquisita. Richiamare alla memoria le scoperte essenziali di questi autori farà scorgere in quaIe direzione con- durre la nostra indagine sul fondamento della conoscenza. Esporremo in seguito I'essenziaie deiia dottrina aristotelica sulle quattro cause.

3"er comodità indicheremo direttamente nel testo di questo parqralo i riferiincnti ud ARISTOTELE, Mciafasica .

34 l. CHE C O S ' ~ LA ME'I'APISICA

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La prima causa, se è veramente prima, dev'essere universa- le e non provenire da nessun'altra causa. Questa esigenza del pensiero dà origine a delle affermazioni sull'unicità della cau- sa prima, che i fisiologi dell'aurora filosofica dicevano mate- riale, l'acqba in Talete o l'aria per Anassirnene. Ma la conce- zione materiaie deila causa prima non spiega veramente il reale. mentre quei filosofi andavano avanti in questo modo, la realtà stessa fece loro da guida e li costrinse ad approfondire I'inda- gine» (I 3, 984a). I1 fatto è che, se il principio è una materia unica, come si spiega che ne sia venuta fuori una diversità di effetti materiaIi? In che modo una materia unica può dare ori- gine a corpi differenti, la terra o il fuoco? I fatti impongono di elevare il pensiero; la causa prima ed una non può essere materiale.

La conoscenza lavora mettendo ordine, raggruppando gli de- menti materiali in classi intelligibili. Tale è Io sforzo unifica- tore di ogni discorso razionale. La scoperta della causa mate- riale non può appagare questo sforzo; poiché gli esistenti sono materialmente diversi, essa non è al principio della loro cono- scenza unificante. Occorre cercare altrove un fondamento allo sforzo di riunire gli elementi materiali, riducendoli ad alcuni e sottoponendoli a quaiche legge. Con questo scopo Empedo- cie congiunge i quattro elementi della cosmologia classica gre- ca (terra, acqua, aria, fuoco) per mezzo di forze, l'odio e l'amo- re; egli colloca gli esistenti ail'intersezione di questi due vet- tori antagonisti che compongono e scompongono l'assemblag- gio degli elementi materiali. Riprende cosi il principio eracli- teo, secondo il quale <<la guerra genera tutte le cose» 31: ogni ente è costituito da una tensione essenziale. L'unità richiesta d'origine di tutte le cose è così liberata dalle divisioni che impone la diversità delle materie; la riflessione s i apre a delle cause che non sono più delle cause materiali, ma delle forze.

Ma una volta riconosciuta la diversità degli elementi mate- riali e delle forze che ne costituiscono la realtà, diversità che permette di articolarne e di unificarne l'esperienza, bisogna ancora rendere conto di ciò che invita l'intelligenza a sempli-

L. CHF cos'E 1.A AiETAFISILh 35

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ficare il molteplice. Qual ì: l'origine di questa esigenza che ci fa unificare gli esistenti rispettando la loro molteplicità? Ciò non può essere la pressione deu'esperienza. L'esperienza impo- ne soltanto d'intelligenza di comprenderla il meglio possibi- le. Ma è l'intelligenza che prende l'iniziativa di comprender- la. Parmenide sembra indicare il vero principio, ma, pensa Ari- stotele, senza raggiungerlo veramente. Egli lo concepisce infatti in maniera tale che non si possa ricavarne la molteplicità, se non aggiungendovi altri principi di origine materiale. <(Costretto a rispettare la realtà fenomenica, e ammettendo che l'essere è uno secondo la definizione, ma molteplice secondo la sensa- zione, viene a porre [...l due principi, cioè i1 caldo e il fred- do, o, in aitre parole, ii fuoco e la terra; [. ..I inquadra il caldo nell'essere e i1 freddo nel non-essere* (I 5 , 9866-987a). Par- menide pone così dei principi originari e contraddittori per quello che, a dire il vero, dipende secondo lui dai dominio dell'opinione. Per quanto riguarda ii principio stesso, non è in definitiva il principio di nulla, se non di una pura esigenza del pensiero, la quale si esercita di fatto a livelii diversi da quelìi dell'opinione.

Per proseguire la meditazione dei primi filosofi in una giu- sta direzione e in modo conforme aJa realtà sperimentata, Ari- stotde riprende allora (I 3, 983a-b) la teoria d d e quattro cause che aveva elaborato nella sua F%se'ca3*.

La prima causa è materiale; è materia tutto ciò che sorreg- ge qualche cosa, per esempio la materia di un corso che tiene alta l'attenzione degli studenti, proprio come il marmo che sostiene ii Mosè di Michelangelo, l'acqua di Talete, ecc.

La causa efficiente è la più nota alle nostre intelligenze moderne; che cosa sarebbe infatti la scienza attuale senza la relazione della causa e dell'effetto? Gli antichi evidentemen- te non la ignoravano; sapevano che per produrre la sua statua l'artista deve assestare i suoi colpi duramente. Essi tuttavia inglobavano questa causa in considerazioni più ampie: tra la causa efficiente e la causa materiale vi è una differenza fon- damentale. La differenza tra la causa e l'effetto è evidente se

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si considera l'ordine reale; la causa efficiente reale è diversa dal suo effetto reale. La causa della gallina è l'uovo, che è causa della gallina, a sua volta causa delI'uovo, ecc.; ma la causa e l'effetto sono due cose: la gallina non è l'uovo. Occorre peraltro mantenere una qualche continuità tra la gallina e l'uovo, poi- ché I'uovo non viene da una pietra. La differenza tra la causa e l'effetto non è dunque assoluta; lo è secondo la materia rea- lizzata, ma non secondo la forma. La causa efficiente unifica la conoscenza a condizione di essere colta come forma.

Si passa naturalmente daIle cause materiali alle cause effi- cienti, unificando le prime nelle seconde. Infatti una causa materiale unica non permette di rendere conto del reale; occor- re necessariamente che esse siano diverse per riflettere la com- posizione reale degli enti. Ora, la molteplicità dei principi mate- riali esige un'altra causa che renda intelligibile l'unità dell'ef- fetto concreto derivato dalIa loro diversità. I1 rapporto delle cause materiali opposte nell'esistente può rendere conto di que- sta unità, come lo è stato già in Empedocle. L'intelligenza del- l'esistente è acquisita comprendendo I'antagonismo delle cau- se materiali come la sua causa efficiente. La causa del movi-

. mento della macchina è I'azione propulsiva del motore contro la resistenza del vento e dell'attrito con la strada; tra il vento e il motore non vi è nessun Iegame anaiitico; è la loro opposi- zione che provoca efficacemente il movimento. La causa effi- ciente appartiene dunque ad una specie diversa dalle cause materiali; essa scaturisce dalla loro opposizione per produrre l'effetto.

La causa formale è nota ai filosofi presocratici. Aristotele la identifica con la definizione; certamente, pub essere la for- ma ideale che immagina l'artista nel momento in cui scolpisce con cura minuziosa la sua statua; ma essa è soprattutto ciò che dona l'intelligibilità. La causa formale dell'uomo è di essere «animale ragionevole),; «la ragione di essere di un oggetto si riconduce, in ultima istanza, alla definizione* (I 3, 983a). Per lo Stagirita, Platone e i suoi discepoli hanno messo in eviden- za questa causa meglio dei loro predecessori; le loro «idee» sono esattamente, secondo lui, delle cause formali; essi apresenta- no le idee come l'essenza per ciascun'altra cosa>> (I 7, 988133.

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F;@; 3: t) . cause; la scienza si articola in funzione di esse. Si mostra così

la ricerca di una causa particolare da parte di una scienza prticolare conduce inevitabilmente a porre una causa prima in questa serie particolare. Perché 1e spiegazioni causali con- ducano a qbalche risultato sicuro, occorre infatti che la con- catenazione deIle cause cia finita. Ora, una tde limitazione della successione causale non appartiene alle cause in questio- ne; benché occorre eliminare la regressione ail'infinito, come vedremo fra qualche riga, si afferma che l'indeterminatezza appartiene in qualche maniera a ciascun tipo di causa. Nel caso della causa materiale non si saprh mai ciò che è venuto pri- ma, l'uovo o la gallina. La causa efficiente può essere essa stessa un effetto. La causa formale rinvia ad una forma sempre pjù semplice, ma che noi non esprimiamo mai semplicemente. Una causa finde può essere voluta come un mezzo in vista di un altro fine. Ora, se non è in grado di raggiungere una causa decisamente prima, la scienza non può portare ad un risultato sicuro. Perché lo possa, occorre mostrare che vi è una causa prima, e che questa causa prima dev'essere assolutamente ori- ginale, differente dalle quattro cause.

<<Noi non conosciamo la verità senza conoscere la causa» (I1 1, 993b). In quanto alla causa prima, la si determina seguen- do questa problematica generale: <<la cosa che, fra tutte le altre, possiede in modo eminente la proprietà di essere causa è pro- prio quella mediante Ia quale la determinazione comune diviene proprietà anche delle altre cose (cosi, ad esempio, il fuoco è caldo in modo eminente, giacché esso è la causa del calore per le altre cose)» (11 1, 993b). La causa prima di taie qualità è dunque cib che, possedendo questa qualità a l pih alto grado, la può condividere con le altre. Applichiamo questo asserto d a fondazione della scienza. <{E [sempre] maggiormente vero ciò che è causa della verità anche per le cose che da esso deri- vano» (11 1, 993b). Questo argomento ci fa cogIiere il senso del lavoro intellettuale: la causa prima è Ia sorgente della verità. La conoscenza mediante la causa conduce dunque d a verità, se la verità precede il sapere della causa. I nostri discorsi sono veri quando la conoscenza attua di fatto la sua propensione alla verità, riconoscendola neiia causa affermata. Vi è una verità

l . CHE ( : 0 5 ' È 1.A METAFISlCA 39

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prima che precede la conoscenza della causa prima, che costi- tuisce I'orizzonte dell'attività dell'inteiligenza, e che non è nes- suna delle quartro cause qui sopra esposte.

La causa prima è la verità che illumina e fa riconoscere del- le necessità che l'esperienza e l'immaginazione non possono mostrare. A questi livelli inferiori della conoscenza, sono pos- sibili dei processi all'infinito. Tuttavia, sul. piano della ragio- ne e deIla sua inclinazione aila verità, accade diversamente. I1 cap. 2 del libro a& mostra che, per nessuna causa, si può andare all'infinito. Nell'ordine dell'origine efficiente <<se non esiste un primo termine, non c'è assolutamente neppure alcu- na causa» (11 2, 994a); parimenti nell'ordine del fine <<i soste- nitori dell'infinito sopprimono inconsapevolmente la natura del bene (quantunque nessuno intraprenderebbe alcuna azione sen- za proporsi il raggiungimento di un limite)» (I1 2, 394b). Non si può neppure andare all'infinito nel caso della causa forma- le; una dottrina contraria sopprime «la conoscenza scientifi- ca, giacché non è possibile conoscere senza esser prima giunti ai termini indivisibili di una definizione* (11 2 , 994b}. Per quanto riguarda la causa materiale, secondo alcuni traduttori, la spiegazione di Aristotele è <<inintelligibiie»; si può senza dub- bio interpretarla così; la causa materiale, per essere conosciu- ta, non può essere rinviata all'infinito; si tratta qui di una necessità razionale, per quanto non si vede in che modo affer- mare una materia concreta che non sia assolutamente origina- ria, come I'acqua di Taiete.

Dopo aver dimostrato la necessità di una causa prima in cia- scun ordine causale, Aristotele si domanda quale potrebbe esse- re la causa prima che sovrasta tutte le aitre, per la quale le altre cause sarebbero cause; in altri termini, egli si domanda se vi è una sola causa prima oppure diverse. Per rispondere a questa questione, il libro I1 della Metafisica propone una serie di aporie. La prima di queste aporie nasce da questa questio- ne: «se sia compito di una sola o di piU scienze lo studio delle cause), (I11 1, 995b). Certamente la riflessione non deve tro- vare assolutamente una soluzione a questo problema, poiché «[non] si deve pretendere l'uso di un esatto linguaggio mate- matico [...I in ogni settore di ricerca» (I1 3, 99Ta); si può tut-

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tavia tentare una risposta. Le cause che non sono del medesi- mo genere non c i oppongono le une alle altre; esse possono incrociarsi in un ente, tutte insieme o alcune soltanto. Di fat- to, gli enti immobili della fisica aristotelica non hanno nulla a che vedere con la generazione e con la corruzione, vale a dire con la causa efficiente; gli enti irnrnobiIi della matemati- ca non hanno nulla a che vedere con il bene e con il mde, vale a dire con la causa finale (111 2, 996a-b); ma la statua fabbricata dall'artigiano è d'incrocio di tutte le cause. Le mol- teplici cause possono dunque essere sinteticamente legate le une alle altre in un ente particolare.

Vi sono tuttavia, secondo i punti di vista, delle cause pre- minenti. La scienza superiore che orienta tutte le altre cono- scenze è quella della forma o della causa formale. Infatti, «conosce massimamente [l'oggetto] chi ne sa distinguere l'es- senza» (111 2, 996b), poiché non vi sono buone scienze senza buone definizioni. Dunque, la causa prima di tutte le scienze, senza la quale non si può conoscere nulla veramente, è la cau- sa formale. «In quanto si è stabilito che la Sapienza è scienza delle cause prime e di ciò che è conoscibile per eccellenza, potrebbe identificarsi con essa la scienza delia sostanza}> (111 2, 996b). Tuttavia, dice Aristotele, <<le altre cose esistono in virtu [del bene]» (111 2, 996b3. Poiché dunque il bene o la causa finale è prima, ogni conoscenza dipende dalla conoscenza del- la causa finale.

Eccoci dunque in presenza di due scienze prime, quella deila causa formale e quella della causa finale. La causa finale con- sidera il bene di ciò che è, vale a dire la sua esistenza, poiché esistere è il bene più perfetto. La scienza della causa finale è dunque la scienza prima; tutte le altre scienze suppongono che il loro oggetto esista in un modo o in un altro. In quanto d a causa formale o alla definizione, questa lascia trasparire gli schemi mentali e culturali dello studioso. Si può dunque pensare che la causa finale concerni la realtà in se stessa e la causa formale la maniera di comprendere questa realtà. A questi due tipi di cause corrispondono due scienze che non si esclu- dono, ma che al contrario si implicano a vicenda, ~ o i c h é dal punto di vista formale ciò che è redmente è un bene per la

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conoscenza. Non vi è scienza delia causa finale senza scienza della definizione, poiché qualsiasi scienza passa attraverso la definizione; non vi è scienza della definizione senza qualche cosa da definire, che è un bene per la scienza formde stessa.

Che cosa avviene dunque delle altre cause? La causa effi- ciente è alle volte presentata come la causa prima; è la causa per gli enti che nascono e si corrompono. Ma la causa effi- ciente è allora correlativa alla causa finale; se infatti qualche cosa è prodotta, è in vista di un bene; la causa efficiente può essere così ridotta ad un aspetto della causa finale. In quanto aUa causa materiale, Aristotele non Ie attribuisce alcuna pre- minenza; la materia non è mai senza l'efficienza, il fine o la forma. Per convincercene è sufficiente rileggere i presocratici che si sono smarriti nelle impusses razionali, considerando la materia come il solo principio o la sola causa.

Al termine dell'indagine, si affermano due cause prime: la causa finale e la causa formale; vi sono dunque due scienze prime, quella del. fine ultimo e quella della forma universale. Ora, l'intelligenza ha come progetto di raggiungere un'unità principale, una causa unica assolutamente semplificante. Se vi è una scienza prima ed unica e se la causa finale e la causa formale sono irriducibili l'una d'altra, la scienza prima deve unire in alleanza queste due cause. Per costruire quest'allean- za, occorre resistere alle divisioni che impediscono al pensie- ro di raggiungere ciò che è. Noi dobbiamo ritrovare il senso autentico deli'espressione di Parmenide: «la stessa cosa è pen- sare ed essere*, al di là di ogni idealismo o di ogni positivismo.

Si definisce spesso la metafisica sulla base di ciò che ne affer- ma l'inizio del libro IV delia Mehjisica; noi abbiamo fatto la stessa casa fin qui. Ma puO darsi che questa definizione intro- duca la riflessione su una soltanto delle cause prime, la causa formale. E di fatto, il libro XII, che parla di Dio, e che fa parte anch'esso della Metafisica, medita più specificamente sulla causa finale. Tutti questi libri fanno parte di una stessa ope- ra, che parla successivamente delle cause prime, formale e fina- le. La metafisica considera tutto questo insieme. Sarebbe dun- que troppo riduttivo definirne l'oggetto per mezzo della sola forma deil'aente in quanto ente». La metafisica aristotelica

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dovrebbe articolare le due cause prime. Aristotele stesso non : vi è senza dubbio arrivato; gli mancava, si dice spesso, il sen-

so dell'esistenza; la sua filosofia rimane nello spazio dell'es- senza intelligibile, della forma. Vi è in questa affermazione molto di vero. Ma la riflessione sulla causa finale, di cui Ari- stotele si attribuisce l'originalità, invita a meditare sull'esisten- za, poiché il fine è il bene. Nella metafisica aristotelica dovreb- bero dunque incrociarsi la forma e il fine, il vero e il bene, l'essenza e l'esistenza. Questo incrocio dinamico è il luogo ade- guato del principio primo.

4. La domanda metafisica secondo M. Heidegger

Non ne possiamo dare un'esposizione qui, in una Introdu- zione alla naetafzsica, non sarebbe che un riassunto del pensie- ro del filosofo della Foresta Nera; ci accontenteremo di evo- carne l'interrogazione intorno all'ente, come l'abbiamo fatto per Platone ed Aristotele.

Come epigrafe del suo Essere e tempo, l'autore cita la doman- da posta dallo straniero nel Sojista di Platone: <<è chiaro [...l che voi da tempo siete familiari con ciò-che intendete quando usate l'espressione [ente]; anche noi credemmo un giorno di comprenderlo senz'altro, ma ora siamo caduti nella perplessi- t à ~ 34. I Ieidegger commenta così: <<Abbiamo noi oggi una risposta alla domanda intorno a ciò che propriamente inten- diamo con la parola ["ente"]? Per nulla,, j5.

Il 5 2 di Essere e tempo insiste su questa ignoranza, di fatto un'aporia per l'intelligenza. Tuttavia, la parola <<ente» non ci sembra evidente? Non Ia utilizziamo forse costantemente sol- to una forma o sotto un'altra, e tranquaamente, in ciascuna delle nostre affermazioni, almeno in modo implicito? Si può veramente rendere problematico ciò senza deI quale noi non potremmo pih formare una sola proposizione, nemmeno quel- Ia che ci permette di giudicarla problematica? Si può afferma-

PLATONE, Sofish, 244a. La traduzione di q~iesto brano del .Cvjis/a è striia ciirata da P. CHIUDI, in M. ~ I E L U E G G ~ H , Lsscre e rcmpci, p. 14.

M. IIEIU~GGEK, Essere e tempo, p. 14.

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re che I'ente è problematico senza togliere ogni senso a que- sta domanda stessa? «Ente» è evidente, senza di esso noi non sapremmo quando parliamo a proposito di qualche cosa in una maniera sensata ed intelligibile. Se «ente» non è evidente, noi non parleremmo mai che per non dire nulla. Per dire qualche cosa e per poter riflettere su di essa, dobbiamo supporre ine- vitabilmente che vi è un ente sul quale parlare e riflettere.

Ma l'evidente può essere messo in questione; non si impo- ne con tutta chiarezza. Per mostrare questa dialettica di luce e di oscurità, fermiamoci un momento sul processo di costru- zione di una domanda sensata. Questo processo dà luce ai pro- blema ontologico. Infatti, non si può porre una domanda che su ciò che si conosce già in una maniera o in un'altra; in man- canza di un oggetto conosciuto, la domanda non potrebbe esse- re orientata e non potrebbe condurre verso qualche risultato. «La posizione di un problema, in quanto cercare, esige di essere preliminarmente guidata da ciò che è cercatou3" Certo, cib che è messo in questione è problematico; perché indetermina- to; se non è indeterminato e suscettibile di sostenere nuove affermazioni, non sarà messo in questione. Resta il fatto che la domanda ha ugualmente bisogno di essere orientata; essa deve supporre una certa comprensione preliminare di ciò che prende in considerazione e del contesto nel quale plasmerà i termini della sua risposta. In mancanza di questa precompren- sione del termine considerato e del suo contesto illuminante, nessuna domanda potrà essere posta. Porre una domanda allora è un atto paradossale; ciò che è messo in questione è al tem- po stesso conosciuto e problematico.

La domanda ontologica non è che un caso particolare della domanda in generale. Essa non è paradossale per il motivo che qualsiasi domanda è in sé paradossale. Di fatto, essa è il para- dosso originario. Ogni domanda è paradossale, perché la domanda suli'ente è paradossale.

Il senso dell'ente, termine della nostra domanda, è infatti evidente. «I1 senso dell'essere 37 dev'esserci già accessibile in

" ID., p . 20. j7 La qucstione dell'identità e deIla difierema tra aesserem citato qui, ed #ente)>, li cui

parliamo in paragrafi, s a c i trattata nel capito10 seguente.

44 1. CHE CUS'E LA METAFISI(:A

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qualche modo. Come dicemmo, npi ci muoviamo già sempre in una comprensione deli'essere. E da essa che sorge il pro-

*-, blema esplicito del senso dell'essere e la tendenza alla deter- . , minazione concettuale di esso>,3? L'interrogazione sull'ente

:+ " sembra du'nque fingere di ignorare il suo termine; ciò che è I'ente è infatti evidente. Tutto è ente, e nuila è se non un ente. Non vi è dunque contesto che gli sarebbe estraneo ed a partire dal quale esso riceverebbe qualche significato chia- ro. Non è l'ente che assume rilievo muovendo dal suo conte- sto; è questo, al contrario, che assicura qualsiasi luce al resto. Qualche cosa sarebbe pensabile senza l'ente? Poiché I'ente è la sorgente di ogni luce, è esso stesso evidente; lo si percepi- sce immediatamente o mai. E quindi inconseguente porre delle domande nei suoi riguardi come se lo si potesse mettere in dubbio e prendere come oggetto di studio. L'ente non è un problema filosofico; è un presupposto evidente.

Gli oggetti sensibili pongono dei problemi ai quali le scien- ze danno soluzioni sempre più riuscite; ma l'ente è veramen- te di un altro genere rispetto a questi oggetti. I problemi scien- tifici suppongono che gli enti siano; essi non hanno interesse per la domanda metafisica. Lo scienziato ha dei problemi più precisi e seri da risolvere! Egli rende probler~atico questo o quello, ma per lui I'ente universale non è problematico. La scienza ha bisogno che vi siano degli enti; se questa condizio- ne diventa problematica, dove andrà a finire? Anche per la scienza I'ente è evidente.

Sapere perché vi è qualche cosa piuttosto che nulla non può dunque essere un problema per la scienza e per Ia filosofia. L'ente non è affatto problematico; non può esserlo, poiché è assolutamente universale, al cuore di tutte le nostre afferma- zioni. Se I'ente è problematico, Ia domanda che lo riguarda lo è anche; ma allora la domanda è inutile fin dal suo punto di partenza, e la scienza vede le sue basi sgretolarsi.

Si potrebbe dunque, sembra, definke I'ente molto facilmente e rapidamente, poiché esso è evidente. Nondimeno, ammessa questa evidenza, si sa veramente ciò che si intende per «ente»?

M. IIFJDELGEK, Essere e tempo, p. 2U.

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Lo srraniero del Sofista se lo domanda, e il suo interlocutore, Teeteto, riconosce che la domanda vale anche per lui. Come vale per Heidegger. D'altronde, se I'ente è evidente, noi abbia- mo dovuto ugualmente conquistarne I'evidenza.

L'abbiamo fatto argomentando per assurdo. L'argomento per assurdo è abbastanza specifico; esso funziona lateralmente, si mette a fianco di quelio che vuole provare per farlo scoprire come ciò che non era stato scorto, ma che-era già ben presen- te. Per questo motivo noi diciamo che la metafisica non cerca di definire I'ente direttamente: ens nec Wni r i nec decbmri pro- prie potesi; dobbiamo penetrarne il senso lateralmente, muo- vendo da ciò che esso illumina.

Una definizione è sempre in qualche maniera relativizzan- te; essa attribuisce ad un soggetto una determinazione parti- colare, colta in seno alla nostra esperienza come qualche cosa di particolare che differisce da questa cosa e che rassomiglia a quelI'aItra. A è B, e non C. Roma è la capitale d'Italia, e non del Belgio, ecc. Ora, la domanda metafisica non concer- ne un qualcosa come se gli si potesse applicare un predicato per riconoscerlo nella sua differenza e nella sua somiglianza in mezzo ad altre cose. Cercare la definizione di qualche cosa suppone che la si collochi in un primo momento in mezzo ad altre cose per distinguerla; ma nel caso delia metafisica que- sto procedimento non è possibile; l'ente è interno a tutto, poi- ché tutto è ente; non si può dunque distinguere l'ente da un'al- tra cosa. Per questo motivo il. problema metafisico non è tan- to quello di sapere ciò che è l'ente e ciò che non Io è, quanto il senso dell'ente.

Nella sua Introduzione aZh n a e t a f s i ~ d ~ ~ il filosofo della Foresta Nera riprende la questione posta da Leibniz: <<Perché esiste qualcosa anziché niente>> 40? Vediamo dapprima come Leibniz esaminava la questione. Egli si domandava quaie pote- va dunque essere la causa che ha presieduto alla produzione degii enti. La sua risposta concordava con il suo «grande prin- cipio~, secondo il quale <{nulla accade senza ragione sufficien-

'Y h.1. HF.IDF.CCF.R, Introduzione alh metafixica, p 13. G.W. L~. rn~rz , Principi &Ma natum p deEL grazia fondati sulla rugiunr, n. 7.

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te, cioè che nulla accade senza che sia possibile a chi conosce in vrofondità le cose, indicare una ra~ione che sia sufficiente

< .

, a determinare perché la cosa è accadita così e non altrimen- ti»ql. La questione leibniziana verte sulla causa degli enti,

questa causa concepita come una forma originaria o un'inteUigibjfità che non avrebbe bisogno di altro sostegno d'infuori di sé per essere perfettamente chiara. La risposta a questa domanda si inserisce in Leibniz tra gli argomenti pro- posti dalla tradizione per quanto riguarda l'esistenza di Dio. Dal momento che l'origine degli enti non può essere irnrna- nente alla loro serie, senza che si possa esigerne una causa sem- pre più alta, <<è necessario che la ragione sufficiente che non ha bisogno di un'altra ragione, sia fuori della serie delle real- tà contingenti e si trovi in una sostanza, che ne sia la causa, che sia un Essere necessario che porti la ragione della sua esi- stenza con sé» ".

Heidegger non risponde alla domanda leibniziana alla stes- sa maniera. Egli vede infatti in questa risposta il risultato della soggettivizzazione moderna del principio; l'uomo moderno vuo- k conoscere tutto, commisurandolo a delle ragioni di cui egIi è in ultima istanza il giudice. Tanto piu che il ragionamento di Leibniz si spiega in larga misura nel quadro della logica del significato del concetto di cui lo studioso è il maestro respon- sabile. IIeidegger si rifiuta di soffocare la domanda metafisi- ca, dandole come risposta una sostanza positiva af fermabile ad arbitrio deUa ragione logica. L'origine o il principio non può, infatti, essere del. genere della sostanza, che è ancora la Ragione sufficiente leibniziana. Heidegger invita piutros to a soffermarsi neUa domanda come domanda ed a pardare in direzione di ciò che è stato così aperto. L'importanza della domanda non risiede tanto in ciò su cui poggia la domanda, l'ente e la sua causa necessaria, bensì neila domanda e nella sua apertura.

Tra Essere e tempo e l'Introduzione aZZu metufzsica, Heideg- ger ha operato quella che ha chiamato la sua <<svolta»; non si

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tratta qui di un mutamento di preoccupazione, ma di un capo- volgimento della problematica. Nel primo testo, la rifIessione segue un cammino ascendente che affina la domanda ontolo- gica senza cercare di esaurirla in una risposta definitiva; Esse- re e tempo conduce così a porre la domanda sull'ente nella sua più grande radicalità. Dopo la c<svolta», la Kehre, la medita- zione considera che mai la domanda nei riguardi dell'ente si porrebbe se una risposta non fosse stata già data in anticipo nella domanda stessa. Questa tensione tra le due fasi maggio- ri della riflessione heideggeriana esprime la tensione che costi- tuisce Ia domanda come tale, nello stesso tempo aperta a ciò che essa ignora ed orientata da ciò che essa già conosce.

I fondatori della metafisica, dopo avere assunto il nome del principio to OH, l'ente, ne riconoscono il carattere problema- tico. Platone mostra come il significato di questo nome strut- tura la realtà, imponendo di trascendere l'empirico immedia- to. Aristotele non si soddisfa della formalità trascendente di Platone, ma inserisce l'ente in seno ad una ricerca verso ciò che è il più universale; I'ente è ii principio, e in quanto è il principio è la causa formale pih universale; ma in quanto è il principio è anche finale, è anche I'ente che, semplicemente, è. Con i fondatori greci, la metafisica è una ricerca sui senso dell'ente che è ii principio. Con Heidegger, la domanda onto- logica è rinnovata in funzione degli slittamenti operati dalla filosofia moderna. Ogni volta I'ente o il principio è a1 termi- ne di un'interrogazione. La sua evidenza non è data, ma con- quistata. La ricerca metafisica va dunque alla conquista del- l'evidenza del principio.

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CAPITOLO SECONDO L'ENTE E LO SPIRITO

Dopo avere esposto, ne1 capitolo precedente, le grandi linee della metafisica come domanda intorno dl'ente, metteremo adesso in evidenza il significato essenziale deIle sue categorie fondamentali: l'ente, l'esistenza e lo spirito. Vorremmo mostra- re che compito della metafisica è meditare sull'aileanza origi- naria dell'ente e dello spirito. Seguiremo come filo condutto- re due pagine deil'lntroduzione alla metafisica in cui Heideg- ger spiega che la metafisica pone la domanda piii ampia (l'en- te), la piu profonda (l'esistenza) e la pih originaria (lo spirito) l.

1. L'estensione delia domanda

a) L'ente

La metafisica è rtla scienza che studia l'ente in quanto ente}>. Ma che cosa significa questa parola «ente»? Platone ne aveva elaborato i vari livelli di significato. Noi diciamo spontanea- mente che l'ente è questa cosa qui appresa mediante i nostri sensi. A questo primo livello di ente, la domanda metafisica è già la piii ampia. Sono <<enti>> tutte le cose belle o meno bel-

Cfr. M. HF,I,IDF.CCF.R, InhDduzionc a f h metufi4icu, pp. 14-15

Il. L'EWTE E LO SPIRI30 49

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le del nostro mondo, il mare e la montagna, questo libro, gli amici, la guerra e la pace, ecc. Tutto ciò di cui facciamo espe- rienza è «ente».

E anche <<ente» tutto ciò che sorregge la gioia di questo incontro amichevole, o l'inquietudine che nasce da questa sca- denza prossima, ciò di cui mi ricordo e ciò che ispira le mie speranze o i miei timori. Insomma, è «ente» tutto ciò che è reale, che sia presente attualmente oppure no; gli avvenirnen- ti del passato come quelli di oggi, tutto cib che accadrà domani, tutto è <<ente». E ancora <<ente>> ciò che muove la mia azione, che le dà ii suo <(senso», I1 suo orientamento dinamico, ii bene

I al quale aspiro, il valore che desidero e senza del quale non farei nulla di cui, a mio parere, ne valga la pena. Gli <<enti)> sono di tutte le specie: presenti, assenti, possibili, sensibili, spirituali, ecc. La scienza dell'«ente» è dunque la scienza più universale che ci sia.

Il <<nulla» è anche un ente. «Non già perché esso divenga qualcosa daI momento che ne parliamo, ma perché "è" il. nul- la)> 2 . Si può meditare sul nulla, perché è un oggetto di pen- siero; è <{ente>> per questa ragione, un ente per il pensiero. Ma vi è nell'ente <<nulla» più di una forma mentale. Vediamo Empedocle, il padre di tutte le dialettiche storiche: l'amore e l'odio si scontrano lottando l'uno contro l'altro, in maniera che il reale si trova dl'incrocio dei due principi che si negano a vicenda; il reale è costituito d d e negazioni dell'odio per mez- I zo deli'amore e deu'amore per mezzo dell'odio. Il <<nulla» non è dunque solamente un tema mentale; è fino a tal punto una realt8 che senza di esso il reale non sarebbe mobiie e dinami- co. Così pure, nell' aristotelisrno, le categorie dell'atto e della potenza hanno un'importanza estrema. Ma che cos'è la poten- za, se non la privazione dell'atto? Tra la potenza e l'atto vi è una negazione, una privazione, <<nulla>>. Il tempo, fatto di passato, di presente e di futuro, e lo spazio, fatto di sinistra e di destra, di sopra e di sotto, di davanti e di dietro, sono

l' quelli che sono grazie alla negazione. La negazione è dunque molto reale; il nulla «è>>.

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Tutto è <{ente», nel senso che tutto è presente all'intelletto. Ciò che non ci è presente non è un ente. <<L'essere e il pensa-

Y

re sono la stessa cosa» j. Ma questa tesi lascia perplessi. Non è perché un ente mi è presente che è; questa pretesa è esorbi- tante. E tuttavia! Il filosofo non sfugge al suo destino, anche se deve scontrarsi contro le pretese ingenue. ccNulla» indica ciò che noi non raggiungiamo, perché non è qui adesso, ma potrebbe esser10 un altro giorno; non è un «nulla puro», asso- luto; questo <<nulla)> è un ente possibile o un possibile che, in quanto possibile, mi è presente, un ente. I1 «nulla» non è sem- plicemente <<nulla»; è nuUa perché è solamente un possibile per una conoscenza eventuale, d a quaie in qualsiasi maniera rima- ne in riferimento. Il <muliai> potrebbe essere altrove, presente ad un altro; ma allora è ente per qualcuno. Ciò che non è pre- sente a nessuno non è n d a , un non-ente. Su questo punto Parmenide è insuperabile, poiché questo non-ente è ancora pen- sabile, è qualche cosa per il pensiero.

La parola <dente>> significa dunque una presenza. La strut- tura di questa presenza è manifestata dall'analisi grarnmatica- le della parola. <<Ente» è il participio del verbo d'infinito <<esse- re». Il participio e l'infinito hanno funzioni differenti. L'infi- nito indica una possibilità d'azione che ciò nonostante non è realizzata: «studiare», per esempio. Perché questa azione sia reaiizzata, occorre un soggetto che metta in opera l'infinito al passato, a1 presente e al futuro, qualcuno che sia in procin- to di studiare. Se il soggetto si avvia a compiere l'azione, Io si mette a l gerundio: <(studiando». Se l'infinito <{studiare», che significa un puro disponibile, non ha nessuna realizzazione con- creta, se nessuno studia, sarà un infinito puramente potenzia- le, un'azione che non dovrà essere «agita», e pertanto una pura futilità. Perché il verbo significhi realmente, occorre che la sua azione possa essere effettivamente compiuta, che non sia solamente un puro possibiie, abbia un soggetto che l'esercita, per esempio qualcuno che stia studiando. I1 gerundio fa pas- sare l'infinito disponibile al suo compimento nell'azione; ne mostra la realtà feconda.

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I1 participio è un sostantivo: lo <<studente». Esso significa che il gerundio ha un supporto sostanziaie, un soggetto che, definito secondo questo gerundio, è nella condizione di eser- citare l'infinito. Il soggetto al participio attua veramente il suo stato se esercita al gerundio l'azione dell'infinito; lo studen- te, studiando, è intento a compiere ciò che e& è; compie l'azio- ne da cui trae il suo nome, «studiare>>. Tuttavia, come l'infi- nito, il participio comporta anche la disponibilità: lo studente che dorme non è intento a studiare, benché abbia sempre l'identità dello studente. I1 gerundio indica un'azione effetti- va, mentre participio non è sempre attivo, per quanto non cessi di essere ciò nondimeno ii participio dell'infinito. I1 par- ticipio significa uno stato che rende possibile l'azione al gerun- dio o ad una forma dell'indicativo.

Taii analisi chiariscono il senso del sostantivo «ente». Que- sta parola è recepita con difficoltà nelle Iingue latine. Oggi, sotto la pressione della metafisica di Heidegger e della sua distinzione tra Sein e dckS Seiende, l'infinito e il participio, la parola <{ente» è abbastanza comunemente accettata; rende molti servigi alla lingua filosofica contemporanea. Noi l'adottiamo, secondo ii senso indicato dall'analisi grammaticale che ha distin- to l'infinito (disponibile}, il participio (stato) ed il gemndio (azione). <<Ente», on, designa nello stesso tempo lo stato e l'azione deli'infinito «essere», einaz.

L'ente è ciò (stato) che è (azione); la sua formula totale con- giunge un aspetto formale ed un aspetto attivo; ciò indica la determinazione che, entrando nella definizione, è per essenza formale; è concerne l'azione, l'atto di essere, all'indicativo pre- sente. L'espressione «ciò che è>> è carica del legame dell'intel- ligibilit à formale del verbo «essere>> (il suo stato sostantivato [participio] pronto per una definizione) con la sua realtà viva (il suo atto al gerundio). Questi due aspetti sono uniti dialet- ticamente. «Ciò che c'è di più importante e di primario in ciò che è, è il fatto stesso che esso sia. Se si chiama [essere] tutto ciò che è, è perché, se non fosse, non potrebbe essere qualsia- si cosa. Ciò che non è, è neppure un ciò che. Propriamente è niente. Tuttavia la relazione delle due parole può stabilirsi in senso inverso. Invece di pensare che "essere" un [ente] sia

52 11. L'EKTE E LO SPIRITO

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t, 4"-

,y T essere, si può anche pensare che essere sia essere un [ente].

Lo si pensa anche più facilmente, poiché in turto "ciò che è", ciò che esso è ci è moIto più facile concepirlo del sempIice fa t to che sia»'.

La parola <<ente>> implica dunque una dialettica tra il parti- cipio (il sostantivo che significa uno stato) e il gerundio (l'azio- ne compiuta dai verbo all'infinito), tra il fatto e il fare.

Tutto è «ente»; ogni ente è un fatto e anche un «fare>>. L'en- te articola una duplice priorità, antologica e logica; la prima priorità considera la realtà attiva di ciò che è, la sua azione, e la seconda, la forma che permette di comprendere intelligi- bilmente questa realtà nel suo stato. La dialettica tra queste due priorità è unita nell'ente, nello stesso tempo sostantivo (l'essere divenuto un fatto intelligibile o formale) e gerundio (l'essere in procinto di essere realmente). I1 problema è di asse- gnare un giusto valore a questa dialettica, senza ridurre uno dei suoi poli ali'altro. La questione del significato della meta- fisica dipende dalla soluzione data a tale problema. La lette- ratura che prende in esame questa difficoltà è estremamente vasta; si tratta di articolare la priorità del fatto (sostanza fat- ta ed inteuigibile) e Ia priorità del fare (azione viva e mobile). Due autori, uno antico (Gorgia) ed uno contemporaneo (Car- nap) ci introdurranno nel vivo delia difficoltà.

Gorgia pone un problema fondamentale: delle realtà corri- spondono ade nostre parole? Possiamo andare dal logico ail'on- tologico, dal fatto al fare? il buon senso risponde affermati- vamente. Ma occorre in seguito sfumare quest ' affermazione, poiché noi sappiamo bene che ci troviamo spesso nell'errore, che le nostre parole non dicono ciò che è. Per di più, vi sono deIle parole alle quali non si vede quale realtà corrisponda; i fisici, ad esempio, discutono per sapere se gli atomi esisto-

ET. GLLWN, L ' C J S L ~ ~ e Tenmzrl, p. 6 . I'er motivi sfilj~tici, Gilson non vilole utilizza- re la parola eenter, di cui afferma peraltro l'iitilità tecnica. Sustituiumo dunquc, qui come altrove, la parola aessercn con lente1 quando significa questo participici-geri~ndio.

TT L'ENTE E LO S1'JRlSO 53

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no. Quale sarebbe la realtà della «massa>>? La questione posta da Gorgia è dunque più sottjle di quanto non sembri. Mostria- molo con la radicalità della filosofia; in che modo so che alle mie parole corrispondono deiie realtà se non passo saperlo sen- za utilizzare delle parole? La conoscenza è interamente nelle parole. Come potrebbe essa scavalcarle per sapere ce aderiscono ai reale? Se si dice che l'esperienza serve da intermediaria tra le parole e le cose, in che modo comprenderla senza le paro- le? Gorgia spinge la difficoltà fino all'assurdo; in questo sen- so prepara il parricidio di Platone.

La tesi di Parmenide sembra pertanto insostenibile. Se <<peri- sare ed essere sono la stessa cosa» e se l'essere è, allora tutto ciò che si pensa è; e siccome non si può pensare senza parole, tutto ciò che si dice è; il che è assurdo. Ma il contrario è uguai- mente assurdo; se non vi è nessun legame tra pensare ed esse- re, noi non diciamo mai nulla. Per approfondire il problema seguiamo le tre proposizioni che Gorgia propone: ciascuna muo- ve daii'assurdo e tenta di sradicarsi da esso. Commentiamole liberamente: 1) non vi è nulla; 2) se vi è qualche cosa, non la si può conoscere; 3) se la si può conoscere, non la si può comunicare. Questa conclusione è disastrosa, compreso pure i1 messaggio che Gorgia ci comunica!

Non vi è nulla. Questa proposizione proviene dal monismo parmenideo; infatti, se noi sperimentiamo numerose cose diver- se, mentre I'ente è l'«uno)> di cui parla l'Eleate, I'ente non è nulla di sperimentato; poiché il nostro mondo non conosce l'<<ente-uno» e che solo «è» questo <<ente-uno», non vi è nulla che «è» nel nostro mondo.

Questa conseguenza è così assurda che si deve lasciare da parte il senso monista delI'c<ente>>. Si accetta dunque che vi è qualche ente nel mondo. Ma se ciò è vero, senza che si sap- pia come, non si può, comunque sia, conoscerlo. Infatti, se si trasferiscono agli enti della nostra esperienza le caratteri- stiche dell'ente del Peri pbuseds deil'Eleate, se si riconosce a ciascuno di essi un'unità propria, non si vede in che modo le nostre parole, con la loro diversa discorsività, potrebbero darne la conoscenza. Così, qualunque sia il senso della parola «ente>>, sia l'ente indivisibile ed identico a se stesso della logi-

54 T I . I.'ENTF. E LO SPIRITO

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ca di Parmenide, sia l'ente della nostra esperienza nel mon- do, non lo si può conoscere in modo appropriato. E dal momento che pensare e dire sono in linea di rnassima,adegua- ti l'uno all'altro, non si può dire nulla che sia un ente. E megho dunque t a?ere.

La terza proposizione conclude che se si conosce qualche cosa nonostante l'argomentazione precedente, non si può in nessuna maniera trasmetterla. Supponiamo infatti che il mio <<dire» sorregga l'ente, sia per esso un cammino di presenta- zione intelligibile. «Direa è un'operazione sonora e non pre- senta altro ente all'infuori della sua sonorità. «Da ciò che si dice qui che il discorso non è ciò che è, non ne segue che il discorso sia non-essere, ma semplicemente che esso non è l'[ente] di cui parla; anzi, è precisamente perché è un [ente] come gli altri, che non può manifestare altra cosa di ciò che esso è»>. Come potrei dunque comunicare verbalmente una conoscenza che mi è giunta per vie che non sono verbali? Il solo campo sicuro del linguaggio si riduce dunque a quello della fonetica.

Nella dialettica della logica e dell'ontologica, Gorgia soprav- valuta la parte della logica. Mentre per noi il fare o il reale (gerundio e realtà antologica) è interno al fatto (sostantivo e forma intelligibile del sostantivo), Gorgia li contrappone come due ambiti differenti. Per l'articolazione di questi due campi, occorrerebbe allora un terzo operatore, ma è impossibile tro- varlo al di là dei termini opposti, l'essere e il pensiero.

R. Carnap mette in evidenza tre sensi della parola «esse- re». Questa parola ha per lo più la funzione della copula; quest 'ultima svolge due ruoli: stabilire un rapporto generaie tra un soggetto e un predicato o identificare un sog- getto; questi due ruoli copulativi della parola ciessere» sono, dice Carnap, scientifici, vale a dire logici. In quanto ad un terzo uso, rnetafisico, lo stesso autore sostiene che è privo di senso.

11 L'ENTE E Lr) SPIRI'TO 55

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Vediamo anzitutto il primo caso, quello della copula che sta- bilisce un rapporto generale tra un soggetto particolare e un predicato universale. Sia data la proposizione <<Pietro è intel- ligente*. I1 predicato «intelligente» non dice tutto ciò che è Pietro, ma solamente che Pietro fa parte della classe delle cose intelligenti. La copula <<è>> stabilisce così un rapporto tra un soggetto particolare ed una caratteristica universale che, intel- ligibile, dà un'informazione sul soggetto e lo fa comprendere. Accade Io stesso per quest'dtra proposizione: <<Roma è una bevanda gassata>>. La copula <(è» ha dunque come prima fun- zione di mettere in rapporto un soggetto con un tratto di intel- ligibilità, senza preoccuparsi tuttavia della realtà di questo rap- porto.

Secondo caso: la copuia «è» ha una funzione tautologica; essa significa l'identità dei soggetto e del predicato, identità simboleggiata dal segno = . I termini messi qui in rapporto sono strettamente intercambiabili. La frase : «Roma è la capi- tale d'Italia nel 1897» può essere invertita: <{la capitale d'Ita- lia nel 1897 è Roma», senza che il significato di una proposi- zione sia modificato nell'altra. Notiamo tuttavia che la tauto- logia reca un'informazione s u l soggetto. Dire che «Roma è Roma» non insegna nuila, contrariamente alla proposizione «Roma è la capitale d'Italia nel 1897». La funzione tautologi- ca non è dunque solamente ripetitiva.

Terzo caso: la proposizione «Socrate è». Secondo Carnap, la parola «è» ha qui una valenza metafisica, se significa <<esi- ste». Infatti, in questo caso, non può essere assimilata alla scienza, perché, riferita sinteticamente al soggetto, non è veri- ficabile scientificamente; non si può verificare scientificamente «esistere» in se stesso senza che preceda I'esperienza del sog- getto. Si potrebbe tuttavia distinguere un altro aspetto di que- sta proposizione, individuandovi, oltre al senso «esiste>>, un senso determinato da un predicato universale nascosto: la pro- posizione «Socrate è un ente>> è tratta analiticamente da que- st'dtra «Sacrate è». Nelia proposizione derivata si mette in rapporto un predicato universale intelligibile con un soggetto; Socrate fa parte della classe delle cose che sono «enti>>. La paro- la <<ente>> è intelligibile come ogni predicato universale. Ora,

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si distingue la classe delle cose che sono e la classe delle cose che non sono; si sa molto bene ciò che è non essere: Der esem- , L

pio, quando io dico che la serie dei numeri interi è infinita e che nesspn numero intero Ia conclude, so molto bene ciò che significa questo «nessun.. . la»; ho dunque la comprensio- ne di ciò che non è; ciò implica che quello che noil è un ente sia intelligibile; distinto dalla classe intelligibile degli enti, è in un certo modo un ente, perché è inteiligibile; perciò, è, sem- pre in un certo modo, predicabile. Ma quello che si sta dicen- do di <<ente» non vale per «esistere». «Esistere>> non è mai un predicato intelligibile. Per questo motivo ccessere» non signi- fica semplicemente «esistere,,. Del resto nessun segno logico conviene a questo «esiste»

Per Carnap il senso di una proposizione è scientificamente determinabile dl'interno della logica dei termini, delle propo- sizioni e degli argomenti, senza considerare l'atto della comu- nicazione, purché tuttavia vi sia un riferimento iniziale d ' e - sperienza sensibile. Si lascia così da parte un aspetto essen- ziale del linguaggio: le nostre frasi hanno un significato che non proviene soltanto d d a loro buona formazione logica e dai loro riferimento iniziale all'esperienza sensibile, ma dalla Ioro pronuncia in atto. Se il linguaggio ha un significato grazie ai soli criteri logici e sensibili, si può dire tutto, purché sia in buona forma e in conformità d'esperienza immediata. La sofi- stica non faceva diversamente, ma osservando inoltre, e per giusti motivi, che non vi è esperienza assoluta, e che dunque il linguaggio è il solo padrone del mondo.

Aristotele insiste suil'importanza dell'atto deIla comunica- zione nella costituzione del significato. Nel libro IV della sua Mehjisica, al cap. 1, quando vuole difendere il principio di non-contraddizione, egli argomenta infatti riferendosi alle leggi del dialogo. Mostra come le forme gratuite nelle quali i sofi- sti chiudono il linguaggio sono superate da un atto che con paroIe comunica dei significati necessari. <<Tuttavia, [. . .l l'im- possibilità di dimostrare che una cosa sia e non sia può essere provata mediante confutazione, purché il nostro interlocuto-

L Cfr. R. C~RKM,, LU co~h~lt tone hgicu del mondo, § 176

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re intenda dare aJie sue parole un certo significato*:. Non si tratta di esigere dall'avversario che dica questo o quello, che proponga un contenuto intelligibile determinato, ma sempli- cemente che dica qualche cosa di significante per lui e per il suo interlocutore, che accetti di parlare ad un aitro per dirgli qualche cosa. La confutazione richiede poco, purché l'obiet- tante mi dica quaIche cosa che ha per lui un significato e che spera intelligibile anche per me, supponendo con ciò l'univer- salità del significato che egli intende e propone. Senza questo accordo sul significato delle parole scambiate, nessuno sareb- be capace di ragionare con se stesso o con un altro.

Non vi è obiezione, non vi è logica applicata, senza parole pronunciate. Se l'avversario non parla <t somiglia [. . .J ad una pianta»s; una pianta non muove nessuna obiezione; non conosce nessuna logica. Se si considera che la logica non è sola- mente formale, ma che è al servizio di una comunicazione di significati, si vede che essa non è conclusa in se stessa; non le spetta determinare i significati con la sua sola formalità. Que- sto argomento, chiamato «ritorsione», fa prendere coscienza d'avversario delle condizioni che rendono possibiie la sua obie- zione; «mentre vuole demolire un ragionamento, viene a subir- Io» 9 , dice Io Stagirita.

I1 senso delia parola «è>> viene chiarito dalIa ritorsione. Dire che «non vi è verità» è contraddittorio, non nei termini, sigmte dicono gli scolastici, ma tra i termini enunciati e l'atto dell'e- nunciazione, exercite. La proposizione enunciata, secondo la quale non vi è verità, è conforme alle regole della logica for- male; traduce anche la nostra esperienza in cui ogni verità è così provvisoria che non si sa pih molto bene ciò che è apro- prio vero» e ciò che non lo è. Ma la proposizione <<non vi è verità» suppone, per essere vera e legittimamente accettata, che la verità sia. Che cos'è questo <tè>>? Noi ne prendiamo coscienza grazie d a logica della ritorsione, ad una rifIessione sd 'at to di affermare. Ma non vi è qui'la scoperta di una realtà fondamentale, proprio quella che la parola «ente» porta in sé

7 h ~ r s r o ~ ~ r I+,, iifeetafbicn 1V 4, 1006a Ibid.

"bid.

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in quanto gerundio, I'azione dell'infinito «essere»? Per coglie- re questo significato dell'ente, la logica formale deve essere superata in logica riflessiva. La realtà si rivela allora secondo tutta la su? ampiezza, che è anche la sua profondità.

2. La domanda più fondamentale

La domanda metafisica è la più ampia di tutte le domande, perché verte suIla totalità di tutto ciò che è; essa è anche Ia più profonda. Interroga infatti in direzione del fondamento radicale degli enti. Si concepisce spesso questa profondità alla maniera di una causa: <<Per qaale motiuo dunque l'ente è?,>. Questa prospettiva causale, che anima la dinamica aris toteli- ca, non si impone tuttavia in maniera assoluta. Infatti, la deter- minazione della causa dipende dal punto di vista assunto sul- l'ente; un fondamento che è una causa potrebbe non essere veramente fondante. In un primo punto, ci interrogheremo dunque sull'essenza del fondamento; vedremo in seguito come intendere questo fondamento in quanto sorgere dell'esisten- za; conduderemo in ultimo vedendo ciò che significa il feno- meno in quanto apparizione deI fondamento.

a) Il fondamento

A quali condizioni un fondamento fonda veramente? Se è una causa e se è l'ultima, il fondamento ultimo dev'essere una causa ultima, vale a dire una causa senza causa, la prima nella catena di tutti gli effetti possibili. Rimane da sapere a quali condizioni una t de causa potrebbe essere veramente prima. In nome di che cosa, una causa apparentemente prima nel- I'ordine dei fenomeni, è prima in assoluto, senza essere I'ef- fetto di una causa precedente? Porre questa questione è doman- dare ciò che fa che una causa sia la prima nella catena causa- le; k chiedere la ragione deila sua originalità in rapporto a tutti gli altri anelli della stessa catena.

Dal punto di vista della causalità formale, non è evidente che vi sia una causa prima. Se in teoria la regressione ad infi-

Il. L'ENTE E 1.0 SPIRITO 59

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nitam è impossibile da sostenere, in pratica non accade così. I confini delie nostre scienze sono sempre più distanti; non ci sono fenomeni di cui si possa a piiun rifiutare di conoscere una causa fenomenale. Per garantire un fondamentp al mon- do fisico occorre dunque saltare ad altemm genus? E necessa- rio, se si vuole un fondamento assolutamente primo. Ma per quale motivo questo salms verso l'assolutamente primo, ai di fuori dei fenomeni in serie continua, sarebbe necessario per comprendere le cose come sono? Non basta dischiudere d a scienza in modo indefinito il libro del mondo infinitamente grande ed infinitamente piccolo?

La questione posta può essere radicalimata. Perché un fon- damento ragionevole sarebbe primo nell'ordine dei fenomeni? L'aristotelismo riconduce tutto ad una forma universale, l'en- te in quanto ente. Ma in nome di che cosa questa forma è la causa dei fenomeni? In sé, il fondamento è di un ordine diverso dai suoi effetti, poiché «questo fondamento [rifiuta] la fondazione), 1 ° . Ma se è cosi originale non è omogeneo ai fenomeni e non fonda nulla. In caso contrario, è concepibile in ragione dei fenomeni che fonda teoricamente, di modo che questi fenomeni fondano il loro fondamento.

La questione del fondamento fa passare la riflessione da un genere ad un altro. Ma non vi è continuità tra il principio fon- datore e il fenomeno fondato. I1 fondamento non è soltanto una causa legata analiticamente ad un effetto. Supponiamo che si possa risalire da1 fenomeno ai suo fondamento; non ne con- segue che si possa anche discendere dal fondamento verso il fenomeno. Ora, comprendere il fondamento come una causa rischia di far pensare che questa reciprocità sia possibile. Una causa dev'essere proporzionata al suo effetto; è dunque vera- mente Iegata al suo effetto come ii suo effetto ad essa. Evi- dentemente, una causa può essere senza effetto, soltanto se la si considera in sé, e non come causa; una causa che non ha effetto non è una causa. La rassomiglianza tra la causa e l'effetto fa inoltre pensare che la causa sia suscettibile di essere l'effetto di una causa superiore. Ogni causa diventa cosi un

lo M. HF.IDEGG~:H, Introduzione alla we&fisic, p. 15

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anello intermedio di una catena indefinita di cause e di effet- ti. Ora, il fondamento non può essere una causa imrnanente aila catena delle cause e degli effetti; è di un altro geilere. La <{domanda sul perché non ricerca, per l'[ente], cause della stessa natura o poste sul medesimo piano di esso,, ". Il fondamen- to non può dunque essere semplicemente una causa. Come potremmo allora avervi accesso?

Per rispondere a questa domanda noi metteremo insieme i risultati ottenuti, da una parte, al momento della nostra espo- sizione dei primi libri della Metafisica di Aristotele e, dall'al- tra, al momento delle nostre analisi della parola «ente}>. L'en- te è «ciò che è», ai tempo stesso <<ciò>> ed «è>>. I1 dimostrativo «ciò>> designa le cause formali, le definizioni; il verbo <<è» signi- fica l'attività effettivamente esercitata al presente, l'essere che si compie, che si tiene in esercizio, la sua causa finale. XI prin- cipio o il fondamento primo è unico; trascende la dualità del- la ragione formale e della ragione finale, fondando la forma nel fine. Vediamo in che modo.

L'indicativo presente «è» attualizza l'infinito disponibile «essere». Quest ' attualit à è espressa più semplicemente quan- do si dice che l'ente <<esiste>>. I1 verbo «è» è infatti molto gene- rico; si applica a tutto, al possibile, alIa forma astratta, a q u d - siasi legge scientifica, fatti che non sono veramente attualità reali, ma dati della coscienza. «È per questo motivo che il lin- guaggio stesso, seguendo l'incertezza del pensiero, ha sponta- neamente sostituito il verbo [essere] con un altro verbo, ii cui ruolo è precisamente quello di assumere la funzione esisten- ziale, che era originariamente la sua e che ha progressivamen- te cessato di esercitare* ". Di qui il verbo <{esistere» nel sen- so di essere concretamente, attualmente, presente tra le cose di cui facciamo esperienza. Quando si vuole esprimere senza equivoci il fatto di essere reale, si dice «esistere» piuttosto che <<essere».

L'etimologia della parola ciesistere» ne precisa la sfumatura propria. <<Esistere>> viene dal latino ex-sistere. Ex significa «fuori

11. L'ENTF E LO SPIRITO 61

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da)>; sistere o stare traduce il greco istèmi che significa <<essere presente, in piedi in maniera ferma e disponibile per ogni sorta di azioni possibili>>. Occorre comprendere che ex è un attri- buto di s&w, e non il contrario; per esempio, nella parola ceso- do», formata similmente, ex determina odos, in maniera che «esodo» significa un cammino di uscita e non l'uscita dal cam- mino; alio stesso modo, <<esistere» non indica «uscire dalla pre- senza», ma <(essere fermo stando fuori da, essere presente pro- venendo da un'origine~. Quest'analisi etimologica segnala la tensione immanente alla parola r{esistenzar>: ciò che esiste E presente (st-msj, ma ~rovenendo da un'origine (ex) che, per con- trasto con l'esistente presente, è assente. Questa origine del- l'esistente, o suo fondamento, è espressa classicamente come se fosse una causa (ai ta) o un principio (arche? a partire dal

l'esistente esiste. Il fondamento da cui proviene l'esi- stente è dunque assente; è diverso dall'esistente. Per questa ragione non si può prenderlo come se fosse omogeneo ai suoi effetti; tra quello e questi vi è una <differenza antologica»; se gli effetti esistono, il fondamento, invece, non esiste; se esistesse, sarebbe sottomesso alla stessa tensione di ogni esi- stente e dovrebbe dunque avere anche un'origine che esso non è, di modo che non sarebbe primo.

Questa riflessione etimologica e formale impegna la discus- sione suli'origine dell'esistenre. Un esistente non esiste a par- tire dai nuila; l'etimologia di nesistere* segnala che esso ha un'origine radicalmente differente da sé. L'origine dell'esis ten te è diversa da ciò che esiste; in questo senso, essa non esiste ". Se I'esistente è presente, l'origine è, al contrario, assente. Ciò che è presente proviene dunque da un'assenza. A noi interes- sa qui questa differenza. Ed è essa che impedisce di parlare del fondamento in termini di causalità, il che implicherebbe una causalità formale. Ma come esprimere allora ragionevol- mente ii fondamento, i1 rapporto tra il fenomeno e la sua origine?

'' Di q u i questa proposiziune di Et . Gilson: adivicnr allora necessario dire chc, se "Uin è", Dio non esistea (Id., p. 10).

62 Ll. L'EYTE E T,O SPIKITO

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b) Esistere

L'alterità del fondamento può essere concepita in medi dif- ferenti. Potrebbe essere quella che separa due esistenti. Ma allora ii fondamento sarebbe un esistente che ha un'origine, come ogni esistente; non sarebbe quindi veramente primo. In realtà, non si può mai coglierlo alla maniera di un esistente presente; il principio da cui proviene l'esistente presente è radi- calmente diverso da ques t 'ultimo; non esiste, contrariamente a ciò che ha avuto origine dai principio, che esiste. I1 proble- ma metafisico del fondamento non è tanto quello della discon- tinuità o della rpttura che fa esistere l'ente a partire da ciò che non esiste. E solamente tenendo conto di questa rottura che si potrà pensare il fondamento in una maniera che ad esso conviene. Una causa meccanica, materiale ed efficiente, non basta a spiegare l'esistenza dell'ente nella sua originalità asso- luta, in sé unica. I1 meccanicismo non conosce che la propa- gazione dell'identico; riduce ogni differenza tra la causa e l'ef- fetto d'identità. La causalità formaIe che riconduce ugualmen- te il diverso sotto l'identico non è piii sufficiente a riconosce- re l'originalità dell'origine. I filosofi esistenzialisti negano a buon diritto la possibilità di raggiungere il focdamento per la mediazione di una forma univerde ed astratta. L'accesso a l fondamento è assicurato piuttosto da un'analisi esistenziale che riscopre una potenza originale e feconda, manifestata nelle nostre esistenze concrete. Vediamone diverse testimonianze.

Quando muore un amico molto caro, Agostino resta solo e disorientato; piii nulla gli sorride; tutto è rovinato da que- st'assenza. Egli descrive allora un sentimento che sarà fonda- mentale nell'esistenzialismo: «io ero diventato per me stesso un'immensa questione» 't Scopre che l'esistenza è aperta ad una trascendenza; nessuna certezza inteIlettuaie lo appaga pih veramente; il fondamento deu'esistenza è divenuto prohle- matico.

11 conflitto tra l'essenza del mondo che si comprende intel- lettualmente e l'esistenza libera è stato esacerbato da Sartre.

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L'incompatibilità è assoluta tra la libertà per sé e il mondo oggettivo delle cose in sé. L'esistenza è libertà, per sempre al principio di sé; libera, è padrona di sé, capace di volersi per sé. Tuttavia, essa deve realizzarsi, e ciò in un mondo di cui non è il principio e che, in sé, le appare come un blocco mas- siccio che resiste al suo dinamismo intraprendente. Essa deve, per conseguenza, sottrarsi alle sue realizzazioni oggettive, alla sua essenza, per accedere alla sua identità. Esigendo di rima- nere sempre puramente per sé, ma non potendo fare a meno del mondo in sé per esserlo, essa conosce la sua assurdità; è qui la sua dgnità ed il suo dramma. L'esistenza libera trascende le sue manifestazioni; precede la sua essenza e se ne distingue assolutamente. La metafisica deIl'esistenza è dunque dialetti- ca: I'essere e il nulla.

Per G. Marcel la filosofia deli'ultimo secolo è precipitata nel nozionale; ha dimenticato il senso delI'esistente; è dive- nuta formale ed idealista, scambiando i suoi concetti per del- le realtà e lavorando su questi concetti come se fossero mate- riaIi disponibili a creare un nuovo ordine del mondo. La filo- sofia ha così perduto il senso vero della realtà che le preme ritrovare. «Per Gabriel Marcel, il primato dell'esistenziale è quello deli'esistenza [. . .l in rapporto alI' "oggettività", quaie egli la intende. Ciò che, non più che la negazione delle essen- ze, include il deprezzamento della ragione in metafisica» 15. L'esistenzialisrno ricerca un nuovo valore per la ragione. La ragione metafisica è diversa dalla ragione scientifica. La cele- bre differenza tra il crproblema~ ed il (<mistero» esprime que- sta tensione che Marce1 vede tra jl concetto oggettivante e l'esi- stenza trascendente. L'accesso alla libertà o al mistero è meno negativo che in Sartre; vi è un fondamento del razionale, la cui nozione non è la ragione; il Jozamal Métwphysique lo testi- monia.

Jacques Maritain protesta anche contro la riduzione della filosofia al nozionale; ma, per fedeltà alla scolastica, tenta di integrare le essenze formali alia filosofia. A suo parere, l'esi- stenziaiismo dell'assurdo, reso celebre da A. Gide, non ha nes-

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sun peso; s i svuota da se stesso della sua sostanza. Vi è tutta- via un esistenzialismo autentico in cui <<si afferma il primato dell'esistenza, implicando e salvando le essenze o natnre, e come manifestando una suprema vittoria dell'inreiligenza e del- I'intelligibilitZ [...]. Poiché sopprimendo l'essenza, o ciò che l'esse pone, si sopprime nello stesso tempo l'esistenza o l'cssc, essendo queste due nozioni correlative e inseparabili: un sif- fatto esistenzialismo si distrugge da &»l6. L'esistenzialismo di Maritain fa appello ad un ritorno al concreto, agli enti col- ti secondo la prospettiva del realismo tomista che riconosce loro un'intelligibilità intrinseca, senza tuttavia ridurli a forme nazionali, per quanto se ne corra talvolta il rischio.

Gli autori articolano dunque in diverse maniere l'esistente intelligibile e la sua origine; li separano al massimo {Sartre) o cercano di unirIi il più possibile (Maritain). La posizione sar- triana è eccessiva: essa dissolve la sintesi dell'ente, al tempo stesso ciò ed è. Ma reagire contro questa posizione, rifiutan- done la disarticolazione, f a correre il rischio di confondere la forma con l'origine dell'esistente. La riflessione utilizza sem- pre e necessariamente l'intelligibilità delle forme universali; il rigetto della disarticolazione esis tenziaIist a libera la tent azio- ne che ha naturalmente l'intelligenza di ripiegare la riflessio- ne sulle forme e sulle definizioni. II filosofo non può stabilir- si immediatamente sul piano dell'origine attiva; la sua espres- sione non può oltrepassare le mediazioni intelligibili che gli permettono di indicarla; senza essenza, il filosofo è perduto. Ma I'atto di <<esistere>> sfugge a qualsiasi stabilizzazione del genere.

I logici si sono imbattuti in questo ~roblema. Abhiamo visto che Carnap espelle l'esistenza dal mondo dei segni logici signi- ficativi. I jonckdmenti dell'writmetica di G. Frege sono più sfu- mati. Vediamo come. I numeri cardinali non formano una serie di semplici predicati; sono piuttosto re dica ti ad un secondo livello, predicati di predicati e non di concetti. Quando dico «Venere è un pianeta», attribiiisco il predicato <<pianeta>> ad un concetto, «Venere>>, che rinvia a sua volta a l a realtà; quan-

l6 1. MMI~I>AIK, B m e luuttuto r f i l k i s t e ~ z a e ru[i'esistc.prte, pp IO- I l .

rr . L'ENTE E LO SPIRI,I'O 65

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do affermo «i pianeti sono 9 ~ , <<pianeta» è un predicato, come abbiamo detto, e «7» è attribuito a questo predicato; è un pre- dicato di predicato. Applichiamo queste considerazioni al caso dell'esistere. Si colloca questo caso nella successione dei numeri. Quando dico: «non vi sono abitanti su Venere», affermo di fatto che «il predicato "abitanti su Venere", non si verifica}}, perché corrisponde ai caso O delia serie dei numeri interi. Ne consegue che I'esistenza è logicamente un predicato di predi- cato; si può così assegnarle un posto in un sistema logico defi- nito, attribuirle un segno logico specifico, per esempio, il quan- tif icatore logico f unzionde dei Pincipia mathmatica di Russe11 .

I logici riducono cosi l'esistenza alia logica del predicato e alla sfera stabile delle forme. Ma questa riduzione non può essere radicale. Infatti, da una parte, il concetto, al quale si attribuisce un predicato fa esso stesso segno, attraverso un ¶uantif icatore esistenziale, in direzione dell'ente; d' altra par- te, la verità del numero predicato non può essere dedotta dal- la sola forma logica del concetto. Io posso dire: <{vi sono 56 lune della terra» senza assurdità logiche, ma non vi è qui nes- suna presentazione della realtà. I1 predicato si riferisce al con- cetto e il concetto a ciò che è. L'esistenza può essere presen- tata come un predicato, ma la sua funzione è in realtà molto diversa; è meta-logica; indica ciò che nessun logos può rinchiu- dere nelle sue determinazioni. Per questa ragione, Frege distin- gue la proprietà dei concetti e l'attualità degli oggetti indivi- duali. Alcuni riconoscono in questa distinzione quella che san Tommaso poneva tra l'esse ut vemm, vale a dire la verità logi- ca e I'actus essendf, o la verità ontologica. Se la verità logica conviene al predicato di primo livello ed alla serie dei numeri interi, non accade Io stesso per la verità ontologica. I1 senso dell'esistenza fa appello alla profondità delI'ente che si pre- senta attivamente nel concetto, al di qua della logica dei pre- dicati.

C) La dialettica dell'ente

A quel punto l'oggetto della metafisica si precisa. Noi ne sfumiamo la definizione aristotelica, introducendo la forma atti- va <<è>, del verbo «essere>, e che significa anche il termine r<esi-

66 r i . L'ENTE E 1.0 SP~KL.I'O

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cte»: la metafisica è la scienza dell'ente in quanto è o esiste. Si indica così che la metafisica si stabilisce in tal modo in seno ad una differenza tra «ciò» ed «è», una differenza antologica. La ricerca del fondamento non l'orienta verso una «causa» fenornenale: l'ente proviene da un'origine che non si lascia determinare come se fosse un fatto in mezzo ad altri fatti; l'origine è un'attivixà. La realtà di questa origine non è omo- genea ai fatti che da essa provengono; è di un altro ordine, un «fare» che penetra i <{fatti». Gli enti sono pib attivi di quan- to non manifestino le loro definizioni. La loro apertura verso il fondamento, esercitata per mezzo di ciò che essi sono o esi- stono, li fonda. I1 chiarimento etimologico deUa parola <<esi- stenza» traduce schematicamente questa esperienza fondamen- tale: un'azione precede il fatto e la comprensione che ne rica- viamo; l'«è» precede il <<ciò» dell'ente, rinviando ad un'origi- ne diversa.

La tensione immanente all'esistente è enunciata dalla paro- la «fenomeno». Questa parola, in conformità d a sua origine greca phainomai, significa «ciò che appare», ciò che viene in presenza. Indica dunque ciò per mezzo del quale I'esistente èi presente. Noi non dobbiamo distoglierci da questa presen- za, dal fenomeno, come purtroppo ci invita a fare una lettura troppo rapida dell'alIegoria della caverna, narrata da Platone 1 7 . L'esistente non è al di fuori della sua presenza, benché questa presenza sia fondata senza che ne sia essa stes- sa la ragione. L'apparenza è la presenza, l'offerta di un atto originario che vi si rende accessibile. L'atto originario non è dietro l'apparenza, come se si potesse scoprirlo abbandonan- do I'apparenza; vi si accede li dove esso si presenta, nel suo fenomeno.

La metafisica tratta dunque di ciò di cui parlano anche le diverse scienze; tutte si occupano degli enti nelle loro appa- renze. Ma ogni scienza è determinata dal suo punto di vista particolare d ' e n t e ; ciò che non è iI caso della metafisica, o piuttosto ciò che è il caso deila metafisica, ma in una maniera unica. Certo, la metafisica ha un punto di vista particolare; questo è tuttavia radicalmente originale; è il punto di vista

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senza del. quale nessun altro punto di vista sarebbe possibile, quel10 del fondamento deli'ente in quanto è o in quanto s i presenta.

Le singole scienze assumono una particolarità dell'apparen- za; la metafisica va al centro dell'ente, lì dove si originano tutte le sue molteplici apparizioni. L'oggetto della metafisica è dunque determinato da una tensione immanente d 'ente e che unisce dinamicamente tutte le sue apparenze o manifesta- zioni fenornenali alla loro unità fontale.

La metafisica articola dunque una dialettica, di cui si potreb- bero stabilire così i poli:

[Al [Bl ciò (che) è stdre ex fenomeno origine

Questo quadro, letto alla luce della dialettica sviluppata sopra, significa che [Bl si mostra in [Al, che ne è in un certo senso la causa, ma <<diversa>>, trascendente, che la precede dun- que come i1 fondamento precede ciò che fonda. La metafisica non può essere comparata alle scienze particolari; la sua doman- da radicale concerne l'ente nella sua totalità, all'origine di tutte Ie sue particolarità.

Si pone mttavia un problema metodologico. I1 cammino della metafisica segue l'ordine inverso della genesi dell'ente; va da [A] verso [B], e non può fare altrimenti, almeno in un primo momento. Il fatto è che l'accesso al fondamento dell'ente non è immediato; I'origine è infatti presente sotto il segno della differenza o deli'assenza. Se il fondamento si dona nelle sue apparenze, lo fa in maniera negativa. I1 metafisico ha dunque convenienza nel seguire i meandri delle presenze fenomenali per indurne il fondamento come la loro origine differente. In che moda avviene ciò? È quello che vedremo nel capitolo seguente che tratterà del nostro metodo. I1 metafisica, la cui dialettica è dapprima ascendente, scommette che Ia sua inda- gine percorre, ma in senso inverso, il cammino della genesi delle apparenze.

68 il . L'ENTE E LO SPIRITO

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J. Ladrière, seguendo un'ispirazione heideggeriana '"a espresso in maniera notevoIe questo cammino:

c<L'essenza del fenomeno è l'apparire, è l a manifestazione. Ora, mani- festarsi è entrare in uno spazio di presentazione, assumere il proprio posto nel visibile, in mezzo alle cose, ncll'ambiente in cui può avere luogo un incontro. La manifestazione è dunque una venuta nello spa- zio dell'incontro. Ora, la venuta è un cammino a partire da un'originc, da ciò che gli antichi chiamavano un principio, un termine primo. I1 principio è ciò che P al punto di partenza, è anche ciò che comanda lo svolgimento del processo che conduce fino al momento della piena manifestazione. E dunque ciò che sottcnde la manifestazione stessa e la regola da parte a parte. Comprendere il fenomeno è in qualche modo effettuare il cammino della manifestazione in senso inverso, risalire il processo della venuta nell'evidente, ricongiungere l'evidente al suo prin- cipio. Ma il cammino non è separato dal fenomeno, è la sua possibilità stessa più interna, sempre presente neLIyatto stesso della rnaniiestazio- ne. 1.a comprrnsionc non J ~ v e dunque mettersi al di fuori o al di sopra del fenomeno, o aggirarlo, ma al contrario penetrare au'interno stesso della sua struttura, per cogliere in essa l'azione del principio. Essa t pure un superamento, ma un superamento che è basato su una intro- cessione. E penetrando all'interno del fenomeno che ci si rende capaci di superarlo. Ma in che modo questo superamento introcessivo è possi- bile? Per andare al di ià del fenomeno verso il suo principio, occorrc, in una certa maniera, averlo già oltrepassato, occorre essersi messi già in comunicazione con la regione dei principi, con il luogo Jell'origine. Si potrebbe rappresentare questo luogo come un orizzonte. Infatti, esso non ci è dato in modo determinato come un oggetto, corne un fenome- no, ma sotto una forma indeterminata, come un campo ultimo nel qua- le sono iscritti & oggetti e i fenomeni. E solamente quando noi leggia- mo il fenomeno in questo orizzonte che diventiamo capaci di cogiierlo>i 17.

La metafisica considera tutte Ie apparenze nelle quali il fon- damento si rende presente al pensiero e che il pensiero acco- glie come apparenze fondate. In principio, se essa è la scienza prima, conferma la validità delle altre scienze, scoprendo il loro fondamento che, presentandosi nelle sue diverse apparen-

:<L. M . H ~ . ~ E G G L R , Esrcw e tempo, pp. 25-26. " J. L A U K ~ H E , U J R statlit de la science dans la dynamique de la cornprChensions, P!'

30-31.

LI. L'ENTE E. LO SP1RIl.G 69

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ze, le rende possibili come scienze dell'ente. Confermando la validirà ontologica delle scienze, la metafisica vi riconosce un cammino efficace del pensiero che, orientato verso il fonda- mento, se ne avvicina seguendo la loro successione.

3. La domanda piii originaria

Secondo I-Ieidegger, la terza caratteristica della domanda metafisica è la sua priorità nei confronti di ogni altra doman- da. La domanda metafisica è originaria. Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, la metafisica ricerca il fondamento primo degli enti; questo fondamento è I'origine di ciò che è. Ma la domanda metafisica è <<originaria» soprattutto dal pun- to di vista del suo metodo o delle sue basi. Essa nasce infatti dall'apertura delio spirito a ciò che fonda l'ente. La domanda metafisica mette in gioco coIui che la pone, esprimendo così la sua apertura essenziale.

Questa determinazione dell'originarietà della metafisica discende in un certo senso dalla sua universalità; infatti, se la metafisica non lascia nessun ente al di fuori della sua inda- gine, non può disconoscere colui che la costruisce, che è anche un ente.

Tuttavia, questo ente non è uno qualsiasi; è differente da tutti gli altri, poiché li giudica tutti, e Ii giudica rispondendo alla venuta verso di sé dell'origine di tutto. Noi chiamiamo «spirito» I'ente che pone l'interrogazione metafisica, prestan- do attenzione a questa profondità degli enti e alla donazione che in esso riecheggia.

Ci impediamo in tal modo di limitare la nostra riflessione d'analisi dell'ente nella sua più semplice oggettività o evidenza nozionaie, e ci imponiamo di tener conto dell'atto dell'uomo, come condizione di possibilità di una metafisica fedele alla sua definizione classica.

Preciseremo adesso Ia parola <<spirito>}, riferendoci alle sue origini greche ed ebraiche. Mostreremo poi in quale senso lo spirito è vivente ed estatico.

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La parola <{spirito» traduce il greco pneuma, il ciii uso è soprattutto stoico. Per gli stoici, ii corpo S costituito da due pincipi che non sussistono l'uno senza l'altro: un principio passivo ed un principio attivo. Il principio passivo si chiama materia ed il principio attivo pneuma. I1 pnenmd non è dun- que differente dal corpo; ne è un aspetto particolare, la forza congiunta alla materia in sé inerte. Lo stoicismo, che insiste sulla corporeità di ogni ente, rappresenta questo principio attivo come un fuoco; il fuoco è infatti l'elemento più leggero nel mondo, più sottile e veloce. Del resto, come pensava una tra- dizione aristotelica, il calore appartiene agli esseri viventi; esso sirnboIeggia il principio superiore della vita. Tuttavia, se il calo- re simboleggia il principio vitale, il fuoco non dona la vita; «il fuoco non è in grado di generare alcun animale I...]. I1 calore del sole invece e queilo degli animali [...l possiede un princi- pio vitalee20. Poiché il veicolo del calore vitale non è il fuo- co, lo si rappresenta più semplicemente come l'aria calda che circola nell'organisrno e che si indica sotto il nome di pnen- ma. Il pnezma significa dunque originariamente il soffio cal- do ed umido della respirazione che è il segno della vita del corpo; fa si che il corpo non possa essere inteso esclusivamen- te come minerale.

Per Cicerone, «quanto alla parte [più alta] dell'universo, naturalmente, essa non è che fuoco; ed è la sorgente che comu- nica a tutto il resto il calore salutare e vitale. Concludiamo dunque che, essendo il calore quello che mantiene ciascuna parte dell'universo, tutto l'universo esiste s ì costantemente per quel medesimo; tanto più ch'esso si comunica siff att amente a tutta la natura, che tutta la virtù generatrice dipende da lui [...l. L'universo [...l è animato. Quello dei suoi elementi che tutto penetra e vivifica ha perciò [...l la sovrana ragione» " . In questo senso, lo spirito di fuoco è la parte egemonica del corpo; è il principio dell'ordine.

Il. 1.'EKTE F LO SPIR17L) 7 1.

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La composizione di un principio passivo {la materia) e di un principio attivo (lo spiriro) nel corpo è progressivamente interpretata con l'aiuto defl'opposizione platonica del corpo e dell'anima. Noi assistiamo allora ad uno slittamento fonda- mentale del significato dello spirito. Per il platonismo iI cor- po è passivo, mentre l'anima è attiva. Vi è una similitudine con l'intenzione stoica. Ma la divisione platonica scompone l'unità del vivente in due enti; permette così di rendere con- to della manifesta assenza di vita nelle pietre. Al contrario, per lo stoicismo, ogni corpo ha dello spirito, ciò che conduce ad una sorta di pan-vitalismo, il cui significato non è molto evidente; fatto che provocherà qualche discredito nei confronti di questa dottrina. Quando la tradizione platonica sarà dive- nuta la matrice di qualsiasi riflessione filosofica, l'unione stoica deIla materia e dello spirito nel corpo verrà sostituita dall'op- posizione platonica del corpo e dell'anima. Lo spirito stoico sarà attirato così in direzione dell'anima platonica. Ora, l'anima è aao$s, principio della conoscenza più affinata. Lo spirito diven- ta a quel punto la potenza piti sottile deU'intelligenza.

Nella tradizione bibiica, <<spirito>> traduce mah, il cui signi- ficato originario è materiale, come ii pnezama stoico. Nel Genesi 2 : 7 , per esempio, lo spirito è il soffio di vita senza del quale il corpo dell'uomo non è veramente vivente. Nel primo seco- Io avanti Cristo, ad Alessandria, FiIone prosegue l'armonizza- zione del pensiero greco e del linguaggio biblico, iniziata due secoli prima dai LXX che avevano tradotto la Bibbia; egli vede nel penzkma stoico un equivalente adeguato, a suo dire, della mak ebraica. I1 libro della Sapienza, che proviene verosimii- mente da Alessandria e che è quasi contemporaneo di Filone, testimonia il medesimo sforzo; evoca la stima nelia quale Salo- mone tiene la sapienza che è uno spirito e che, dicono Prover- bi 8 3 0 o Siiacide 243-5, ha presieduto alla creazione dei mon- do; la sapienza, così ail'origine dell'eccellenza di tutto ciò che è, riceve dei tratti divini; «in essa c'è uno spirito intelligente, santo, unico, molteplice, sottile» 22. I1 pneuma significa dun- que la presenza del Creatore al creato; donando il suo soffio alia sua creatura, il Creatore la rende partecipe della sua vita.

72 ri. L'ENTF, F 1.0 S P I K U . ~

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Lo spirito è donato da Colui che è Spirito; f a partecipare il creato alla vita del suo Creatore. Questa partecipazione non è simile ali'identit à formale di sostanze molteplici. Definisce una comunità di vita nella differenza. Significa che l'attività essenziale ldell'uomo segue i1 dono che il Creatore le fa di sé. ex nihilo, senza ragioni. Poiché partecipa di Dio, lo spirito è attivo, ma senza diventare uguale al suo Creatore, poiché ha in sé il Suo soffio, <<la vita e l ' e~seres*~. Lo spirito creato è ciò che è, perché riceve l'essere. I1 dinamismo che lo costi- tuisce è'quello del Creatore; e così co-creatore. 11 vivente par- tecipa al Vivente che dona di vivere e di essere. Questa par- tecipazione delinea lo spazio di un'alieanza che l'immobilità del pensiero greco non permetteva di immaginare. L'afferma- zione ebraica sulla bontà di Dio, che crea donandoci in parte- cipazione, determina effettivamente 1'inteIligenza dello spiri- to; lo spirito, carne vivente, esercita la sua identità nel momen- to stesso in cui si apre a ciò che esso non è e che fa essere in proporzione a quest'apertura.

Parlando di «spirito», noi intendiamo significare che non è solamente l'anima platonica che è vivente, attiva a partire dalla sua oriaine metatempcirale, ma tutto il composto, corpo 9 ed anima, unito attraverso e nello spirito. Lo spirito definisce iI dinamismo dell'ente umano. I1 pensiero greco e il suo retag- gio, a meno di rimanere chiusi nell'immanenza stoica, non per- vengono a mantenere l'unità del composto umano; ammetto- no delle separazioni, cercando poi, ma inutilmente, di riunire ciò che hanno diviso. Il nois 2 così identificato con la poten- za deila conoscenza opposta alla sensibilità del corpo, all'ai- sthèsis. In origine, il no& aveva un senso specificamente intel- lettude, era questo ambiente Iuminoso che <<fa sì che le cose, nella loro staticità, [...I siano esattamente quel che sono in real- tà; invece il pneuma era la forza assai più materiale del moto dell'aria, che per natura sua investe e il soggetto considerante e l'oggetto considerato, li riempie,, 24. Ma ii soffio pneumati- co è stato identificato col n o h , con la potenza più elevata della

I' Afti lli:25 e 28. K~TTFI, C;ron&, LCXSSCO del Nlaotio l'fstnmento, 10, l'aideis, 1975. cul. 3 5 .

rr. T.'ENI,E F L C ~ SPIRI^.^ 73

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conoscenza; questa è divenuta così la potenza egemonica del- l'ente. La tradizione biblica ha potuto salvare l'essenza di ciò che aveva intravisto lo stoicismo, ma che i greci e i loro eredi non potevano veramente comprendere. Noi vorremmo ripren- dere il senso originale del pnetlma come soffio di vita, respi- razione od estasi che manifesta la vita in azione, ed è ricevu- to da un'origine che si effonde.

6) Lo spirito e kr vita

Intendiamo per <<spirito» la totalità dell'uorno, corpo ed ani- ma. L'uomo così unito partecipa ali'origine da cui proviene ogni vita. Lo spirito compie cib che è, esercitando questa par- tecipazione. Essendo estatico, come lo è la sua origine di fronte ad esso, portando a compimento così ii suo stato di parteci- pante, esso è ciò qhe è, reaIizza la sua essenza di «ente>> unico fra tutti gli enti. E così attirato verso un valore: compiere ciò che è donando di essere come ha ricevuto di essere. Eserci- tando quest'attrazione in una maniera estatica, esso è. Non realizza quest ' attrazione solamente meditando sull'origine; la sua estasi è piuttosto un'apertura verso ogni ente, al quale comunica il suo atto di essere, a condizione di alimentare que- sta estasi alla sorgente di ciò che è.

Il dinamismo spirituale non è anzitutto psichico. San Paolo distingue l'uomo psichico e l'uomo spirituale. L'uomo psichi- co, splendido neIl'egemonia della sua anima, si impossessa del principio della propria attività; l'anima vivifica infatti il cor- po senza conoscere altra passività che quella del proprio cor- po. Al contrario, l'uomo spirituale conosce una passività, quella stessa che ne f a un uomo spirituale e che gli dona di essere vivente. Questa passività dello spirito gli permette di fare pro- pria la sorgente dell'attività per mezzo della quale egli porta a compimento ciò che è. Tutto l'uomo, che è spirito, è dina- mico, come se esercitasse così un'inclinazione essenziale ver- so il bene o ii vaiore.

A conclusione di questo capitolo, noi affermiamo l'alleanza dell'ente in generale e di questo ente che è lo spirito. L'ente e lo spirito sono costituiti da dinamismi che li fanno incon-

74 IL. L'ENTE F. 1.0 SPIRJTO

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trare. L'ente o l'esistente sono I'espressione, la proposizione, l'esposizione deli'essere o dell'esistere, di un'origine disponi- bile che si realizza nelle azioni concrete. Fanno apparire una profondità nascosta, che si sveIa in essi; I'ente è così il feno- meno di un atto, la realizzazione di un'azione; l'<<ente» in quan- to <<è». Questa profondità dell'origine è l'interiorità dell'ente; l'ente realizza la venuta in presenza dell'origine, i! suo movi- mento di apparizione, il suo ingresso nel fenomeno; l'origine si esprime in esso. Similmente lo spirito è un movimento, una tensione dinamica; la sua origine è interna ad esso, puresente quando esso esce da sé. Lo spirito è costituito da questo movi- mento di esilio dalla monotona identità di sé. Esercitando l'estasi che lo pone come spirito nei riguardi di tutto ciò che è ed anche nei confronti di ciò che gli dona di essere ciò che è, effettua la sua essenza di spirito; diventa allora un evento fondato ontologicarnente; in ciò, rivela l'origine o il principio.

L'ente e Io spirito sono l'uno e l'altro movimenti di estasi. L'ente è l'estasi fenomenale della sua origine; lo spirito è l'esta- si che f enomenizza l'estasi originaria. Questi due movimenti sono esercitati in un solo e medesimo atto che accorda l'ente e lo spirito; la profondità dell'ente si manifesta nel fenome- no, in cui Io spirito trova la pienezza, provvisoria, ma già com- piuta, di ciò che esso desidera quando lo pensa o lo ama.

Possiamo così proporre la nostra definizione della metaf isi- ca. «Se la metafisica è la scienza del fondamentale, essa appa- re prima di tutto come la rivelazione di sé e la conquista del soggetto puro nell'atto stesso attraverso il quale noi cogliamo Ia vera portata del nostro riferimento all'ente [.,.I. La metafi- sica è allora la ricerca di ciò che è primo, non solamente nel- l'ente stesso, ma nelia nostra situazione dinanzi ad essooZ3. L'atto spirituale si realizza tuttavia in proporzione alla sua alleanza con una donazione dell'essere nell'ente. La metafisi- ca è dunque la scienza dell'alleanza, nella quale l'essere del- I'ente si dona allo spirito e in cui lo spirito accede alla sua identità, essendo orientato dinamicamente verso il fondamento di tutto ciò che è, compreso se stesso.

11. IL'ENTE E LO SPIRITO 7 5

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CAPITOI.~ TEKZO IL METODO IN METAFISICA

Abbiamo visto nel capitolo precedente che la domanda meta- fisica è la pih ampia, la più fondamentale e la più originaria di tutte le domande che l'uomo può porre. L'insieme di que- ste caratteristiche determinano iI metodo che conviene alla metafisica, a questo luogo di allenza in cui si uniscono l'azio- ne dello spirito e la donazione del fondamento. Ci appliche- remo adesso a precisare questo metodo. Metteremo dapprima in evidenza l'essenza dei metodi classici. Sottolineremo poi l'originalità del metodo trascendentale della filosofia moder- na. Spiegheremo in ultimo il metodo riflessivo che guiderà la nostra ricerca.

I . I metodi

Dopo avere spiegato ciò che è un metodo nella sua essen- za, considereremo le diverse forme con le le metafisiche classiche, scolastiche soprattutto, l'hanno applicato, vale a dire l'induzione, la deduzione e l'intuizione.

a) Un metodo

La paroIa r<metodo>r è composta da due termini: meta e odos. Odos è tradotto con «cammino». Meta significa sia «dopo>> o «dietro», sia <(durante» o acons. Nel caso in cui meta significa

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la successione, il. «metodo>> evoca ciò che viene <<dopo# il cam- mino, vale a dire il termine cercato; nel secondo caso, quello della simultaneità, esso indica il cammino «con i> il quale si arriva alla destinazione richiesta. Si intende che, secondo il senso comune, il metodo è il cammino che conduce alla desti- nazione ricercata.

In generale, il metodo scientifico è <<un modo di procedere coerente che viene applicato per raggiungere un fine determi- nato» l . I1 suo cammino si segnala in maniera rifJessa: non esiste un metodo rischioso; esso è fermamente determinato da un progetto che prevede o anticipa idealmente i suoi risultati. Certamente ci può essere del rischio neil'applicazione del meto- do, per esempio quando non è messo in opera con tutto ii rigo- re voluto, o quando i risdtati superano le attese. Tuttavia, di soIito, il ricercatore mette a punto il suo metodo per evita- re giustamente che avvengano degli imprevisti che impedisco- no di ottenere proprio quello che egli richiede. Se insorgono delle sorprese, le analizzerà in maniera metodica per farle rien- trare all'interno del suo progetto, eventualmente ricomincian- do la ricerca con più cura o precisione. Il metodo deve dun- que essere coerente nei riguardi del termine ricercato o del punto di arrivo richiesto. Occorre vigilare affinché i suoi diversi momenti non si contraddicano gli uni con gli altri.

Diamo un esempio facile di ordine tecnico. La camera d'aria della mia bici è bucata; mi accingo dunque a ripararla. Per fare ciò seguirò una successione di fasi tecniche ordinate in funzione dello scopo ricercato. Per rigonfiare il mio pneuma- tico avrò bisogno di strumenti specifici; le mie carte stradali non servono a niente; mi occorrono delie chiavi ad hoc, un pezzo di caucciù, deila colla; rimuoverò prima la ruota dal telaio, poi il pneumatico dal cerchione, ecc. I1 mio scopo non sarà raggiunto se non svolgo le operazioni tecniche seguendo un ordine più preciso; questo determina dunque le mie opera- zioni. Ma le operazioni determinano anche il mio scopo: io ottengo soltanto ciò che produco; se faccio un nodo ai mio pneumatico per impedire au'aria di uscire, avrò un certo risul-

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tato, ma non potrò andare a passeggio con i miei amici! Lo scopo determina il metodo e il metodo lo scopo; vi è una cir- colarità tra questi, ma non si tratta di un circolo vizioso. Pri- ma di aver percorso tutte le fasi del metodo, lo scopo è sola- mente progettato; dopo, diventa reale. Il rnetodo è dunque la mediazione che fa passare un progetto ideale ad una realtà effettiva. La conoscenza dello scopo precede la scelta dello stru- mento, ma è lo strumento che redizza Io scopo.

L'esempio che abbiamo riferito ha I'evidenza delle attività tecniche. La situazione è forse differente quando la ricerca è svincolata daii'esperienza immediata. 11 metodo può allora esse- re applicato senza che il suo risultato sia determinato in anti- cipo e pub condurre legittimamente a ciò che non è previsto all'inizio. E questo il caso della logica formale; se ho due pre- messe vere, mi è sufficiente applicare delle regole precise per sapere se tale conseguenza, inverificabiie ernpiricamente, è vera. Così il. sillogismo «tutti gli uomini sono mortali, ora io sono un uomo, dunque io sono mortale» non potrà essere verifica- to che alla mia morte; se questo ragionamento è giusto, non lo è dunque in seguito alIa mia esperienza immediata, poiché, quando sarò morto, non potrò piti sostenerlo. Similmente, Xa scienza moderna costruisce il suo oggetto progressivamente; l'oggetto del fisico contemporaneo non è più semplicemente iI £atto sensibile, ma la conclusione di formuIe matematiche, che darà luogo ad eventuali verifiche empiriche. La scienza moderna elabora ciò di cui parla in funzione del proprio dina- mismo speculativo.

In filosofia <<metodo e oggetto di indagine vengono posti in discussione in egual modo» I . Questa formula è paradossa- le. Essa significa, da una parte, che la filosofia non ha in un primo momento un oggetto da riconoscere, al quale adattare in seguito il. proprio metodo. Dice anche, d'altra parte, che il metodo della metafisica suppone il suo oggetto.

La prima parte di questa tesi ha numerosi oppositori che vi intravedono segni di idealismo. Nondimeno, quest'apertu- ra o questa indeterminazione oggettiva deI metodo apparten-

I11 IL METODO I N ME'1'AFISIC;Z 73

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gono all'essenza della metafisica. Se infatti la metafisica com- prende la realtà più vasta possibile, quella che include la domanda stessa, il suo metodo è spiegato all'interno di ciò ver- so cui conduce; non porta dunque ad un termine già fissato in anticipo al suo orizzonte. Per accettare questa tesi! occorre evidentemente abbandonare il modello delle scienze presunte oggettive. Dobbiamo tuttavia mantenere quest'affermazione necessaria; iI metodo metafisico non si propone nessun ogget- to che gli sarebbe esteriore; consiste piuttosto nel chiarire o interpretare il dinamismo spirituale nel quale la ricerca del prin- cipio viene esercitata.

Ritroviamo qui la seconda parte della nostra tesi: il metodo è ordinato a segnalare in direzione del suo termine. Si deve supporre che questo termine, non essendo un oggetto, ma essendo ugualmente d a fine del cammino, sia precompreso nei dinamismo della ricerca che si vuole fedele al proprio rigore. II termine non si ritrova in fondo ai cammino, ma ne rischia- ra tutte le tappe, secondo una Iogica che le verifica e le sor- passa tutte. Il metodo metafisico mette dunque in luce il prin- cipio precompreso, vale a dire la donazione dell'essere, stu- diando le diverse modalità mediante le quali l'inclinazione spi- rituale gli risponde. Ques t' affermazione è compresa con diffi- coltà; la scolastica classica le ha opposto resistenza; la filoso- fia trascendentale l'ha adottata.

b) L'zndusione e h deduzione

Non è in nessun caso possibile conoscere veramente senza rispettare le regole della scienza; ora, secondo Aristotele, dei tre procedimenti della conoscenza (induzione, deduzione, intui- zione), due solamente sono accertati scientificamente: la dedu- zione per mezzo di un termine mediato e l'intuizione imme- diata; l'induzione convince meno. Parleremo subito dell'indu- zione, poi della deduzione; tratteremo l'intuizione nel punto successivo.

L'induzione non è un procedimento scientifico del. tutto affi- dabile: comporta alcune difficoltà insormontabiii. Passa dal par- ticolare all'universaie, contraddicendo la legge elementare della

80 111. 1L METODO IK METAPISICA

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logica, per la quale l'estensione delle premesse non può essere superata da quella della conclusione. La sicurezza dell' indu- zione è dunque problematica. Certo è «evidentemente neces- sario che noi giungiamo a conoscere gli elementi primi con l'in-

a2

4 duzione. 1n' effetti, già la sensazione produce a questo modo l'universale>> 3; questo processo non ha tuttavia valore incon- futabile per la scienza; le ricerche moderne sul suo fondamento, o attraverso la continuità nella natura o per mezzo delle abi- tudini psicologiche, indicano sufficientemente che il rigore uni- camente logico ne è insoddisfatto. Inoltre, quando I 'induzio- ne passa dal particolare al generale, anon è affatto un passag- gio dai fatti alla legge, dagli effetti alle cause, dalle cose alla loro ragione^^; essa universalizza senza manifestare in che cosa I'universaie avrebbe una necessità scientifica. L'induzio- ne deve dunque essere eliminata dai metodi che fanno cono- scere i principi primi della scienza; non è degna della meta- fisica.

La scienza moderna è tuttavia induttiva. La scolastica clas- sica che nasce contemporaneamente ad essa, lotta contro que- sta e i suoi principi ipotetici, pretendendo di essere la sola vera scienza possibile. Ritiene infatti che il punto di partenza della scienza non può essere in nessuna maniera ipotetico. Per Aristotele la scienza è dimostrativa; la dimostrazione trae le sue conseguenze a partire dalle sue premesse, chiarendone le relazioni necessarie. Queste premesse sono enunciati certamen- te posti, apremesse vere, prime, immediate, pih note della con- clusione, anteriori ad essa, e che siano cause di essa»r. Il discorso metafisico segue le norme della deduzione; la sua sicu- rezza è fondata sul. fatto che le conseguenze sono intrinseche de premesse; la buona conclusione non oltrepassa mai la misu- ra delle sue cause; quanto a queste, poiché la metafisica pre- tende la maggiore generalità, saranno le più generali. La dedu- zione rifulge così di uno spIendore evidente su ogni prova razionale.

A~rsrwr~:rw~., Secondi Analitici I1 19, 10Ub. M. LE BLUNU, Logrque et méthod~ chcz Anstofc,, p . 126. ARISTOTELE, .SecunJi Arialitzci I 2, i l h .

TlT. 11. METOFIO IN METAFISICA 8 1

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Chr. Wolff è un rappresentante tipico della scolastica dedut- tiva. La sua riflessione comincia dalla logica, dottrina neces- sariamente preliminare all'enciclopedia delle scienze; la logi- ca, che è fondata sul principio di non-contraddizione, stabili- sce le forme sicure del discorso razionale in genere. Seguono le scienze razionali teoriche, divise in metafisica generale o ontologia e metafisica speciale o teodicea (Dio), psicologia (uomo) e cosrnologia (mondo). Vengono in seguito le scienze razionali pratiche (diritto naturale, etica, politica, economia), poi le scienze empiriche teoriche (psicologia empirica, teleolo- gia, fisica teorica), e in ultimo le scienze empiriche pratiche (tecnologia, fisica sperimentale).

Fermiamoci all'oncologia, in cui <<occorre seguire il metodo dimostrativo* h . Come regola generale, la dimostrazione uti- lizza <(come premesse [...l delle definizioni, delle esperienze indubitabili, degli assiomi e delle proposizioni già dimostra- te». Ora, la filosofia prima non può fare ricorso au'esperienza o aile proposizioni già dimostrate ~ e r c h é , appunto, essa è pri- ma; ii suo solo punto di partenza Iegittimo si trova dunque nelle definizioni ed assiomi. Le si attribuisce dunque questo oggetto che è ii piti generale possibile: ens in genere, seu qtla- tenus ens est7, la cui definizione è esplicitata riprendendo del- le determinazioni aristoteliche, ma nel quadro di una logica prima. L'ontologia è prima <<perché tratta dei primi principi e delle prime nozioni che si utilizzano nei ragionamenti),. A questo punto il piano dell'ontologia è evidente:

I. La nozione dell'ente in generale delle proprietà che ne seguono.

a) I principi della filosofia prima I , I1 principio di non-contraddizione 2. Il principio di ragione sufficiente.

La scolastica wolfiana ha fatto della metafisica una scienza logica; essa mantiene saldamente la forma siliogistica e la sua validità racchiusa nei suoi principi e nelle sue definizioni con-

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che è immune da ipotesi, al principio di tutto; L , . . ] e così [discende] d a conclusione senza assolutamente ricorrere a nien- te di sensibile, ma alle sole idee, mediante le idee passando alle idee; e nelIe idee termina tutto il processo» l o . La dialet- tica discendente va dunque di forma in forma, deducendole le une dalle altre, mediante l'analisi delle loro implicazioni mutue, sotto la spinta della necessità della ragione che non trova nella costituzione di un'essenza le condizioni sufficienti della sua meditazione; la riflessione filosofica si allontana così dal principio affermando ciò che la rende intelligibile. Ma per fare questo, essa deve ricorrere a delle esperienze che non sono immediatamente quelle del. principio pensato nella sua origi- ne. I1 Sofista deduce così <<riposo>, e «movimento>> dalla consi- derazione dell'«ente>i. Allo stesso modo i1 Pammide separa la forma «uno» dalla forma <<essere>>, meditando suUa proposizione <<l'uno è>>; analizzando la convenienza così come la disgiunzione di queste idee dell'c<uno» e dell'<cessere», Platone conduce a pensare che se <<uno» è e se «essere>> non è semplicemente «uno>>, «essere» non è. Una tale dialettica, muovendo da essen- ze semplici, stabiiisce gli elementi razionali che vi sono impli- cati dalla loro struttura immanente di intelligibilità. Ma que- sto procedimento rende problematica la consistenza reale del principio, nella sua apparente semplicità essenziale. Per que- sto motivo Parmenide non può sfuggire al c<parricidio».

La dialettica scolastica e la dialettica discendente hanno aspetti simili. LI processo platonico rischiara il principio median- te ciò che segue la sua intelligibilità, a costo di abbandonarne la purezza originaie; la deduzione scolastica non può avere una conclusione piti ampia delle sue premesse e non accoglie dun- que la molteplicità del reale che tradendo i1 suo rigore. Ogni volta, il principio, posto a1 punto di partenza, è progressiva- mente riletto ed interpretato in ciò che non è. Quando i filo- sofi scolastici abbandonano la purezza del principio accogliendo la realtà che ne è differente, quando cercano di mantenere, nonostante tutto, il principio, ma interpretandolo in funzione

84 111. IL METODO IN hIE'rAFIS1t:A

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di ciò che gli fa resistenza, presentano maggiori affinità con Platone che non con Aristotele.

La pretesa della metafisica di seguire un metodo unicamen- te dedutriyo è vana; non è d'altronde mai rispettata in tutto il suo rigore ideaIe. La metafisica non può tuttavia rifiutarci di garantire le particolarità dei nostri punti di vista alla luce deli'universaie. I1 problema deli'articolazione del particolare e dell'universale le è essenziale.

I1 principio primo, in quanro primo, non può essere dedot- to; infatti, la conclusione dedotta discende dalle sue premes- se; ma se il principio è primo, non può seguire da ciò che lo precederebbe. Non può neanche essere indotto, tratto dal mol- teplice per via di generaiizzazione. Poiché non può essere a posteriori nell'una o nell' altra maniera, né essendo dedotto, né essendo indotto, dev'essere a priori. I! problema della cono- scenza del principio pih universale e fondamentale sembra così ricevere una soluzione dall'intuizione, iI terzo dei metodi scien- tifici. Non lo può con l'aiuto degli altri due metodi ricono- sciuti da Aristotele; deve inoltre essere conosciuto a partire da se stesso a priori, senza altra mediazione dl'infuori di sé.

L'intuizione intellettuale qui evocata dev'essere distinta dal- I'intuizione sensibile. L'intuizione sensibile va verso questa o quella cosa sensibile. Ma il fondamento non è soltanto sensi- bile; se il sensibile ne fa parte, non ne esaurisce il genere. Tut- tavia, per Aristotele, l'intuizione sensibile è interamente pas- siva; l'intuizione del principio, che dipende dal nois è ugual- mente passiva, poiché ogni intuizione 10 è. La differenza tra l'intuizione sensibile e l'intuizione intellettuale non si trova dunque nella Ioro struttura di passività o meno, ma piuttosto in ciò: l'intuizione sensibile tende verso qualche oggetto este- riore che precede l'intuizione, che è a priori; ora, il principio primo non è un oggetto che I'intelletto dovrebbe soltanto rico- noscere; l'intelletto è nel principio universale. L'occhio non si intuisce da se stesso, ma intuisce qudche cosa d'altro, mentre il principio integra colui che Io <<vede», poiché è universale;

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il significato del principio non è senza colui che vi tende. Chi intuisce ii principio non lo può dunque fare alia maniera del- l'occhio.

Si deve forse dire che il principio intuito intellettualmente non sia a priori? L'a priori del fondamento non fa che esso sia posto indipendentemente dd ' a t to che vi tende. L'intui- zione intellettuale è modellata al ritmo di questo atto, nella misura in cui si riconosce che questo atto non ha in sé la ragio- ne del suo dinamismo che esso esercita in risposta ad un'at- trazione. Per questa ragione, noi diciamo che l'intuizione intel- lettuale connota la riflessività; essa scaturisce daila riflessione dello spirito sul suo atto. Se l'intuizione implica I'aiterità del suo oggetto, il primo principio non può essere intuito, poiché non è un'dterità oggettiva. Ma se la riflessività è immanente all'intuizione intellettuale, allora il termine "intuizione" può essere mantenuto, sia pure con prudenza. 11 metodo metafisi- co non è dunque né induttivo, né deduttivo, a rigor di termi- ni; è intuitivo, ma a condizione di comprendere riflessivamente questa intuizione. Ed è ciò che il metodo trascendentale ten- terà di precisare.

2. 11 metodo trascendentale

Il fondamento che cerca la metafisica non è offerto all'in- tuizione dello spirito come un oggetto disponibile per un'ana- lisi formale. Indubbiamente, lo spirito non vi accede senza por- lo come un tema di meditazione, ma non lo fa senza spiegare internamente a questo tema il movimento che lo porta verso di esso. La metafisica non nasce daila considerazione deile for- me astratte o delia nozione dell'ente, ma dal movimento che si riconosce interno a questa forma o a questa nozione. La metafisica spiega dunque ciò che è celato nell'interrogazione più ampia, profonda ed originaria dello spirito. Essa manife- sta ciò che vi è velato, non fissando la sua attenzione suli'og- getto della questione, ma sulle condizioni di possibdità deIla domanda in quanto orientata verso ciò che la trascende e che già l'accoglie.

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a) L 'Bmplicit~ e l'esplicito

Ii metodo trascendentde va dall'esplicito d'implicito; regre- disce daila domanda metafisica verso ciò che la rende possibi- le, l'alleanea in cui si congiungono il movimento reale dello spirito e l'avvento spirituale dell'ente. L'implicito così libera- to non dipende daila psicologia empirica; questa è fattuale, descrittiva, non può aspirare di diritto aIl'universaljtà assolu- ta. Il metodo metafisico non può essere descrittivo in questa maniera. E anche molto diverso dalle scienze che enunciano a posteriori le leggi dei fatti osservati o che si appoggiano su nozioni a priori come gli assiomi matematici. L'ente e io spiri- to sono infatti presenti l'uno all'altro in un'alleanza comune che situa il luogo del metodo al di sopra delle descrizioni ogget- tive dei fenomeni. Fatta eccezione per questo luogo in cui lo spirito è impegnato necessariamente, il metodo metafisico non potrà essere applicato, poiché non potrà più riflettere suU' al- leanza in cui si pone la domanda fondameritale.

Si intende per <(trascendentale>> ciò che concerne la condi- zione di possibilità degli atti ragionevoli. I1 metodo trascen- dentale consiste dunque nel chiarire le condizioni di possibili- tà della domanda metafisica; senza di ciò una t d e questione non potrebbe essere prodotta secondo la sua originalità, che consiste nell'essere la domanda in cui lo spirito gioca il tutto del suo essere, perché poggia sul tutto dell'essere. In Kant, il metodo trascendentale ha un impatto essenzialmente episte- rnologico; in Heidegger e Blondel, che esamineremo tra poco, è molto più ampio, in maniera del resto che questo termine non convenga loro senza legittime contestazioni. Noi adot tia- mo questa terminologia in quanto significa la ricerca di ({con- dizioni di possibilità>> dell'attività umana, che non limitiamo come Kant al dominio del sapere, ma che intendiamo in tutta l'ampiezza che le riconoscono i due autori appena citati.

I1 metodo trascendentale diventa così fenomenologico. I1 metodo fenomenologico, proposto da Husserl, cerca di mette- re in evidenza l'essenza dei fenomeni; procede mediante descri- zione, come ogni scienza, ma con un'esigenza propria: si trat- ta di trovare ciò che costituisce il fenomeno come tale, ciò in nome deI quale esso appare allo spirito, le condizioni di POS-

sibilità che lo rendono un fenomeno per lo spirito. La feno-

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menologia di Husserl non si accontenta dunque di uno studio oggettivo del fenomeno, ed è questa la ragione per cui l'inte- resse del filosofo di Friburgo per la soggettività andrà aumen- tando, mentre egli proveniva da studi di logica e di geometria.

Con il suo discepolo Heidegger, la fenomenologia di Hus- serl è profondamente modificata ed il suo campo si estende. Lo spirito pone Ia sua domanda intorno al principio nella sua pratica fenomenale. La conoscenza del principio non è data dunque ignorando il suo svolgimento attraverso i fenomeni; questi mediano lo spirito verso ii fondamento ed il fondamento verso lo spirito. I1 metodo fenomenologico non si accontenta perciò di analizzare delle essenze ideali, quali l'idea di ente. Ritrovando dimensioni trascendentali, la fenomenologia di que- sto xx secolo si interessa ai molteplici impegni delio spirito per scoprirvi il legame che li organizza al loro interno, orien- tadoli progressivamente verso il fondamento.

Nei primi paragrafi di Essere e tempo, Heidegger insiste SUI- I'articolazione del dinamismo deIlo spirito (chiamato Dasein) e del fondamento degli enti. Quest ' articolazione è analizzata grazie ad una fraseologia originale, divenuta oggi classica, e da cui noi estraiamo queste due caregorie: I'esisfentivo e I'esi- stenszale. L'esistenziale indica il piano del fondamento; è acces- sibile attraverso il mondo dei fenomeni, dell'esistentivo. LI fon- damento esistenziaie è il fondamento dei fenomeni esistenti- vi, mentre il fenomeno non è a fondamento del suo fonda- mento. Come cogliere il fondamento come fondamento, in sé primo e secondo per noi, nei fenomeni che fonda e che sono per noi primi, ma secondi per esso? Occorre innanzitutto con- siderare il fenomeno come fenomeno; il fondamento non dipen- de evidentemente dai fenomeni, poiché li fonda; vi si accede tuttavia meditando su di essi. «I1 problema intorno [alla strut- tura ontologica deli'esistenza] mira [...l alla discussione di ciò che costituisce l'esistenza. All'insieme di queste strutture dia- mo il nome di esistenzialità. L'analitica di essa non ha il carat- tere di una comprensione esistentiva, ma quello di una com- prensione e~isfenziale>> " .

; l M. IIEIDEGGLR, LSSCW C tempo, p. 2'1.

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La maggior parte di Essere e tempo è dedicata all'analisi esi- stenziale del Dasein: r<ZI compito di un'analitica esistenziale del

% [Darein] è predelineato, quanto alla sua possibilità e alla sua p i<, necessità, ?ella costituzione ontica del EDascknl 1 2 . Ciò sembra

fare di Essere e tempo un'antropologia metafisica. Ma quest'ap- parenza inganna sulle intenzioni e sul metodo del filosofo della Foresta N&; l'analitica esistenziale non è un'analici esisten- tiva. Al livello esis tentivo, l'antropologia è una scienza urna- na, positiva e simile alle scienze naturali. Ma la ricerca esi- stenziale inserisce l'esistentivo in una riflessione che tende più in alto, verso la sua condizione di possibilità come esistentivo sensato. Per questo motivo la riflessione heideggeriana non può essere una semplice descrizione dei fenomeni deu'esis tenza; essa include un'analisi trascendentale. Infatti, <(in quanto l'esistenza determina [il Daseirt], l'analitica ontologica di questo ente richiede sempre una considerazione preliminare dell'esisten- zialità. Ma questa è da noi intesa come la costituzione d'esse- re deil'ente che esiste. Ma neli'idea di una costituzione d'es- sere di questo genere, si trova già l'idea dell'essere. Di conse- guenza, anche la possibilità dell'espletamento deli'anditica deI [DaseHaa] viene a dipendere dalla elaborazione preliminare del problema del senso dell'essere in generale* 13.

Non si accede tuttavia al piano esistenziale senza passare attraverso i fenomeni esistentivi; I'esame della domanda onto- logica non si accontenta di analizzare delle nozioni; assume il suo punto di partenza nel vissuto dell'esistenza e si compie rivelando l'articolazione di questo vissuto ai suo fondamento. <<Ma l'analitica esistenziale, da parte sua, ha, in ultima anali- si, radici esistentive, cioè antiche. Soltanto nel caso che l'inda- gine propria della ricerca filosofica stessa venga esistentiva- mente afferrata come una possibilità di essere del [Dasein] esi- stente, sussiste la possibilità di un aprimenta dell'esistenziali- t i dell'esistenza e, con ciò, la possibilità di affrontare una pro- blematica ontologica sufficientemente fondata>> 14.

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Numerosi filosofi cristiani hanno inserito le loro ricerche in questa problematica; alcuni teologi, come K. Rahner, che distingue il livello categoriale (esistentivo) e il trascendentale (esistenziale), ne hanno anche tratto ispirazione. Ciò che dice Heidegger, infatti, fa parte del bene comune della filosofia, ma con degli accenti che hanno oggi maggiore risonanza. La filosofia contemporanea è un'interpretazione dell'esistenza o degli atti umani, un'errneneutica che incrocia il fenomeno e il suo fondamento.

Una tale cùcolarità è classica. Se un'deanza definisce il rap- porto del fondamento e del Dasein, la questione del fonda- mento non può ignorare I'impatto antropologico deiia sua posi- zione. <<L'essere non è né una cosa esteriore né una idea posta di fronte allo spirito [...l. L'essere è ciò che, negli oggetti e nel soggetto che li pensa, fa sì che essi siano T...; esso è1 l'atto dell'oggetto al quale ci accorda la nostra attività affermante. Dunque, è attraverso tale attività che ci sarà dato di afferrare l'essere veramente dai di -dentro. Lo spirito trova in se stesso l'essere per due ragioni: in quanto è un essere e in quanto che, essendo spirito, è relazione vivente d'essere, apertura all'es- sere» 15. Dal momento che l'interiorità ontologica è reciproca tra lo spirito e il fondamento, <d'antologia non consiste nel- l'immobilizzarsi nella constatazione di questa presenza. Essa cerca di esplicitare ciò che viene necessariamente dato in questa presenza [. . .] facendo uso dei concetti tratti dall'esperienza degli [enti]. Per questo motivo il rnetafisico, che intende par- lare soltanto dell'essere, parlerà, di fatto, di molte cose e ter- rà gli occhi ben aperti sui mondo attraverso il. quale l'essere gli manifesta la propria ricchezza» 16.

La fenomenologia di Blondel può essere comparata a quella di Heidegger; la sua Action del 1893 non ne conosce eviden- temente le categorie deIl'esistentivo e dell'esistenziale; queste

' 5 J , nF. P ~ A N C E , Conorc~nza ddl'essere. p. 13 . Pcr Nesseren si devc intendere afonda- menton.

In . , p. 14.

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le sono posteriori, ma l'articolazione che significano non le è estranea. Il dinamismo del Dascin secondo Heidegger non è una cosa del tutto diversa da quello della volontà volente di Blondel; I'pno e l'altro spiegano infatti la totalità deu'espe- rienza umana.

L'analisi blondeliana è svolta progressivamente, mettendo in evidenza Ia volontà volente che tende verso la realizzazio- ne di un desiderio rivelato nel corso delle nostre esperienze umane, mentre la volontà voluta compie questo slancio in manier'a particolare. Lo slancio della volontà volente o ii desi- derio fondamentale dello spirito provoca nello stesso tempo tutte le sue realizzazioni volute e le supera. La relazione tra la volontà volente e la volontà voluta è precisa; questa si ali- menta di quella che le dà il suo slancio e di cui essa è l'espres- sione e jl collegamento, senza esaurirne mai l'ampiezza tota- le. La volontà volente è in un certo senso compiuta ad ogni fase voluta, ma senza poter essere appagata d d e sue opere particolari. L'inadeguatezza tra la volontà volente e la volon- tà voluta è individuata nelle opere umane; il riconoscerla con- duce l'analisi da uno stadio della vita delio spirito ad un altro, seguendo un accrescimento finalizzato al riconoscimento del- l'ampiezza trascendente della volontà volente; questo ricono- scimento ha delle condizioni determinate che non esaurisco- no il desiderio neIl'acquisizione di ciò verso cui tende. L'in- soddisfazione del suo fenomeno particolare rivela aIla volontà volente la sua ampiezza inappagata. La conoscenza dell'azio- ne che potrà esaudirla interamente, fa c<opzione>>, è elaborata a partire dai fenomeni, la cui successione è rivolta in direzio- ne di questo termine.

Alla fine della sua prima opera, BIondeI parla di <<una spe- cie di Metafisica alla seconda potenza* l' che indica un pro- lungamento della sua riflessione e determina il significato del percorso portato a termine; questa metafisica alla seconda potenza fonda {(non solo quello che una prima metafisica ancora tutta [soggettiva] ci presentava a torto come la realtà stessa dell'essere, mentre t...] era una semplice veduta dello spirito

17 M. BLONDEL, L'azione, p. 337

KJI. TI, METODO TN ME'I'AFTSICA 91

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o un fenomeno speculativo, ma tutto il determinismo delia natura, della vita e del pensiero» '5 Il campo coperto dall'o- pera del 1873, se è quello della metafisica alla prima potenza, sembra dunque sul momento, che sia racchiuso nella sfera della soggettività; ma non lo è affatto.

L'azione si applica in maniera privilegiata al movimento della volontà soggettiva per opporsi alla mentalità di «positivismo, fenomenismo, criticismo [che imponevano] alla maggioranza degli spiriti il rifiuto di ogni metafisica, o almeno una profon- da diffidenza nei suoi riguardi* 19. Occorreva dunque nello stesso tempo restaurare la possibilità deil'affermazione dell'as- soluto e mostrare la sua incidenza soggettiva nell'affermazio- ne delle scienze e nella costruzione delle nostre società. Que- sta meditazione sulle opere del soggetto non limita Blondel nei problemi dell'«io». Di fatto, la tesi del 1893 svolge il suo movimento all'interno di quella che noi abbiamo chiamato l'al- leanza degli atti dello spirito e dell'ente. I1 modo di condurre l'affermazione deli'essere, a conclusione della tesi, conferma questa prospettiva. Non vi è in Blondel interesse per ii sog- getto isolato dal suo impegno reale.

Di qui il. piano de L'action. Dopo aver mostrato la necessi- tà di porre la questione del senso della vita (1 "arte) e la necessità di trovarvi una risposta positiva (2 a parte), BlondeI analizza gli ambiti del sapere e dell'agire umano (3 a parte). Egli conduce così i suoi lettori, attraverso le diverse configu- razioni deilo spirito o i fenomeni del suo dinamismo, a rico- noscervi delle espressioni in cui la volontà voluta tende ad egua- gliare in maniera sempre piii adeguata la volontà volente.

I1 primo fenomeno dello spirito impegnato nella ricerca di una risposta positiva al senso della vita è, per il fiIosofo, la scienza. Questa preminenza è necessaria, la faremo nostra, poi- ché il fiiosofo non può introdurre la sua meditazione senza analizzare le possibilità della sua espressione, confrontandole con le esigenze contemporanee dei discorsi razionali. La sua opera, che utilizza gli strumenti della razionalità e della logi-

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ca, che è infhenzata dall'impatto della scienza sulla sua CUI- tura, deve cominciare accertandone gli strumenti di espressione. Una volta condotte a termine le analisi che fondano le scien- ze in un dinamismo che esprimono a loro modo, una volta rico- nosciuto cxe il tutto della metafisica o deil'esigenza dei censo non è spento dalle loro affermazioni e dalla verifica della loro legittimità empirica, si afferma che la scienza non è la misura deu'essere, ma che l'essere è la luce del suo senso. La scienza è così limitata senza che la sua eccellenza sia disprezzata. La sua fondazione è garantita da un'esigenza che la conduce e la supera, quella del suo senso. Segue lo studio degli altri feno- meni dello spirito, della sua libertà personale, del suo impe- gno nella società e nei confronti dei valori più alti. L'ultimo aspetto di questa ricerca è costituito dall'c<opzione» (4 " parte).

Il senso di ciascun fenomeno è allora affermato riconoscen- do la tensione che li attraversa e che li oltrepassa tutti. «Tut- to che s'è chiamato dati sensibdi, verità positive, scienza [sog- gettiva], crescita organica, espansione sociale, concezioni morali e metaficiche, certezza dell'unico necessario, alternativa ine- vitabile, opzione mortifera o vivificante, compimento sovran- naturale dell' azione, affermazione delI'esis tenza reale degli oggetti del pensiero e delle condizioni della pratica, tutto è ancora fenomeno per la medesima ragione» Tutti questi elementi <(partecipano a una sola e medesima necessità ipote- tica [e. ..l non sono ancora che forme d'un medesimo bisogno interiore» ", esigenze dell'azione. «Così, da un capo all'altro, la filosofia si limita a considerare ciò che appare, ciò che si manifesta aIla coscienza, in vista di rilevarne le connessioni necessarie. Anche quando prende a trattare finalmente il pro- blema ontologico, registra ancora soltanto una necessità. La filosofia, secondo I'autore de L'action, non afferma l'essere: mostra che noi l'affermiamo necessariamente ed indica a qua- li condizioni I'affermiamo convenientemente. Al cuore stesso del l 'ont~lo~ia, essa resta fenomenologica>> z2. La logica che coIlega i fenomeni è in ultimo confermata dall' affermazione

, ,, 2' In., p. 328. 22 II. BOL~LLAXD, Blundel et /t chrislirinisw~~, p. 169

I11 1L METODO 1N METhFISlC;1 93

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antologica (5 a parte), che resta tuttavia ancora da pensare per se stessa, ciò che faranno, sembra, gli scritti successivi, soprat- tutto quelli che saranno pubblicati da Blondel intorno agli anni 30.

L'affermazione ontologica nasce all'interno dell'analisi dei fenomeni, quando essi sono colti a partire da ciò che li unisce in maniera necessaria e continua. La successione dei fenome- ni è tematizzata progressivamente; tutti provengono da un'i- nadeguatezza tra la volontà voluta e ciò che le è consentito praticamente di realizzare. Il passaggio da una fase d a seguen- te, da un fenomeno ali'altro, scaturisce dall'esigenza che era all'origine del fenomeno precedente. Al termine del percorso, l'affermazione ontologica suggella e fonda l'insieme di questa progressione. Uno sguardo retrospettivo riconosce allora cia- scuna fase all'interno del fondamento. A questo punto, nella 5" parte, i fenomeni analizzati non sono più intesi come feno- meni di una volontà che potrebbe bastare a se stessa. Essi appaiono in realtà come fenomeni del fondamento al quale lo spirito si riconosce da sempre in accordo e al quale si vuole delibera tamente legato in ciascuna deile sue operazioni, sopra t- tutto, alla fine, <{optando» positivamente in suo favore, vale a dire accettando che sia per noi ciò che è in sé.

I1 metodo fenomenologico non si accontenta di descrivere i fatti del17esistenza o i fatti del. pensiero; ne cerca ii senso; manifestandone le condizioni di possibilità. Queste condizio- ni non sono, come in Kant, solamente di ordine conoscitivo; sono innanzitutto di ordine metafisico. Vi si accede ritornan- do ai vissuto per liberarne ii fondamento interiore grazie ad una riflessione s d a sua pratica e la scoperta di ciò che la supe- ra. In questo senso, il metodo fenomenologico è trascenden- tale, ma di una trascendentalità riflessiva.

3, Il metodo riflessivo

L'intelligenza dei fenomeni e queIla del loro fondamento si richiamano a vicenda, in modo che il filosofo possa scoprire il fondamento analizzando i fenomeni secondo la forma la prson

94 I11 IL MF.TODO 1N METAFISICA

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del loro principio, in altri termini la potenza che li unifica. Ciò non suppone che il fondamento sia precedentemente cono- sciuto in maniera evidente; il principio, problematico, non può essere assunto come premessa di analisi; sulla soglia di que- sta, non è 'conosciuto in sé. Ma la domanda metafisica non sarebbe un punto di partenza se non fosse orientata fin dall'i- nizio verso ciò che unifica la nostra esperienza. Dobbiamo dun- que affermare che se iI principio non è conosciuto all'inizio delia ricerca, è almeno necessariamente precompreso. L'impe- gno filosofico consiste allora nel passare da questa pre- comprensione del principio alla sua comprensione.

a) Una precomprensione

La conoscenza comincia di fatto con I'accogIiere l'esperien- za sensibile; ascende in seguito verso il principio di questa espe- rienza. L'ascesa è possibile se il principio si irradia nel sensi- bile in cui scopriamo la sua traccia; benché sia il meno cono- sciuto in sé all'inizio deil'esperienza, noi saliamo ad esso affin- ché divenga il più conosciuto in sé. L'arte filosofica consiste nel ritrovare i1 principio, nello stesso tempo immanente all'e- sperienza immediata e trascendente. Nel momento in cui il principio si propone ne1 fenomeno, il metodo filosofico ve lo ritroverà secondo la sua forma essenziale, che è Ia sua poten- za di unificazione. Questa potenza di unificazione non è una forma astratta; è molto precisa: organizza l'esperienza dando- le un'apertura radicale verso ciii che nulia di essa può colma- re, ma che ne condiziona I'inteliigenza.

Il nostro metodo sarà riflessivo. La parola crriflessivo» vie- ne dal latino reflectere che significa letteralmente <(ritornare indietro». Tramite il metodo riflessivo lo spirito fa <(ritorno [...l suila propria attività per risalire ai principi che la costi- tuiscono o la spieganofiz3, vale a dire per liberarne le condi- zioni di possibgità. Ciò suppone dunque che queste condizio- ni siano conoscibiii e che il fondamento possa essere cono- sciuto.

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Ma stanno così le cose? Le scienze sono racchiuse nei loro principi formali; esplorano i loro campi d'azione, facendo atten- zione a non superarli, grazie alla rigidità dei loro metodi; esse non introducono nessun discorso valido senza stimare prece- dentemente la sua portata e i limiti della sua validità. Se la metafisica si vuole simile alle scienze, deve precedentemente determinare il suo spazio. Ora, il suo spazio è illimitato. La metafisica non può dunque delimitare il suo dominio alla maniera delle scienze. Poiché il suo oggetto è senza limiti, essa non conosce né un punto di partenza delimitato, né dei prin- cipi che possano riservare al suo studio un aspetto della nostra esperienza. Di fatto il discorso metafisico comincia senza che nulla possa predeterminarlo.

Ma questa esigenza non ci fa girare a vuoto? Poiché la meta- fisica va verso il fondamento, non può appoggiarsi su questo. Infatti, se interroga nella sua direzione, in cui tutto però vi è originato, tutto presupposto è già d'orizzonte della domanda, nel fondamento. Ogni presupposto della metafisica è al suo termine, e il suo termine è già presupposto. Cosi dunque, il cammino della metafisica non può teoricamente avere delle segnalazioni, poiché, idealmente, è spiegato all'interno del fon- damento.

L'ideale di un cammino metafisico privo di ogni limite anti- cipativo è di fatto prodotto da una precomprensione irrifles- siva dell'essenza della domanda metafisica. Esso proviene infat- ti dd'opinione secondo cui il sapere vero è deduttivo; i! ragio- namento metafisico dovrebbe dunque essere dedotto da pre- messe che si ritengono a quel punto assolutamente universali. I fenomeni e i loro limiti iion vi possono avere alcun ruolo. Ma pretendere che la metafisica possa iniziare muovendo da una premessa assolutamente universale è un postulato. Que- sto postulato suppone infatti che ii principio universale possa essere interamente consegnato allo spirito, come un oggetto ideale «in sé,, senza che Io spirito ne partecipi alla costruzio- ne, seguendo la sua esperienza. Pretendere di accedere diret- tamente al principio universale, come se non se ne avesse nes- suna comprensione segnata dall'e~~erienza fenomenale, fa di nuovo pretendere che questo principio debba essere accolto

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nelia sua oggettività pura da uno spirito totalmente passivo. L'esigenza di un'assenza completa di atto spiritilale nel cogliere il fondamento segue il postulato secondo il quale solo la pas- sività dello spirito è capace di comprenderlo, 6 secondo il cl;ale l'apriorità del principio ne costituisce la realtà significante. È evidenze che una tale disposizione dejla metafisica, legata al postulato della deduzione formale, ne ignora la domanda e sol- lecita delle affermazioni che dovrebbero essere maggiormente fondate.

La critica al postulato della deduzione formale, che mette Io spirito fra parentesi, f a scoprire uno dei tratti fondamenta- li della metafisica. Questa non medita sul significato formale di un principio universale, ma riconosce, nella costituzione di questo principio, iI dinamismo dello spirito che tende verso ciò che unifica il diverso dell'esperienza. Ne consegue che, in un primo passo, quando l'analisi scientifica asserisce di essere interamente oggettiva e «regredisce di oggetto in oggetto, l'ana- lisi filosofica regredisce dagli oggetti al. soggetto, e dall' io- oggetto empirico al soggetto trascendentale spirituale: per esem- pio, dagli oggetti respinti nel dubbio al cogito che dubita, dagli oggetti conosciuti alle condizioni soggettive trascendentali della conoscenza, dagli oggetti voluti alla volontà volente}>24. L'analisi riflessiva s i presenta così come una retromarcia che va dall'esperienza a ciò che vi è implicato, dall'azione verso l'atto; essa va verso il fondamento esercitato implicitamente nell'esperienza manifesta, spiegandone le condizioni di intel- ligibilità secondo la norma dell'universale. «Un metodo di implicazione in filosofia sarà iin procedimento che cerca cib che significa, ciò che vuol dire un dato di coscienza, vale a dire quali presenze oscure e nascoste possano essere realizza- te da queste presenze date, prendendo così coscienza esplici- t a di queste realtà interiori implicite. Il dato attualmente pre- sente alla coscienza, poiché non è sufficiente, suppone, richiede un'altra cosa, virtualmente, ma non attualmente, presente alla coscienza)> 2 5 .

'4 J. VIAI ATOUX, L'intetztiori phibsophiqire, p. 65 2' ID., pp. 63-64.

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La critica alla deduzione formale non ci chiude nel suo oppo- sto, come se l'analisi dell'atto soggettivo, soprattutto deila coscienza chiara, basti ad illuminare il fondamento. Questo è infatti a priori; noi non ne prendiamo coscienza al termine del nostro procedimento, ma seguendo il suo percorso, come ciò che lo dispone e lo rende coerente. La ritorsione indica come questo a primi può essere scoperto al centro della nostra esperienza immediata.

b) La ritorsione

La metafisica prende il suo slancio a partire dall'esperienza dell'unificazione del conosciuto che è impegnata neUa cono- scenza di qualunque presente immediato e che culmina in quella del fondamento. Le prime parole della Metafisica dichiarano che <<tutti gli uomini sono protesi per natura aila conoscen- za». Questo desiderio incontestabile suppone che vi sia qual- che cosa da conoscere che si crede di poter conoscere. Di fat- to, noi sappiamo che questo ente qui, una cosa qualsiasi sul mio tavolo da Iavoro, è presente davanti a noi, che la sua pre- senza è significante, che questa significazione è intelligibile. Non sappiamo ancora di che cosa questo ente è significante, ma sappiamo che la sua presenza è apportatrice di un signifi- cato che la nostra intelligenza può accostare. Ugudmente, senza sapere già se questo procedimento condurrà ad un risultato definitivo, sperimentiamo che vi sarà un risultato. Tutte que- ste asserzioni chiariscono l'esperienza del sapere sperimenta- to nella più semplice delle nostre affermazioni; non descrivo- no un esercizio occasionale dello spirito, ma una necessità ine- rente al suo esercizio banale.

Lo si prova per mezzo delia ritorsione, in modo che il fatto descritto sia immediatamente riconosciuto come un diritto che obbliga in assoluto. Rifiutare infatti che un esistente possa esse- re significante, è accettare al tempo stesso che l'affermazione di questo rifiuto sia, che abbia un significato e che il suo signi- f icato sia intelligibile. Se l'obiettante nega l'intelligibilità del- la sua obiezione reale e del suo significato distrugge ciò che rende la sua obiezione efficace. In tale maniera, annulla la sua

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affermazione. Questo annullamento manifesta la contraddizione exerczte, in atto, deiia sua obiezione.

La necessità che abbiamo chiarito è propria della fjiosofia. Con un rnltodo regressivo di implicazione, la -cui ritorsione è un' applicazione privilegiata, essa manifesta ciò che è neces- sario all'attività spirituale, al di Ià dell'esperienza immediata della sua realizzazione. I1 nostro esempio ha mostrato una necessità interna d'obiezione che rifiuta che la mia proposi- zione sia sigdicante ed intellrgibile. Ciò che è necessario aii'at- to del giudizio può essere preso in considerazione fuori del suo esercizio; ne segue una contraddizione internc tra l'espo- sizione effettiva, &fat to , del giudizio, e ciò che di diritto ren- de questa esposizione possibile. La ritorsione non chiarisce qualche cosa che sarebbe <<dietro>} d 'ente ; non scopre un fon- damento che potrebbe essere una causa in quaiche modo empi- rica. Mette piuttosto in evidenza le condizioni di possibilità dell'esercizio spirituale analizzandone le condizioni e stabiIen- done la struttura.

La ritorsione mostra che ogni affermazione implica la veri- tà come norma ultima della sua posizione. Affermare infatti «non vi è verità>> suppone che almeno questa proposizione sia vera e che dunque «vi è una proposizione vera» e che, con ciò, avi è la verità». Tuttavia la ritorsione non permette, nono- stante ciò, di liberare quella che è una verità nel suo contesto proprio; mostra soltanto che rcvi è la verità)>, ma non che essa è un'idea alla quale parteciperebbero delle affermazioni diverse nella particolarità del loro contenuto rispettivo. La ritorsione manifesta la necessità immanente all' attivit à spirituale del giu- dizio, exerrite, ma non la necessità del suo contenuto proprio, signa te.

Riconosciuta così la validità della ritorsione, ne constatia- mo anche la debolezza; la necessità che essa manifesta non sembra abbracciare vasti spazi umani. E su questo punto che, intorno agli anni 30, BlondeI e Maréchal sono arrivati a non comprendersi più: la prospettiva del filosofo francese era piu ampia di quella del gesuita belga, ~o i ché il primo percorre l'in- sieme delle attività dell'uomo e il secondo si arresta all'ambi- to limitato della questione critica. La ritorsione rimane confi-

111. 1L METODO IK MElmi\FI51CA 99

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nata ali' atto dell'intelligenza, benché possa anche essere appli- cata alla volontà, ma in forma analoga. Fa riconoscere l'aper- tura dell'atto soggettivo al di là della sua espressione imrne- diata, o ail'origine della sua possibilità. Ma dal momento che resta rinchiusa neIle condizioni di un intelletto che afferma universalmente, e di cui non integra i contenuti diversi nella loro specificità, preferiamo non farne l'arma della nostra argo- mentazione. Essa ci mette in guardia tuttavia sulla necessità che è immanente ali'attivit à spirituale. Chiederemo al meto- do riflessivo se è possibile estendere questa necessità all'insie- me degli aspetti dell'esperienza umana.

C) Un Ie'two a tre tempi

Si distinguono tre tempi del metodo riflessivo: esso {{proce- de dialetticamente, per via di implicazioni regressive (l), accompagnate da un'intuizione progressiva (21, e preparando delle spiegazioni digressive (3)» 26. L'<{implicazione» del primo tempo rinvia a ciò che anima interiormente l'attività effettiva dello spirito: la filosofia la svolge regredendo verso I'exercite che rende possibile il fenomeno o l'azione szgnate.

I1 procedimento regressivo, di cui abbiamo visto alcuni esern- pi in Heidegger e in Blondel, muove dall'esplicito per andare verso le sue condizioni di possibilità che sono nello stesso tem- po Q priori ed interne all'esplicito. Queste condizioni sono necessarie. Quando dico: «Io sono stanco*, sottintendo forse che <<ho molto lavorato ieri» o che «non tollero iI cattivo tem- po di oggi>>; un implicito di questo genere non ha nessuna necessità; il motivo del mio affaticamento potrebbe essere un altro. La metafisica trascura dunque questo genere di implici- to per collegarsi piuttosto ad una necessità apodittica, vaie a dire ad un'evidenza di diritto e non di fatto. Noi dobbiamo ancora distinguere diverse necessità apodittiche. Nell'afferma- zione «4 implica h, io intendo che devo passare da 3 per arri- vare a 4; questa implicazione è necessaria in ragione di ciò che è 4. Ma l'implicito necessario ricercato dalla metafisica

100 lrl. IL METODO IN MBTAPISICII

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non è ancora di questo genere; esso è necessario, non soja- mente in quanto a ciò che è pensato oggettivamente o alla coe- renza del contenuto pensato, ma in quanto d ' a t to spirituale.

Si distingue sign~te ed cxercite, l'espressione e I'atto. La nostra ricerca dell'implicazione va dall'espressione d ' a t t o che vi si manifesta. L'exercite è pffon; il sigmte è a pposfeiori. Come la «verità» è esercitata Q priori in qu~siasi atto di giudizio senza considerare il suo contenuto particolare, così la conoscenza del- l'exercite non dipende da un'analisi dei contenuti pensati, ma dall'atto. Tuttavia quest 'atto effettivo pone dei contenuti deter- minati; determina se stesso mediante queste determinazioni oggettive. Il metodo riflessivo ne mostra il modo. Non si accon- tenta di contrapporre l'exe~cite e il srignate e di eliminare il secondo per concentrarsi sul primo; vuole piuttosto ritrovare il primo nel secondo.

La metafisica non ignora il detto <<tutto ciò che è ricevuto è ricevuto secondo la possibilità che ha il recettore di ricever- lo». Un cieco non può percepire nulla che sia visibile. I1 rap- porto dal signnte all'exercite è percorso dalla riflessione che sco- pre nell'effettività signate dell'azione le strutture exercite che la rendono possibile. Di fatto, il metodo riflessivo, «in quan- to metodo critico, non deve stabilire solamente il fatto (nep- pure solamente ia necessità particolare) di un a ptiori negli oggetti effettivamente presenti alla nostra coscienza, ma la necessa'& uaaiuersale di questi a priori come condizione di ogni oggetto possibile* 2i. Questa necessità universale non è awol- ta nell'apparenza come la bambola russa. Vi si accede tramite riflessione suIl' atto che risponde alla posizione di un oggetto particolare; quest'atto costituisce l'oggetto in relazione al suo dinamismo particolare. uEd è precisamente questa proprietà di riprendere possesso del contenuto della coscienza, non pih come un oggetto esterno, né come una pura forma rappresen- tativa, ma, per qualche grado almeno, come atto (del sogget- to), è precisamente questa proprietà che differenzia la cono- scenza diretta e la conoscenza riflessa. Contemplare un oggetto, concreto o astratto, non è affatto una riflessione; mantenere

rrr. r r . METODO IN METAFISICA l01

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o ricondurre una rappresentazione nel centro focale della coscienza non è ancora che un esercizio secondario di atten- zione o di memoria oggettiva: non è affatto una riflessione. La rifiessione propriamente detta restituisce la rappresentazione oggettiva d ' Io, vale a dire immerge nuovamente la rappre- sentazione nella corrente di attività da cui essa si era distaca- ta come oggetto» 28.

Il secondo tempo del metodo riflessivo è costituito da un'in- tuizione progressiva. Bergson ha alcune belle pagine sull'in- tuizione filosofica in La pensée et le mouwnt. Benché questa intuizione non sia simile all'intuizione sensibile dal punto di vista deI170ggettività di ciò che è intuito, le rassomiglia nella percezione deil'unità interna dell'ente, colta prima di qualun- que mediazione, data a priori. Questa intuizione non avviene senza uno sforzo dello spirito. Nella sua <(Introduzione alla metafisica*, Bergson chiama infatti <{intuizione quella specie di simpatia [...l per cui ci si trasporta nell'interno d'un ogget- to, per coincidere con ciò che ha di unico e per conseguenza d'inesprimibile»zY. L'intuizione va dunque verso il punto in cui I'ente compendia tutto ciò che esso è e a partire dal quale si offre nelle sue molteplici sfaccettature. Svolge con ciò una funzione cognitiva necessaria. Permette di riportare l'analisi plurima della dianoia all'unità sintetica deil'ente concreto; uni- fica la riflessione discorsiva e le serve da guida; senza questa discorsività si perderebbe nella molteplicità e non potrebbe piu cogliere l'ente nella sua realtà una.

Anche se l'intuizione è a priori prima, può essere articolata al ritmo delia riflessione quando lo spirito, ritornando sul suo atto, scopre I'aileanza che congiunge il suo sforzo verso l'ente e l'offerta che questo fa di sé. La riflessione è una maniera di intuizione. Numerosi processi sono stati nondimeno inten- tati alia pretesa che ha I'intuizione di raggiungere il princi- pio. Abbiamo già manifestato le nostre riserve in merito alla sua imprudente utilizzazione in metafisica. Nel caso della rifles- sione dello spirito sul suo atto, essa farebbe si che questo goda

'R ID., pp. 61-62. 29 11. BEHGSUN, «Inirodiizione aIla metafisica*, in L jilosofzu &drll'inhiono, p. l i

102 111. IL METOJKI IN METAFISICA

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immediatamente di sé come se possa compiersi in se stesso. L'identificazione della rifIessione con l'intuizione di se ripie- gherebbe ii movimento dello spirito verso se stesso, corrom- pendo così la sua estasi nei riguardi del principio. Del resto, concepire l'unità spirituale ad immagine della solitudine superba del dio aristotelico, il quale si intuisce pensando, dividerebbe realmente lo spirito da se stesso; se questci accede a sé per mezzo di un'intuizione interiore, si scambia per un oggetto di intuizione. Colui che si riflette in tale maniera e che pre- tende di intuire se stesso, insegue la propria immagine senza mai cogliere l'unità semplice del proprio atto,

Queste difficoltà sono legittime. Ma esse provengono da una falsa intelligenza della riflessione. In realtà, la riflessione accede d'interiorità senza <<una sorta di compiacimento in sé o di rifugio interiore, ma piuttosto come una ripresa nell'attività spirituale* 'O. La riflessione che non è un'intuizione, tenta di raggiungere la sorgente del nostro essere come un atto e non come un fatto oggettivo. Considerata come un oggetto, l'in- teriorità spirituale è certamente sempre sfuggente. Noi non possiamo senza dubbio abbandonare d'idea di un assoluto del nostro essere,, jl. Ma questa idea è un limite inaccessibile. 11 pensiero non si coglie esso stesso come un assoluto, come se potesse arrestare in sé il proprio movimento; «noi possiamo in questo sforzo di riflessione giungere a ritrovare ciò che è lo spirito, non certo nell'assoluto del nostro essere, ma in una ripresa della sua attività primitiva* 3 z . L'appropriazione rifles- siva di sé si sostituisce d'intuizione di sé, ma comprendendo ii sé nel suo atto, non ne1 suo stato.

La difficoltà di una giusta comprensione deI senso della riflessione proviene dal fatto che il pensiero si esprime con I'aiuto di forme oggettive, di immagini rappresentative. L'espressione oggettiva è esteriorità; non conviene immedia- tamente al pensiero, che è interiorità in atto, potenza di uni- ficazione che Ia sua espressione non è. Si può rappresentare

'1' 11. FOREST, ~Oricntations actuelles en mtlaphysiqiiem, p. 6 5 8 . " .4. E'OREST, La vucatioion & I'eprij, 13. i . '2 A . FORF,ST, «Préfacet. à P. FUNTAN, Adbésion <,t dc:passemelrt, p. VI.

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l'idea di interiorità spazialmente, sotto Ia forma del centro di un cerchio, mentre un vettore rappresenterebbe l'esteriorità mirata dallo spirito. Ma questa figura disconosce il senso appro- priato dell'atto interiore che non decresce quando si apre mag- giormente a l di fuori di sé. L'interiorità spirituale si rifiuta di essere al centro interno di un cerchio; noi dobbiamo com- prenderla purificandola da qualsiasi rappresentazione. Lo spi- rito che co&e riflessivamente le condizioni del suo atto «appare [...l come un compito, è voluto piii che donato}>33. Più è aperto al di fuori di sé, più è se stesso.

La riflessione rivela l'apertura universaIe dell' atto spiritua- le. Fa vedere che questo atto non si confonde con nessuna delle sue manifestazioni, ma che nello stesso tempo le sorreg- ge tutte, poiché è il principio sintetico della loro unità sog- gettiva. L'atto spirituale non si chiude su se stesso; è libertà, apertura feconda nel molteplice. I1 sé non è disperso nelle sue espressioni, ma le riunisce in sé per consacrarle come sue espressioni. Se vi è dunque un'intuizione metafisica, questa è progressiva; il metodo riflessivo non constata che lo spirito è oggettivamente esposto nelle sue espressioni; riconosce piut- tosto la sua semplicità alla sorgente feconda dei suoi atti estatici.

Ci accostiamo così a i terzo punto del metodo riflessivo: le spiegazioni digressive. Si può parlare a questo proposito di una dialettica discendente, ma non in senso platonico. La dialetti- ca discendente va adesso dall'idea d concreto, non da forme ad altre forme. <<Lo spirito, nella misura in cui si libera dal mondo, può impegnarsi nel mondo per agire da spirito, e, lungi allora dal perdersi e datl'abenarsi in esso, comprende il mon- do come un teatro di azione per urnanizzarlo e spiritualizzar- Io. La coscienza riflessivamente intuitiva del soggetto spirituale diventa così cosciente di una potenza indefinita di giudicare e di operare nel mondo, di produrvi, per esempio, una diver- sità indefinita di azioni buone e di opere belle e di giudicarvi la bontà e la bellezza degli avvenimenti o delle cose>>j4. Si

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comprende qfiesta discesa nel concreto come un ritmo di com- pimento dello spirito. Lo spirito non accede a sé nello stesso tempo in cui riconosce la sua presenza al di fuori di sé, nella presenza che esso è al mondo. Per questo motivo accede a sé assumendo' la responsabilità delle sue espressioni in cui rico- nosce ciò che proviene da sé, poiché queste sono ciò che esso stesso è.

La riflessione metafisica accoglie la presenza dello spirito a sé nelle sue espressioni nel mondo; essa mette in luce la fonte di queste espressioni ritrovando l'atto exercite neU'espressio- ne signate. Enuncia intelligibilmente questo atto grazie a media- zioni che sono tuttavia di ordine signate; I'exerca'te non è pre- sente immediatamente, ma è indicato mediatamente d d e figure dell'aileanza metafisica. La riflessione filosofica accoglie così il mondo attraverso il quale lo spirito accede a sé, determi- nandosi in esso in una maniera che non dipende dalla cola necessità meccanica delle cose, ma ddla sua libertà e dal suo desiderio; essa vi sente, all'interno delle espressioni compiute secondo le necessità del mondo, la presenza spirituale e Iibera dello spirito.

Abbiamo esposto in questo capitolo i diversi metodi che pos- sono essere utilizzati in metafisica: I'induzione, la deduzione, l'intuizione, la riflessione. Abbiamo visto come i primi tre, compresi secondo la perfezione della loro essenza, non pote- vano portare veramente la domanda verso il principio; ma, al termine del nostro cammino, potremmo tentare di integrarli nel quarto. La riflessione comprende l'induzione, il passaggio dal particolare d'universale, come il risultato del dinamismo dello spirito che unifica ciò che sperimenta nella molteplicità. La deduzione è ugualmente assunta meno come deduzione for- male che come deduzione trascendentale, spiegazione delle con- dizioni implicate nell' affermazione exe~cde del principio. Per quanto guidi la ricerca piuttosto che concluderla, l'intuizione non è da rigettare poiché i! principio è a pbon. li metodo rifles- sivo accetta dunque gli altri metodi.

Concludiamo così una serie di tre capitoli che hanno fissa- to i tratti essenzidi della metafisica. Ne abbiamo delineato i

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contorni classici, ricordando che la metafisica medita sul più universale, che è l'ente. Commentando una proposizione di Heidegger, abbiamo visto che questo universale non è acces- sibile se il filosofo trascura di lasciarsi coinvolgere nella sua riflessione. L'analisi del vocabolario fondamentale della meta- fisica (essere, ente, esistere, spirito) ce lo ha d'altronde indi- cato: l'orizzonte deIla metafisica o ii principio che essa ricer- ca è costituito dail'alleanza deil'ente e dello spirito. Quest'al- leanza suppone un metodo originale di anaiisi, che è il meto- do riflessivo.

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CAPITEILO QUARTO

UNA DISPOSIZIONE FONDAMENTALE

Nella tradizione filosofica moderna, la metafisica ha rice- vuto sviluppi molto accentuati dalIa critica della conoscenza. Per Cartesio, la metafisica è simile alle radici di un albero, iI cui tronco è la fisica e i cui tre rami sono la meccanica, la medicina e la morale. Essa stessa è in cerca della certezza, che trova nel determinare «che cosa è la conoscenza umana e fino a dove possa estendersi,, l. Kant riprende lo stesso orienta- mento di pensiero quando si domanda <<se saremo più fortu- nati nei problemi deila metafisica, facendo l'ipotesi che gli oggetti debbano regolarsi sulla nostra conoscenza» 2 , piuttosto che la nostra conoscenza sugli oggetti. In tal modo, nei tempi moderni, le problematiche di ordine essenzialmente epistemo- logico hanno assorbito l'interrogazione metafisica; lo studio del- la struttura della conoscenza ha preso possesso di tutto il campo della domanda intorno al fondamento. Si deve mettere in que- stione se una tale riduzione è opportuna. Questo proposito ci occuperà nel corso dei capitoli che seguono. I1 problema della metafisica moderna è meno l'ente in quanto è che l'ente in quanto certo; la legittimità di questa prospettiva non deve velarne la limi t azione.

Tuttavia, i tempi moderni non hanno reaimente portato innovazioni in rapporto a certe tendenze dei tempi antichi.

l R. DBSCAR,I.~S, Regole per lo fui& dell'intelfig~nra VIII, p. i 5 E. KANT, Crificu delkr ragioa pura, p. 20.

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Per Aristotde, la metafisica corona la gerarchia delle scienze teoriche; è la regina delle scienze. Nondimeno, la tradizione filosofica antica non si rinchiude in questa sola prospettiva epi- sternologica. Vedremo in un primo punto che, anche in Ari- stotele, la conoscenza speculativa non compie il suo disegno senza esercitare un dinamismo spirituale, che la tradizione ha compreso in termine di desiderio. Costruiremo in seguito il significato di questo desiderio, articolando la conoscenza e la volontà nell'unità dell' atto spirituale. Concluderemo in ulti- mo questo capitolo suil'ancoraggio spirituale della domanda metafisica, vedendo come una disposizione fondamentale, che la tradizione chiama <<stupore», sveglia ed anima la pratica della conoscenza. Così, con un punto di partenza comune alia filo- sofia antica ed alla filosofia moderna, tenteremo di ritrovare il senso perennis della metafisica al di là delle limitazioni epi- stemologiche che i tempi moderni le hanno imposto.

1. La tecnica, la saggezza e le scienze

Aristotele distingue le scienze in poietiche (da poieb? fare) o tecniche, pratiche e teoriche. Tutte queste scienze produco- no un bene a colui che vi si applica. Nel caso delle scienze poietiche, questo bene è ottenuto grazie ad una tecnica che lo produce esteriormente al produttore. IL bene delle scienze pratiche e teoriche accorda una perfezione interiore a colui che lo desidera, sia esso un soggetto voIente (scienze prati- che) o un soggetto conoscente (scienze teoriche). A prima vista, la gerarchia di queste scienze sembra dunque fissata per mez- zo di un criterio di interiorità spirituale; ciò che è pih interno è superiore a ciò che lo è meno. Ma in realtà il criterio è piut- tosto conforme ad un principio di riflessività: ciò in cui lo spi- rito è più unito in sé è pih elevato di ciò nel quale è meno unito in sé. Vediamolo.

a) h tecnica

Il sapere tecnico è già impregnato di interiorità, in quanto perfeziona lo spirito. L'animale conosce l'ente, ma non giun- ge veramente a ricreare un mondo; il suo istinto è una mecca-

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nica incapace di invenzioni libere. L'uomo, ai contrario, crea .'le sue opere; il mondo che produce realizza un progetto che egli decide a partire dalla sua trascendenza spirituale. L'arte, che da questo punto di vista è la perfezione della tecnica, modella il reale grezzo per farne scaturire una novità che la natura meccanica non poreva prevedere.

La tenica costituisce il primo livello delle scienze. Esca è già una scienza dello spirito; supera la natura bruta mirando ad una realtà sintetica nuova. Non è nulla senza l'idea futu- ra; crea più che non imita le risorse della natura. L'idea che la guida non è data immediatamente; la tecnica persegue un progetto che, dapprima vago, si precisa man mano nel corso della sua realizzazione materide. L'idea che dirige il lavoro e ne definisce il progetto non è completamente precisata pri- ma delia realizzazione in cui prende corpo. Lavorando, l'arti- sta stabilisce un dialogo con la natura; la pIasma secondo il suo progetto ed essa gli risponde. In questo dialogo l'artigia- no o l'artista si accosta progressivamente aila coscienza della sua idea.

Non tutti i filosofi contemporanei sono pronti a riconosce- re i meriti spirituali deIla tecnica. I motivi di queste reticenze non incidono tuttavia su ciò che la struttura essenziale della tecnica rivela, ma su ciò che essa è divenuta quando la men- talità moderna, traendo vantaggi da una delle sue disposizio- ni evidenti, vi investì i suoi progetti demiurgici. Che vi sia stata nella storia recente una deviazione del senso metafisico della tecnica, che essa sia stata sottomessa a progetti smisura- ti, senza riferimento al fondamento dell'intenzione dello spi- rito, che sia divenuta la ripetizione forsennata dei <{Tempi moderni,,, messi in ridicolo da Chaplin, ciò non impedisce di riconoscerne I'ecrellenza quanto alla vocazione totale dello spi- rito. Una natura pura in cui I'uomo vivesse senza trasformar- la tecnicamente, senza rielaborarla in funzione dei suoi pro- getti, sarebbe sconcertante.

La produzione tecnica costituisce già un sapere spirituale. L'artigiano non vi fa ricorso con la propria memoria delle situa- zioni de1 mondo per copiarle, ma con la propria immaginazio- ne che progetta un'unità trascendente che circola sotto la diver- sità dei sensibili possibili. La sua opera lascia trasparire il pro-

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getto fondatore dello spirito: raggiungere l'iinità interiore di ciascun singolo ente (unità deli'en te), unificando tutti gli enti tra loro (unità degli enti), affinché al termine l'opera e il suo produttore siano uniti (unità metafisica) . Queste diverse for- me di unità ne manifestano la trascendenza; essa non si svol- ge mai in un'opera particolare. Una tale produzione vi si può introdurre, ma .l'esercizio artigianale non si ferma e progredi- sce da una produzione all'altra, alimentandosi dello splendore dell'inaccessibile, contemplandolo senza mai proporzionarlo ai suoi risultati, senza poterlo oggettivare altrimenti che ripren- dendo senza fine il suo lavoro di generazione. Bergson nota- va che il filosofo tenta di esprimere l'idea essenziale che in lui dimora, ma senza mai pervenirvi veramente; l'avvicina sol- tanto in modo indefinito. L'artista e il filosofo proclamano un'unità ideale, perseguendo dinamicamente i loro sforzi, rie- laborando senza tregua i loro approcci. L'unità non dev'esse- re mostrata a conclusione del lavoro; essa è nell'esercizio che, pazientemente, corregge e migliora i prodotti già terminati, elaborandoli in nuovi prodotti. L'opera artistica invita a pro- seguire un'attività incessantemente creativa.

La poesia è I'archetipo della tecnica, poiché ne esprime l'es- senza. I1 poeta congiunge attivamente nella sua opera il corpo e lo spirito: il ritmo della frase è tanto importante quanto il significato delle parole. Mediante accostamenti inauditi tra gli enti, con simiIitudini suggerite, ma non evidenti per i sensi, egli rende il linguaggio privo di trasparenza per quelli a cui non sta a cuore la vita interiore, l'intelligenza dell'unità che attraversa le differenze. II poeta vede ed esprime il logos (la radice di questa parola vuol dire <<collegare») che unisce tutte le cose, che le fa penetrare I'una nell'altra in una comunione mobile. Egli ha il senso dell'interiorità che dona a ciascun ente la sua propria identità in un tessuto di relazioni mai sentite. 11 poema è ritmo; le sue paroIe incarnano l'unità che le colle- ga al di là di loro stesse; si prestano ad una vita che rivela la loro perfezione senza tuttavia oltrepassare i limiti di ciò che esse sono singolarmente. Vi è una circolarità della parola e della frase, tra l'ente singolo e la totalità che lo penetra e vi si dischiude.

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L'unità interiore, dapprima presentita, dev'essere espressa ,per venire riconosciuta; finché il testo non è ultimato, finché iI poema non vi si accorda, rimane incompiuta. I1 poema è fini- to quando è proferita l'unità segreta degli enti, quando viene in presenza il mistero, nel quale le singolarità sono in conso- nanza. Non è una semplice trasposizione del reale; l'unità inte- riore che l'artista celebra non è nulla senza la sua creazione, senza ii suo ascolto profondo di una novità mai udita e Ia sua dizione in risposta a ciò che egli sente. Se l'arte è imitazione, non lo è dell'apparenza sensibile, ma dell'interiorità flessibile e vivente degL enti, alla quale lo spirito si riconosce in accordo.

L'interiorità delle cose prende così corpo, mentre il com- ponimento poetico manifesta il riconoscimento spirituale del

- principio unificante. I1 testo fa appello allo spirito a rimanere P fedele d'intenzione della sua produzione; il mistero degli enti, I pronunciato attraverso la lettura, è consacrato dallo spirito che

si accorda a questo corpo letterale e vi trova cib da cui ripar- tire di nuovo. Una triplice unità è così stretta nell'esercizio poetico: I'unità dell'ente meditata sinfonicamente, quella degIi enti espressi nelle analogie, e l'unità del poeta concessa dalla sua attenzione all'unità del mistero che egli proclama. Ed è per questo che il poema non è una scrittura automatica, ma un silenzio attento, non è un desiderio anarchico, ma un'atte- sa sicura; in questo lavoro, il ritmo deIle parole libera il senso metafisico degli enti.

b) La saggezza

Secondo Aristotele la scienza pratica è più universale della tecnica, poiché la sottomette a sé come un mezzo per conse- guire il suo fine. Giudica anche i comportamenti umani con saggezza, esercitando con ciò un senso superiore a quello che vaiuta i prodotti sensibili. In ultimo, sempre secondo Aristo-

. , tele, l'essere dell'ente è iI suo bene. Per tutti questi motivi, p 9 la scienza della pratica ha un significato più elevato della 4 " ' x tecnica.

La nostra cultura contemporanea accetta con riluttanza che la tecnica sia sot tornessa all'etica. La struttura aristotelica delle

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scienze, che subordina *il. meno universale al più universale, sembra infatti oggi insostenibile. L'autonomia dei diversi set- tori scientifici è tale che le scienze dette inferiori non manca- no di influenzare quelle superiori. Le possibilità tecniche deter- minano scelte etiche; non si sa più con chiarezza ciò che è il più universale. Conviene tuttavia discernere in nome di che cosa Aristotele opera la sua graduatoria, al fine di non smar- rirne Ia ragione legittima: la tecnica è sottomessa alla pratica, perché questa è più interiore; più vicina a ciò che vale in asso- luto, alla verità dello spirito responsabile di sé.

Lo Stagirita distingue la tecnica dalle altre scienze come ciò che mira ad un bene «trascendente», esterno all'operatore, e ciò che compie un bene che gli è c<immanente», la sua opera- zione. Ma l'attività immanente non è più degna del bene tra- scendente per la sola ragione che è migliore l'irnmanenza spi- rituale in rapporto alla trascendenza dell'oggetto prodotto. Di fatto, l'attività, se è veramente un'attività, si rende visibile. Un'attività che non produce nulla non è attiva, ma la qualità dell' attività tecnica che si giudica inferiore per questi motivi, è abbandonata al rischio della sua esteriorità. «Tuttavia sem- bra esservi una differenza tra i fini: talora infatti essi sono attività, t alora invece, oltre ad esse, opere definite. Quando vi sono dei fini definiti nelie azioni, allora le opere sono più importanti delie attività)) j. L'attività che produce un fine oggettivo può essere qualificata in funzione del suo prodotto, e non in funzione di se stessa. Essa rimane alienata, la sua dignità sembra inferiore all'eccellenza umana.

La pratica ha tuttavia un'esteriorità in cui si oggettiva. I suoi fini oggettivi sono allora gerarchizzati secondo diverse nor- me. Una prima norma potrebbe essere di questo genere: Ja scienza che utilizza un'altra e che le impone i suoi fini, in vista del proprio scopo, è piir elevata di queila. Noi troviamo in que- sta norma l'importanza della attività che, libera, si rende padro- na degli oggetti prodotti dalIe altre scienze. Ma questo crite- rio ne richiama un altro: ciò che è pih universale è più eleva- to di ciò che lo è meno. Infatti, <(A» può utilizzare «B» per-

) A R I S T ~ E L E , Etica lVicama~h~~a I l, 1014a.

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f ché lo ingloba sotto un certo punto di vista, essendo dunque j' 'sotto questo aspetto più universale. Così, la scienza pratica

più alta è quella della libertà pih universale. <<Dal momento che [la Politica] si serve delle altre scienze pratiche, e inoltre stabilisce che cosa bisogna fare e che cosa evitare, il suo fine potrebbe comprendere queuo delle altre, cosicché esso sareb- be il bene umano. Se infatti identico è il bene per il singolo e per la città, sembra più importante e più perfetto scegliere e difendere quello della città; certo esso è desiderabiie anche quando riguarda una sola persona, ma è pih bello e più divino se riguarda un popolo e le c i t tb4 . La Politica è dunque la scienza pratica piu elevata.

Le scienze pratiche sono caratterizzate dalla loro tensione verso un fine. Quale sarebbe allora il fine della scienza prati- ca pih alta? L'universalità pratica è determinata dal punto di vista prospettato. Ciò che è migliore in un caso può essere meno buono in un altro. Occorre dunque riflettere ancora sulla ragione che legittima questi punti di vista. Se una tale rifles- sione è possibile, e dev'esserlo per fondare la pratica, dev'es- servi una scienza che è più elevata della politica. In tal modo questa nuova gerarchia non considera pih l'ordine dei fini, ma quello della conoscenza del principio del bene come fine. La scienza più alta, l'etica, mira a conoscere il bene primo asso- lutamente universale, che è sempre desiderabile in se stesso e non lo è mai in vista di un'altra cosa.

La definizione del bene supremo è realizzata dalla felicità; I'etica è pertanto la scienza della felicità. La felicità è un bene; è dunque nell'ordine dei fini. Siccome «noi la desideriamo sem- pre di per se stessa e mai per qualche altro fine» ?, essa è il fine ultimo, iI più elevato, il più perfetto. Tuttavia, vi è fine e fine. Quale tratto caratterizza il fine migliore? Forse la sua esteriorità, in qualche maniera analoga al prodotto tecnico? Evi- dentemente no, poiché la tecnica è sempre subordinata ad un fine che vaie per se; la sua esteriorità la rende ipotetica e non assoluta. Le scienze pratiche non possono nemmeno raggiun-

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gere quest'assolutezza che noi esigiamo dalla felicità; la loro universalità potrebbe pure non essere che parziale secondo il loro punto di vista, secondo i loro progetti. Resta il fatto che la felicità non è un fine trascendente, ma un fine immanente al compimento di un'attività. Ciò suppone che vi sia un'atti- vità che, in noi, trascende per natura tutti i suoi oggetti, che sia indefinitamente aperta alle sue realizzazioni e mai comple- tamente ultimata da queste, un'attività dunque che si compie interiormente. La felicità è il risultato di quest'attività pih ele- vata dell'anima secondo la sua virtu irnmanente; infatti «è l'at- tività deli'anima secondo virtù [ . . . l la piii perfetta. E ciò vaie anche per tutta una vita completa» 6 . Aristotele lo ripete con puntiglio: la feIicità è l'attività dell'anima conforme a ciò che vi è di me&o in essa.

Ora: le parti dell'anima sono distinte secondo le sue diver- se attività. La virtù più perfetta definisce l'attività della par- te più elevata dell'anima, questo no0s che i platonici metteva- no in opera nella contemplazione e che gli stoici chiamavano «egemonico». La virtu migliore esercita la parte dell'anima più elevata, quelia che cerca ciò che vale per se stesso e non un'aX- tra cosa. L'attività dell'anima che non cerca nessuna perfe- zione esteriore, né tecnica, né pratica, per la quale il fine è perfettamente voluto per se stesso e che è immanente d ' a t t i - vità dell'anima, è la conoscenza pura, il sapere per il sapere. Per questo motivo le virtù della conoscenza sono pi6 elevate delle virtù poietiche e pratiche; le scienze speculative sono pih degne delio spirito delle scienze pratiche. L'uomo piii virtuo- so, che esercita aI meglio I'attività migliore, è dunque il teori- co più attaccato a ciò che vale per sé, in altre parole è il meta- fisico aristotelico.

C) Le scienze

A prima vista, la metafisica aristotelica non ha nulla a che vedere con la virtù. La sua precedenza le viene ddla sola uni- versalità. Se la scienza pratica è già piu universale della tecni-

6 In., 1 h, 1098a.

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ca, la scienza teorica è ancora più universale della scienza pra- ' tica. L'uomo saggio agisce infatti secondo principi pratici di cui conosce il valore assoluto. Ma il suo sapere etico non è una vera scienza; discerne l'eccellenza di alcuni comportamenti, come l'amicizia e la magnanimità, ma non sa secondo quaIi principi necessari questi comportamenti sono migliori di altri. Nel suo giudizio pratico, il saggio esprime l'attività delle sue potenze spirituali orientate verso ii fine pih universale, il fine più alto e il piiì perfetto; ma non ne sa far comprendere la causa. Non sa, al pari deli'artista, i1 perché della sua saggez- za. Non sa dunque come insegnarla.

II sapere morale è prudente; non fa conoscere i principi uni- versali della vita pratica secondo la loro formalità teorica. La saggezza pratica è infatti prima di tutto questione di esperienza, e questa non può essere sostituita da una teoria complicata, un sistema scientifico a priori, valido in tutti i casi. L'applica- zione della legge strettamente d a lettera, senza epikeia, è trop- po spesso ingiusta. L'uomo di esperienza conosce molto più del teorico la realtà viva delle cose umane individuali. Il teo- rico vede prima di tutto I'universale, ma «tutte le attività pra- tiche e produttive si occupano del particolare, giacché il medico non ha sotto cura l'uomo se non in via accidentale, ma ha sotto cura Caliia o Socrate o qudche altro individuo designato con tale appellativo e a cui è cosa accidentale essere uomo; se, per- tanto, un medico non tiene conto dell'esperienza e si basa sul solo ragionamento, e conosce l'universale, ma ignora il parti- colare che è in esso, molte volte sbaglia la cura, perché è pro- prio il particolare quello che bisogna curare»:. La scienza pratica, che conosce l'individuo, è dunque diversa dalia scienza teorica, ed 2 concretamente più esatta di questa.

Ciò che interessa iI teorico è la forma universale. Ma per Aristotele solo l'individuo è una sostanza propriamente det- ta, poiché solo esso sussiste realmente. Ora, l'individuo è inef- fabile. Dunque l'uomo di scienza non conosce ciò che susci- ste, l'individuo. Ma allora che cosa conosce? Si accontenta, se così si può dire, dei principi universali che dirigono i giu-

IV. CNA DISPOSIZIONE FO!dDA!MENT.AJ.T. 1 15

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dizi messi in opera nelle nosrre esperienze tecniche e prati- che. Per questa ragione, la teoria è più universale di tutto il resto, secondo la gerarchia utilitaria che abbiamo ricordato sopra; la tecnica e la pratica utilizzano l'universale, ma non l'inverso. Se si considera però la realtà conosciuta e non la forma della conoscenza, non si dovrebbe forse dire che la pru- denza è più elevata deiia metafisica, perché è piiì vicina al reale, e che la metafisica, la scienza del più universale, ne è piii lon- tana? La scienza teorica è più elevata della scienza pratica, ma solamente in astratto. Se l'orizzonte della conoscenza è ciò che sussiste, l'individuo non è più rispettato dall'etica che dalla metafisica?

Vi è dunque un predominio del sapere pratico dell'indivi- duo sulla scienza teorica dell'universale. Tuttavia, la tecnica e l'etica trattano l'individuo sotto un aspetto universale; appli- cano ad esso infatti leggi universali. Ciò suppone che, prece- dentemente alla loro applicazione particolare, esse conoscano l'universalità deIl'individuo. Questa conoscenza sembra deri- vare dalla loro pratica effettiva, dalla loro esperienza. La tec- nica e I'etica si svolgono dunque in modo circolare: muovono daiI'esperienza, costruiscono I'universale e ritornano verso l'in- dividuo. Ma I'universale così costruito non proviene unicarnen- te dalIa somma delle esperienze; implica anche un'apertura del- l'intelletto a ciò che va oltre l'immediato.

La prudenza è questa «disposizione>> (ecszs) pratica che non argomenta alIa maniera dell'intelletto scientifico, ma che è una «virtù intellettuale», poiché conosce l'universale. «Disposizio- ne pratica accompagnata da ragione verace intorno ai beni uma- ni» 8, essa ha come termine ciò che è bene e male per l'uo- mo individuale, giudicando secondo le circostanze deIla sua esistenza, pur senza conoscere il bene e il male in se stessi.

L'etica e la metafisica potrebbero d o r a avere una priorità alternata, secondo punti di vista differenti. La metafisica è prima sul piano del sapere defl'universale e l'etica è prima sul piano del sapere dd'individuale. Lo schema tomista della rifles- sione tenta di articolare questa duplice polarità: come la cono-

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ccenza riflette l'individuale nell'universale, così l'uomo pru- 'dente riflette i casi individuali nella regola universale. In qile- sta prospettiva, l'individuo è sussunto nell'universale, da cui prende la sua regola e il suo senso. La posizione tomista esce così dall'impasse in cui Aristotele era chiuso, senza giungere ad unificare la conoscenza deil'universale e la pratica defl'in- dividuale, se non a rischio di schiacciare questo sotto queUo.

Le scienze sono dunque gerarchicamente organizzate sotto un principio che non è solamente la loro universalità, ma Ia capacità di rendere conto del loro fondamento. La scienza pih alta è suscettibile di giustificarsi da se stessa; essa giiistifica le scienze che le sono subordinate dal medesimo punto di vista. D'dtra parte, l'individuo è irriducibiie d'universale. Per avere un oggetto reale, la scierpa non può dunque essere solamente teorica; dev'essere completata da un'apertura che si affina nel- l'individuo che trascende ogni teoria. Vedremo nel punto che segue le condizioni di quest'apertura.

2. L'intelligenza e la volontà

Aristotele propone due scienze egemoniche: la metafisica nel- l'ambito deila ragione teorica, fatta per l'universale, e l'etica nell'ambito della ragione pratica, attenta ail'individuo. Non articola tuttavia queste due scienze. Egli anzi se ne astiene, poiché la sostanza individuale resta per lui inaccessibile alla scienza dell'universale, mentre l'agire non è corretto se si com- piace delle affermazioni universali. Tuttavia, l'unità che è l'uo- mo reale, soggetto nello stesso tempo della teoria e della pra- tica, invita ad unificare queste scienze. Perciò, non occorre pih gerarchizzare le diverse scienze in funzione dei loro oggetti rispettivi, I'universaIe e l'individuale, ma occorre muovere dal soggetto che conosce l'universale al centro deIle cose partico- lari e che si impegna in maniera particolare, seguendo norme universali. Ciò che unifica ii sapere e l'agire è il loro radicarsi comune nel soggetto che comprende e vuole, vuole ciò che comprende e comprende ciò che vuole.

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a) Una disposizione

Esponendo la dottrina della sinderesi, il Medio Evo mostra come la conoscenza dei principi universali interviene nella costi- tuzione dell'agire morale; sostiene anche, inversamente, che l'agire è importante per la conoscenza dei principi rnetafisici. La conoscenza teorica e l'agire pratico non sono senza con- nessioni; l'intelligenza e la volontà sono infatti articolate nel- la nostra esperienza umana. Ma prima di impegnarci nell'ana- lisi di quest'articolazione, vorremmo sgombrare ii terreno sul quale poggiano, che è quello di una <{disponibilità>> fonda- mentale.

In Essere e tempo Heidegger parla a lungo dell'eco deil'es- sere sul Dasein, eco vissuta onticarnente o esistentivamente in forma di «tonalità emotiva, umore» Questa eco manifesta una disponibilità ontologica o esistenziale. La paura è una disposizione esistentiva, distinta dalla disponibilità esistenziale rivelata dall'angoscia. La disponibilità è originaria e fondamen- tale; è l'apertura originaria dello spirito al fondamento. Que- st'apertura rende possibile l'appropriazione spirituaie di ciò che è. Disporsi a qualche cosa è mettersi in una posizione tale che la si possa accogliere o ci si lasci raggiungere. La disponibiiità fondamentale esercita l'accordo primordiale deIl'essere e del- lo spirito in una maniera effettivamente condizionata al tem- po stesso dall'uno e dall'altro; Io spirito disposto d'essere si lascia toccare da esso come può e quale si presenta nell'ente. I diversi modi della disponibilità fondamentale corrispondo- no ai differenti accordi tra l'ente e lo spirito.

Da una parte, disponendosi, lo spirito si appresta ad ascol- tare l'ente; si apre alla sua presenza. La sua disposizione met- te così in opera la sua forma intenzionale; mirando l'ente come può e qude si presenta, lo raggiunge esercitando la sua dispo- nibilità o la sua apertura d'essere. Questo esercizio è di fat- to sempre determinato daile circostanze; la particolarità del- l'accoglimento definisce una disposizione particolare. Poiché

1 18 IV IJNA DISPOSIZIONE POhTTlAMENTA7,E

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lo spirito è sempre questo spirito, e non uno spirito in gene- rale, le sue possibilità di accoglimento sono sempre determi- nate dalla sua storia, dalla sua educazione, ecc.; di qui l'im- portanza deUa formazione dell'ma aristoteiico, dell'babitas sco- lastico. Tuttavia, l'accoglimenro particolare non è possibile che sulio sfondo di un'apertura generale, di una disponibilità del- lo spirito all'essere dell'en te. La forma particolare della nostra disposizione, del nostro accesso a cià che è, elaborata nell'im- mediato, è successiva. Tutte le nostre disposizioni particolari suppongono una disponibilità fondamentale. Se possiamo acco- &ere I'ente, che è questo o quello, è perché l'accogliamo innan- zitutto in quanto esso è un presente dell'essere.

D'altra parte, se la disponibilità fondamentale determinas- se interamente l'ente, questo non potrebbe mai essere ricono- sciuto per ciò che è, c<gertato davanti» allo spirito, questo è ob-jectzkmr. Dobbiamo dunque dire che Io spirito si dispone a ricevere l'ente in tale maniera che la sua disponibiiità sia determinata dail'ente neli'oggettività della sua presenza. L'of- ferta dell'ente oggettivo determina, e dunque precede, Ia moda- lità delia risposta adeguata delio spirito. L'educazione dell'ec- sa si propone giustamente di rendere il soggetto atto a questo accoglimento, a questo ascolto dell'ente. Essa suppone che lo spirito possa sviluppare effettivamente una tale attitudine di accoglimento perfetto, che lo rende libero nei riguardi di se stesso. Ma suppone anche che Ia disponibilità sia prima di tutto un'apertura determinata fondamentalmente come capacità di accoglimento o di intesa dell'essere di questo ente. Non si può dire semplicemente che la disponibiiità delio spirito sia un'in- tenzione conquistatrice, un dinamismo orientato verso qualun- que forma vuota; essa è tesa verso ciò che è, compreso nella sua alterità o nella sua differenza ed accolto secondo le con- dizioni delia sua oggettività. L'oggettività dell'essere di que- sto ente, o la sua alterità, la sua differenza, determina essen- zialmente la disponibilità fondamentale dello spirito.

In conformità al nostro metodo riflessivo, prendiamo in con- siderazione la nostra esperienza immediata per ricercarne le implicazioni necesarie. L'esperienza prima, a partire dalla quale esercitiamo la disponibilità fondamentale, è la conoscenza. Non

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è affatto che quest'attività sia primitiva, ma E prima per lo spirito che accede alla coscienza della sua apertura ail'ente, prendendo innanzitutto coscienza di conoscere. La metafisica è un discorso. I1 suo punto di partenza si situa dunque nel campo della conoscenza, anche se la riflessione farà vedere, approfondendo le sue condizioni, che la conoscenza è ontolo- gicamente seconda.

11 riconoscimento del reale è in misura di un lavoro interio- re che lo prepara. La pratica dell'intelligenza lo manifesta. L'in- telligenza non si soddisfa delle conoscenze immediate che la investono all'improvviso; le verifica e le approfondisce prima di dare loro la sua adesione, come se, così facendo, potesse corrispondere più adeguatamente a ciò che esse sono. L'intel- ligenza vuole accogliere ciò che è, esprimendolo al meglio. La precisione deUe sue analisi e i loro affinamenti rispondono alla venuta in sua presenza del reale; essa costruisce, e I'intelli- genza lo sa, il suo accordo con quello. La scomposizione ana- litica delle scienze non è uno scopo in sé; segue un accogli- mento che ne condiziona la pertinenza. L'analisi è seconda; non conquista ciò che è, ma lo rende accessibile secondo le condizioni discorsive della nostra conoscenza, sullo sfondo delle condizioni di un altro ordine rnetafisico.

L'analisi è valida se spiega il reale che la condiziona; è effi- cace d'interno di un accoglimento primo del reale mediante la disponibilità fondamentale. Questa disponibilità precede il lavoro analitico; l'educazione e l'esercizio dell'ecsjs rivelano in che modo il lavoro dell'intelligenza determinante ne è condi- zionato. La disponibilità condiziona l'apertura attenta dell'in- telletto al reale in se stesso. Quest'apertura ha un aspetto volontario; non dipende soltanto dail'intendimento. L'ogget- tività della conoscenza non è con ciò minacciata; ne è ai con- trario garantita. Dipendendo cosi da una disponibilità volon- taria, da un allenamento pedagogico, che non è dell'ordine della conoscenza analitica, l'inteiietto è condotto a riflettere con esat-

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tezza su ciò che è oggettivamente. Si obietta contro quest'af- fermazione, identificando la volontà con una potenza fanta- siosa; se l'intelligenza dipende dalla volontà, tutto fe è per- messo. Ma Ja volontà non è questo. Mostreremo adesso com'è orientata verso ciò che è realmente; vedremo poi come l'in- telligenza e la volontà si sostengano a vicenda, avvoIgendosi I'una suil'altra a costituire, per così dire, un unico filo.

L'intelligenza e Ia volontà hanno un medesimo rapporto con I'oggetto; lo prendono di mira entrambe secondo un'intenzio- ne che struttura il loro esercizio in una maniera necessaria. L'intelligenza desidera conoscere, non che essa conosca, ma qualche cosa da conoscere e che sa che $ reale. La volontà vuole, non volere, ma qualche cosa da volere, giudicandolo real- mente buono. Non vi è nulla da comprendere, né da volere, se non vi è nulla. Se non vi è nulIa, non si conosce nulla, nep- pure che è vietato conoscere qualche cosa, e non si vuole nul- la, neanche convincere. La conoscenza e la voIontà sono dun- que due facoltà che tendono verso una reaità oggettiva.

Allo stesso modo che la conoscenza non è soddisfatta da una conoscenza particolare, ma coglie ogni particolarità sotto un punto di vista universale, cosi la volontà è accordata ad una molteplicità di oggetti, prendendo in considerazione ciò che non è limitato per nessuno, ma che dona a tutti di essere desiderabili. L'oggetto proprio deiio spirito non è un tale ente, ma ciò che si irradia nella molteplicità degli enti conosciuti e voluti. La conoscenza e la volontà sono dinamiche.

Ma se le nostre facoltà tendono verso ciò che non ha nes- sun limite particolare, non sono votate d'indefinito che non è nulla di reahente vero e buono? L'intelligenza tende verso l'ente che raggiunge veramente e singolarmente, anche se sot- to un aspetto universale. E finalizzata non ad una forma astrat- ta, un'idea che non avreblx nessun contenuto particolarizzante, ma ad un ente reale, questo ente in quanto è ed in quanto è ciò che è. Obiettare contro questa tesi ne riconosce la forza rede e dunque la concede; la ritorsione mostra facilmente che non si obietta che contro delle determinazioni e con il loro aiuto. Similmente, la volontà tende verso ciò che non può esse-

IV. IJNA DISPOSIZIONE FONDAMEKTALE 12 1

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re situato al termine di un desiderio senza fine e sfortunato, di un desiderio contraddittorio che non potrebbe desiderare che a condizione di non desiderare mai nulla. Conoscere è conoscere qualche cosa di determinato; volere è volere qual- che cosa di determinato. Le facoltà di intelligenza e di volon- tà hanno dunque una struttura affine. Non ne consegue che esse raggiungano l'ente alla stessa maniera, che le loro mire o le loro intenzioni possano essere confuse.

Ogni f acolth è un'operazione specifica. L'intelligenza cerca di conoscere ciò che è oggettivamente, assimilandolo in sé, mentre la volontà tende ad unirsi ad esso. M o t ~ I...] cogniti- uae virtutis teminatur ad animam; opoitet enim ut cognztum sit in cognoscente per moduna cognoscentis; sed naotus appetzhae uzr- tgtis teminatar ad res lo.

Le intenzioni dell'intelligenza e della volontà hanno s trut- ture simiiari, ma le loro operazioni stabiliscono rapporti inversi tra l'ente e Io spirito. L'ente è conosciuto secondo la sua tra- scendenza oggettiva, com'è in se stesso, in qualche modo sen- za ii marchio dello spirito, ma lo è, essendo assunto interior- mente allo spirito, mentre la volontà si unisce a ciò che è, per- ché Io giudica desiderabile e buono per se stessa, in quanto risponde al suo desiderio estatico. La trascendenza dell'ente conosciuto è dunque definitivamente confermata dalla trascen- denza dell'ente voluto, dopo che sia stata conosciuta come un bene accessibile allo spirito e mai esaurita da esso. La struttu- ra della conoscenza (trascendenza oggettiva dell'ente, che lo spirito tende a rendere in sé immanente) è dunque inversa alla struttura della volontà (immanenza della volontà nell'ente inte- so come una trascendenza d'orizzonte del desiderio). La cono- scenza unisce l'ente allo spirito; la volontà unisce lo spirito all'ente. Questa dialettica è unificata nell'atto che è allo stes- so tempo conoscenza e volontà. 11 parallelismo delle intenzio- ni, ma l'inversione delle operazioni rendono tuttavia possibi- le una preminenza alternata dell'intelligenza e della volontà secondo i punti di vista dell'intenzione e dell'operazione spi- rituale.

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C) Una dialettica ~ i r i t a a l e

Da un punto di vista psicologico, non si può dire che una delle nostre facoltà abbia una priorità assoluta sull' altra: I'in- telligenza precede la volontà ed inversamente. Dal punto di vista dell'intenzione della volontà, è vero che non si può volere nulia senza sapere ciò che si vuole, il termine verso il quale tendere. L'intelligenza precede dunque la volontà, determinan- do il suo termine. Volere una cosa quaIsiasi non è volere; per paralizzare la volontà non c'è niente di meglio che presentar- le delle scelte del tutto vaghe. L'intelligenza determinante ha dunque una priorità dal punto di vista deu'intenzione finale voluta. Inoltre, ponendo fine nella propria unità, essa ogget- tiva il termine al quale la volontà desidera unirsi nella sua alte- rità. L'intelligenza dirige dunque l'intenzione della volontà,

Per quanto riguarda l'intenzione dell' intelligenza, questa è animata dalla volontà. L'esercizio dell'intelligenza suppone infatti il sostegno della volontà. Si comprende veramente bene solo ciò che motiva l'interesse di comprenderlo. Un ente che non si ripercuotesse in una maniera o nell'altra sul desiderio non avrebbe presa sulio spirito. Non possiamo conoscere nul- la se non desideriamo veramente conoscere. La tradizione ari- stotelica ha alle volte presentato il puro sapere per il sapere come un ideale; lo studioso non cercherebbe un sapere utile per un dtro fine che per la felicità di conoscere. Ma la prati- ca della scienza è sottomessa in realtà ad interessi diversi, la gioia o la gloria soggettiva, o altre ragioni confessabili o meno. L'ideaie aristotelico è più un'ideaiizzazione che una realtà. La ricerca intellettuale è sostenuta da ciò che non è soltanto intel- lettuale.

Si dirh, nonostante ciò, che la volontà determina il termine della conoscenza? Certo, la volontà lo presenta all'intelligen- za in ragione del suo interesse. Ma non è la volontà che gli dà i suoi contorni. L'intelligenza propone ciò che è, la volon- tà vi aderisce stimolando l'intelligenza a precisarlo. La scien- za ha interesse al fatto che il suo oggetto sia delimitato dalla conoscenza, e con ciò sia reso accessibile, ma il dinamismo che fa tendere ad esso è deli'ordine dei desiderio o deil'estasi del- la volontà. La volontà è l'anima della conoscenza.

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I1 legame dell'intelligenza e della volontà è dunque indisso- lubile. L'intelligenza determina uno scopo per la volontà, che mette in moto ogni sua potenza per accedervi; inversamente, la volontà propone all'intelligenza un fine desiderabile che mobiliterà tutte le sue risorse analitiche.

Le relazioni tra la conoscenza e la volontà sono troppo stret- te perché non vi sia un motivo valido. Si è tentato di artico- larle in questo modo: l'intelligenza proporrebbe alIa volontà un termine per Ie sue scelte, mentre la volontà darebbe il suo movimento aU'intelligenza. In questa prospettiva, I'intenzio- ne dinamica dello spirito dipenderebbe da ciò che è proprio della volontà, mentre la determinazione che ritma il progres- so di questo dinamismo sarebbe a carico dell'intelletto. Si con- trappone coci l'intelligenza alla volontà come ciò che è fissato in maniera limitata a ciò che è dinamicamente aperto in manie- ra illimitata. Le teorie sulla ristrettezza del concetto e l'esal- tazione della vita hanno qui qualche risonanza. Bergson ne è stato uno dei piii brglanti araldi. La sua teoria è tuttavia tra- dizionale. Secondo i filosofi che si ricollegano a questa cor- rente vitalista, I'inteUetto non accede al reale che per la media- zione di un dinamismo volontario e progressivo.

L'ideale della conoscenza è la conoscenza posseduta, il riposo al raggiungimento del suo termine. I1 movimento della volon- tà è, al contrario, estatico. L'unione col suo termine rimane aperta indefinitamente. Più la volontà tocca ciò che desidera, più Io vede lontano e desiderabile. I1 suo ideale di unione non è quello di una fusione. Ma quest'apertura non è indetermi- nata assolutamente. La volontà disegna in se stessa, come in una cavità al suo interno, il fine che l'attira. Essa esercita posi- tivamente quest'apertura nelle sue scelte particolari. Non volere nulla è non volere; volere tutto è anche non volere. La deter- minazione proposta dall'intelligenza aila volontà le è u priori interiore, ma sotto la modalità dell'at trazione. Desiderabile, in quanto determinazione, la volontà vi riconosce una traccia di ciò che essa cerca di raggiungere, che risuona in sé renden- dola dinamica. Il fine ultimo della volontà non è questa o quella determinazione, ma il bene come tale, a condizione che essa lo riconosca presente nei suoi fini determinanti. La volontà

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tende verso un fine determinato, perché tende verso un fine 'assoluto. Se s i soddisfa di un fine definito, vi s i esaurisce e deve senza tregua rinascere dal nulla per riprendere il suo slan- cio. Ma I'inclinazione verso il fine indefinito è esercitata sol- tanto nel concreto definito.

La conoscenza determinante entra allora in gioco. Specifi- ca la volontà per darle il suo mordente sui fatti, perché desi- dera il bene incarnandosi nella storia dei nostri giorni. Da que- sto punto di vista, la conoscenza determinante è tutt'altro che astratta; assicura alla volontà il suo permanere nelle nostre esi- stenze concrete. Non si può dunque contrapporre semplice- mente l'intelligenza alla volontà come ciò che è fisso a ciò che è dinamico, poiché si renderebbe così insignificante l'impegno deila volontà nell'azione effettivamente determinata. La volon- tà f a appello all'intelligenza determinante per realizzare il suo desiderio del bene.

All'inverso, l'intelligenza ha bisogno della volontà per esse- re animata e tendere verso la verità che, per essa, è un bene. Quando noi parliamo di una tendenza, di un desiderio imma- nente all'intelligenza, riconosciamo al suo orizzonte un bene trascendente che sfugge d'ordine deu'immanenza concettua- le, un universale per sempre offerto al consenso che esercita l'intelletto nelle sue affermazioni particolari. Questo termine ricercato dall'intelligenza Ia fa progredire in maniera continua e le f a analizzare le fasi di questo progresso ai fine di verifi- care-il suo avanzamento verso ii termine delia sua aspirazio- ne. E dunque la volontà che anima l'intelligenza affinché essa superi le sue pause determinate e raggiunga l'essere desiderato.

Ne consegue che la volo,ntà perfeziona la conoscenza come la conoscenza perfeziona la volontà. Il desiderio razionale si accorda d 'ente e in esso si riposa, affermandolo dinamicamen- te. Se si considera l'intelligenza come una facoltà determinante, questa non ha bisogno della volontà come facoltà di scelta per compiere la sua opera; infatti, non è libera del suo oggetto e compie iI suo destino interiorizzando ciò che le si impone. Tuttavia, la tensione che è ad essa interna, il desiderio che la ispira, è formalmente derivato ddla volontà, da un'estasi che precede la scelta determinante alla quale conduce, e che precede e supera ogni conoscenza.

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Lo spirito si unisce e si consegna così all'ente che lo attira; risponde al suo invito a stringere con esso un'alleanza; que- st'alleanza lo appaga in quanto conoscente e volente. L'ente si rende presente e si unisce d o spirito solo se questo si lascia convincere da un tale invito. 11 consenso all'essere attraverso ii quale Io spirito compie il suo desiderio risponde d'irradia- zione di ciò che si accorda ad esso. L'ente desiderato e cono- sciuto suggella finalmente l'alleanza deiie nostre facoltà di cono- scenza e di volontà; aderirvi è partecipare al suo dinamismo. L'intelligenza e la volontà sono così legate dalla presenza del- I'essere che si lascia conoscere amabiImente.

La disponibilità fondamentale dello spirito è esercitata in attitudini concrete. Una di queste la esprime meglio delle dtre, lo stupore. Integriamo così alla nostra riflessione aicuni livelli dell'esperienza umana che dipendono dall'affettività. La meta- fisica ha molto spesso ignorato la dimensione affettiva dell'e- sperienza; pensiamo che essa sia tuttavia essenziale. Una tra- dizione, che risale a1 XVII secolo, distingue la conoscenza tra- mite la ragione che scompone l'ente, e la conoscenza tramite ii sentimento che percepisce I'ente nella sua unità sintetica. La distinzione di Pasca1 tra lo spirito di geometria e lo spirito di finezza non è estranea a questa prospettiva. Si distingue anche la conoscenza astratta che determina mediante analisi, e la conoscenza concreta, o per connaturalità, che anima il desi- derio di allearsi d'oggetto nelia sua alterità reale. La disponi- bilità fondamentale, necessaria per accedere d'essere nel suo dono, è di fatto esercitata in un atteggiamento quotidiano, lo stupore, in cui l'intelligenza e la volontà si uniscono per ren- dere testimonianza al mistero dell'essere degli enti.

3. Lo stupore

Lo stupore è considerato neUa storia della filosofia come I'at- titudine che mette in movimento la conoscenza. I filosofi lo intendono tuttavia in funzione dei propri punti di vista. Pla- tone ed Aristotele lo interpretano in maniera così contrastata come l'insieme della Ioro filosofia; Heidegger vi mette in evi-

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denza la sua prima articolazione della <{differenza antologica». Dopo aver commentato ciascuno di questi autori, mostrere- mo le strutture fondamentali di quest 'attitudine.

a) Platone e Aristotele

Platone è stato il primo autore che ha attribuito allo stupo- re ii ruolo di i~iziatore alla filosofia. «Ed è proprio del filoso- fo questo che tu provi, di esser pieno di meraviglia; né altro cominciamento ha il filosofare che questo; e chi disse che Iri- de fu generata da Taunaante non sbagliò, mi sembra, nella genedogia>>l1. Nella mitologia greca Iride fa da mediatrice tra il divino e gli uomini; è la messaggera degli dei e trasmette agli uomini l'amore della saggezza o la filosofia. In quanto a Tuumaaate, non è un dio del panteon, ma una forma del verbo thaumazein (<<stupirsi», «meravigliarsi»). Per Platone, dunque, 1a meraviglia genera ciò che trasmette questo bene divino che è la filosofia.

Commentiamo liberamente questo pensiero. Lo stupore nasce da uno spettacolo inquietante che rapisce in un paese strano in cui il viaggiatore non ha più sicurezza, né evidenze. Siamo stupiti quando il nostro mondo abituale si apre e lascia apparire un mondo nuovo, imprevisto, forse inafferrabile e con ciò terrificante. Questo mondo ha una forza inquietante. Cib che stupisce è tremenduna; ci rivela le.nostre debolezze e il nostro accecamento di fronte alla realtà trascendente. E anche meraviglioso, desiderabiie, attraente. I1 Tremendm è parados- salmente fascinais. Provoca un tremore (tremendum), un sen- timento di inesistenza dinanzi d a sua potenza, ma senza tut- tavia sopraffarci. I1 fascinans meraviglioso affascina come se apportasse un messaggio gradito, piii che banalmente umano, una rivelazione divina che desideriamo accogliere in noi, e d a quale ci prepariamo con timore e rispetto.

Lasciandomi meravigliare, accolgo una singolarità che non posso misurare con il metro delle mie abitudini; divento così umile dinanzi aila reaità. Questo accoglimento mi invita ad

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uno sguardo nuovo sul mondo, più attento alla mia realtà effet- tiva, poiché è diverso da ciò che ne prospettavano le mie evi- denze. Questo sguardo nuovo mette in movimento la ricerca intellettuale e mi costringe all'invenzione. Vediamo uques te "apparenze" che abbiamo dentro di noi» lz, queste idee di uguaglianza, di accrescimento e di diminuzione; ci sono forse rivelate nel momento di una relazione abituale e tranquilla con il mondo sensibile. Ma, meravigliandocene, considerandole per ciò che sono nel loro significato proprio e confrontandole le une con le aitre, ci domandiamo <<che cosa sono questi pen- sieri che abbiamo in mente, e [vorremmo] vedere se tra loro vanno d'accordo oppure no» 13. Lo stupore risveglia l'intellet- to al gioco formale, in cui la coerenza deI mondo intelligibile viene nella sua luce. Per Platone lo stupore apre I'inteuigenza ai mistero deIla sintesi intelligibile e flessibile del molteplice ideale.

Per Aristotele lo stupore apre Io spirito ad un problema più che ad. un mistero. «Infatti gli uomini, sia ne1 nostro tempo sia dapprincipio, hanno preso dalla meraviglia lo spunto per fiiosofare, poiché dapprincipio essi si stupivano dei fenomeni che erano a portata di mano e di cui essi non sapevano ren- dersi conto, e in un secondo momento, a poco a poco, proce- dendo in questo stesso modo, si trovarono di fronte a mag- giori difficoltà, quali le affermazioni della luna e del sole e delle stelle e l'origine deil'universo. Chi è neu'incertezza e nella meraviglia crede di essere nell'ignoranza~ 14 . Lo stupore ha dunque trascinato i primi fisiologi a tematizzare la coerenza del mondo, Ha rivelato al medesimo tempo la natura dinami- ca dello spirito che trascende l'apparenza provvisoria e va verso un'unità più profonda delie cose. Lo stupore conduce I'intel- letto a superare l'utilità sensibile; dà vita d'esigenza che costi- tuisce lo spirito nella sua differenza con il mondo, nel suo desi- derio di sapere per sapere. Accostandosi a questo puro sape- re, lo spirito compie la sua natura, che lo Stagirita vede tal- volta, alla maniera di Platone, intima agli dei.

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La ricerca intellettuale non tende, se non in via seconda- ,ria, alla soluzione di problemi tecnici; essa si realizza perse- guendo un fine speculativo. La teoria è superiore alla tecnica. Questa rimane chiusa nell'urile; risolve i problemi che le sono proporzionati senza aspirare alla conoscenza dei suoi principi. A! contrario, la ricerca teorica è libera, perché è padrona dei suoi orientamenti; <<come noi chiamiamo libero un uomo che vive per sé e non per un altro, così anche consideriamo tale scienza come la sola che sia libera, giacché essa soltanto esi- ste di per sé» I S . La speculazione non mira che al proprio bene.

La speculazione si distingue anche dalla scienza pratica. L'uo- mo saggio non conosce la ragione della sua saggezza, mentre lo specuJativo cerca di penetrare fino alla causa ultima del suo sapere. E sufficiente al saggio essere prudente e conoscere ade- guatamente le circostanze dell'esistenza per addurre i suoi giu- dizi prudenti. Ma l'intelligenza speculativa cerca di conoscere ciò che, certo e valido per se stesso, è in sé la sua ragione e non toilera nessuna variazione al momento delta sua appli- cazione individuale. Essa si stupisce deu'incapacit à delle sue soluzioni a rendere conto veramente delle novità sensibili impreviste. Limitata dalIe sue certezze interiori, consegnata dai fatti nuovi ail'aporia, si convince di non poter progredire senza abbandonare i vecchi percorsi di indagine. Le occorre trovare un cammino nuovo per una soluzione pih universale e capace di integrare i fatti strani senza perdere, ciò nono- stante, quelio che aveva già potuto unificare. Lo stupore rive- la all'intelligenza il suo potere di trascendenza nei riguardi del sensibde instabile e molteplice.

Tuttavia, per Aristotele, lo stupore è in pratica desrinato ad estinguersi naturalmente quando si è risolta la difficoltà che l'ha generato. «Per un uomo esperto di geometria Ia maggiore stranezza deI mondo sarebbe la commensurahilit à della diago- nale rispetto ai Iato* '6. L'ideale aristotelico non è un oriz- zonte indeterminato in lontananza, suilo sfondo di un'apertu-

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ra indefinita deiio spirito; è nell'affermazione capace di abbrac- ciare e di spiegare la totalità di ciò che è. Per Aristotele, con- trariamente a Platone, lo stupore non nasce dal dinamismo del- lo spirito, ma dalla pressione dei fatti e dalla inadeguatezza deIle nostre conoscenze anteriori. Lo stupore obbliga a for- mulare giudizi nuovi che riflettono con maggiore esattezza la complessità del reaie. A conclusione di questo lavoro, il senti- mento di stupore non ha più motivo; l'insolito è entrato nel- l'evidenza di una nuova trasparenza concettuale. Lo stupore purifica dunque lo spirito da ciò che ne ferisce il giusto sguar- do, dalle sue idee avventate; ha termine una volta che si è riconosciuto ciò che è per ciò che esso è.

In Platone lo stupore è un meravigliarsi che apre lo spirito al mistero dell'origine divina deil'inteiligibile; in Aris totele fa sì che la scienza progredisca per il piacere dello studioso. Nes- suno di questi autori considera tuttavia che l'esistenza è una meraviglia. Non sarebbe nondimeno li Io stupore più radica- le? Perché vi è qualcosa piuttosto che nulla? Heidegger va in questa direzione: che I'ente sia, ecco lo stupefacente originale.

b] Heidegger

Heidegger vede in Platone ed in Aristotele delie consonan- ze con la sua intuizione fondamentale: sla filosofia e il filoso- fare appartengono a quella dimensione dell'uomo che noi chia- miamo disposizione» 17, e che specifica lo stupore. Per Plato- ne, secondo Heidegger, lo stupore è pathos ed archè. Per archè si intende il principio che attraversa tutto ciò che gli è subor- dinato; l'arckè è <<ciò da cui qualcosa trae origine. Ma questo "donde", in ciò che da esso si diparte, non viene lasciato cade- re» 11 principio è dunque esercitato attivamente in ciò di cui è I'origine; in questo senso, non è nulta senza ciò di cui è il principio. All'inverso, ciò di cui è il principio non è nulla senza questo. In redtà, il principio si irradia neila sua conse- guenza e la sua conseguenza si illumina aI suo chiarore. Quando

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Platone dichiara che lo stupore è il principio della filosofia, ,intende dunque significare che tutta la filosofia è attraversata da quest'attitudine, senza la quale non potrebbe né nascere, né svilupparsi. <<Il provar stupore sorregge la filosofia e la domi- na dall'inizio alla fine» '? Esso impegna lo spirito ad aprirci senza fine al mistero dell'essere.

In quanto ad Aristotele, sempre secondo Heidegger, si ingan- na nell'esaurire lo stupore nell'evidenza riconquis tata. Certo, lo stupore conduce ad interrogarsi sulla causa dell'insolito, su ciò che ha una normalità più alta, più universale ed origina- ria. Ma se questa cammino distrugge l'incertezza delI'anorrnale nella certezza del normale, esaurisce la questione filosofica in una norma ultima o in un principio primo. Ora, perché que- sto principio sarebbe la fonte della normalità? Da dove viene una tale precomprensione deil'originario come norma o causa formale? Questa confusione ha dei vantaggi; permette di iden- tificare Ia certezza con la forma. Ma in che modo ii principio non sarebbe aliora un'idea postulata dalla sola esigenza delIa ragione? 11 principio aristotelico è forse diverso da una pura forma costruita dall'inteliet to?

Di fatto, un pathos, o una passione, è essenziale per aprire lo spirito d'essere. Lo stupore è un'attitudine che fa parte delle r~assioni». Di solito si intende per passione un ribollire affet- tivo ed incontrollato della soggettività. Ma per l'analisi filoso- fica la passione è più semplicemente il contrario deil'azione: I'uomo passionato subisce l'attrattiva di un valore, di un'idea, di una persona. D'dtra parte, etimologicamente, <<patire>> signi- fica «soffrire, subire, pazientare, sopportare fino d a fine, lasciar- si portare da, lasciarsi determinare mediante.. .>, 20. In questa passività, la coscienza si lascia toccare da ciò che è e vi si dispo- ne, prendendo distanza rispetto alle sue acquisizioni preceden- ti. L'inquietudine della coscienza scientifica rende così testi- monianza della profondità delle cose; stupita da ciò che è, sco- pre di patire I'ente che non conosce ancora molto bene; si dispo- ne allora a lasciarsi accordare nuovamente ad esso.

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Lo stupore si rivela come una disposizione originaria, carat- terizzata da due tratti: un arresto ed un'apertura. «Nel pro- var stupore noi subiamo un arresto. Arretriamo, per così dire, davanti ail'[ente], davanti al fatto che esso è ed è cosi e non altrimenti»21; la coscienza si sottomette cosi a ciò che è, misterioso ed inquietante. Ma, a1 tempo stesso, lo spirito stu- pito è <<rapito verso e, per così dire, incantenato, da ciò davanti a cui arretra» 22; si lascia affascinare dalla meraviglia percepi- ta. La sua vocazione ad un esdio e nello stesso tempo ad un'e- stasi gli è così rivelata come la sua essenza più alta.

Parallelamente a questa rivelazione sullo spirito, lo stupore rivela il senso dell'ente nell'essere; <{lo stupore è la disposizio- ne all'interno della quale il corrispondere all'essere dell'Eente1 fu assegnato ai filosofi Ma che cos'è l'essere del- l'ente?

C) Ufla prima dqferenza antologica

Le cose non offrono più, quando stupiscono, una dimora allo spirito, che ha cosi I'impressione di essere privato delle sue note evidenti. Questa esperienza è in un primo momento dolorosa. Noi abbiamo bisogno di evidenze per vivere senza difficoltà; sarebbe insopportabile interrogarsi senza tregua su tutto. Come sussistere, se tutto diventa problematico? Per vive- re l'uomo dev'essere in casa propria, in presenza di enti sicu- ri, e deve riposare con sicurezza. Ma in tale sicurezza, la coscienza scorge un mondo fatto alla sua misura, limitato a ciò che prescrive la sopravvivenza del corpo e la tranquillità deil'anima. Nella sicurezza e nell'evidenza, l'uomo scivola sulla superficie degli enti che lo appagano in proporzione alta sua disattenzione per ciò che essi sono.

Quando l'ente si ritrae dal luogo evidente che lo spirito gli aveva assegnato, questo lo mette in pericolo. Mentre lo spiri- to era convinto di conoscerlo bene e si affidava ad esso, ecco

21 In., l>. 43 2z Ibid. 2' Ibid.

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che quello lo provoca e lo gerta nell'inquietudine, imponen- 'dogli un rischio che noil gli piace correre. Ciò che stupisce mette in discussione la sua comprensione precedente. D'ora innanzi occorre che lo spirito prenda in considerazione il peso dell'apparenza per ciò che essa ì: e non se ne soddisfi più, arre- stando il suo sforzo. L'ente che suscita stupore interrompe il sistema in cui era stato ridotro. Rivendica la sua estraneità e la sua resistenza alle prese del bisogno vitale. Lo spirito sa che deve e può sottomettervisi. Colui che si lascia guidare dalla cosa sorprendente, che le presta una nuova attenzione, è sol- lecitato a modificare Ia sua «vista» distratta in c<sguardo)} atten- to, il suo <<sentire» confuso in <<ascolto» raccolto. Lo stupore promuove così una possibilità che lo spirito ignorava distrat- tamente: quella di accogliere ciò che non fa parte del suo mon- do spontaneo, che è originale in se stesso. Lo spirito si apre in tal modo all'alterità. Quest'apertura è un'avventura.

Tuttavia la cosa sorprendente costituisce una miiiaccia; mette in pericolo la sicurezza e il benessere di chi, temendo di usci- re dal proprio torpore, le oppone dunque resistenza. La pri- ma reazione di chi è stupito non è forse quella di ricondurre la singolariti all'ordirie? L'uomo teme di perdere la propria sussistenza e di morire se non nega al sorprendente la sua stra- nezza inopportuna. Egli deve dunque ripristinare le sue evi- denze, oppure trovarne delle nuove. L'ordine deve vit almen- te prevalere sul disordine. Ma questa prima reazione non può impedire che v i sia stato uno stupore. Lo spirito è stato sradi- cato dalle sue evidenze e mandato in esilio. Si deve quindi assumere questo arretramento senza occultare ciò che si è pro- vato e prolungarlo entrando in spazi e tempi nuovi. Rifiutare di iniziare quest 'avventura sarebbe chiudere gli occhi sulla sin- golari& dell'ente e sull'originaiità dello spirito. Chi rifiuta que- sta frattura non accede al riconoscimento della sua specifici1 à.

L'ente che suscita stupore manifesta la sua novità ed esce dal sistema delle relazioni nelle quali lo si attendeva in antici- po. M3. lo spirito reagisce; è provocato a costruire una nuova dimora d'insolito, una nuova ragione che renda conto di que- sta nuova apparenza. Lo stupore tende allora ad eliminarsi da se stesso. Si è visto che era inutile costringere l'insolito a rien-

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trare nel vecchio sistema in cui I'attendeva l'abitudine. Occorre dunque, al contrario elaborare un sistema nuovo più rigoroso, che integri la novità in maniera coerente, ma senza nulla per- dere di ciò che era stato già conosciuto.

L'arretramento dell'ente fuori dell'immediatezza evidente convoca lo spirito dinanzi alla realtà che gli fa resistenza. Le sue vecchie evidenze non rispondono più; si interpone dun- que una distanza tra gli enti e le mediazioni attraverso le quali si pensava di poterli trattenere. Ente e spirito hanno assunto a tal punto la loro autonomia reciproca che le loro relazioni precedenti sprofondano nell' in~i~nificanza. L'ente è problema- tico, e lo spirito è anche divenuto una questione per se stes- so. Come rendere conto delle sue illusioni e dell'apparizione dell'ente n d a sua nuova verità? In che modo esprimere il diva- rio tra ciò che è e lo spirito, questo <<nulla» che libera dalla disattenzione?

La trasformazione dell'ente è un problema per lo spirito che si è lasciato cogliere di sorpresa dd'energia interiore delle cose. Occorre interrogarsi su quest 'apertura dello spirito che attra- versa una negazione, il <<nulla>> deil'dlusione perduta. Lo spi- rito si stupisce di essere stato incapace di rendere conto di ciò che veramente è. Come ha potuto lasciarsi corrompere da evidenze misurate dalla sua tranquillità e non daila verità del- l'ente? Come ha potuto fare affidamento sull'illusione? In che modo è stato capace di conoscere ciò che non è, il <<nulla»? Stupiti, pensiamo che l'ente è cambiato, ma questa è un'illu- sione. L'ente stupefacente non è cambiato in profondità, ma in apparenza. Esso stupisce d'altronde per questo motivo. E lo spirito che deve darsi un'identità nuova, lasciandosi con- durre dall'esdio delle illusioni tranquille fino alla verità di ciò che è realmente. Lo spirito, acconsentendo alla non-evidenza della verità, ne scopre l'essenza e l'apertura dinamica in cui riconosce la propria essenza.

Lo spirito t: rinnovato dall'esperienza dello stupore. L'ente ugualmente. Ciò che stupisce non è veramente diverso da ciò che era. Se fosse divenuto altro, ci si rammaricherebbe della sua perdita e ci si rallegrerebbe di trovare qualche cosa di nuo- vo, senza interrogarsi sul suo rinnovamento. I1 rinnovamento

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dell'ente è pensatc riconoscendo la sua identità attraverso la ' successione delie sue apparenze. L'apparenza evoca comune- mente, in maniera platonica, ciò che non è veramente il fon- do detle cose; sembra scivolare sulla superficie dell'en te senza rivelarne la realtà profonda. Cogliendo l'apparenza, si coglie- rebbe dunque ciò che non ha una ragione vera per l'intelli- genza. L'ente si opporrebbe d'apparenza come ciò che è vera- mente degno di fiducia si contrappone a ciò di cui non ci c i può fidare. Tuttavia l'apparenza non è privata di interesse intelligibile; la si percepisce ritornando au'esperienza dello stupore.

La riflessione su questa esperienza mostra che la conoscen- za vi progredisce senza abbandonare il dominio deile apparenze. Si osserva infatti che si scava una distanza tra Ia vecchia appa- renza, giudicata illusoria o parziale, e la nuova apparenza che, si ritiene, lascia trasparire ii fondamento dell'ente in una manie- ra più limpida. Per questo motivo si giudica legittimamente che non vi sono apparenze che apparenti. Ma in realtà ciò che appare non è una cccosa» diversa da ciò in cui appare. Non facciamo due esperienze, una deu'apparenza, l'altra del fon- damento. L'apparenza e la sua provenienza non sono separa- te nell'esperienaa; anche per Kant, «noi dobbiamo poter pen- sare gli oggetti stessi [da cui proviene l'apparenza] anche come cose in sé, sebbene non possiamo conoscerli. Giacché altrimenti ne seguirebbe l'assurdo che ci sarebbe una apparenza senza qualche cosa che in essa appaia» 14. In realtà, dunque, l'appa- renza si distacca sullo sfondo dell'ente come sua presenza deter-

' minata e provvisoria, ma la presenza del10 sfondo è ascoluta- mente reale nd'apparenza. È senza dubbio suscettibile di futu- re presentazioni nuove; potrà essere integrata piii tardi in insie- mi intelligibili più ampi; ma ciò non significa che l'apparenza presente sia erronea. La verità dell'apparenza è nell'apparen- za che introduce alla pienezza unificata deli'ente. E conosciu- t a come tale quando lo spirito, senza scostarsene, vi sente il fulgore di una presenza ricca nei suoi aspetti successivi.

24 E. &m, Critica &h rugio~i puru, p. 26.

1V. CNA DISPOSIZIONF. FONDAMENTA1 E 135

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L'esperienza dello stupore, che dà origine alla coscienza di una differenza tra ciò che era prima conosciuto delt'ente e ciò che è conosciuto adesso, fa riconoscere la parzialità provviso- ria del primo giudizio, provocando l'intelligenza a rivedere i suoi metodi di approccio del reale. Essa invita a lavorare in una maniera più rispettosa del reale e delinea dunque un campo futuro per il lavoro intellettuale. I1 divenire della conoscenza è fatto, tra l'altro, della purificazione dei suoi a priori psicolo- gici e sociali, delle sue abitudini.

Ma, ammesso ciò, non si può assimilare l'apparenza all'er- rore; sarebbe non riconoscere la relazione necessaria che la uni- sce a ciò che vi appare. Occorre in verità raccoglierla in seno al dinamismo della coscienza come uno stadio della sua rea- lizzazione. Essa non è un filtro da rimuovere per raggiungere iI reale, ma una presentazione attuale della verità. Poiché I'ap- parenza concerne il nostro punto di vista parziale e provviso- rio suli'ente, è intesa in quanto l'ente vi si presenta redmen- te nelia sua unità e totalità future e oggi trascendenti per que- sto motivo. Lo stupore conduce a relativizzare un punto di vista in ragione della percezione di un'apparenza nuova; non vede nell'apparenza un errore da negare, ma una rappresenta- zione da integrare in una prospettiva piii ampia. L'apparenza è percepita come tale, comprendendovi una totalità futura.

La differenza tra l'apparenza e l'ente è dunque identica a quella dell'ente per noi e dell'ente in sé. Ma l'ente per noi è l'ente in sé. Se non fo fosse, non potremmo mai riconoscere che tale apparenza «per noi» è veramente l'apparenza di ciò che è in sé. L'ente si presenta nelle sue apparenze in cui si proporziona alle nostre capacità di presa. Non può essere inac- cessibile in sé. Il fenomeno colto è proprio il fenomeno del- l'ente. Lo spirito si conosce capace di andare verso il fonda- mento della presenza fenomenale e di coglierlo nel fenomeno stesso. Se non lo potesse fare, non sarebbe mai stupito dalla sovrabbondanza dell'ente trascendente e non desidererebbe rag- giungerlo. Si accontenterebbe di qualsiasi apparenza passeggera.

L'esperienza delio stupore invita dunque a cogliere l'ente nelle sue apparenze e nella sua trascendenza. La capacità di meravigliarsi per il rapporto della trascendenza alle sue appa-

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renze e per il. segreto che l'ente mantiene, nonostante questa 'presenza, struttura lo stupore, questa disposizione originaria che congiunge I'intellet to al17ente.

La metafisica che interroga sul principio primo degli enti, si applica dunque innanzitutto d'esperienza dello stupore che mette in movimento la conoscenza e che accompagna ciascu- na delle sue fasi. La conoscenza non è soltanto un'operazione di analisi; non si acconrenta di scomporre l'ente e di astrarne tutti gli elementi possibili; vuole raggiungere ciò che è come esso è. Per questo occorre che sia a ciò disponibile. Abbiamo dunqui presentato quda che è tradiziondmente la disposizione più fondamentale della conoscenza, Io stupore.

Platone distingueva, tra le potenze della conoscenza, i: ~ o i s che presiede all'intuizione delle idee e la dianoia che organiz- za le argomentazioni discorsive. Il Medio Evo parlava di intel- Zectus capace di <(leggere dall'internm (intus-legere) gli enti e la mtio ragionante, atta alie dispute scolastiche. I moderni par- lano piuttosto di ragione trascendentale che tende verso il prin- cipio e di intendimento che assume la funzione delI'analisi. L'esperienza prima della conoscenza, o lo stupore, integra nello stesso tempo l'analisi che divide e la percezione superiore del principio, qualunque siano i nomi con cui si indicano le potenze che ne sono rispettivamente capaci.

Lo stupore conduce l'intelligenza ad affinare le sue analisi; le fa anche prendere coscienza della sua potenza che va oltre l'intendimento, della sua ratio. La fai20 è infatti animata dal desiderio di comprendere ciò che è come esso è, essendo orien- tata rispettosamente verso l'ente; vi è dunque naturalmente in essa una dimensione etica. La volontà ha qui un'importan- za prima; è infatti strutturalmente estatica, mentre la cono- scenza assimila i suoi oggetti.

L'essenza deIla scienza prima è così confermata e precisata. Non è la più universale in seguito ad astrazione di ogni diffe- renza tra gli enti. La scienza prima, la più elevata di tutte le scienze, è la più interiore di tutte. Lo mostreremo progresci- vamente, dopo aver trattato alcune categorie ontologiche clas- siche.

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CAPITOI.~ QUINTO

ONTOLOGIA

L'analisi dell'esperienza dello stupore ha messo in luce una tensione tra l'ente in sé e l'ente per noi, tra il fondamento e la sua apparenza fenomenale. Questa tensione, la cui artico- lazione è sostenuta dall'deanza tra l'ente e lo spirito, è stata enunciata classicamente per mezzo delle categorie dell'onto- logia. Queste categorie hanno la caratteristica di mediare: non descrivono nulla, ma strutturano la nostra intelligenza dell'al- leanza ontologica. La voce aontologia» indica d'altronde I'even- to originario dell'deanza del logos e dell'ente in cui nessuno di questi termini è senza I'aitro.

Il cambiamento stupisce, perché fa vedere una frattura fra ciò di cui abbiamo fatto precedentemente l'esperienza e ciò che si presenta adesso. Di fatto, per lo spirito, il cambiamen- to non tocca il tutto dell'ente, ma i suoi modi di apparire. L'ente che era questo è divenuto quello, pur rimanendo ciò che era. Pietro, che era un bambino timido, è ora un adulto intraprendente, pur restando Pietro. Noi sperimentiamo nel- lo stupore una differenza tra il nucleo dell'ente che rimane e la molteplicità delle sue apparenze. Di qui le indagini scien- tifiche, che si danno a priori un oggetto costante, benché non lo conoscano che attraverso le sue variazioni. Se la scienza non raggiungesse che apparenze variabiii, sarebbe condannata al fenomenismo e non potrebbe mai conoscere che delle linee pun- teggiate di apparenze senza legami. La frattura tra l'oggetto costante e le sue apparenze sembra tuttavia radicale nel

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momento in cui l'ente scompare. Ma anche allora lo stupore sollecita a cercare la causa del cambiamento, e con ciò ad inse- rire l'annichilimento dell'ente in una sorta di normalità ragio- nevole, una legge universale della fisica, per esempio, o una concezione della natura come l'unica sostanza che permane fin- tantoché ci saranno delle apparenze.

Lo stupore mette in movimento l'attività intellettuale. Noi vedremo nelle categorie deli'ontologia classica una maniera del tutto generale di articolare quest'attività in ragione del suo oggetto. La sostanza è il nucleo stabile deU' oggetto conosciu- to; i suoi accidenti sono ciò che cambia. Questa prima divi- sione categoriale è precisata in dtre, le cui funzioni sono diver- se in seno alI'alleanza antologica primordiale. Le une toccano Ia struttura logica deil'ente; così l'<(essenza» designa l'intelli- gibilità cr priori della sostanza, mentre le nostre definizioni sono la sua <<quiddità». Altre, la coppia ciforma-materia*, soprattutto, concernono maggiormente la struttura reale delI'ente ed invi- tano ad oltrepassare la sua sola intelligibilità formale.

Precisiamo adesso ciascuna di queste categorie. Non esau- riremo qui tutti i problemi che esse pongono; vogliamo sola- mente mostrare in che modo esse articolano l'alleanza ontolo- gica nella sua struttura universale e necessaria. Procederemo ogni volta esponendo i dati essenziali della filosofia aristoteiico- tornista, proponendo poi la nostra interpretazione.

1, La sostanza

La metafisica pone questioni intorno alla sostanza. L'anali- si dell'esperienza delio stupore fa intendere per <{sostanza» ciò che rimane sotto le apparenze mutevoli.

a) Storia

La parola «sostanza>>, composta dalle due parole latine rzkb (sotto) e stans (che sta), significa letteralmente ciò che sta sot- to. Essa traduce il greco hypokeimenon, formato anch'esso da una particella (hypo: sotto) e da un participio (keimenon: che

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si trova). I1 significato di questa parola dipende dd'intelli- gema che si ha della tensione che regna tra i due piani artico- lati mediante la preposizione sub.

La sostanza si oppone dapprima a ciò che è ornamentale, d'accessorio. La sostanza di un discorso, ad esempio, si distin- gue dalle variazioni di stile, dagli effetti retorici utilizzati per convincere o per farsi comprendere. La sostanza è <<sotto» le apparenze che sono <<sopra» di essa, come il letto di un fiume immobile sotto i flutti che scorrono su di esso. Si può dire similmente che la sostanza è un «sostrato* (da szlb-stemere, «stendere sotco»j, o ancora un <{soggetto>> (da mb-jectzawa, ciget- tato sotto») che sorregge ciò che giunge e passa. Secondo queste spiegazioni, la costanza è, dell'ente, ciò che sostiene i feno- meni mutevoli secondo le circostanze; non cambia ad arbitrio dei fenomeni di superficie. A motivo di questo permanere, la sostanza è detta <<in sé»; si esprime con ciò che essa non ha il suo principio di unità nei suoi fenomeni, ma in se stessa; i suoi fenomeni sono uniti in essa. Essa dipende da se stessa e non da ciò che le accade.

La sostanza può essere concepita ad immagine del soggetto della proposizione che, quantunque uno, può ricevere un nurne- PO indefinito di predicati, secondo gli affinamenti progressivi della conoscenza che ne abbiamo. Pietro è alto, bruno, ele- gante, fidato, lavora in un laborarorio, ecc. La struttura della proposizione si presta facilmente a ciò. La sostanza è il sog- getto al quaie si attribuiscono diversi predicati come altret- tanti fenomeni. Ne consegue che la sostanza, sorreggendo tutti i suoi predicati, non può essere concepita adeguatameme che di per sé. Infatti, se esca è un soggetto primo, nessun predi- cato, nessuna determinazione può precederla, poiché questi pre- dicati molteplici si riferiscono tutti ad essa che li precede, iden- tica a sé, semplicemente raccolta in sé. Insomma, «per sostanza intendo ciò che è in sé, ed è concepito per sé: vale a dire ciò, il cui concetto non ha bisogno del concetto di un'altra cosa, da cui debba essere formato» l .

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Ma questa definizione deiia sostanza non soddisfa intera- mente. Infatti, la sostanza non è un soggetto disposto a rice- vere qualsiasi predicato che si potrebbe aggiungere e che essa potrebbe abbandonare senza conseguenze. L'esperienza delio stupore ce lo ha mostrato. La sostanza si presenta nei suoi feno- meni non in una maniera altera e distaccata, ma essendo real- mente impegnata in essi. Non possiamo immaginare la sostanza come una realtà certa, dietro ad apparenze illusorie. Nono- stante Ia sua etimologia, la sostanza non può essere concepita immobile sotto i suoi fenomeni passeggeri.

La problematica della <{sostanza» è stata introdotta da Ari- stotele nella sua Me&fiszcla e nelle sue Categorie. La Metafisica VI1 3 distingue 4 sensi della parola «sostanza»: essenza, uni- versale, genere e sostrato. La problematica di questo testo si iscrive in una discussione sulla materia e la forma. Aristotele trae la conclusione che la sostanza, nei senso più rigoroso, è la forma. Come vedremo in seguito, la forma determina intel- ligibilmenre la materia. In questo senso, la sostanza è l'intel- ligibile che rimane sotto gli accidenti sensibili e mutevoli; è il loro sostrato. I presocratici avevano già pensato in questa direzione, ma comprendendo in modo materiale ciò che rima- ne; almeno Aristotele la pensa così, prestando loro il suo lin- guaggio. Per essi, a suo parere, «la sostanza permane pur can- giando nelle sue affezionip2, I'acqua di Talete, per esempio. I1 contesto dell'analisi della Metafisica invita a non soffermar- ci adesso su questo testo. D'altra parte, se la sostanza viene troppo identificata con la forma, si rischia di interrompere l'unità iiemor£ica così fondamentale in Aristotele.

I1 testo delle Catego~e, tanto importante nella tradizione filo- sofica, enuncia una probkmatica pih feconda: «"Sostanza" nel senso più proprio, in primo luogo e nella più grande misura, è quella che non si dice di un qualche sostrato, né è in un qualche sostrato, ad esempio, un determinato uomo, o un determinato cavallosf. La sostanza è dunque in senso proprio l'ente individude, ai quale si attribuisce questo o quel predi-

ARISTOTELE, Metafisica I 3 , 983h ARISTOTELE, Cateiutic V, 23.

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1,: caro. L'espressione: <<la sostanza non si dice di un qualche sostrato, né è in un qualche sostrato>> è chiarita dai Secondi 'Analitici I 22; si applica al soggetto ultimo di attribuzione. quello che non può diventare un predicato per un altro sog- getto in un'aitra proposizione. La sostanza, in senso fonda- mentale, non è predicabiie; è in sé.

La sostanza prima ha diverse caratteristiche. Non ha con- trario, poiché è individuale, e l'individuo <<Bruxelles,> o «Pie- tro>> non ha contrario. Può tuttavia ricevere caratteristiche con- trarie, ma successive, senza cessare di essere la stessa costan- za. Giovanni è addormentato, poi svegliato, identico a sé, ma senza mai essere addormentato e svegliato nello stesso tempo.

AristoteIe distingue poi sostanza prima e sostanza seconda. In senso proprio la sostanza & prima, come un soggetto dispo- nibile per ogni predicar0 che gli potrebbe convenire. Per quan- to riguarda le <(sostanze seconde}>, queste sono <<Le specie, cui sono immanenti le sostanze che si dicono prime, ed oltre alle specie, i generi di queste. Ad esempio, un determinato uomo è immanente ad una specie, cioè alla nozione di uomo, e d'al- tra parte il genere di tale specie è la nozione di animale. Que- ste - ad esempio le nozioni di uomo e di animale - si dicono dunque sostanze seconde!r4. Si ricava da ciò che più si è vici- ni d'individuo, più ci si avvicina alla sostanza prima; più ci si avvicina d'universaie, più ci si allontana da essa per incon- trare deiie <<sostanze» di ordine logico più che esistentivo. Gio- vanni e Pietro sono sostanze reali; «uomo)> è una sostanza logica.

Le sostanze seconde hanno tuttavia una funzione essenzia- le; rendono possibile la conoscenza dell'individuo in seno ad un universo ordinato in specie ed in generi, gerarchizzato per esempio in ente, vivente, mobile e pensante. Essendo univer- sali, possono divenire predicati per una vera conoscenza. La loro universalità non è del resto senza realtà; Pietro e Gio- vanni sono realmente «uomini>>. Nella misura in cui una sostan- za seconda presenta una sostanza prima in maniera adeguata, la si può qualificare <(sostanza», benché l'individuo sia il solo ad essere veramente una sostanza.

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L'individuo è rtsottos la sostanza seconda che ne rende pos- sibile la conoscenza. Se la sostanza seconda enuncia l'essenza universale dell'individuo, se <<uomo» dice appunto che ci sono veramente Pietro e Giovanni, la sostanza prima individuale resta tuttavia inconoscibile in sé. Le nostre modalità di cono- scenza implicano tutte qualche universalità. Come potrebbe- ro far conoscere adeguatamente l'individuo? Certamente, se non c'è sostanza prima, non vi è nulla da conoscere; se dun- que si conosce qualche cosa di reale, anche per mezzo di uni- versali, queste sono delle sostanze prime. Tuttavia non si cono- scono semplicemente a partire da se stesse, ma a partire da ciò che esse hanno in comune con altre sostanze prime. La sostanza prima è dunque un orizzonte di ricerca; comprenderlo è un compito indefinito.

Per san Tommaso, in conformità ad Aristotele, la sostanza prima sussiste in sé. La si concepisce come un limite ultimo; la si afferma senza comprendere nel suo concetto una realtà che sarebbe differente da essa. Se si può considerare, in alcu- ne situazioni, un soggetto logico come una sostanza (abbiamo allora una sostanza seconda, per esempio <<uomo>>), solo l'in- dividuo è reale e sussistente.

La sostanza seconda è logica, la sostanza prima sussiste. La differenza tra la sostanza prima e la sostanza seconda è dun- que solamente pensata poiche essa non separa due realtà: ne risulta che la sostanza prima non sussiste in virtù delle sostanze seconde, che sono per essa. Tuttavia la sostanza in sé (in se) è orientata verso un'altra (ad aliud) per poter essere intelligi- bilmente accessibile. Se fosse rinchiusa in se stessa, la cono- scenza, che non si effettua senza sostanze seconde e univer- sali, non potrebbe coglierla; non conosceremmo allora mai che il tutto del nulla. Resta il fatto che I'universaIe non può esse- re affermato da un soggetto reale o essere pensato in un sog- getto reale come se avesse una propria realtà che si aggiunge- rebbe all'individuo. Ma allora la conoscenza dell'individuo rimane una difficoltà.

E pritna di tutto necessario, secondo un'esigenza puramen- te razionale, che l'individuo possa essere conosciuto, senza di che non conosceremmo mai nulla. L'universalità del predica-

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to non può dunque essere estranea all'individualità della sostan- 'za prima. La teoria tornista dell'elaborazione dell'universale ha qui la sua importanza. Per il momento, ci è sufficiente insi- stere su ciò: poiché l'intelletto umano non può lavorare senza universale, la sostanza prima deve corrispondere a tale neces- sità, accordandosi da se stessa ad altre sostanze. La sostanza prima, per essere intelligibile, deve da se stessa universaliz- zarsi. Essa è necessariamente in se e ad alizad.

Così, la tradizione aristotelica definisce la sostanza diver- samente dall'etimologia. Certo, la sostanza è permanente ed invariabile «sotto>> i suoi accidenti. Tuttavia, non è dapprima permanente, ma è in sé e verso un dtro. I filosofi antichi non hanno definito la sostanza contrapponendo soltanto la fugaci- t à delle apparenze sensibili alla stabilità deli'idea pensata. La categoria di «sostanza» significa piuttosto per essi una neces- sità oggettiva che risponde ad un'esigenza dell'inteiietto. Occor- re che noi conosciamo qualche cosa «sotto» le nostre forme intelligibili. Benché siano irriducibili alle sostanze seconde, le sostanze prime devono essere conosciute attraverso quelle.

Con l'avanzare dei tempi moderni, l'idea di una sostanza stabiIe, permanente ritornerà in primo piano. Per Cartesio, la sostanza è in sé e per sé; ma non mancano nel suo pensiero dei tratti che richiamano la permanenza dell'ente intrarnon- dano. Per Kant, la sostanza è un fondamento dell'ente; rispon- de ad un'esigenza intellettuale più che ad una constatazione di fatto. La <<cosa in sé», vde a dire il reale al di là delle nostre rappresentazioni, dei nostri fantasmi, non si presenta realmente altrove che nelle nostre rappresentazioni sensibili. Anche se non si riduce ai fenomeno sensibile, non possiamo conoscerla fuori di esso. Non conosciamo dunque la sostanza in se, ma per mediazione, attraverso il suo permanere che risponde ad un'esigenza dell'intelietto. In fondo, il noumeno è una sostanza, non reale, ma trascendentale. La sostanza, che dev'essere onto- logica, è inconoscibiie come tale. Se si vuole che mantenga un significato per la conoscenza occorre prima ridurla ad una forma dell'intelletto, al noumeno. La sostanza E una forma Q priori per la ragione.

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Questa forma non è aristotelica; non unifica lo sperirnenta- to, ma il lavoro deil'intelletto. La sostanza è la guida trascen- dentale dell'impegno intellettuale. Per Kant, «le categorie pure (e tra queste anche quella di sostanza) in se stesse non han [mai] verun significato oggettivo, ove ad esse non sia sottopo- sta un'intuizione, al cui molteplice si possano applicare come funzioni dell'unità sintetica^^. I1 senso della forma non è quello di unificare il reale, ma di unificare il lavoro dell'in- tendimento. Non possiamo comprendere nulla se non compren- diamo unificando attivamente. La sostanza è dunque una fun- zione razionale piuttosto che un soggetto reale; organizza il lavoro intellettuale. Dando una regola alle nostre costruzioni intellettuali, essa unifica la nostra conoscenza. Con ciò, addi- ta verso ciò che <<rimane» sotto il diverso fugace, il <<perma- nente» senza del quale nessuna conoscenza potrebbe mai essere costruita. Ma questo sostrato è più un orizzonte escatologico che non un dato di fatto.

Con i tempi moderni, ritorniamo al significato etimologjco della sostanza; la sostanza è ciò che resiste sotto ciò che pas- sa. Ma ciò non è che una necessità del pensiero, una misura deUa sua efficacia, un postuiato trascendentale: non ne pos- siamo trarre alcuna conoscenza che ci darebbe informazioni su1 <<reale».

L'esperienza dello stupore rende attenti alla permanenza del- l'ente ed alla sua identità attraverso la moIteplicità dei suoi mutamenti. La metafisica vuole rendere conto di questa espe- rienza e delle necessità della sua intelligibilità. Esamina il pro- blema in una maniera ampia, attiva, senza accontentarsi di defi- nizioni nominali, né di descrizioni neutre. La sostanza è un progetto, un compito che l'intelletto esegue progressivamen- te, svolgendo le sue diverse potenzialità, in particoJar modo quelle scientifiche; è un orizzonte d ' interno del quale l'intel- letto lavora. La riflessione sdla sostanza impegna dunque la

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riflessione sul destino dell'intelletto. Per questo motivo non possiamo concludere fin d'ora la nostra meditazione sulla sostanza; essa accompagna ciascuno dei nostri momenti. Saremo condotti progressivamente ad affinare, lungo tutto il nostro studio, questa categoria fondamentale.

Secondo il rigore aristotelico, la sostanza è ineffabile. Si potrebbe dirla irrazionale se l'intendimento, che è la potenza dell'universale, fosse ii tutto della ragione. L'individuo è infatti irriducibile alle sue determinazioni universali; la sostanza pri- ma è dunque inaccessibile aile forme dell'intendimento uni- versalizzante. Questa ineffabilità è tuttavia superata dalla cono- scenza effettiva. Se ciò non fosse, non potremmo mai cono- scere qualche cosa. La conoscenza deve dunque poter andare oltre le sostanze seconde ed i predicati universali per ritrova- re la semplicità del reale individuale. Quando dico che cipie- tra è un uomo>>, dico che se questa «cosa» non è un uomo, non è Pietro. La sostanza è cosi ai termine di un'apertura intel- lettuale che non esaurisce l'intendimento universalizzante.

La sostanza è in sé, non in un altro, non in altro luogo che in se stecca. È essenzialmente unita a ce stessa, raccolta nella sua unità semplice, termine di una certa intuizione intellet- tuale e non di una costruzione scientifica. La sostanza è a priori. Si dice talvolta che la sostanza seconda è anche in sé. Ma occorre precisare d o r a ciò che con questo si intende. La sostanza seconda non può essere concepita come un'entità sus- sistente in sé, senza altro supporto d'infuori di sé. La sostanza universale e seconda «uomo» unifica le nostre esperienze mol- teplici di uomini diversi e non ha senso che con ciò. <{Si dice di un sostratou6, che essa non è immediatamente. Sussiste dunque in un altro. Ma questo altro deve poter essere desi- gnato da questo universale. La sostanza seconda è predicabile di un dtro nella misura in cui questo può riceverne una giu- sta determinazione. La sostanza seconda è dunque affermata di un altro e in un altro.

In che senso la diciamo allora in sé? Dire che c<Socrate è un uomo)> suppone qualche realtà di «uomo» che non sia esau-

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rita dalla singolarità di asocraten. Socrare fa realmente parte della classe «uomo». Quando attribuisco *uomo» a <<Socrate>r, apprendo qualche cosa di nuovo sulla sostanza individuale «Socratei> che, di norma, è isolata, in sé. Questa informazio- ne nuova non proviene soltanto dalla considerazione della sostanza solitaria, poiché la pone tra ciò che essa non è, in un universale. L'individuo fa parte di un universale; in que- sto senso è una delle sue parti; di qui la sua <<particolarità». Le sostanze seconde sono predicati che possono determinare i loro soggetti particolari, perché ii loro significato precede que- st'applicazione. La sostanza seconda ha dunque aspetti che la rendono in qualche maniera indipendente dalla materia pri- ma, che ne fanno un a priori. Tuttavia non ne consegue che la sostanza seconda potrebbe sussistere in se stessa. Solo la sostanza prima sussiste realmente; la sostanza seconda è in sé secondo le necessità del pensiero. Si dimostra con ciò che l'in- dividuo è, per il pensiero, intrinsecamente aperto a ciò che non è semplicemente in sé, ma che gli conviene in modo ade- guato.

La sosranza prima è atiche per sé. La sua perseità segue dalla sua inseità nella misura in cui, essendo raccolta in sé, non è destinata ad essere riassorbita in un altro che sarebbe il suo fine ed essa un mezzo; radicalmente in sé, è solitaria e vale per sé. Dicendola per sé, si intende significare la sua unità propria che nessun altro, alI'infiioi-i di sé, giustifica; la sostanza per sé è in questo senso iinica. Essa è e vale, sia che vi siano altre sostanze, sia che non ve ne siano. La sostanza per sé è indifferente a tutto il resto; da questo punto di vista è unica e autosufficiente. AIl'unità della sua inseità si aggiunge così l'unicità della sua perseità.

Forse che la sostanza si porrebbe da sé nell'essere e che la causalità non avrebbe validità ontologica? Pretenderlo sareb- be riservare la parola <<sostanza» a ciò che non entrerà mai nella nostra esperienza. Ciò consisterebbe nel togIiere alla nostra esperienza qualsiasi accesso aDa sostanza; sarebbe so t- trarre ogni significato alla preposizione per, compromettere qualsiasi pensiero sulla perseità della sostanza. Nel nostro mon- do tutto proviene da qualche origine e dà luogo a qualche

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discendenza. Se non fosse così, con ogni rigore, la sola sostanza ?che possa verificare la perseità non sarebbe di questo mondo. Cartesio la riservava a Dio, che egli affermava di per sé, cau- sa mi. Se la sostanza non ha provenienza, non è nel nostro tempo; di per sé, essa non proviene da ciò che non era già, e non diventa ciò che non è adesso. Essa è posta da sé, eter- na nel senso che il tempo non vi svolge nessuna funzione.

La sostanza, nel senso assoluto del termine, è identica a sé, assolutamente semplice, autoproduttrice. Ma una tale sostan- za non appare nella nostra esperienza. La riflessione sulla sostanza in sé e di per sé si incaglia cosi sugli scogli dell'aporia.

2. L'essenza e Ia quiddità

<{Qualche cosa» dev'essere intelligibile perché noi possiamo conoscerla. La sostanza non può essere solamente in sé e di per sé, rinchiusa in se stessa. Certo, la sostanza prima è senza misura in rapporto ai suoi predicati universali. Tuttavia, dev'es- sere intrinsecamente inteIligibile in seguito alla sua apertura alle altre sostanze, aitrimenti non ne comprenderemmo mai nuila. L'intelligibilità intrinseca della sostanza si chiama la sua essenza; I'enunciato di questa essenza è la sua definizione o la sua quiddità.

La capacità che ha Ia sostanza di essere presente all'intelli- genza è chiamata la sua <<essenza>>, parola ottenuta sostanti- vando il verbo esse, essere. L'atto disponibile significato dal- I'infinito del verbo vi diventa un fatto disponibite. L'essenza è la categoria della presenza dell'ente d'intelletto; «è la sostan- za in quanto ~onoscibile»~. La si identifica con la costanza seconda se questa esprime un predicato che conviene integral- mente aI soggetto; per esempio, <<uomo» è l'essenza di <{Pie- tro». Tuttavia, poiché la sostanza seconda non sussiste, que-

l?. Gnsrix, LP tbcimisme, p. 45

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sta essenza non conviene al reale in un modo assoIuto. L'es- senza delle sostanze individuali è più esattamente costituita dalla loro possibilità di essere comprese a partire da essa stes- sa, a priori.

Per quanto si riferisce alla quiddità, questa risponde alla domanda: <<che cos'è ciò?». Definisce la sostanza esprimendo un aspetto della sua essenza. Or?, la definizione quidditativa è mediata da forme universali. E costruita con l'aiuto delle strutture complesse della nostra conoscenza a posteriori del mondo. Per esempio, la definizione di «uomo}> come aanimale ragionevole}} suppone la nostra esperienza degli animali e del- l'attività ragionevole. La sostanza prima non si presenta dun- que semplicemente nelIa qiiiddità che non è mai in sé, né per sé.

Per Aristotele, la quiddità determina I' essenza della sostan- za in seno alla totalità degli enti della nostra esperienza. Cer- to, dovrebbe essere «ciò che [di ciascuna cosa] si afferma essere di per sé. Così il tuo essere non si identifica affatto col tuo essere-musico, giacché tu non sei musico per il semplice fatte che esisti. Dunque, la tua essenza è ciò che tu sei di per te» 8. Ma di fatto la quiddità è costruita con l'aiuto di ele- menti che non provengono dalla sola sostanza definita. Infat- ti, «il discorso definitorio dell'essenza di ciascuna cosa è quel discorso che esprime l'essenza della cosa, ma non ha in sé il termine indicante la cosa stessa>}y. In ta l modo la definizio- ne di un ente lo situa in seno ad un insieme di altri enti. Ogni definizione suppone a poco a poco la totalità degli enti e i loro legami mutui. «Uomo» è definito dalle sue differenze nei confronti degli altri animali; <<animale» è definito dalle sue dif- ferenze nei riguardi degli altri enti del mondo. L'inteliigibili- tà di <<uomo>> suppone dunque tutti gli enti intelligibili del mon- do. Per questo motivo la quiddità non può definire in modo adeguato la sostanza prima ed unica.

Così, da una parte, !a sostanza i: la sua essenza in quanto intelligibile, ma, d'altra parte, la quiddità è costruita con ele-

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menti che non provengono soltanto dalla sostanza. Vi è dun- , que una tensione tra l'essenza e la quiddità, tra l'intelligibili- t à a priori della sostanza e ii suo enunciato costruito Q poste- re'&. Questo <<ente qui», benché p ~ i o r ~ intelligibile nella sua essenza, resiste ad ogni riduzione ad un universale che esco non è e che enuncia la sua quiddità.

Per san Tommaso, in maniera generale, l'essenza è legata alla conoscenza, come mostrano queste citazioni: <<l'essenza divina è in Dio in modo intelligibile* e <<l'intelletto [.. .] ha per oggetto la qtciddid, o essenza delle cose,> lo. Più precisa- mente, essa è ciò attraverso cui una cosa è intelligibilmente ciò che è, distinguendosi da tutte le altre cose. Costituisce dun- que l'intelligibilità della sostanza prima. Non è la sostanza stes- sa, ma è piuttosto i! suo irradiarsi a favore deIl'inteIligenza. La sostanza è in sé e per sé; per la nostra intelligenza, essa è in sé attraverso la sua essenza. L'essenza non è dunque costruita a posterimi, muovendo dalla nostra esperienza del mondo, ma è d'origine di tutte le determinazioni che noi attri- buiamo alla sostanza; è ii fondamento che, nella sostanza, uni- sce a priori tutti i tratti intelligibili che conosciamo di essa.

La quiddità è l'enunciato che definisce l'essenza. In san Tommaso, come in Aristotele, la definizione si fa normalmente per generi e specie. Ma san Tommaso vorrebbe anche che crnon vi si metta nulla che sia definito fuori deIla sostanza, ciò che significa che ciascuna sostanza è definita dai suoi principi mate- riali e formali), 'l. Si nota tuttavia che questi principi, che possono dar luogo a delle definizioni formali o materiali, ven- gono definiti per mezzo di ciò che essi non sono. La defini- zione materiale della collera, per esempio, suppone la totalità del corpo: <(flusso di sangue dalla parte del cuore>> I z . La costruzione della quiddità pone dunque la sostanza in un insie- me che abbraccia, di definizione in definizione, la totalità del mondo. Non è dunque evidente che la quiddità, il cui oriz- zonte è la totalità, possa essere identificata immediatamente con I'essenza della sostanza individuale.

I'' Nell'ordine: Somma c u n m I Gentili I 47 5 , IA somma teologica 1-11 I 8 C l1 TOMM~SO, De anima I1 1 b. l2 TOMMASO, In Smtcrifiarum IV 3 1 1 1 C.

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6) Determinazione

La sostanza si manifesta dando un accesso intelligibile a sé. Lo stupore lo aveva testimoniato; non introduce ad una ricer- ca inutile. Per mettere in movimento l'attività intellettuale, orienta verso la sostanza che sa a priori intelligibile. Certo, la ricerca inteliet tuale non potrà delimitare interamente la sostanza che va sempre oltre le sue manifestazioni. Ma, da una parte, la sostanza è proprio queiia che si manifesta e, d'al- tra parte, le sue manifestazioni rendono effettivamente acces- sibile la sua intelligibilità.

Si chiama «essenza» I'intelligibilità intrinseca delia sostan- za. La sostanza non è conoscibile se non si dà come tale negli elementi intelligibili che ricaviamo daila nostra esperienza. La conoscenza dell'ente risulta da un impegno intellettuale che si dlea al dono che la sostanza fa di sé intelligibilmente in seno al mondo. Tuttavia l'intelligibilità è a priori compiuta neila sostanza; non è in un primo momento a misura del nostro intel- letto. L'essenza non risulta dall'ideazione delle sue determi- nazioni mediante l'intelletto; nasce dalla sostanza, non dalle nostre forme intellettuali.

Aderendo alla donazione della sostanza nelle sue determi- nazioni intelligibili, l'inteliet to esercita un'attivith che oltre- passa il suo intendimento determinante e che dipende dalla ragione. Lo spirito si riconosce capace di quest'adesione. Sa che è fatto per affermare la sostanza mediante le sue manife- stazioni e per riconoscere la trascendenza della loro origine. In quest 'adesione l'intelletto comprende ragionevolmente la sostanza nella sua essenza. L'essenza definisce dunque la sostanza nella sua trasparenza originaria; l'intelletto, aderen- dovi, f a propria questa trasparenza.

La sostanza, benché semplice ed unica, è suscettibiie di esse- re intesa con mezzi che non le convengono direttamente; essa offre la sua essenza commisurandosi alle condizioni concrete dell'inteiletto. Questo, per conoscere secondo la sua natura, universalizza le informazioni ricevute nell'esperienza. La sostan- za individuale, che deve presenrarsi in un quadro universale

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che essa non è, risiede necessariamente in queste forme attra- verso le quali l'intelletto compone la sua quiddità. La quiddi- tà designa la sostanza intesa nella sua essenza, ma che si pro- poyziona all'intelletto.

E impossibile definire adeguatamente la sostanza individuale mediante soli universali; non si arriva all'unico con I'aiuto di ciò che è comune. L'universale dev'essere superato a puion per- ché la definizione sia accettabile. Ma ciò non è possibile da parte della nostra intelligenza. Occorre dunque dire che la costanza offre a priori la sua individualità nell'universali t à dei suoi aspetti intelligibili. La denominazione adeguata della sostanza individuale è dunque confermata in un atto dell'in- telletto, nel quale aderiamo ad un atto della sostanza che si dona nella sua quiddità. Ai dono della sostanza risponde ii con- senso che Io spirito esercita attribuendo un nome alla sostan- za. Questa denominazione non è in un primo momento un insieme di note intelligibili, ma un atto di adesione dello spi- rito al dono della sostanza nella sua quiddità.

Sostanza, essenza e quiddità articolano così i diversi momen- ti della venuta dell'ente in presenza dell'intelletto. Non vi è identità fra questi tre termini. Se venissero assimilati gli uni agli altri, non si riconoscerebbe l'unicità della sostanza oppu- re si limiterebbe il campo dell'intelletto alle sole forme uni- versali. La differenza tra la sostanza e la quiddità garantisce l'incompletezza deil'universale e sollecita a pensare la sostan- za neil'atto di presentarsi. La potenza dell'intelletto viene così limitata. La sostanza non è a sua disposizione. Essa è un com- pito per I'intelligenza ed un valore, il termine di un consenso che ne riconosce l'unicità. Questo compito impone all'intel- letto un Iavoro prudente e tenace affinché esso non si lasci trascinare dale proprie sintesi. Ma questo limite è anche intel- ligibile. L'intelletto sa di essere animato da un consenso ori- ginario e non da una volontà di potenza arbitraria.

La sostanza si presenta d'intelletto sottomettendosi aiie con- dizioni dell'intelligibilità. Non è un universale in mezzo agli altri; è la fonte di ogni intelligibilità. Questa fonte è efficace; la sostanza è realmente intelligibile nella sua essenza. Nei suoi

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attributi essa è infatti compresa nella sua unirà, in modo tale che I'inteUetto possa raccogliere i suoi fenomeni diversi e ripor- targlieIi tutti. Da sola, abbraccia tutti i suoi attributi; è un universale in atto e non una forma universale.

Tuttavia, Ia definizione universalizza, mentre la sostanza oppone resistenza a un tale trattamento. Un nome di perso- na, la sola parola che possa esprimere la sostanza adeguata- mente, non è una definizione, ma una designazione. Definire è comprendere, e comprendere è prendere-con, situare in un insieme che contiene la sostanza individuale sotto un aspetto che la supera. La definizione riferisce la sostanza individuale a ciò che essa non è. Ma se la quiddità conviene, nonostante tutto, alIa sostanza, è perché questa è intelligibile in atto. In altri termini, essa è ad aliud, orientata verso un altro, relazio- nale, e non solamente zn se, chiusa nella sua solitudine,

Messa in rapporto al tempo stesso con l'unicità della sostanza e con I'universaKtà della quiddità, l'essenza è una potenza di mediazione. Universale per l'intelletto, è singolare per quan- to riguarda la sostanza. Essa media tra l'unicità della sostan- za e l'universalità delle sue manifestazioni. Poiché offre l'en- te intelligibile, la si confonde spesso con la quiddità. Ma la quiddità è costruita grazie ad attributi che non sono propri della sostanza. Per questa ragione, Ja quiddità non esprime immediatamente l'essenza della sostanza unica, ma la sua ener- gia diffusa nel mondo.

È estremamente importante cogliere la sostanza, l'essenza e la quiddità nel dinamismo di un atto che si dona e si dif- fonde. Nel caso in cui si ignorasse questa dinamica attiva, si rischierebbe di identificare la quiddità con l'essenza e di rac- chiudere la sostanza nei tratti universali che compongono u postm'ori la quiddità. IJ pensiero sarebbe allora destinato a com- primere l'unico sotto la generalità di una comunità astratta. D'altra parte, separandole radicalmente, si negherà l'inteuigi- biiità della sostanza. La differenza e l'unità della sostanza e delfa quiddità nell'essenza impedisce di chiudere la conoscen- za nella definizione formale o di perderla nello slancio di un'e- stasi irrazionale.

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3. L'accidente

La sostanza è necessariamente intelligibile. L'enunciazione di questa intelligibilità è resa possibile dalle sue manifestazio- ni o dai suoi fenomeni, che sono i suoi accidenti.

a) Storia

La pyola latina accidenr, che traduce il participio greco sum- bebèkor , significa «aggiunto a», <<venuto con},. Richiama ciò che «arriva» d a sostanza. Vi sono diverse maniere di «aggiun- gersi» alla sostanza. Secondo il senso comune, l'accidente giun- ge all'improvviso; forza l'identità della sostanza, senza aver- ne motivo. Dal punto di vista filosofico, l'accidente è sempli- cemente ciò che c i aggiunge ad una sostanza, che faccia parte della sostanza, oppure no. Vi sono diversi tipi filosofici di acci- denti, come vi sono diverse maniere di collegare la sua sostanza e i suoi fenomeni. Vi sono alcuni accidenti che appartengono d e sostanze. Essere colorato fa parte dell'essenza naturale di certi corpi; essere più o meno colorato dipende dagli indivi- dui. Vi sono anche degli accidenti in senso stretto che arriva-

- no alla sostanza, ma non toccano la sua identità, ad esempio per un uomo essere in piedi o essere seduto. In ragione di que- sta diversità, si distinguono gli accidenti sostanziali e quelli che non lo sono.

Di fatto, la distinzione tra questi due tipi di accidenti non conviene alle sostanze prime che a certe condizioni. Infatti vi è un accidente, sostanziale o meno, se esso giunge ad una sostanza individuale; ciò che non arriva ad un individuo, non arriva affatto. Da questo punto di vista, un accidente sostan- ziale o meno concerne la sostanza. Io sono realmente seduto o in piedi. Si possono tuttavia distinguere gli accidenti che arrivano aUa sostanza senza essere prodotti da questa, come rompersi una gamba, e quelli che essa produce manifestando- si. La distinzione tra l'accidente sostanziale e l'accidente non- sostanziale dipende dunque dall'energia o dalla passività della sostanza nei confronti di questo accidente. La distinzione tra la sostanza e l'accidente non è perciò in un primo momento

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tra ciò che rimane e ciò che passa. La sostanza concreta è nello stesso tempo in sé e per sé, ma non è così rinchiusa in se stessa che i suoi accidenti non la riguardino. L'accidente è ciò attra- verso cui la sostanza si apre a quello che essa non è, riceven- dolo passivame-nte o manifestandovici attivamente.

Per Aristotele, la distinzione della sostanza permanente e dell' accidente che sopraggiunge permette innanzitutto di ren- dere conto dei mutamenti sostanziali. L'accidente è ciò che arriva per un attimo alla sostanza. Ma siccome l'accidente spie- ga il cambiamento della sostanza, la concerne realmente e non soltanto in maniera trascurabiie. Di qui il tentativo di ampliare il senso dell'accidente a ciò in cui la sostanza appare.

La similitudine tra la sostanza che sorregge i suoi accidenti e il soggetto che sostiene i suoi predicati autorizza Aristotele a distinguere ciò che potremmo chiamare i predicati essenzia- li e i predicati accidentali, allo stesso modo in cui si distin- guono i giudizi analitici in cui il predicato appartiene al sog- getto e i giudizi sintetici nei quali, al contrario, gli viene rife- rito, senza che ciò abbia una ragione immanente al soggetto. <{"Per sé" [.. .l sono le determinazioni immanenti all'essenza di un oggetto [...I, e inoltre tutte le determinazioni, tra quel- le appartenenti agli oggetti, alle quali gli stessi oggetti sono immanenti, essendo contenuti nel discorso definitorio che rivela rispettivamente che cos'è ciascuna di esse. [...l Chiamo inve- ce "accidenta@" quelle che vi appartengono in nessuno di que- sti modi» 13. E dunque accidentaIe nel senso stretto del ter- mine ciò che non appartiene al soggetto in maniera analitica o secondo la sua definizione, ma ciò che si sintetizza con esso per aliud. L'accidente è qui ricevuto passi? amente.

La Metafisica riconosce altre definizioni. E accidentale ciciò che appartiene ad un oggetto e viene attribuito a questo in modo conforme a verità, ma, tuttavia, non per necessità né per lo più» 14. Per esempio, trovare un tesoro quando si pian- ta un albero non appartiene in modo consueto ai lavoro del giardiniere; la causa di un tale accidente è fortuita. Ma accanto

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a questo accidente veramente accidentde, si considerano anche 'come accidenti «le proprietà che una cosa ha di per sé, ma che non rientrano nella Sua essenza, come è del trian- golo avere la somma degli angoli uguale a due angoli retti» ' 5 .

Le proprietà della sostanza, che appartengono in maniera deri- vaia o secondaria d'essenza semplice, sono degli accidenti di per sé. Distinguiamo dunque gli accidenti che appartengono d'essenza e quelli che le sopraggiungono in maniera imprevista.

Per san Tommaso l'accidente sussiste nelia sostanza e non in se stesso; da sé, esso non è; esse per questo inesse; sola la sostanza è. Tuttavia, alle volte, rrl'accidente [...I non pos- siede l'essere, ma serve ad essere, ed è chiamato "ente" in questo senso; la bianchezza, per esempio, si dice "ente" per- ché per mezzo di essa alcune cose sono bianche»16. In que- sto caso, nondimeno, si sostantiva un accidente senza tutta- via riconoscervi una sostanza prima. In ogni modo, s i nota che l'accidente ha una causa, e che questa è una sostanza in ragione della sua energia. L' Aquinate aggiunge che <<gli accidenti inse- parabili sono gli accidenti degli individui che hanno una cau- sa permanente nel sogge ttn; gli accidenti separabiii (sedersi, passeggiare) hanno una causa non permanente)} ;'. La distin- zione tra gli accidenti separabdi o meno è rivelatrice. Se cono- sciamo la sostanza grazie ai suoi accidenti, ciò sarà a causa degli accidenti sostanziali inseparabiIi, come ad esempio la sua qualità, la sua quantità o le sue relazioni. Per quanto riguarda gli accidenti separabiii o veramente accidentali, li si può divi- dere in due gruppi: che vengono dalla sostanza di per sè, ma in modo occasionale, e quelli che giungono alla sostan- za ddl'esterno, per mezzo di un altro; questi due generi di accidenti non ci danno vera conoscenza della sostanza.

L'essenza svoIge una funzione di mediazione. Appartiene da una parte alla sostanza e dall'altra offre un senso razionale perché è accessibile all'intelletto nella sua quiddità. La quid-

" Tbid. l" ' I ' O ~ ~ I A S ~ , la sctnma tcologzcd I 90 2. l' TOMAPASU, DF ut~ima 12 ad. 7.

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dità esprime l'essenza della sostanza con l'aiuto delte sue mol- teplici manifestazioni, vale a dire dei suoi accidenti, sostan- ziali o meno. Sof fermiamoci sull' articolazione della quiddità e dell'esperienza.

Ogni conoscenza ha inizio neil'esperienza sensibile in cui la sostanza si produce in atto; il. sensibiie dà così accesso all'es- senza. Poiché la sost a m a è a priori accessibile aIl'intelletto, non possiamo pensare che l'accidente, pur non avendo la sua ragione nella sostanza, non dia informazioni sulla sostanza. Cer- to, si dirà che vi sono degli accidenti <<accidentali» che si pro- ducono nel corso della storia movimentata delle sostanze e che non corrispondono d a loro natura, e non ci dicono nulla a proposito della sostanza in se stessa. Per esempio, che Pietro abbia una gamba rotta sembra non dirmi nulla sulla sua sostan- za. Ma come riservare ad dcuni accidenti il beneficio di infor- mare suila sostanza, rifiutandolo ad altri? Ciò non è possibile se non si intende la sostanza come un permanere.

L'accidentalità di questi accidenti è affermata a condizione di separare da un lato la sostanza permanente e gli effetti del- la propria energia, e dall'altro gIi accidenti che le giungono. Si contrappongono così gli accidenti accidentali e la sostanza, a condizione di concepire la sostanza come una fonte perma- nente e senza divenire rispetto a questo genere di accidenti. Ora, gIi accidenti accidentali sono reali a causa della loro ine- renza alla sostanza prima; hanno un valore ontologico a parti- re daila sostanza, la quale deve accoglierli nella loro insta- bilità.

La sostanza, in sé e per sé, non riceve infatti nessuna real- tà dai suoi accidenti; sono questi, al contrario, che la ricevo- no da essa. Ma con ciò non viene meno la possibilità di pen- sare che la sostanza sia veramente intemporde e invariabile. Se lo fosse, non potrebbe comunicare nessuna realtà d'acci- dente che è in continuo movimenta. Da questo punto di vista, non vi è nessuna differenza tra di accidenti accidentali o sepa- rabili e gli accidenti essenziali o inseparabili, tranne una diver- sità nell'atto delta sostanza che si dispone all'accidente acci- dentale o che produce l'accidente sostanziale.

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L'esperienza dello stupore ci faceva distinguere la sostan- p,,' 2a dall'accidente. Ci meravigliamo che l'ente divenga altro,

pur rimanendo la stesso. Si conclude troppo rapidaiente da questa esperienza che vi sono nell'ente per così dire due aspetti, l'uno sensibile e l'altro intelligibile, l'uno mobile e accidentale e l'altro sostanziale e fisso. Bisognerebbe piu tto- sto concludere che non vi è sostanza senza accidenti, che l'ac- cidente non ha esistenza autonoma, ma che è accidente della costanza, e che la sostanza ha una durata variabile nella sua identità.

Non si può vedere nell'accidente soltanto una contingenza e trascurabile. Certo è accidentale, nel senso del-

l'accidente accidentale, ciò che arriva alla sostanza e che può non arrivarle. Ma questa possibilità non è assoluta, se non ipo- statizzandola e concependola in funzione di una pretesa imrno- bilità e permanenza della sostanza. La sostanza rassomiglia allo- ra ad una forma generica che si conoscerebbe eIiminandone o astraendone i suoi accidenti mobili. La separazione dell'ap- parenza mobile e della sostanza immobile non riconosce il fatto che I'accidente, anche correndo dei rischi, sussiste nella sostan- za, e che la sostanza, così com'è, integra reaimente questi acci- denti, anche quelli mobili. Dobbiamo dunque articolare la sostanza e I'accidente in modo più fermo che contrapponen- do ciò che rimane a ciò che passa.

L'essenza è la sostanza conoscibile, l'accidente è ciò attra- verso il quale la sostanza si manifesta nel sensibile e si dispo- ne alla definizione. Il legame è saldo tra la quiddità e I'acci- dente; questo presenta reaimente ciò che quella esprimerà intel- ligibilmente. L'accidente ha così la portata dell'avvenimento, mentre la quiddità ha un significato logico. Il legame dell'ac- cidente e della quiddità è dunque quello dell'avvenimento e della logica. La sostanza è esposta nelia definizione in cui la sua razionalità sopraggiunge, in proporzione ai nostri mezzi, nelle sue apparizioni accidentali. Assumere l'accidente nella quiddità fa comprendere la sostanza reale, mentre definire I'es- senza con l'aiuto degli accidenti, ne radica la conoscenza negli awenimenti reali.

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4. La forma e la materia

La dialettica logica della sostanza, dell'essenza, della quid- dità e la dialettica dell'awenimento della sostanza e dell'acci- dente sono messe in opera attraverso tutte le nostre ricerche intellettuali. Sono esse stesse articolate nella coppia catego- riale della forma e della materia, essenziale per l'ilernorfismo (da hy le', materia, e naoqhk, forma) aristotelico.

Aristotele parla della materia e della forma quando, tra l'al- tro, applicandosi ai problema del divenire, distingue l'accidente e la sostanza. Egli sovrappone Ie coppie forma-materia e sostanza-accidente, comprendendo la sostanza come una for- ma. Ora, la forma rende possibile la presenza intelligibile deI- la sostanza; è enunciata neUe nostre definizioni, ma non può essere immediatamente identificata con la sostanza, poiché ne disconosce l'unicità. <<La forma sta solo a significare che l'og- getto ha una determinata caratteristica e non già che esso è qualcosa di individude e di definito» 18.

Per Platone, l'idea o la forma ha un proprio modo di esi- stenza. Essa è n priori; non è sufficiente astrarla a postenoi dal sensibile per evidenziarla. I1 modello platonico della for- ma implica una certa concezione del lavoro intellettuale e del- l'articolazione del sensibile e dell'intelligibde. Per Platone, l'uo- mo è in una condizione di caduta; l'intelletto ha accesso alla forma a condizione di lasciarsi raggiungere. Ciò non significa che Io spirito non debba fare uno sforzo per ritrovarla: deve per questo, al contrario, purificarsi. Tuttavia, una tale attivi- tà dello spirito poggia su se stesso, senza produrre idee. L'in- telletto platonico è passivo quanto l'idea è a pnon ed immu- tabile. Ma, secondo Aristotele, Io spirito non può essere esi- liato dalle idee in modo tale da non potervi accedere con le proprie forze. Le critiche dello Stagirita a Platone sono nume-

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rose e sottiIi. Convergono tutte verso questo punto: l'intellet- r o è attivo. Se infatti fosse puramente passivo, non sarebbe mai in atto e non potrebbe -mai conosc&si mentre conosce. Non saprebbe mai di sapere. Ora «io» so, e non «quello» sa in me. L'intelletto si conosce nel momento in cui conosce.

La forma non è nel suo complesso al di fuori dello spirito. Essa non è senza l'attività in teliettuale dell'astrazione. 11 pro- cesso di astrazione suggerisce di sovrapporre le coppie forma- materia e sostanza-accidente. Sembra infatti che sia nececsa- rio trascurare l'accidente per ritrovare la sostanza, come ci tra- scura la materia sensibile per ritrovare la forma intelligibile. La sostanza è ritenuta immutabile come una forma astratta, mentre I'accidente è veramente mutevole come la materia. La ricerca greca si confonde con quella della forma. Sulla traccia del platonismo, essa trascura Ia materia per accedere alla veri- tà; nonostante le sue critiche a Platone, Aristotele rimane lar- gamente au'interno di questa problematica.

San Tommaso osserva che la costruzione deila forma pro- cede da una sorta di riflessione. Lo spirito, informato dalla sensibilità che gli trasmette un <<fantasma» del mondo, inte- gra questa informazione a quanto Ia sua memoria dispone; ne ricava d o r a una forma intelligibile e universale. La forma risd- ta dunque da un'elaborazione che, prendendo le mosse da un'informazione sensibile, la trasforma spiritualmente e la innalza ail'imrnutabile. Su questo punto I' Aquinate segue glo- baImente la problematica aristotelica, ma se ne distingue su ques t 'altro. Per Aristotele, la forma, principio di intelligibili- tà universale, determina in ultima istanza gli enti intelligibili. Per questa ragione, la ricerca intellettuale consiste ne1 com- prendere il mondo, riconducendo i suoi accidenti straordinari d a normalità di un sistema coerente di forme universali. Ma ciò che esiste è I'individuo. Aristotele si scontra dunque, sen- za possibilità di soluzioni, col problema della conoscenza del- la sostanza prima. San Tommaso si separa qui dal suo mae- stro; per lui, il principio della sostanza è il suo esse irriducibi- le aile sue forme universali. La forma non è l'essenza della sostanza. Più che uno stato intelligibile, la sostanza è e si dona; essa è un atto in~ell i~ibde.

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bj La materia

La parola «materia» è difficile da intendere in modo appro- priato. La materia, opposta da Aristotele alla forma, non ha molto a che vedere con ciò che i nostri contemporanei inten- dono sotto le sollecitazioni degli scienziati. Per essi, la mate- ria è un agglomerato di atomi che si sviIuppa secondo leggi proprie. Dal punto di vista di Aristotele, la materia è ai con- trario una pura passività penetrata daiie forme. Gli enti sono infatti sostanze composte da due principi: la materia e la for- ma, che si oppongono come il determinante {la forma) e il determinato (la materia). Nell'unita delia sostanza, la forma apporta l'intelligibilità alla materia che gioca il ruolo di sostrato della sua attribuzione. Ora, le forme sono astratte, mentre la materia, che le unisce in sé, è sotto questo aspetto come la sostanza prima individuaie. Soggetto, sostanza e materia sono così sinonimi. Si nota tuttavia che il soggetto determina anche i suoi predicati che, senza di esso, sarebbero privi di senso reale. «Uomo» è una forma vuota senza i corpi di Pietro e di Giacomo. I1 soggetto determina dunque realmente le forme. La coppia forma-materia quindi ambigua se la si legge in chia- ve di determinante e di determinato. La determinazione può essere intelligibile o reale. Se è intelligibile, la forma è il prin- cipio determinante; se è reale, la forma diviene ciò che la mate- ria determina.

Da sempre la materia è stata vista come il supporto delle forme intelligibili. La parola bykè, che traduce «materia», signi- fica originariamente il legno da costruzione che non è brucia- to, ma conservato per costituire la struttura nascosta che sostie- ne le diverse apparenze d d a casa. In tal m d o , la materia rima- ne, mentre le forme si succedono sulla sua superficie; essa assi- cura la permanenza della sostanza. aMa se si toglie lunghez- za, larghezza e profondità non rimane nuiia, tranne quello che è l'oggetto determinato da tali proprietà, sicchè, a vedere le cose sotto questo profiio, non può risultare che unica sostan- za è la materia. E intendo significare per materia ciò che in se stesso non è né un oggetto particolare nè una quantità né alcuna altra categoria secondo cui l'essere viene determina-

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to»I9. La materia è dunque proprio la sostanza che sorregge *le determinazioni e che è in se stessa formalmente indetermi-

* nata. Come la sostanza prima, essa S <<di per sé [. ..f incono- scibileii 20.

Benché inconoscibile in sé, la materia è dunque una cate- goria strettamente razionale. Significa che il soggetto in sè inin- telligibile, perché diverso d d e sue forme, è tuttavia realmen- te preso in considerazione attraverso quelle. Questa materia filosofica non ha nulla a che vedere con la materia sensibiIe, che è sempre già formata, ad esempio calcio, piombo o aitro. Significa l'ente concreto in cui le forme si uniscono realmen- te, ciò che le sorregge effettivamente, l'orizzonte delle nostre costruzioni formali. La materia ,dunque ragionevole, pur essendo privata di determinazioni. E necessaria perché la for- ma non sia I'orizzonte ultimo della ricerca intellettuaie. Se non fosse legata alla materia, la forma non avrebbe pih soggetto; sarebbe libera da ogni appoggio, arbitraria. La categoria della materia risponde quindi d'esigenza che ha l'intelligenza di conoscere la realtà per mezzo delle sue forme.

Considerata in tal modo, la materia è come la sostanza pri- ma alla quale le altre categorie vengono attribuite. Tuttavia, non sussiste. Essa non è dunque la sostanza. Del resto, per Aristotele, fa materia è ambigua; certo, unisce concretamente o individualizza le forme astratte; ma poiché è in sé indeter- minata, non individualizza in sé assolutamente nulla. Sscoil- do Io Stagirita, <<il primo sostrato è queilo che sembra identi- ficarsi in particolar modo con la sostanza. Questo primo sostra- to suole essere identificato in primo luogo con 1s materia, in secondo luogo con la forma e in terzo luogo col composto di entramber>?l. Ora, delle materie, forme e composti, solo la forma è veramente la costanza. È impassibile infatti che que- sta sia la materia sola, <<perché sembra che siano proprietà fon- damentali della sostanza la separabiliti e l'individualità» 22,

l 9 ID. VI1 3, 1029a. " ID. VI1 10, 1036a. 'l ID. VI1 3, 102%. 22 Ibid.

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ciò che non può essere Ia materia indeterminata ed astratta da differenze, una perché priva di qualsiasi divisione deter- minante, in seguito a confusione. Indeterminata, la materia non può essere il principio dell'unità determinata in sé e per sé.

Occorre anche escludere che la sostanza sia composta di for- ma e di materia, se ciò presuppone la realtà previa di questi elementi. Resta dunque, conclude Aristotele, il fatto che la sostanza sia la forma. Platone avrebbe quindi ragione. Ma que- sta soluzione è troppo radicale. Abbiamo peraltro alcuni testi in cui la materia è detta sostanza23. Come mettere insieme tutte queste afferm,azioni La sostanza è la forma, ma non in qualunque modo. E la forma, perché è una determinazione meta-attributiva, l'unità trascendentale. In queste condizioni, la forma attributiva può fare della sostanza un sostrato per l'affermazione logica, mentre la materia la costituisce come sostrato per l'esperienza sensibile. La materia serba così la sua caratteristica di passività; riceve la forma trascendentale del- l'unità. La materia indeterminata è in tal modo unita ad una forma diversa da quella logica, meta-attributiva, alia sorgente delle determinazioni logiche, l'unità originaria della sostanza. La materia non è dunque il soggetto di forme solamente attri- butive, ma riceve la forma meta-attributiva che è l'unità tra- scendentale che si autodetermina.

San Tommaso riprende all'incirca la dottrina di Aristotele suIla coppia ilernorfica. Ma vi aggiunge come principio I ' a c t ~ ~ s esseizdi, di modo che il significato della materia ne è profon- damente trasformato. Lo vedremo nel paragrafo che segue che tratterà deli'individuazione.

5 . L'individuazione

L'approfondimento operato dalla metafisica di san Tommaso nei confronti di quella di Aristotele è reso evidente dai loro diversi principi di individuazione e dal ruolo che essi fanno svolgere alla materia.

?' Cfr. 1b1d

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: Per Aristotele, la forma universale dà l'intelligibilità dei com- posti, menrre la materia li individualizza. Vediamo l'esempio della generazione, Chi genera informa una materia; <<il pro- dotto ormai realizzato nelIa sua interezza - ossia questa deter- minata forma zn queste carni e in queste ossa - si identifica con Callia o con Socrate; ed esso differisce materialmente dal generante Igiacché la materia è un'altra), ma è formalmente identico (giacché Ia forma è indivisibile)~ 24. La forma indivi- sibile universalizza rendendo intelligibile, mentre la materia divisibile realizza diversificando. Tuttavia, questa soluzione apparentemente semplice non basta alla riflessione. La rnate- ria, essendo indeterminata, è anche universale, nel senso che è capace di ricevere e di unire numerose forme. In quanto alla forma, poiché essa determina, individualizza anche in un cer- to senso. Non è dunque qualunque materia che individualiz- za, né qualunque forma che universalizza.

Di fatto, Aristotele, distinguendo la materia sensibile e la materia intelligibile, indica che la <(materia>> non è immedia- tamente il sensibile. «È materia sensibile, ad esempio, il bronzo o il legno oppure ogni altro materiale mobile; è intelligibile, invece, quella che è presente nelle cose sensibiIi, ma non in quanto queste sono sensibiIi, come, ad esempio, gli enti mate- r na t i~ i , , ~~ . La materia sensibile è la fonte delle nostre cono- scenze sul sensibile, a condizione che sia già informata. Nes- suna materia sensibile può essere l'origine delle nostre cono- scenze se non ha nessuna forma. La materia sensibile che infor- ma non è dunque una materia prima. D'altronde, se la mate- ria individualizza la forma, ciò può avvenire soltanto se essa è già individualizzata. Ora, la materia prima non ha in sé nes- sun principio che permetterebbe di individualizzarla. La mate- ria che individualizza è detta seconda. Occorre inoltre che que- sta materia seconda non sia determinata da forme predicati- ve, ma dalla forma della sostanza in quanto una. Questa uni-

In. V11 8, ln34a. '? Iii. S?TI 10, 10363

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tà trascendentale è sperirnentat a nello spazio. Per Aristotele, ii principio di individuazione non è la materia sensibjle, ma la materia quantitativa, più precisamente geometrica, la cui forma non è una qualità astratta.

In san Tommaso, la teoria del principio di individuazione ha subito un'evoluzione. Ricordiamo in che modo. Secondo il De ente et essentiu, la sostanza prima è composta di materia, di forma e di atto; è individualizzata, sotto la modalità della designazione, da una materia sigmh, «ciò,. La sostanza seconda è anche composta, ma la sua materia è indeterminata nello spa- zio, non designata, <<comune». Per il commentario del De T i - niste di Boezio, da forma diventa questa forma, perché è rice- vuta nella materia» 2b. Ma per questo la materia dev'essere già individuata, ciò che le viene ancora dalla quantità desi- gnata, dalla sua presenza in un certo spazio. Questo suppone che lo spazio preceda l'individuo. La materia è dunque indi- vidualizzata occupando uno spazio a priori, delle <<dimensioni indeterminate*, che sono la condizione deUa sua individuazione tramite la sua limitazione. La Somma contro i Gentili non parla più di «dimensioni indeterminate}). E ciò non è indubbiamen- te senza ragione. L'espressione del De Trinihte supponeva che una dimensione indeterminata preceda la designazione. Ma «le dimensioni non possono in nessuna maniera (né determinate, né indeterminate) precedere la forma sostanziale» 2ì.

La Somma teologica riprende ii problema e ne convalida la soluzione. Pone I'esse ai cuore della sostanza composta di mate- ria e di forma. La materia, i! primo sostrato del divenire, non è né generata, né corruttibile; non essendo individuale, non può individuare. La forma nemmeno, perché è universaIe. Ma vi è un terzo principio della sostanza, l'actus essendi. Per san Tommaso, questo atto di essere presiede alia costituzione del- la sostanza individuale. Gli elementi della sostanza sussistono nel composto e in nessun aitro luogo. Né la forma, né la mate- ria esistono <(in sé>>, sono per- mezzo dell'atto della sostanza. Certo, si può riconoscere la materia o la forma di questo com-

2G TCIMMASU, Itl De Trinitcrte Boelhii IV 2. f i Cfr. M.D. ROLAND-GOSSFI.IN, L,e «De eate ct csrenth, p . 114.

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posto in altri composti; si può astrarli dagli individui. Ma que- 2 I st'astrazione non li f a sussistere in se stessi. Ciò che si distjn- !

gue tramite il pensiero non è tuttavia distinto realmente. La reaità degli elementi composti è fondata nell'aeto di essere della sostanza.

Ma che cos'è l'atto? Lo si coIlega di solito alla potenza. Abbozziamo brevemente una prima spiegazione di questa cop- pia dell'atto e deila potenza. A' diventa A" perché il suo com- plesso di accidenti [a,b,c,i è stato modificato in ib,c,d:; la sostanza rimane così identica, pur essendo realmente modif i- cata. Si esprimono questi cambiamenti dicendo che A' ha la potenza di divenire A" e che A" è l'atto della potenza A'. La potenza e I'atto sono quindi due aspetti correlativi del dive- nire delia sostanza. La potenza è legata all'atto come al. suo compimento futuro o alla sua perfezione.

Si può utilizzare anche questa coppia senza riferimento al divenire naturale. L'atto è la perfezione di una potenza di cui rende ragione. Per esempio, la forma è I'atto della materia per- chk la determina concedendole di essere intelligibile; d'inverso, la materia è l'atto della forma perché la determina in modo sensibile 2u. In quest'analisi dell'atto e della potenza si trala- scia di considerare che la materia diviene forma o la forma materia, poiché è troppo evidente che l'eterogeneità della mate- ria e della forma è insormontabde. L'atto non è dunque per- fetto perché è ii termine di un divenire, ma perché il deter- minante attivo è pih perfetto del determinante passivo. Nella prospettiva tornista, in cui la perfezione è di essere, si inten- de per atto dell'ente la sua actalalitws.

L'atto non è soIamente ciò che assicura una presenza intel- ligibile all'ente, la sua forma. D'aitra parte, la sostanza è for- ma e materia; e nessuno di questi principi è fonte di attuali- tà. <<Infatti la materia è in potenza; e la potenza [...] è poste- riore all'atto [. . .]. E la forma, quando è parte del composto, è forma partecipata [ail'essenza formale]; ora, la cosa che vie- ne partecipata, e l'essere che la partecipa, è posteriore a ciò

2s Cfr. AIULTUTELE, Metafiica, per l'atto-forma. VI1 12, 1077b c ptr ratto-materia: V11 3 , 1029a.

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che è per essenza [la forma]»2y. La forma e la materia sono dunque rrposteriori» d a sostanza una nel suo arto. Se si sostie- ne che la forma è anteriore alla materia, perché ne è l'atto intelligibiie, non è tuttavia il principio ultimo del composto nel suo atto reale. Anteriormente d l a forma e alla materia, il. composto è nella semplicità del suo atto di essere.

S. Tommaso è pih libero di Aristotele nei confronti di Pla- tone. Lo S tagirita mantiene l'anteriorità della forma rispetto alla materia; I'Aquinate non la nega, ma va più lontano, radi- calizzando i punti di vista delle Categorae. La materia e la for- ma costituiscono insieme la sostanza prima in atto, che non attua nessuno di questi elementi isolatamente. La causa delia sostanza composta è il concreto composto di materia e di for- ma. Segue da ciò che l'atto di essere non può venire ridotto alla misura di un atto formale o di un'evidenza intelligibile; esso è irriducibile ail'essenza formale della sostanza.

La sostanza prima è una ed unica. Essa unifica concreta- mente, nel suo atto di essere, delle forme astratte ed una mate- ria indeterminata.

Le sue forme sono legate in un sistema in cui si richiamano a vicenda in ragione della Ioro coerenza a priori. In ciascuna sostanza l'intelletto coglie dunque virtualmente la totalità intd- ligibile del mondo. La sostanza prima è un centro focaie che unifica i1 mondo e le cui determinazioni possono essere enu- cleate le une dopo le altre, nel momento di una conquista pro- gressiva di ciò che è dato a pkopi nel suo sistema formale. L'apriorità del. sistema è in consonanza con l'unità trascen- dentale ed a pre'ore' della sostanza. Le forme non sono a priori secondo il loro contenuto, ma in ciò che le unisce: la sostanza individuaie, da una parte, ed il sistema inglobante, dall'altra. La sostanza unita in sé anticipa le sue forme sotto la modalità della potenza di una sintesi concreta, aperta ad una sintesi di forme. A prima vista, sembrerebbe che I'atto di questa potenza

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sia il sistema intelligibiie delle forme; l'unità sostanziale e indi- viduale è infatti in potenza di universalità. In questo caso, le analisi scientifiche e la Inro precisione riveleranno il tutto della sostanza. Ma la sostanza individuale non è la sola in atto rea- le? Certo. Tuttavia, il sistema intelligibile è pure uri atto, per- ché l'analisi, per avere un appoggio reale, suppone la realtà della sostanza individuale. A questa condizione la conoscenza che vuole cogliere l'ente effettivo sarà appagata.

La forma non è l'atto. L'atto dell'individuo sarehbe dun- que il principio opposto alla forma, la materia pura senza for- ma? Non abbiamo nessuna esperienza di una tale materia, ma dev'essere affermata nei confronti della forma come un limite o un orizzonte per l'intelligenza, un sostrato ideale al quale ogni inteuigenza sensata fa riferimento. Infatti, per individua- limare le forme, occorre essere già un individuo in atto con- creto. Solo un atto concretamente individuale individualizza le forme astrattamente universali e sistematicamente unite. La materia designata non è al principio di una tale individuazio- ne; non è che un segmento di uno spazio che la precede, una potenza che passa all'atto, essendo segnaiata. Essa ha infatti sempre una destra e una sinistra, un davanti e un retro, un sopra e un sotto. Non può dunque costituire I'atto della sostan- za; ne è solamente una condizione di riconoscimento.

Il principio di individuazione non è dunque né la forma, né la materia; è I'atto di essere. Se si dice che è la «materia designata», occorre comprenderlo come segue: il termine ctdesi- gnazione» è significativo deil'alterità dell'ente. La materia è il principio dell'indipendenza deila sostanza nei confronti del- l'intelletto e delle sue forme. Significa che l'ente ha la pro- prietà della sua unità.

Le categorie dell'ontologia classica hanno perduto, nel corso dei tempi, il loro significato originario. Le scienze moderne ne hanno elaborate di nuove, suscettibili di maggiori sviluppi dal Ioro punto di vista. La scolastica dei secoli xvx e xvn ha impo- sto loro conspirito polemico il valore di strumenti descrittivi del mondo. E. Gilson dà un giudizio tagliente e ironico a que- sto proposito: «La fisica aristotelica della scolastica poggia inte- ramente su questa ipotesi che l'universo del bambino è I'uni-

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verso reale. Ci descrive precisamente ciò che I'universo sareb- be se le nostre impressioni sensibili ed affettive fossero delle cose. Essa consacra e stabilisce definitivamente l'errore dei nostri primi anni, supponendo l'esistenza di forme e di quaIità reali, che non sono nient'altro che queste impressioni confuse deiia nostra infanzia, chiamate, descritte e classificate come altrettante realtà» 3O. La critica moderna delle categorie onto- logiche nasce da questa interpretazione scoIastica. Essa è stata progressiva. Cartesio aveva pensato di riformdare la fisica ari- stotdica e cogliere & elementi della conoscenza diversamente che come fatti che possono essere andizzati oggettivamente; li vedeva come momenti di un approccio al mondo fisico. La sua fisica non scopriva una nuova forma oggettiva del mondo; organizzava piuttosto il suo sapere secondo un metodo nuovo, la naatkèsis uniuemlis. A partire da quel momento, la scienza moderna costruirà le proprie categorie, in grado di esercitare, a suo parere, una migliore presa sul mondo reale. Riteniamo tuttavia che le categorie antologiche classiche abbiano ancora una legittimità, se, per lo meno, ritornando al di qua delia secon- da scolastica, si attribuisce loro un significato riflessivo e non descrittivo. Esse articolano la conoscenza che tende a racco- gliere gli enti presenti neUa nostra esperienza più generale.

Le categorie dell'ontologia articolano l'universalità della for- ma e dell'individualità della sostanza, riveIando ii dinamismo deI progetto spirituale del sapere. Ma di fatto, nella storia, l'essenza universale ha attirato l'attenzione dei pensatori più che non l'individualità della sostanza. L'actm essendi tomista non ha avuto molta risonanza nel nostro mondo affascinato dalla potenza della ragione scientifica. Nella nostra Introdls- zione alla metafisica tracceremo un cammino che richiamerà il carattere del principio senza disconoscere le esigenze legit- time del sapere contemporaneo. Analizzeremo le diverse fasi deila conoscenza per vedere fin dove ci conducono e soprat- tutto se sono suscettibili di essere fondate su se stesse. Aven- do toccato l'estremo di queste possibilità, dovremo superare il mondo delle forme per affermare il fondamento trascendente. Potremo allora, nei capitoli X e XI, riflettere suU'actus essendi.

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I P',

Abbiamo precedentemente chiarito la struttura di una dispo- sizione spirituale, lo stupore, che la tradizione filosofica ha riconosciuto all'origine dell'attività cognitiva. Abbiamo visto in che modo le categorie deil'ontologia articolavano questa disposizione. Ora, abbastanza naturalmente in una mentalità scientifica, si è tentato di comprendere queste categorie in maniera oggettiva, mentre esse traggono il loro significato dal- l'esperienza spirituale della conoscenza. In ontologia, ii logos è stato rclissato d d to on, l'ente.

La fdosofia si è tuttavia sforzata di richiamare senza tre- gua I'incidenza dell'atto spirituale neila conoscenza. L'espe- rienza dello stupore aveva mostrato che non conosciamo nul- la se non ci impegniamo nella nostra conoscenza; Una filoso- fia non attenta al soggetto sarebbe incompleta. E chiaro che per i moderni, ma senza dubbia già per gli antichi, prima di affermare di sapere qualche cosa, occorre almeno conoscere ciò che è proporzionato d a nostra intelIigenza, vale a dire le condizioni che la nostra intelligenza impone a ciò che essa coglie.

Questo non vuol dire che la conoscenza sia «soggettiva». Ma si sa che se l'intelligenza non si dispone ad acquisire qual- che risultato oggettivo, non l'otterrà mai; se non si protegge contro i suoi pregiudizi, si lascerà influenzare talmente che il suo desiderio di comprendere sarà segretamente distorto. Sap- piamo che la nostra conoscenza subisce influenze soggettive;

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per questo motivo cerchiamo di essere prudenti nelle nostre affermazioni, e tanto più quanto siamo informati e competenti. Del resto, alcune influenze sono anche necessariamente imposte alla nostra conoscenza, per esempio il risultato di una ricerca è sempre determinato dalla maniera di conseguirlo; similmen- te, le nostre facoltà non possono essere esercitate che secon- do la loro natura. Perciò diciamo che l'oggettività della cono- scenza è più un compito che un fatto acquisito; le mediazioni soggettive sono necessarie quanto detertninanti per acceder- vi. Si tratta dunque di apprezzarne le capacità e i limiti ai diversi livelli della nostra esperienza intellettuale.

I tre capitoli che seguono tratteranno successivamente dei tre livelli classici dell'intelligenza: la sensibilità, l'intendimen- to e la ragione. Non lavoreremo con gli strumenti deIla psico- logia scientifica, ma con quelli della filosofia riflessiva; infat- ti, non ci interessiamo alle procedure di queste potenze, ma a ciò che rende possibile il loro esercizio secondo l'aspirazio- ne della conoscenza che è di conoscere qudche cosa. Iniziere- mo il nostro studio dalla sensibilità. In un primo punto, que- sto capito10 raccoglierà tuttavia la struttura di incenzionalit à e di apriorità che si ritrova in maniera comune attraverso i diversi livelli dell'inteliigenza. Ci dedicheremo in seguito in maniera più precisa alla Sensibilità, di cui in ultimo Ga~izze- remo l'a priori specifico.

1. L'unità del conoscere

Metteremo in evidenza dapprima la struttura a priori della conoscenza come intenzionalità retta da un oggetto formale; commenteremo poi la gerarchia aristotelica delle scienze teo- riche aila luce di questa struttura.

a) Conoscenza e intenzionalità

La riflessione riconosce nello stupore una esperienza privi- legiata della differenza ontologica. La differenza immanente al conosciuto invita il conoscente a distaccarsi dalle sue evi-

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denze immediate e ad impegnarsi su sentieri nuovi andando derso ciò che è meno evidente, ma pih reale. Ciò suppone che l'inteuigenza si attenda di poter raggiungere ciò che si dona nelle apparenze e che non può risolversi in esse; senza questa speranza lo stupore sarebbe senza domani. L'alleanza tra l'ente e lo spirito conduce in tal modo ad articolare ii divenire della conoscenza come un progresso che va dail'apparenza a ciò che si dona nelia sua apparenza e al quale lo spirito spera di poter aderire. La ricerca intellettuaie partecipa così, quasi in rispo- sta, al dono che l'ente fa di sé, manifestandosi nei suoi {=no- meni. Tenteremo adesso di chiarire le strutture a priori di que- sta risposta dinamica.

L'alleanza antologica è esercitata dalla conoscenza in una maniera determinata dalla propria intenzionaliti e dal proprio oggetto formde. Si conosce il detto della fenomenoJcgia: «ogni conoscenza è conoscenza di qualche cosa», sia di un fatto fisi- co o immaginario, di una formula matematica o di un'essenza ideale. Non conoscere nulla è non conoscere, anche di non conoscere. Vi è qui una necessità che si impone d a conoscenza e che si chiama la sua «intenzionalità».

La parola c<intenzionalità» indica una tensione (tendere) verso (in) qualche cosa di diverso da ciò che vi tendc. 11 suo signifi- cato ricopre dunque una relazione vissuta sotto la modalità di un dinamismo estatico o di un desideri?. L'intenzionnlità, in genere, conviene ad ogni atto umano. E come un vettore lineare orientato verso un oggetto (da objectmz, che vuol dire «gettato davanti},) finale. Volere è volere qualche cosa; amare è amare qualche cosa; vedere è vedere qualche cosa. La cono- scenza è anche intenzionale; tende verso un oggetto che è dif- ferenziato da sé ed è desiderabile secondo una modalità che le è propria.

Si devono distinguere tuttavia diversi dinamismi umani rivol- ti ad un oggetto finaie. I1 bisogno non è il desiderio. II biso- gno è dinamico; tende verso ciò che Io soddisferà, ma una volta raggiunto iI suo termine, si spegne. Al contrario, più il fine è presente al desiderio, più lo desidera come ce meno lo appa- gasse. I1 dinamismo della conoscenza è quello del desiderio, non del bisogno. Non è destinato a finire come se la cono-

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scenza assimilasse il suo oggetto; ii cammino intellettuale è aperto ad un progresso indefinito. L'apertura della conoscen- za non può essere limitata da qualunque affermazione, sia essa assolutamente vera, sia che si fondi suU'assoluto. Noi ne fac- ciamo l'esperienza quotidiana; non abbiamo mai finito di impa- rare. Questo fatto costituisce un diritto. Ogni conoscenza ha infatti necessità di definire ciò di cui parla, ma non vi è defi- nizione che esaurisca tutte le caratteristiche di un individuo; la sostanza prima ha una ricchezza che nessun enunciato potrà riflettere totalmente. Inoltre, ogni definizione si riferisce a prio- ri alla totalità delie espressioni in cui una società raccoglie la sua esperienza del mondo. Ma nessuno è capace di ripercor- rere interamente questa esperienza, di ricrearla in prima per- sona, di proporne una conoscenza universaie e definitiva. La conoscenza deve sempre progredire; il suo oggetto finale non sarà mai assimilato veramente da essa.

L'intenzionaiità suggerisce così una sorta di contraddizione immanente d'attività di conoscenza. Da una parte, la cono- scenza, se tende verso <<qualche cosa*, dev'essere determinata daI suo termine, che le è dunque presente; in caso contrario, conoscere sarebbe essere orientati dinamicamente verso qua- lunque cosa e in qualunque modo, cosicché, alla fine, non si conoscerebbe niente del tutto. D'altra parte, poiché questo ter- mine è attraente, dev'essere diverso; la conoscenza non può dunque possederlo o assimilarlo interamente. Occorre quindi che vi sia una mediazione tra la presenza che oriecta la cono- scenza e l'assenza, o la mancanza che provoca il desiderio e I'attrattiva. I1 desiderio di conoscere è animato da una media- zione che congiunge la facoltà al suo oggetto finale senza sop- primere la loro distanza; questo termine mediatore è l'sogget- to formale» della facoltà.

La dottrina dell'oggetto formale concerne la forma a priori di una facoltà tesa verso qualche fine. Si distingue l'oggetto materide e l'oggetto formale. Il primo costituisce ciò a cui mira effettivamente la facoltà; il secondo è l'aspetto sotto il quale ii primo è considerato. Ciascuna facoltà esercita una tensione dinamica secondo la propria natura; questo determina il suo oggetto formale. Per l'occhio, l'oggetto formale è il «colora-

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to»; per l'udito il sonoro; per l'intelligenza I'intelligibiIe. I1 sonoro non concerne l'occhio, e il colorato non interessa come tale l'intendimento. Certamente, ogni facoltà intenzionaie ten- de verso l'ente quale è, ma sotto il suo punto di vista partico- lare. Essa è dunque una «potenza passiva», determinata fon- damentalmente da ciò che è come esso è, ed esercita la sua potenza sotto alcune condizioni.

La conoscenza non è una tubuh rasa, una lastra di cera sul- la quaie le informazioni lascerebbero la loro impronta impri- mendosi su di essa con forza. L'operatività della facoItà secon- do ii suo oggetto formale determina la sua intesa deU'oggetto, anteriormente al suo accoglimento effettivo. In realtà, «prima delle loro operazioni particolari, alle quali concorre l'oggetto esterno, [le potenze operative] si trovano in atta primo: vale a dire che per lo meno esse rappresentano una possibilità f...] delimitata, accompagnata da una tendenza naturale a soddi- sfare questa possibilità. I.. .l Esse prefigurano "nel loro inter- no" la forma generale dell'oggetto che potrebbe divenire ii loro complemento naturale), l . Questa «forma generale>> che appar- tiene d'<tatto primo» è l'<<oggetto formale». Vi è dunque un'in- tenzionaiità prima della facoltà, determinata secondo il suo oggetto £ormale, che un'intenziondità seconda esprime ten- dendo verso un oggetto materiale.

Ciò che esercita un'intenziondità seconda tende evidente- mente verso un oggetto diverso da sé. Ma I'intenzionaiità prima non ha la medesima struttura; non tende verso un oggetto che sia diverso da sé. I1 significato dell'nggetto formale lo mostra abbastanza facilmente. L'oggetto formale è con estremo rigo- re una forma universale disponibile per tutto ciò che si pro- pone sotto le sue condizioni. Non si può dunque pensare che sia a posteriori; esso precede necessariamente a priori l'accogli- mento di ogni oggetto materiale corrispondente. Ad esempio «per utilizzare ii paradigma preferito da san Tommaso, ciò che la potenza visuale eszge, negli oggetti visibili, in altre parole il suo oggetto formale, è il "coIoratum" come tale. Ciò che gli oggetti reali imprimono fisicamente nell'organo visivo è,

3. MAR~CHAL, Cinquième cahicr, p. 154.

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solamente e successivamente, questo o quel "coloratum" : [. . .I qzlesto rosso, qnesto verde, questo giallo* 2 . Per I'occhio non è desiderabile il coloratam, ma questo colore. L'oggetto for- male non è dunque il termine di un'intenzione; è la forma del movimento che tende verso un ente determinato oggettivamen- te. Se l'occhio non è preformato per il coloratzdm, non potrà mai percepire il verde o il rosso. Per questo motivo, I'oggetto formale <<esprime la legge delI'"atto primp", non un residuo di atti secondi» della facoltà operante. E imrnanente all'at- to deila facoltà che dirige secondo i propri limiti. Non offre nulla che sia oggettivo, ma la forma a priori sotto, la quale ogni oggetto sarà colto dalla facoltà che esso orienta. E dunque una mediazione tra la conoscenza in atto e il conosciuto di fatto, facendo di questo un fatto a misura dell'atto, senza che que- sta misura si sostituisca alla realtà viva del conosciuto. L'og- getto formale non conclude dunque il dinamismo intenziona- le, ma l'orienta indefinitivamente.

bj Le scienze teoriche

Ciò che vale per ogni facoltà vale per la conoscenza. Per determinare la struttura intenzionale della conoscenza, dob- biamo dunque determinarne la ragione mediatrice, vale a dire l'oggetto forrnde. Quest'oggetto è messo in luce dall'analisi che scopre nei diversi atti secondi dell'intelietto ciò che Ii uni- fica; per esempio, lo studio del colomtwn suppone l'analisi delle esperienze diverse della visione dei colori. Per delimitare I'og- getto formale di una facoltà, occorre dunque rifletterne le ope- razioni effettive, raccogliendo la struttura che le anima tutte a posteriori.

L'intenzionalità di una facoltà articola le sue operazioni reali secondo il suo oggetto formale. Se la facoltà ha una natura psicologica, la sua attività è mediata da un oggetto formale che chiarisce la riflessione sul dinamismo della psiche'. La medi- tazione sull'essenza della conoscenza può similmente basarsi

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sul dinamismo che ciascuna scienza in particolare e tutte insie- me esercitano ordinatamente, secondo i1 loro esercizio rispet- tivo più o meno grande del principio che costituisce l'alleanza ontoiogica. La riflessione sul progresso della conoscenza sotto questo criterio di alleanza fa riconoscere un ordine tra le scien- ze; quest'ordine permette di determinare l'oggetto formale della conoscenza in generale.

Secondo Aristotele, le scienze speculative succedono alle scienze pratiche e le superano in ragione della loro interiori- tà, della loro semplicità e della loro gratuità. Un criterio diverso è preposto alia gerarchizzazione delle scienze teoriche in fisi- ca, matematica e metafisica. «La fisica si occupa di enti che esistono separatamente ma non sono immobili, I...] la mate- matica si occupa di enti che sono, sì, immobili, ma che forse non esistono separatamente e sono come presenti in una mate- ria, invece la "scienza prima" si occupa di cose che esistono separatamente e che sono immobili» '. Questa sequenza del- le scienze riflette la divisione platonica dei Iiveh di conoscenza in sensibiiità (aisthèsis), ragionamento (dianoi41 e ragione (noGs); in essa riconosciamo anche la serie kantiana della sensibilità, dell'intendimento e della ragione. Tuttavia, se la presentazio- ne aristotelica sembra ordinare le scienze in funzione della loro <<materia>>, in realtà accade diversamente.

La tradizione classica collega la fisica alla sensibilità, la mate- matica d'intendimento e la metafisica alla ragione. Senza dub- bio, una tale relazione non è pih accettata oggi se la si inten- de in modo troppo concreto. La fisica contemporanea è infat- ti matematizzata. Le scienze non sono più determinate dai loro oggetti, distinti gli uni dagli altri, ma dai loro metodo. Tutta- via la gerarchia antica conserva ancora la sua pertinenza se si considera che la successione delle scienze più che un pas- saggio da un oggetto ad un altro è un approfondimento pro- gressivo di ciò che è dato fin dail'esperienza sensibile. Non vi è in redtà oggetto materiale senza oggetto formale e la gerar- chia delle scienze riflette, mediante gli oggetti materiali, la gerarchia degli oggetti formali delle nostre potenze di cono-

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scenza. La sequenza delle scienze teoriche non segue un criterio materiale. Di fatto, crle "potenze" [...I si diversificano tramite i loro oggetti formali, non attraverso i loro oggetti materiali» >.

La divisione dei campi del sapere mediante la diversità degli oggetti materiali ha un'evidenza soltanto apparente. Nessun oggetto è disponibile per la scienza senza la sua pratica, il che implica che il suo oggetto materiale è ordinato al suo oggetto formale. Le scienze, soprattutto quelle moderne, sono meno organizzate da ciò di cui esse trattano che non dalia loro prati- ca. I1 motivo interiore delle scienze permette di ordinarle sen- za che ciò sia imposto loro dall'esterno, tramite il loro oggetto materiale. Ogni procedura scientifica è animata dall'indinazio- ne dell'intelletto nei confronti del principio primo. LI ritmo di quest 'attrattiva definisce l'ordine spiritude delle scienze. Cia- scuna scienza nasce d d a precedente in ragione di un'esigenza intellettuale che quest'ultima esercita, ma senza poterla corn- piere totalmente da se stessa. Vedremo più avanti, per esem- pio, in che modo la matematica nasce d'interno della fisica. Non organizzeremo dunque le scienze muovendo da una clas- sificazione dei loro oggetti materiali o dei loro oggetti formali e da ciò che questi consentono di reaiizzare del desiderio fon- damentale della conoscenza che è di conoscere la sostanza nel- la sua propria unità. Si presenta spesso la metafisica come Ja scienza prima perché il suo oggetto è l'ente inteliigibde più inglo- bante o più astratto; ma in realtà essa è prima per motivi più interiori. La gerarchia delle scienze è allora stabilita sulia base deil'intenzionalità concretamente esercitata dalla conoscenza secondo le sue diverse potenze. La metafisica è la scienza pri- ma perché compie ii voto perseguito progressivamente dalla conoscenza nella successione delle sue scienze.

2. La struttura deil' esperienza sensibile

Vedremo in un primo momento per quali ragioni la sensibi- lità costituisce un primo livello di conoscenza; ne analizzere- mo poi la struttura, distinguendovi due momenti, la sensazio- ne e la percezione.

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a) IZ primo Iivelio delh conoscenza

È una tesi fondamentale per Aristotele che la conoscenza, per essere fondata, deve muovere dal sensibile, essere a poste- riori. Lo stesso per san Tommaso: d'intelletto umano non può arzivare a conoscerne l'essenza mediante le sue capacità natu- rali, essendo costretto nella vita presente a iniziare la conoscenza dai sensi; e quindi le cose che non cadono sotto il dominio dei sensi non possono essere capite dd'intelletto umano, se non in quanta la loro conoscenza deriva dalle cose sensibili,,6. Kant ha una dottrina affine su questo punto: <<Senza sensibili- tà nessun oggetto ci sarebbe dato [...l. I pensieri senza conte- nuto sono vuoti» '. Al contrario, nella tradizione platonica, la conoscenza delle forme intelligibili è prima, a ppiori. Le dottri- ne platoniche ed aristoteliche sembrano dunque diametralmente opposte su questo punto. Precisiamo la portata di questa oppo- sizione.

Per Platone, le forme sono a priori, ma ne prendiamo coscien- za a posteriori. Esse sono certamente <<in sé» dall'eternità, ma sono <{per noi», a condizione di purificarci dal sensibile. Lo spi- rito non ha l'intuizione immediata delle forme, ma mediata e progressiva; la dialettica è un movimento spirituale regolare che abbandona le ombre della caverna e si lascia abbagliare dal sole. La dottrina aristotelica dell'astrazione dei concetti suggerisce ugualmente che le forme vengono progressivamente scoperte. Tra le forme ideali di Platone e le forme concettuali di Aristo- tele vi è dunque qualche comunanza di intenzione, come lo testi- moniano queste righe del Simposio: «la bellezza di un qualsiasi corpo è sorella a quella di ogni altro e [...I se deve perseguire la bellezza sensibile delle forme, sarebbe insensato credere che quella bellezza non sia una e la stessa in tutti i corpiirs. Ma per Platone non è sufficiente volgersi dd'altra parte e disprez- zare il sensibile per aderire alla forma. Se ciò fosse sufficiente, la contemplazione delle forme non vi riconoscerebbe mai ii fon-

"UMM.~SO, Somma contro i Gentili I 3 . E. KAW, Critzca delh mgzon pura, p. 94

VLATOLP, Simposio 2lOa-b.

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damento delle nostre ombre; saremmo in presenza di due mondi separati e indipendenti l'uno dall'altro. In realtà, la dialettica platonica lascia che la forma venga in luce a partire dall'espe- rienza, benché riconosca alla fine che l'esperienza non ne è la ragione adeguata.

L'idea è scoperta a posteriori dopo l'esperienza sensibile; si sde infatti verso ii sole a partire dalle ombre. Ma in reaItà il sole precede le ombre che proietta sulla parete della caverna. Similmente, il sensibile non rende conto da se stesso della verità che I'inteiietto gli riconosce; l'ascesa dialettica fa vedere che la verità della forma oltrepassa il sensibile da ogni parte. L'in- telletto, per conoscere veramente, deve dunque allearsi alla veri- tà ideale, percorrendo a ritroso il tragitto deila luce che risplende alla sua origine, ma irnpaiiidisce al suo termine. Si lascia così guidare dai ricordo progressivamente più luminoso delie idee contemplate un tempo nell'eternità.

Aristotele sostituisce d a dialettica platonica l'astrazione della forma. La forma aristotelica non sussiste anteriormente all'e- sperienza; è costruita mediante un'operazione che determina la struttura della psicikié. L'intelletto che astrae è un agente che mette in opera tutte Xe risorse dei suoi sensi e deila sua memo- ria per costruire la forma che riunisce insieme la molteplicità sentita. Si chiama questa forma un <<concetto», poiché è con- cepita dall'intelletto, come la madre che concepisce ii bambino nel suo seno e gli dona la propria carne. L'ultimo capitolo degli Analitici di Aristotele descrive le modalità di questa concezio- ne: «Tutti gli animali hanno un'innata capacità discriminante, che viene chiamata sensazione. Così, la sensazione è insita negli animali, ma mentre in alcuni di essi si produce una persistenza deil'impressione sensoriale, in aitri invece ciò non avviene. Orbe- ne, quegli animali, in cui non si produce tale persistenza, mar- cano o totalmente, o rispetto agli oggetti, la cui percezione non lascia in essi alcuna traccia, di qualsiasi conoscenza al di fuori della sensazione; altri animali invece possono, una vdta che la sensazione è cessata, conservare ancora qualcosa neU7anima. Quando poi si siano prodotte molte impressioni persistenti di questa natura, si presenta allora una certa differenziazione, e di conseguenza, in certi animali si sviluppa, suUa base della per-

180 vi. LA YENS~BILIZ 'À

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sistenza di siff atte impressioni, un nesso discorsivo, mentre in :altri animali ciò non si produce. Dalla sensazione si sviluppa dunque ciò che chiamiamo ricordo, e dal ricordo spesso rinno- vato di un medesimo oggetto si sviluppa poi l'esperienza. In realtà, dei ricordi che sono numericamente molti costituiscono una sola esperienza>>

La costruzione del concetto risulta dunque da una sorta di induzione. Essa muove da diverse esperienze sensibili e con- duce ad una forma universale che conviene a tutte queste espe- rienze, e che vale ugualmente per aitri casi particolari possibi- li. Così, <{partendo da un certo animale, si procede sino all'a- nirnale, e poi rispetto a quest'ultimo avviene Io stesso» ' 0 .

Occorre distinguere l'aposteriorità dei concetti riconosciuti dd- l'apriorità dei principi della ragione. La conoscenza di un con- cetto è a postmioi, induttiva, ma queila dei principi della ragione è a priori; non proviene dal sensibile, di cui essa giudica l'in- telligibilità grazie a questi principi. Nel libro IV della sua Meta- fis%ca, iì dove difende il principio di non-contraddizione, Ari- stotele oppone agli iper-deduttivi che nulia è più conosciuto di questo principio; infatti è esercitato fin dall'inizio di qualsiasi discorso, priok. Si può tuttavia mostrarne la legittimità, non per deduzione, poiché d o r a non sarebbe più un principio, né per induzione, poiché questo processo non può raggiungere il necessario, ma per confutazione o ritorsione I ' . La ritorsione è un argomento che non si radica nell'esperienza sensibile, ma nella relazione che si stabilisce tra un atto exercite e un'azione signwte. In una certa maniera, essa implica una specie di espe- rienza, il dialogo; ma questa esperienza non è considerata in quanto sensibde. La ritorsione funziona sugli interlocu tori, ricer- cando, pih che parole, la verità. A partire da quel punto, non si trova il principio di non-contraddizione, ma se ne scopre la necessità a priori. La scoperta dei principi primi procede ccsi da una riflessione suUa coerenza tra l'espressione signate e I'at- to exercite. Primi in sé, a p h r i , i principi sono così scoperti

'' A R I S T ~ T ~ L E , S~cundl Anolitici II 19, 99b-IOOn !VI). l1 19, 1001i2-5. :' Cfr. ARITT~TEI.~ . , Metufifica l\.! 4 , 1 0 0 6 ~ .

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a posteriori neu'esercizio che ne facciamo. Li applichiamo sen- za pensarci, ma li conosciamo dopo lunghe e difficili elabora- zioni, quali la maiezrtica socratica, che chiariscono le condizio- ni della coerenza deii'esperienza esercitata.

Per Aristotele, dunque, ogni conoscenza ha inizio dall'espe- rienza sensibile, a meno che non si tratti delta conoscenza dei principi primi della ragione. I1 sensibile e l'intelligibile sono così articolati con fermezza dagli ateniesi. La forma intelligibiie è ontologicarnente a priori in Platone, ma psicologicamente a poste

sia in lui che in Aristotele, dai momento che l'a priori ari- stotelico concerne essenzialmente i primi principi della ragione e non le forme delle cose. Questi fiiosofi potevano coci soste- nere, con le loro particolari sfumature di purificazione o di astra- zione, un'articolazione simile della conoscenza sensibile ed intel- ligibile.

Per Kant, al punto di partenza della conoscenza, lo spirito è una sensibilità passiva. «La capacità (recettività) di ricevere rappresentazioni pel modo in cui siamo moaicati dagli ogget- ti, si chiama sensibiIità. Gli oggetti dunque ci sono dati per mezzo della sensibilità, ed essa sola ci fornisce intuizioni; ma queste vengono pensate dall'intelletto, e da esso derivano i con- cetti. Ma ogni pensiero deve, direttamente o indirettamente, mediante certe note, riferirsi infine a intuizioni, e perciò, in noi, alla sensibilità, giacché in altro modo non può esserci dato verun oggetto» 12. Per quanto riguarda l'intendimento, questo costruisce le sue categorie, e la ragione riconosce i suoi princi- pi. Kant sostiene dunque con i filosofi greci che la sensibilità costituisce il primo momento deil'attività di conoscenza; ma disarticola la sintesi dell'esperienza che Aristotele diceva al tem- po stesso sensibile ed intelligibiie, unità di attività e di passivi- tà, attribuendo la passività alla sola sensibilità e l'attività alle dtre istanze dell'inteiligenza umana.

Vedremo che l'opposizione della sensibilità come passività d'intendimento in quanto attività non può essere sostenuta. L'attività spixituaie svolge già un ruolo nella sensibilità. Le poste in gioco di questo problema sono importanti; ne dipende l'unità deli'atto di conoscere e l'armonia delle nostre scienze.

lZ E K A ~ , Cdica della mgrun pura, 1). h5

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b) La sensibili& spiritaale

L'esperienza sensibile è posta sulla soglia della conoscenza. I tomisti hanno cercato di mostrarne il motivo. Si nota prima di tutto che l'esperienza sensibiie, quanto del resto quelia del- la costruzione del concetto, non può essere colta fdosoficaineme ai di fuori del giudizio. Infatti, per poterla analizzare occorre avere una coscienza desta. Ora, è evidente che la sensazione e il concetto <<non raggiungono la nostra coscienza chiara che impegnati nell'unità stessa del giudizio» l) . Per conseguenza, I'andisi non può cogliere la sensazione immediatamente. Deve accoglierla d'interno di una riflessione che esamina il giudizio nella maniera pih globale possibile.

Si considera in primo luogo la priorità deiia sensibilità in fun- zione dell'oggettività del giudizio. In questo senso il giudizio è intenzionale e oggettivo. La conoscenza, tendendo verso un'al- terità che la trascende, non può raggiungerla senza subirne I'at- trattiva, senza accoglierla. Ora, secondo alcune interpretazioni delle categorie, I'oggettività accolta passivamente dalla sensa- zione è simbolizzata daiia materia, mentre la forma è creata attivamente dall'intelletto. Per questo motivo «non si può affer- mare che la conoscenza sensitiva è la causa totale e perfetta della conoscenza intellettiva; ché, anzi, in un certo senso, essa è la materia su cui Ia causa agisce» 14. Queste vedute catego- ridi orientano in apparenza verso posizioni kantiane.

AItri testi di san Tommaso giustificano tuttavia Ia passività della sensibilità con ragioni più vicine d'esperienza comune. L'anima intellettiva <<non riceve naturalmente per infusione la conoscenza della verità, [.. .I ma ha bisogno di raccoglierla dal- le cose materiali e concrete, per la via dei sensi. Ora la natura non priva $i esseri delle cose indispensabili; perciò era neces- sario che l'anima intellettiva avesse non solo la facoltà di inten- dere, ma anche quelia di sentire. D'altra parte l'attività sensi- tiva non può esercitarsi senza uno strumento corporeo. Ecco quindi la necessità che l'anima itlteilettiva fosse unita a un corpo

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capace di essere l'organo dei sensi»I5. La necessità deiia sen- sibilità deriva dunque dall'imperfezione della nostra intelligen- za che non conosce immediatamente la verità dal sensibile. Il sensibile è infatti privo di trasparenza per I'inteiietto. Essendo l'accesso alla verità mediato, la <<facoltà intellettuale che non è né puramente intuitiva, né dotata di idee innate, esige il con- corso di una facoltà recettiva esterna, vale a dire di una sensi- bilità)) 16.

La scienza ha tentato di descrivere i meccanismi dell'acco- glimento sensibile come se essi duplicassero nel sistema nervo- so le cose sensibili. La sensibilità sarebbe così l'istanza cogniti- va che risponde, in seguito a necessità organiche, alle informa- zioni provenienti dalle sollecitazioni sensibili. Le analisi deU'«arco riflesso* richiamano questa evidenza: a ciascun sen- so la sua maniera particolare di accogliere ciò che è. I1 proces- so che va dall'estremità di un nervo afferente, per esempio dal livello della cute, se si tratta del tatto, verso il midollo spinale ed eventualmente verso la corteccia, suscita una risposta pro- grammata che è ricondotta dal nervo efferente verso la relati- va terminazione muscolare. Si può mostrare, in un nervo, la continuità che va da un neurone ad un altro nel moméhto di un trasferimento di informazioni: il neurone sensibilizzato è elettro-chimicamente destabiiizzato; ritrova il suo equilibrio attingendo l'energia dal neurone vicino che, a sua volta, desta- bilizzato, conduce più lontano I'informazione. Vi è dunque nel sistema nervoso un preciso processo meccanico. I problemi posti dall'incontro dei neuroni, neUa <{sinapsi», sono certo numerosi, e piii ancora io sono quelli che riguardano la decodificazione e l'analisi deil'informazione, la costruzione e la ricodificazione delia risposta. Ma, in ogni caso, il processo è determinato; la reazione nervosa è provocata da un'azione deilo stesso tipo.

Tuttavia, il processo nervoso dovrebbe essere sempre esat- to, se fosse soltanto meccanico. Da un nervo ad un altro dello stesso tipo non vi è passaggio: la mano sente ciò che tocca il pollice, ma in modo distinto da ciò che tocca il palmo. Inoltre,

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da un circuito proprio ad un tale senso ad un circuito proprio dd un altro senso, non vi è passaggio; l'occhio non sente, l'ores- chio non gusta ed il sapore è senza immagine. Ma ciò che sen- tiamo, lo sentiamo nella sua unità, nonostante la diversità del- le nostre fonti di informazione. In ultimo, le illusioni ottiche, note come illusioni, ma malgrado tutto invincibili, indicano che vi è un divario tra ciò che è chiaramente percepito e ciò che dovrebbe essere il risultato di una concatenazione nervosa. La sensazione <<in sé» dovrebbe essere composta da una moltitu- dine di punti, ma le nostre sensazioni reali non lo sono.

«Oltre ad un'azione transitiva dell'oggetto, è richiesta un'a- zione iinmanente del senso*". Quando io sento un rumore, sento immediatamente un aereo che passa, una sinfonia alla radio o il chiasso di una manifestazione. Ciò che è sentito pas- sivamente è interpretato immediatamente per rendere il senti- to significativo. La psicologia della Gesfacllt ci illumina a questo proposito. Ciascun senso opera una rndificazione; riconosce con ciò una figura significativa. L'esperienza sensibile non è dun- que unicamente passiva; d'altra parte ciò che è interamente pas- sivo viene compresso da ciò che riceve senza ricavarne alcuna esperienza. Il sentito deve quindi essere informato attivamen- te dal senso stesso. Se si sostiene che la sensibdità subisce un'd- terazione ricevendo un'informazione, quest 'alterazione <{non cambia la natura di ciò che è alterato, non fa che restituirlo di più a se stesso, attualizzando le sue potenze proprie»'% La passività della sensibilità è legata ai suo esercizio pih che aila materia del sentito.

Certo, l'informazione sensibde provoca una modificazione in colui che la riceve, ma si devono distinguere diversi tipi di modi- ficazione. Una modificazione spirituale non è una modificazio- ne fisica. Questa ha luogo quando la forma dell'agente è rice- vuta nel paziente in un modo fisico, <<così come il calore è rice- vuto nell'oggetto riscaldato» 19; al contrario, quella avviene

vr. LA SENSIBILITÀ 185

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quando la forma dell'agente è ricevuta in un modo spirituale, come l'occhio che percepisce un oggetto <<verde» senza diveni- re verde. Per Aristotele d a sensibiiità è ciò che riceve Ie for- me sensibili senza la materia, come la cera prende fl'impronta del I'aneilo senza il ferro né I'oro. i.. .] La sensibilità relativa a ciascun sensibile patisce sotto l'influenza di ciò che possiede il colore, il sapore o il suono, non in quanto ciascuno di questi oggetti è detto [essere tale cosa], ma in quanto [esso] ha que- sta qualità e per quanto riguarda la sua forma* All'esempio aristotelico della tavoletta di cera, che ha fatto una lunga stra- da fino a Cartesio, san Tommaso preferisce quello delia vista; «la vista, [...I, poiché funziona senza mutazione fisica dell'or- gano e deu'oggetto, è il senso più spirituale e perfetto, e pih universaIe»Z$ l'occhio che vede l'dbero non diventa nulla di ciò che è l'albero materialmente, benché lo percepisca con molta esattezza. E evidente che la sensazione non è soltanto una m&- ficazione fisica o spirituale come rischierebbe di far credere I'andogia aristotelica della tavoletta di cera; per questo moti- vo san Tommaso preferisce I'esempio deiia vista.

L'esperienza sensibile è immediatamente di ordine spiritua- le; non è riducibile a ciò che ne colgono le scienze sperimenta- li. La passività materiale e meccanica deUa sensibilità non la definisce correttamente; questa passività è una costruzione astratta, non una realtà. La sensazione e la sua recettività mate- riale non sono dunque il tutto deIla sensibilità, che percepisce I'unità della forma del sensibile e non la sua materia. La recet- tività della sensibilità è di fatto gii spirituale, un'appropriazio- ne, un accoglimento attivo, un'«ospitdità» 22 che fa partecipa- re ad una pienezza già data, ma senza appropriarcene ulterior- mente. L'accoglimento del sentito è I'accoglimento di un'unità sintetica. La sensibilità si accorda al sentito a condizione di poterne accogliere la reale unità; di quest'unità la sensazione puramente passiva e astratta dalla scienza non è la misura.

20 - ~ o h . r ~ a s o , De amimn I1 12. 2' 'IOMMASO, iu somma teologica 1 78 3 C.

22 G. MARCET., Dal n$uto nll'irrvocazione, p. 123.

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Come articolare la passività e l'attività della sensibiIitU L'op- posizione di una passività materiale e di un'attività formale non soddisfa se essa è nello stesso tempo opposizione tra i sensi fatti per la materia e l'intelletto affine alle forme. Infatti, la costruzione delia forma è immanente alia sensibilità. Questa opposizione è tuttavia accettabile se la si traspone all'interno della sensibilità per articolarne i poli di attività e di passività. I1 sensibile, che è uno in se stesso, ad esempio questo suono, questo sapore, è percorso dai nostri sensi che lo raggiungono punto per punto, analiticamente. La conoscenza del sensibile progredisce sintetizzando attivamente i risultati di queste sen- sazioni in sé disgiunte. Se la sensibilità è soltanto discorsiva, non potrebbe cogliere in forma unificata ciò che è molteplice e disperso. Ora, quando percepisco una rosa rossa o un treno che si ferma, percepisco una totalità sensibile di cui nessuna parte è realmente separabile dalle altre. La sensibilità percepi- sce il sensibiie secondo la sua unità reale. Vi deve dunque essere una sintesi a priori de& elementi sensibili perché essi siano tutti compresi nell'unità del sentito.

Sant'Agostino aveva già osservato che le informazioni dei diversi sensi richiedono delle risposte che ne sintetizzano la com- plessità. I sensi esterni sono unificati tra loro da un senso inter- no. *Altro è infatti il senso con cui la bestia vede ed altro la facoItà con cui, neu'atto di vedere, percepisce, fugge o appeti- sce. Il primo si ha nel senso della vista, l'altro dentro, nell'ani- ma. Con esso appunto gli anirnaIi appetiscono e si procurano, se soddisfatti nel bisogno, oppure fuggono e respingono, se disgustati»2'. I nostri sensi, benché limitati ad un aspetto par- ticolare del sensibile, lo raggiungono tuttavia per intero. I1 loro limite elettro-chimico non viene modificato affinché entrino in un sistema nel quale essi sono capaci di riferirsi in diversi ad un medesimo oggetto. I sensi particolari funzionano dunque secondo le indicazioni del senso comune che li coordina; gli recano informazioni suscettibili di essere intese in una sintesi

vr. ].n SENSIBILITA 187

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appropriata per ciascuno di essi e per tutti complessivamente. L'occhio si chiude al bagliore deI lampo, mentre tutto il corpo indietreggia; la mano che si posa su un oggetto troppo caldo provoca uno spostamento del corpo nel suo complesso, richia- mando tutta I'attenzione psichica. I1 sistema nervoso deve dun- que essere gestito in maniera controllata; il senso comune pre- siede a questa centrdizzazione. Il senso comune non è un-sesto senso omogeneo agli altri,

organicamente determinabile. E una costruzione della riflessione. Lo si concepisce aile volte ad immagine di un ordinatore capa- ce di gestire simultaneamente diversi dati. Ma questa immagi- ne è insufficiente. Se il senso comune fosse simile ad un tale meccanismo, non potrebbe ricreare l'informazione di un senso quando questo è scomparso per un motivo o per un altro; non si comprenderebbe come la distruzione parziale di un apparato sensoride potrebbe essere supplito da un altro. Un cervello elet- tronico non può fare nulla se non è informato da alcuni termi- nali con funzioni precise, mentre un senso può essere in una certa misura sostituito da un altro. Per questo motivo, «al gra- do elementare della sensibilità si intravede una collaborazione degli stimoli parziali fra di loro e del sistema sensoriale con il sistema motorio, collaborazione che, in una costellazione fisio- logica variabile, mantiene costante la sensazione e quindi irnpe- disce di definire il processo nervoso come la semplice trasmis- sione di un messaggio dato» 24.

Si identifica il senso comune con Ia percezione, distinguen- do questa dalia sensazione. Per <(sensazione» si intende il momento passivo della sensibilità o la reazione sensoride deter- minata elettro-chimicamente. Per <<percezione» si vuole signifi- care al contrario 3 momento attivo delia sensibilità in cui i diver- si sentiti diventano un'unità percepita. Se non vi è percezione contemporaneamente d a sensazione, la sensibiiith non potrebbe raggiungere altro che del discontinuo, del confuso, senza I'uni- tà che dà l'identità. Ma l'informazione ricevuta attraverso Ia sensibilità ha sempre una forma unificata. Senza di essa, la sog- gettività sarebbe perduta, incapace di orientarsi, abbandonata

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ad una serie di punti slegati e senza raggiungere quella unità oggettiva su cui fare affidamento.

Il vissuto è una sintesi di sensazioni e di percezioni; è frut- to dell'immaginazione pensare che passeggiando si è investiti da sensazioni di cui non se ne percepiscono tuttavia che alcu- ne. La percezione non è il momento <(cosciente>> della sensibi- lità di cui la sensazione sarebbe il. momento ctincoscientefi. Que- sta teoria confoilde l'attività della percezione con quella deI- l'intelletto; distingue dunque la sensibilità e l'intelletto. Di fatto si distingue la sensazione d d a percezione solo per astrazione; isolate, esse sono limiti del pensiero. Per M. Merleau-Ponty, la scienza «introduce sensazioni che sono cose, laddove l'espe- rienza mostra che vi sono già insieme significativi, e assogget- ta l'universo fenomenico a categorie riferibili unicamente d'u- niverso della scienza» 2 5 . La sensazione è la necessaria passivi- tà dell'esperienza sensibile e la percezione la sua attività altret- tanto necessaria, essendo l'esperienza al tempo stesso passiva ed attiva, accoglimento del sentito organico e percezione della sua unità sintetica. La passività e l'attività della sensibilità non sono realmente distinte; unite nell'esperienza, ne formano la struttura intelligibile.

Ma presentando così le cose, non rischiamo Sorse di togliere ogni «oggettività» d a sensibdità e conseguentemente ad ogni conoscenza del. mondo? I1 nostro rapporto col mondo non dev'essere passivo per essere «oggettivo», prima che la perce- zione ne faccia una sintesi <<soggettiva>>? Non dobbiamo noi esse- re prima informati per poter poi giudicare correttamente? Alcuni tentano di restaurare l'oggettività della sensibilità, affermando che Ia percezione, come la sensazione, è meccanica. La perce- zione risulterebbe così da un processo analogo a quello della sensazione. L'associazinnismo sostiene che gli elementi psichi- ci possono essere in un primo momento isolati come entità pure, poi raggruppati secondo la contiguità, la rassomiglianza e il con- trasto delle loro forme. Per la contiguità, due stati di coscien- za simultanei o immediatamente successivi rimangono legati; per la rassomiglianza, se due rappresentazioni sono sitndtanee,

In., p . 43

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l'una tende a riprodurre l'altra; per il contrasto una rappresen- tazione può suggerire il suo contrario come ii suo simile. Da questa dottrina ne consegue che la percezione attuale ricompo- ne ii passato riposto negli spazi infiniti deiia memoria compa- randolo con l'informazione attuale. Questo schema non è mol- to lontano da quello proposto da Aristotele nella conclusione dei suoi Secondi Analitici: i concetti sono costruiti moltiplican- do le esperienze e non trattenendone nella memoria che gli aspetti simili. Si è dunque proposto di denominare queste costru- zioni dello psichismo «perce tti» della percezione.

Ma se si ignora I'apriorità dell'unità messa in opera dalla per- cezione, ula conoscenza appare come un sistema di sostituzioni in cui una impressione ne annuncia altre senza mai renderne ragione [...l. Le immagini o le sensazioni più semplici sono, in ultima andisi,. tutto ciò che vi è da comprendere nelle paroIe, i concetti sono una maniera complicata di designarle e, poiché sono anche impressioni indicibili, comprendere è una impostu- ra o un'iuusione, la conoscenza non ha mai presa sui suoi oggetti che si attraggono vicendevolmente, e lo spirito funziona come una macchina calcolatrice che non sa perché i suoi risdtati sono veri» 26 .

La critica dell'associazionismo e la teoria similare della proie- zione dei ricorsi è fondata su una necessità che si impone a priore': il percepito è una sintesi spontanea e sensata; non si può dunque comprenderlo come un prodotto di un meccanismo psi- cologico. Ciò che non ha in sé significato non dà luogo ad un evento sensato.

La sensazione e la percezione sono dunque unite nella sensi- bilità. La sensazione è una recettiviti di cui si possono rico- struire in laboratorio, ma astrattamente, i meccanismi; la per- cezione riconosce l'unità a priori del percepito. L'attività della percezione non è quella di una produzione del suo oggetto, ma un dinamismo che, grazie a1 suo oggetto formale, risponde all'at- trattiva di ciò che è. Parleremo ne1 punto che segue di questo oggetto formale della sensibilità.

'6 ID., pp. 49-50

190 vi. LA SENSTRTLITA

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3. L'a priori della sensibili&

La sensibilità non è soltanto una sensazione passiva; anche una percezione attiva guidata da una forma che proviene dalla sua natura, a priori in questo senso. Vedremo prima qual è la funzione di una forma della sensibilità spirituale. Determine- remo poi questa forma attraverso lo spazio-tempo. Conclude- remo interpretando di conseguenza la categoria scolastica della <{semplice apprensione)).

L'a prion della sensibiiità non le viene imposto dall'esterno. Lo sarebbe se fosse formato alla maniera di un tratto impresso n d o spirito mediante la ripetizione di molteplici esperienze sirni- li, seguendo il loro destino, come vorrebbe l'associazionismo. L'a primi dell'esperienza sensibile ha una struttura necessaria e non aleatoria.

Non è pih lasciato alla nostra scelta; è in noi, malgrado noi. L'esperienza delle nostre illusioni ottiche Io conferma. Perce- piamo $i oggetti in modo diverso da quello che sono in realtà, perché la sensibilità li costruisce spontaneamente in un modo o in un dtro, senza che noi possiamo interferire. Essa li mette in forma, secondo una ragione che n0n.è nel sensibile «in sé>>, né nel sensibile «per noi», ma in se stessa. Questa messa in forma non risulta da una distrazione o da una disattenzione mentale, da una precipitazione che si potrebbe anche correg- gere. Senza dubbio, talvolta, a forza di concentrazione menta- le, può sembrare che l'illusione svanisca, ma si impone di nuo- vo non appena si torna ad un'attività tranquilla dello sguardo. La sensibilità non è dunque una pura recettività di fatti oggettivi.

Tuttavia se la sensibilità fosse puramente attiva, non si cnm- prenderebbe come stabilisca un rapporto rede con gIi oggetti che sono diversi da sé. Se l'oggetto sentito fosse un'emanazio- ne della sensibiiità, questa non percepirebbe altro che l'espres- sione indefinita deUa propria espansione. Sarebbe dunque una

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potenza senza limite; nient'altro che la sua energia la determi- nerebbe veramente. Ma la forma percepita deve appartenere all'oggetto sentito. Quando ci rendiamo conto delle nostre illu- sioni ottiche, neghiamo loro la nostra fiducia immediata e le correggiamo, per quanto è in nostro potere, utilizzando stru- menti di misura che affinano la nostra apprensione sensibile. Noi vogliamo dunque percepire l'oggetto secondo le forme che $i convengono. La forma a priori della sensibilità dev'essere in grado di far percepire l'oggetto nella sua forma reale. Ma in che modo? In genere diciamo che cd'apriorità naturale di una forma di conoscenza non maschera al soggetto la vista di oggetti estranei quando la determinazione a priori che porta questa for- ma è essa stessa essenzialmente ordinata a questi oggetti>> 27. Non si può cogliere correttamente ciò che è la forma della sensibili- tà se si ignora l'alleanza antologica di cui essa è un momento. Già sui piano della conoscenza sensibile, il rapporto tra l'ente e lo spirito è un'alleanza in cui nessuno dei pameus può essere ignorato. La loro mutua presenza non è tuttavia immediata. Occorre dunque pensare come necessaria la loro mediazione, vale a dire l'oggetto formaIe della sensibilità. Quest'oggetto for- male mediatore non può essere soltanto ricevuto passivamen- te, poiché in questo caso non si tratterebbe di vera mediazio- ne. Non può neppure essere soltanto immanente alla sensibili- tà, poiché d o r a non potrebbe orientarla verso ciò che sussiste in sé secondo le sue determinazioni. Occorre dunque che sia irnmanente d a sensibilità ed ordinato a priori a ciò che ogget- tivamente sussiste.

Sarebbe affascinante comprendere quest'oggetto formale con l'aiuto della «psicologia della forma)>. La Ges&lttheotie defini- sce la forma come una struttura unitaria data prima dell'ecci- tazione fisiologica, condizioni a priori ed universale dell'appro- priazione significativa dell'ogget to sensibile. <<Prendiamo una macchia bianca su uno sfondo omogeneo. Tutti i punti della macchia hanno in comune una certa "funzione" che fa di essi una "figuraM. Il colore della figura è più denso e per così dire pih resistente d i quello dello sfondo; i bordi della macchia bianca

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ie "appartengono" e non sono solidali con lo sfondo, quantun- que quest'ultimo sia a essi contiguo; la macchia appare posta sullo sfondo e non lo interrompe. Ogni parte annuncia pih di quanto contenga e questa percezione elementare è quindi già pregna di senso. Ma se la figura e lo sfondo, come insieme, non sono sentiti, è pur necessario, si dirà, che lo siano in ogni loro punto. Ciò significherebbe però dimenticare che, a sua vol- ta, ogni punto può essere percepito solo come una figura su uno sfondo»28. La forma non può dunque risultare da espe- rienze particolari; queste ricevono ai contrario il loro significa- to dal rapporto che hanno con uno sfondo che non è la loro somma. La forma, o il rapporto del particolare allo sfondo sul quale si distacca e che lo sorregge, non proviene dd'esperien- za; essa l'anticipa, rendendo possibile la sua percezione unifi- cata. La forma è dunque a ption.

Tuttavia la Gestakt è anche a posteriori o costruita. Infatti, è suscettibile di essere educata, costretta alle volte a forza di condizionamenti. Gli psicologi di tendenza behaviorista la vedo- no sottomessa alle leggi di semplificazione, di generaiizzazione o di simmetria, sulle quali basano precisamente l'educazione dei sensi. Chiarita attraverso il sua meccanismo, la Gestalt è d o r a spiegata in termini di equilibrio che ingloba <<contemporanea- mente gIi oggetti esteriori e le correnti nepose che si scarica- no ai contatto fisico con gli oggetti stessi. E dunque un circui- to totale che abbraccerebbe simultaneamente l'organismo ed il suo ambiente immediato. Un "campo" percettivo (o motore ecc.) è paragonabile, da questo punto di vista, ad un campo di forze (elettromagnetiche ecc.) e retto da principi analoghi (di " minirnum" , dell' azione minore ecc .)» 29. La Gestalt risul- ta ddl'intersecarsi di tutte queste forze. Ma questa Gest~~kf a posterionf non è la forma ca pPE*ori. Essa concerne più il contenu- to del sensibile sperimentato, il suo modo di presentarsi, che non la sua potenza di unificazione.

Per questo motivo, nonostante le somiglianze della Gestcslf e dell'oggetto formale, ci deve' riconoscere la loro differenza

'%. MERI.EAU- PUNTY, F C ' P I O ~ E ~ O ~ O ~ ~ C I delki perc~.zionc, pp. 3 5- 36 ZY J. RAGF,T, Psicologia dci/'intclligetrzd, p. 7 1.

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essenziale. La Gestdt implica l'oggetto formale, ma l'inverso non è vero. Che cosa sarebbe infatti la Gest~lt se la forma per- cepita non offrisse un senso al percipiente, se non rispondesse ad un'esigenza esteriore di unificazione del percepito? La Gestdt ha un senso perché la sensibilità Io esige e &e10 dona. Le Gestal- ten non preesistono assolutamente d'esperienza. I behaviori- sti e quelli che insistono sull'educazione delle forme lo ricono- scono vivamente; le condizioni sociali o psicologiche del sog- getto che produce la GestaLt a contatto del sensibile non pos- sono essere disconosciute dail'analisi della vita conoscitiva. Ma la produzione della Gestalt risponde ad una ricerca più origina- ria del senso, ad un orientamento dello spirito verso un equiii- brio finale di cui il meccanicismo non rende conto e che sotto- linea gli sforzi talvolta dolorosi che svolge l'uomo per superare gli insuccessi della natura.

La forma dà un senso perché unifica o sintetizza il percepi- to, dal momento che Ia sensibilità ha bisogno di una taIe unifi- cazione. Ciò che è disarticolato non ha senso perché non ha unità. L'articolazione del sensibile è spontanea, pre-cosciente, ma non avviene senza che un progetto spirituale vi sia messo in esercizio. Lo spirito è uno; la sua apertura a l principio uni- ficante è la base di ogni conoscenza, anche sensibile, di ogni costruzione di Gestalt. La forma non ha senso per se stessa, ma perché favorisce un progetto spirituale a priori. Essa non porta a compimento certo d progetto di unità, ma ne è una fase. La forma, come lavoro di unificazione più che come risd- tato di sintesi, è prodotta dallo spirito che esercita I'aspirazio- ne ail'unità e vi esprime il suo atto, raggiungendo progressiva- mente la profondità a priori unificata del sensibile.

I1 soggetto percependo in atto è aperto alle cose sensibili, essendo strutturato da un oggetto formale che lo dispone a coglierle significativamente quando si presentano sotto una for- ma proporzionata alle condizioni della sua recettività soggetti- va. L'oggetto formale è dunque mediatore. Non puii essere iden- tificato con una figura particolare dell'oggetto, ma dispone il soggetto a ricevere l'oggetto in maniera significativa. Senza que- sta mediazione, l'oggetto sensibile resterebbe insignificante; la

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sua unità sarebbe misconosciuta. L'oggetto formale è dunque to strumento attraverso il qude la conoscenza assume spiritud- mente il sensibiie.

6) Lo spazio e il tempo

La struttura deli'oggetto formale d d a sensibilità è precisata in spazio-tempo. La percezione mette in opera una sintesi che non proviene dai molteplice, ma che lo precede. Essa accede ai diversi punti sparsi nello spazio, cogliendoli nell'estensione unificata in cui il diverso appare a priori coordinato.

Astrattamente ricostruita in laboratorio, la sensazione è f at- ta di punti che formano uno spazio. Tuttavia, noi percepiamo l'oggetto unificato nell'estensione. Intendiamo per estensione Ia forma sintetica ed unificata di uno spazio fatto di punti diver- si e soggetto ad analisi. L'uriità del percepito è prima; la diver- sità del. sentito è seconda. L'estensione è a priori, lo spazio a postere'ori.

Secondo Bergson, se si distingue la sensazione e la percezio- ne come l'informazione puntuale dei sensi e la risposta sinte- tizzante dello spirito, <<si può [...l dire che il particolare della percezione si modella esattamente su quello dei nervi detti sen- sitivi, ma che Ia percezione, nel suo insieme, ha la sua vera ragione di essere nella tendenza del corpo a m u ~ v e r s i ~ > ~ ~ . L'azione corporea unifica l'oggetto situandolo in uno spazio da percorrere. La mobilità del corpo, del movimento discorsivo degli occhi, per esempio, aderisce alla diversità dell'oggetto, mentre la continuità di questo movimento l'unifica nell'estensio- ne. L'ordinamento della diversità s p a d e nell'es tensione si opera a favore del movimento continuo del corpo. Questo significa che Ia continuità temporale vi sovrintende. Ii tempo fa dello spa- zio un'estensione. E la condizione di possibiiità soggettiva del- la percezione deil'ente unificato neI1a sua estensione oggettiva.

L'analisi di quaiche senso aiuta a penetrare maggiormente queste mediazioni dell'estensione e del tempo. La visione è

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stata spesso considerata come I'espressione peculiare del sen- so. Il tempo del percorso visivo dello spazio è determinato dal movimento degli occhi; essenzialmente soggettivo, questo tem- po struttura l'oggetto e ne fa riconoscere l'estensione unifica- ta. La memoria del percorso unifica soggettivamente l'ente e ne fa riconoscere la consistenza reale. LI tempo deI tatto è anche mediatore; la rapidità del movimento d e ~ a mano che accarez- za la superficie degli enti non ne determina certo essenzial- mente la ripartizione geografica. Occorre tuttavia che vi sia un movimento discorsivo della mano, durante un certo tem- po, perché sia riconosciuto lo spazio diversificato dell'oggetto unificato in estensione. I1 fatto riflette così, come la vista, l'og- gettività cpazide. La destra e la sinistra ci rivelano infatti attra- verso il movimento delIa mano o degli occhi che percorrono l'oggetto secondo movimenti successivi, ma unificati dalla memoria. Poco importa tuttavia che la parte sinistra sia senti- ta o vista prima della parte destra, per quanto il tempo sia irreversibile. Non vi è confusione tra l'unità oggettiva dell'e- stensione e il percorso soggettivo del tempo, o la durata.

L'udito è sottoposto al tempo oggettivo. Io sento facendo attenzione, vaIe a dire sospendendo la mia sollecitudine natu- rale o la mia pigrizia per conformare il mio ritmo a ciò che mi è dato da percepire; non sono padrone del ritmo ascolta- to. L'udito ha ugualmente una dimensione spaziale; individua la diversità dell'ambiente in cui risuonano rumori piacevoli o fastidiosi, invitando ad un'azione che fa di questo spazio un'e- stensione. L'estensione dell'udito sembra determinata dal tem- po in misura maggiore che nel caso della vista, come accade quando la musica invita a indugiare danzando alla sua caden- za. Per questo motivo l'udito è più interiore che non la vista e il tatto; l'estensione vi diventa quasi una disposizione spiri- tuale.

L'estensione pareva essere per la vista e il tatto la forma a prioa degli enti percepiti nella loro propria unità, mentre il tempo sembrava appartenere piuttosto alla soggettività. Ma la stessa estensione è condizionata dal tempo, la cui cognizio- ne dà il senso profondo dell'unità degli enti.

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L'unità oggettiva dell'estensione è riconosciuta temporalmen- te. L'unità soggettiva del tempo è riconosciuta spiritualmen- te. Sono note le pagine immortali delie Confessioni di sant' A- gostino sul tempo e la memoria; possiamo soltanto segnaIarle di passaggio. Il passato s i è concluso e non ritornerà mai più; il I'uturo non è ancora; il presente è appena «presente>> che già se n'è andato. I1 tempo sarebbe così senza una realtà sta- biie se i suoi momenti distesi non fossero di fatto modalità di una presenza. La memoria conserva gli avvenimenti, poi- ché lo spirito riconosce in essi I'extensio della sua attualità. Coglie il passato a partire dai presente, vi vede un serbatoio di significati che può attualizzare; per essa il futuro è una spe- ranza o una promessa che legittima la durata di un passato per sempre attualizzato e rinnovato. Riflettendo sulla sua exten- sio, lo spirito si scopre liberato dalla puntualità di un presen- te evanescente. Il presente non è fugace perché affonda nel passato, ma perché è sospinto in avanti grazie all'energia di un passato ricreato fino ad oggi fedelmente nella sua ricchez- za feconda. Tuttavia la memoria non è padrona del tempo. Con fedeltà si ricorda del passato senza confondere i momen- ti della sua successione, senza trasferirli dal passato al futuro. Per la memoria fedele, il passato che le è presente, le è pre- sente come passato; iI futuro non è ancora, ma già impegna a fondo tutte le sue energie estatiche. La dzstensio del tempo è in questo senso reale; la memoria non può mescolarne i diver- si momenti.

Lo spirito non coglie dunque ii tempo alla maniera delio spa- zio. Non lo percorre in modo lineare, ma raccoglie all'istante la sua estensione a priori, unificata in seno ad un progetto che orienta il presente verso il futuro a partire da un passato inces- santemente rinnovato. La sincronia deu'estensione, o l'intui- zione del semplice che ingloba lo spazio molteplice, non può essere trasposta nel dominio diacronico della durata in cui il diverso nasce dall'interiorit à stessa del. semplice, come lo stra- ripamento della sua energia immanente. I1 tempo non è uno spazio la cui unità potrebbe essere un centro semplificante ed inglobante. Lo spirito è presente e uno, diffondendosi al di fuori del suo presente, al ritmo di un'intensio temporale di cui

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non ha in sé il compimento; il suo presente lo riceve dai suo passato come un compito per il futuro. L'unità del tempo è spirituale, presenza a sé deilo spirito che si ricorda del suo passato come passato e che spera ii suo futuro come futuro, ricordandosi di sé che non è più, sperando di sé mentre non è ancora. La presenza spirituale si distacca dall'immediato che fluisce; raccoglie il passato reale ed afferma dinamicamente il futuro, aprendosi a ciò che non è più per fare avvenire ciò che sarà. E in tal modo una potenza capace di concentrarsi su se stessa, a condizione di rendersi presente alla diversità dei suoi impegni che essa non è più e non ancora. La presen- za temporale delio spirito a sé è ad un tempo sistole e diasto- le, in sé a condizione di essere realmente fuori di sé, unità che si moltiplica, mentre l'unità dell'estensione semplifica lo spazio e lo riduce alia sua unità formale.

La memoria spirituale dà ai momenti finiti del tempo di esse- re presenti in essa. Ricordandosi di sé, percependosi come intensio, lo spirito afferma la sua presenza in ciò che non è più e non è ancora. Quest'affermazione consegue la sua veri- tà concreta quando lo spirito si riconosce identico a sé nel suo passato dai molteplici giorni, nel suo presente unico e fugace e nel suo futuro promesso, ma indeterminato. Questa identi- tà a sé fa dell'extensio neIla distemio un'intensio feconda. Lo spirito si conosce unito a sé in una maniera originale; muo- vendo da un presente sempre assente, è intensamente in sé. Avendo memoria di sé, accede alla sua unità che vive nel suo passato che non è più e nel suo futuro che non è ancora; la sua intensio è perfetta quando aderisce alla sua extensio.

La forma temporale attraverso la quale lo spirito si conosce presente a sé a partire da ciò che non è più o non è ancora rende possibile l'ospitalità dell'ente nella realtà viva della sua alterità. L'uniti deli'ente sensibiie esteso è infatti riconosciu- ta progressivamente. Ricordandosi innanzitutto di sé, lo spi- rito sa di non essere all'origine delia propria unità; presente a sé a condizione di consegnarsi alla sua extemHo, riceve dun- que di essere uno. Sa con ciò che vi è un'origine una che lo fa essere uno. Sa di non essere questa origine. Accetta fin da quel momento l'unità dell'ente che proviene da un'origine per

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sempre irriducibile alla sua potenza. Il riconoscimenro deli'e- ~s tensione, simultaneo alla memoria intensiva che lo spirito ha di sé, è finalmente un atto di percezione spirituale.

Concluderemo adesso la nostra riflessione sulla sensibilità trattando del senso metafisico del suo atto. Spiegheremo cosi ii termine scoIastico di <<semplice apprensione>>, secondo il quale la pienezza deil'ente è già data dall'inizio dell'esperienza sen- sibile.

Secondo la scolastica, l'affermazione cognoscibile in acta est cognoscens in actu si verifica fin dal primo livello della cono- scenza: sensibile %n actu est sensus in actzi 31. Ma queste formu- le non possono far pensare che il sensibiie e il senso sono imme- diatamente presenti l'uno d'altro. Abbiamo dunque analiz- zato la mediazione che unisce ii sensibile ed il senso. La nostra raessione aveva un orizzonte strettamente rnetafisico; la medi- tazione metafisica poggia infatti su1l'deanza antologica tra gli atti dell'ente e dello spirito, astrattamente separati, ma real- mente esercitati insieme. Abbiamo quindi riconosciuto questi atti esercitati nell'attività delia sensibilità.

L'alleanza metafisica ha una struttura che avevamo delineato descrivendo lo stupore. La nostra analisi vi aveva visto una tensione fondamentaie; l'ente si presenta a chi lo percepisce con una profondità che oltrepassa il sentito immediato. Con ciò non occorre sovraggiungere un ente a quello che stupisce. La profondità dell'ente non è un ente diverso dalla sua appa- renza; è piuttosto ii suo atto di presentazione. Quando coglia- mo l'ente sensibile vi intendiamo il suo atto che viene in pre- senza o si realizza nelia sua apparenza.

La mediazione che congiunge il sensibile ed il senso non dà accesso ad un'apparenza dell'ente che ci distinguerebbe dalla sua verità intelligibile. I1 sensibile non è l'astratto apparente e separato daIla sua realtà vera, ma I'ente in quanto è propor- zionato alle condizioni della nostra conoscenza e, in primo luo-

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go, alla nostra sensibilità. Per questo motivo consideriamo insieme queste due proposizioni classiche: ogni conoscenza comincia dali'esperienza sensibile e ens est primzkm notum. <<L'ente primo conosciuto» è quello che si presenta sensibil- mente, non soltanto in apparenza, ma in atto di essere. Com- prendiamo in questo contesto il tema classico deli'«apprensio- ne semplice deIl'essere».

Non si tratta qui di un'appropriazione intuitiva di un con- cetto generale di ente. Certo, tutto ciò che è presente all'in- telietto è aIrneno un ente. Ma questa constatazione bande, acquisita trascurando le differenze effettive che costituiscono la realtà delle nostre espressioni, è demolita dalla ragione che si rende conto della vanità della sua generalità fin da quando cerca di rendere noto ciò che è realmente. L'apprensione sem- plice concerne il sapere, fin dall'esperienza sensibile, del fon- damento deil'ente molteplice che è ii suo atto proprio di esse- re, nei limiti della sensibiiità e del suo oggetto formale. L'en- te è conosciuto fin da questo primo livello di conoscenza nel suo atto di essere, ma secondo la sua presentazione estesa e temporale.

L'apprensione semplice non è il. frutto del nostro disprezzo per l'apparenza molteplice. Noi conosciamo alla sua luce l'ap- parenza come apparenza ed apprendiamo così l'atto che l'uni- fica. Questo livello delia conoscenza, questo atto è determi- nato dalla forma spazio-temporale della sensibilità che supera lo spazio in estensione, unificandolo secondo Ia durata spiri- tuale. «L'ente è il primo conosciuto» perché la sua conoscen- za esercita così a priori, fin dalla percezione sensibile, l'attra- zione fondamentale dello spirito verso l'unità del principio.

Lo spazio della diversità oggettiva è unificato dalla memo- ria che lo conserva in una forma ben centrata, l'estensione. Il tempo è una diversità soggettiva unificata dalla memoria che si apre al suo passato e al suo avvenire. Lo spirito va dallo spazio all'es tensione, raccogliendoli nell'omogeneo; esercita il suo tempo estendendosi fino a ciò che non gli è presente. Le strutture dell'estensione e del tempo sono così invertite. L'estensione chiude, il tempo apre. Ma nonostante queste oppo-

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sizioni, vi è un'unione profonda deli'estensione e della dura- ta, perché la prima è un frutto della seconda.

L'estensione del tempo non è una dispersi0 senza un'intz- sa'o che la metta a fuoco; ma questi momenti unificati non sono resi indistinti gli uni dagli altri. I1 passato non è il futuro; 10 slittamento del futuro nel passato attraverso il presente non è una neutralizzazione della differenza dei momenti. Il tempo rimane disperso; la sua unità è il suo orientamento verso I'avan- ti, la sua proiezione verso il domani apportatore di un senso futuro. .Lo spirito si priva così di un'identità immediata ne] suo presente; al tempo stesso accede all'identità della sua dura- ta. La penetrazione deUa memoria nei suoi diversi impegni per- mette così di creare un mondo in cui lo spirito è in grado di esercitare la sua intenrio. Lo spazio diventa così I'estensione, la cui unità non è più formale, ma attiva, quella dei movimenti dei corpi attraverso i quali Io spirito reaIizza i suoi progetti e si rende visibile. L'estensione unita dalla memoria spiritua- le ha l'unità di una storia concreta in cui lo spirito si estende intensamente.

L'esperienza sensibile fa intendere il principio unificante ad immagine deUo spirito che lavora per realizzarsi. Se è vero che il principio si irradia fin da questo primo livello della cono- scenza, possiamo dire che esso è, in un senso simiie, attivo. La nostra intelligenza dell'atto di essere non potrà fare a meno di questi risultati della nostra analisi della sensibilità. L'og- getto formale della sensibilità, estensione e durata piuttosto che spazio e tempo, è già strutturato da questa atto di essere.

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CAPITOLO S ~ m o

L'INTENDIMENTO

La struttura della conoscenza umana è tutta impegnata fin daila sensibilità. Tuttavia, questa non si riflette da se stessa. L'occhio, che vede un oggetto, non la sa. C'è un salto tra la percezione che sperimenta silenziosamente l'unità semplice del- l'ente e Ia conoscenza verbale degli elementi di questa unità. L'intendimento ha come funzione di enunciare il percepito empirico; utilizza pertanto il linguaggio fatto di parole, frasi ed argomenti, di cui la sensibilità ignora il significato e che scompone il vissuto permettendo di analizzarne la complesci- t à e di precisarne un aspetto. La sensibilità è sintetica; coglie l'unità del sensibile ed organizza la risposta unificata del cor- po. L'intendimento presiede all'analisi di questo sensibile e ne isola gli elementi per condurli davanti all'inteiligenza in una maniera che le sembri coerente.

L'esperienza sensibiIe coglie il suo oggetto senza errore, airneno dal suo punto di vista. Nei riguardi del percepita, essa non riconosce alcun divario che le permetterebbe di commet- tere errore e che potrebbe indurla a criticarsi. Ai contrario, l'intendimento non è immediatamente presente agli enti; il suo linguaggio fa da mediatore con ciò che esso comprende, man- tenendo una distanza, fonte di possibili errori. Il linguaggio si distingue dai percepito; può infatti non dire ciò che è stato sperimentato o dire ciò che non è stato sperimentato. La cri- tica del linguaggio e la sollecitazione alla verifica hanno origi- ne in questa distanza. L'adeguazione tra ciò che è detto e ciò

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che viene percepito è l'ideale della conoscenza, ma i1 una con- quista o una speranza più che una constatazione o un fatto.

La riflessione sull'intendimento deve dunque considerare il linguaggio come mediatore. Ne prenderemo adesso in consi- derazione le sole parole, la cui costruzione, ce ne renderemo conto facilmente, è essa stessa il risultato di argomentazioni segrete. Le nostre parole hanno differenti funzioni. Il concet- to, che costituirà l'oggetto del nostro primo punto, indica gli elementi percepiti ne1 vissuto; risulta da un'astrazione che scompone la sostanza sperimentata nella propria unità secon- do ciò che è accessibile all'intendimento. Concettualizzando, la conoscenza mette così in opera delIe parole che sorpassano ii sensibile a favore della comprensione. Le «categorie» cono distinte dai «concetti» che esse riuniscono in classi; il nostro secondo punto tratterà di ciò. Concluderemo in ultimo que- sto capitolo parlando dell'c<idea», che è al di là del concetto e della categoria, poiché presiede d a loro costruzione. Attra- verso ciascuno di questi momenti, assisteremo d cammino pro- gressivo dello spirito verso il principio sempre più alto dell'u- nità degli enti.

1. n concetto

a) Lu sensibilità, 2Z concetto e La categoria

L'esperienza percettiva costituisce il primo livello della cono- scenza. Tuttavia, questa priorità è in realtà costruita dopo il fatto, Non abbiamo infatti nessuna conoscenza che non sia assunta nel linguaggio. L'esperienza prima della conoscenza è quella del giudizio. La percezione è dunque prima, ma soltan- to in teoria, a motivo della natura contingente della nostra intelligenza, poiché in pratica è il giudizio ad essere primo.

La priorità dell'esperienza sensibile deriva dalla natura deI- la conoscenza umana. Ma questa priorità non è assoluta. Se lo fosse, dovremmo affermare che tutte le nostre conoscenze provengono unicamente dali'esperienza sensibile e non posso- no in nessun modo trascenderla; ma questo non è vero. La

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conoscenza intellettuale è infatti diversa dalla conoscenza sen- sibile; provvediamo per questa ragione a verificarla. Q u ~ n d o diciamo che le cose sono «oggetti» ai quali le nostre proposi- zioni devono conformarsi, riconosciamo lo sforzo che produ- ce il pensiero per adeguarvici; ma ciò non avviene immediata- mente. Esprimere le cose come sono è un compito spesso dif- ficile. D'altronde, le nostre parole non dicono mai adeguata- mente ciò che è unico; per essere intelligibili sono universali e vanno oltre la sostanza individude. Noi non possiamo com- prendere nulla se non abbiamo espressioni verbdi universa- lizzanti che non si limitano a duplicare il sensibile.

Per costruire queste espressioni verbali l'intelletto mette in opera un a priora* unificante, proseguendo così il lavoro della sensibilità. E necessaria la continuità tra l'esperienza sensibi- le e l'affermazione intellettuale; la conoscenza sensibile deve mettere in opera ciò che ne rende possibile I'enunciazione ver- bale. II lavoro di unificazione ha una forma riflessiva alla quale rende testimonianza il ruolo della memoria nelle esperienze del- la sensibilità e dell'intendimento.

La conoscenza sensibile mette in opera condizioni che non provengono dalla sola sensazione, ma che la memoria sinte- tizza per costituire Ia realtà sperimentata; questa sintesi rea- lizza al suo livello l'aspirazione all'unità che induce lo spirito a progredire nella sua intelligenza unificante degli enti speri- mentati. Awiene lo stesso sul piano dell'intendirnento. Pur stabilendo una distanza propizia d'analisi laddove la sensibi- lità svolge un'unità di ordine sintetico, esso esercita tuttavia Ia medesima disposizione d 'unità riflessiva. Costruendo i suoi concetti universali, riunisce il molteplice; analizzandoli, li col- lega tra loro in sistemi categoriali. Per fare ciò la memoria svol- ge un ruolo essenziale. Se I'intelletto non ritorna su ciò che ha immagazzinato neIla sua memoria, non potrà mai produrre un concetto universale. L'attualizzazione del passato tramite la memoria, forma di riflessione che non disconosce la reddi- h o tomista, esercita ii desiderio di comprendere l'ente unifi- candolo in seno d'esperienza delIa totalità del mondo in cui prende posto. Costruito al termine di questo percorso che pren-

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de l'awio dal presente, che successivamente rischiara attra- verso il passato, in vista di un valore futuro, ii concetto esprime correttamente l'esperienza concreta.

Tuttavia, la costruzione del concetto non porta a compimen- to ii movimento deiia conoscenza. Per conoscere occorre infatti giudicare, vale a dire comporre al minimo frasi coerenti. Ora, nelle nostre frasi le parole non sano tutte dei concetti. 11 con- cetto è solamente una classe particolare di parole necessarie al buon esercizio dell'intendimento, quelle che rendono I'en- te verbalmente intelligibile in mezzo ad altri enti. Ci accostia- mo adesso alla differenza che vi è tra il concetto e la catego- ria. Una prima classificazione delle nostre parole considera il loro ruolo nella frase, il cui significato è manifestato quando è percorsa Ia totaIità del suo enunciato; l'analisi grammaticale opera questa classificazione e questa diversificazione in seno ad un'unità vissuta. Ogni frase è composta da un soggetto, da una copuia e da un predicato, dal momento che ciascuno di questi termini può essere indefinitamente variato. I1 sog- getto è costituito ora da un deittico (cioè un indicatore come «questo», albero-ciqui),, <<io>>), ora da un nome proprio (<&ocra- te») o ancora da un sostantivo che <<suppongono», come dice- vano i nominalisti, vale a dire che sorreggono uno o diversi enti concreti, sia direttamente (agli uomini»), sia indirettamente («una matita*). Le forme deila copula sono più semplici; sono costituite da un modo del verbo «essere». Per quanto riguar- da il predicato, questo è una qualità (<<il malato è "seduto"»), o un sostantivo considerato astrattamente («i portaceneri sono "in metalIo">>), o ancora una modaliti del verbo ((cessi stanno "studiando"»). 11 predicato, come il soggetto, ha numerosi modi, ma universali.

Forme molteplici di questi elementi si intersecano per dar luogo a proposizioni intelligibili, purché la struttura essenzia- le delia frase (soggetto, copula, predicato) sia rispettata e si possano ricondurre ad essa tutti i casi. Tuttavia, in maniera archetipica, il soggetto di un giudizio diretto che ci informa sulla sostanza reale è una sostanza prima indicata da un deit- tico o da un nome proprio: «Socrate ha dormito bene». Se

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invece è un sostantivo o una forma che può esservi assimilata (per esempio un verbo sostantivato: slo studente*), il sogget- to è un concetto universale; infatti, contrariamente al deitti- co e al nome proprio che <{suppongono» per un individuo uni- co, il sostantivo sostituisce una sostanza individuaie con uno ciei suoi aspetti <<il tavolo è pronto per lo studio», essendo- <<tavolo» un concetto che va altrettanto bene sia come oggetto del ristorante, sia come oggetto del mio ufficio. II. con- cetto non ha la forma dell'individuo. La sua potenza di sinte- si risulta dal lavoro della memoria che si sottomette ad un a paor& unificante che supera la sostanza prima. Per quanto riguarda iI predicato, sempre nd caso della proposizione arche- tipica, questo può essere assimilato ad un concetto, poiché è un universale; pone questo soggetto in una classe di enti deter- minati, riconoscendone cosi I'intelligibilità. Se determina un deittico, attribuendogli un fatto individuale, non dà alcun chia- rimento intelligibile; l'espressione «questo è Socrate» non signi- fica nulia per chi non sa chi è Socrate. In una frase intelligi- bile, dunque, non tutti gli elementi sono concetti universali, ma occorre che ve ne sia almeno uno.

LI concetto è un universale che schernatizza l'esperienza sen- sibile secondo le condizioni della sensibilità e dell'intendimento. Esso congiunge la sostanza ad altre sostanze, sotto un mede- simo aspetto, per renderla intelligibile. Ma ii concetto non è ii solo universale. Le parole «soggetto~, r<copuIa» o «predica- to» non sono concetti in senso stretto; non presentano nulla del mondo sensibile, ma solamente ciò che la riflessione evi- denzia per quanto riguarda l'enunciato delle sue proposizioni; sono tuttavia degli universali. Similmente la parola «catego- ria», che è anche un universale, non indica nulla che deterrni- na l'esperienza sensibile. Se l'universale è il cammino dell'in- teuigibilità, le classi e categorie sono anche strumenti di intel- ligibilità, ma non piii di un ente sensibile. L'esperienza del- l'inteliigibilità che prendiamo a trattare adesso è nuova in rap- porto d'esperienza sensibile; lascia maggiormente risplende- re l'apriorità immanente alla conoscenza e la struttura propria dell'intendimento.

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6) I2 concetto e I'a priori

Parleremo fra poco della categoria; per il momento, fermia- moci a i concetto. Si identifica spesso il concetto con una rap- presentazione universale, che, per lo più, è di fatto un'idea generale. Numerose critiche vengono rivolte ai concetto per questa ragione: esso duplica il reale nel pensiero, lo presenta di nuovo o Io «rappresenta», fiitrando gli aspetti precisi ed originali delle sue presenze concrete; impedisce in tal modo un accesso diretto d a sostanza reale. Bergson ha insistito sul limite del concetto. Nella sua «Introduzione alla metafisica» lo sostituisce con la simpatia; il concetto è troppo freddo per dare un vero accesso alla realtà.

Tuttavia, il sensibile non può essere conosciuto se non divie- ne una cosa «diversa» da ciò che è realmente, se non diviene una c<reaità» mentale, fredda se comparata al calore deJla sua esperienza diretta: ne deriva quindi una necessità che non può essere rigettata. Infatti, il conoscente non diventa l'oggetto empirico che egli conosce, benché lo conosca per ciò che è. Ciò che io conosco veramente è <(in me», per quanto sussista diversamente che «in sé». Ciò che è presente ai miei sensi è rappresentato nel mio intendimento. Ma se il sensibile è pre- sente in noi in modo diverso che in sé, potrà !'intelligenza conoscerlo veramente? La risposta negativa a questa doman- da rende impossibile qualsiasi intelligibilità della realtà sensi- bile. Essa è dunque insostenibile. 11 concetto come rappresen- tazione mentale è un elemento essenziale della nostra cono- scenza; non si può non tenerne conto per comprendere il rea- lismo della nostra conoscenza. Per questo motivo Ia critica del concetto dev'essere accettata se obbliga a discernere tra ciò che fa mancare Ia sostanza e ciò che la presenta effettivamen- te, tra il generale e l'universale; ma occorre nondimeno affi- narla, poiché, essendo puramente nega tiva, impedisce di vedere che la rappresentazione concettuale e mentale del sensibiIe indi- viduale la presenta veramente.

I1 concetto è certo mentale. Questa presenza mentale è tut- tavia specifica; non è un qualunque contenuto di coscienza. Vi sono infatti diversi tipi di contenuti di coscienza, come le

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immagini delle cose presentate sensibilmente e raccolte sotto certe Gestalten: i nostri ricordi dei fatti passati, le immagini che compone la nostra immaginazione inventiva, ecc. Tutte queste immagini mentali fatino teoricamente seguito ad espe- rienze sensibili prime che esse assumono ricomponendo pih o meno arbitrariamente le informazioni ricevute da quelle. La Gestalt è eIaborata nel corso di esperienze; i nostri ricordi accompagnano, ma non sostituiscono ciò che è stato preceden- temente vissuto; l'immaginazione ricompone liberamente gli elementi disparati che riceve da esperienze precedenti. Tutte queste rappresentazioni mentali si mostrano dunque contem- poraneamente alla presenza originale del sensibile.

Ma il concetto non è come queste immagini. Non è legato solamente d'esperienza sensibiie e molteplice. Gli incontri che farò oggi non cambieranno nulla al mio concetto di <<uomo>,. Il concetto non è soltanto una vaga generalizzazione di espe- rienze singole e molteplici. Non risulta unicamente da espe- rienze sensibjli. Se il concetto di «uomo» risultasse soltanto da queste esperienze, in quale momento sarebbe fissato? Quan- do avrò incontrato Pietro, Giovanni, poi Andrea o ancora qual- cun altro? In realtà l'universalità del concetto supera d'istante ciò che noi sperimentiamo ogni volta nella sua unicità. Per que- sto motivo il concetto non è costruito solamente a misura della memoria che unifica iI molteplice e lo semplifica; in esso vi è un a priori che non deriva dall'esperienza sensibile.

C) Il concetto e il siragohre

Il concetto non è soltanto una rappresentazione. Esso arti- cola l'universale e il singolare; l'intelligenza della sua essenza dipende dall'intelligehza di ques t'articolazione. Secondo la tra- dizione aristotelica, esposta nell'ui timo capi t010 dei Sec~nSi Analitica', tradizione che è d'origine di tutte le critiche rivol- te aiia generalizzazione concettuale, il concetto risulta da un'in- duzione che, muovendo dalle esperienze sensibili particolari, ascende verso un universale, conservando nella memoria gIi elementi comuni di ciò che è stato sperimentato nella diversi-

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tà sensibile e trascurando il resto. Se il concetto è questo, è una generalità di cui la sostanza realizza una parte. Pietro è una parte del concetto generale di <<uomo>>. In seno a questa generalità, la sostanza è particolare. Per questo motivo le cri- tiche mosse al concetto non mancano di argomenti; il concet- to non conosce Ia singolarità del reale. Ma per affinare iI sen- SO del concetto, per non concludere alla sola generalità che impedirebbe la conoscenza del reale concreto, occorre delimi- tare più da vicino il ruolo che svolge la memoria nella sua ela- borazione. Si constaterà allora una differenza tra la generaii- t à e l'universalità del concetto e tra la particolarità e la singo- larità della sostanza.

Si potrebbe pensare che la memoria si accontenti di con- servare solo i tratti comuni delle nostre molteplici esperienze. L'intelletto eliminerebbe così, a poco a poco, le differenze che le distinguono per non trattenerne che una forma indetermi- nata, una generalità buona per tutto e non adatta a niente; il concetto generale presenterebbe solo da lontano gIi esisten- ti reali. Ma il compito della memoria sarebbe soltanto quello di fornire all'intelletto materiali che saranno in seguito sem- plificati per eliminazione, producendo quadri sempre più sfu- mati della realtà?

La memoria, già attiva in seno a1 lavoro percettivo, lo è anche neIl'esperienza dell'intendimento. Come abbiamo visto a proposito della sensibilità, essa non è solamente una rievo- cazione del passato, ma anche una proposta di ricercare un senso futuro. La «semplice apprensione>> implica già un lavo- ro dello spirito che organizza dinamicamente la sua durata. La memoria non ha soltanto un ruolo passivo; essa propone un senso, costituendo una rappresentazione che unifica il pas- sato secondo un'intenzione formale. Sintetizzando dinamica- mente ii passato nel presente in vista del futuro, esercita una potenza identica a quella che esercitiamo costruendo il con- cetto. L'unificazione attraverso la memoria nell'ambito di un senso è essenziale per la costruzione del concetto. Questo non è soltanto un accumulo di fatti ed una semplificazione a poste- riori di una molteplicità deatoria; risulta piuttosto da un'esi- genza di cui l'esercizio della memoria manifesta l'apertura dina-

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mica. I1 concetto non è una copia, generica e mentalmente imprecisata di enti particolari, ma E il frutto di un lavoro sin- tetico animato dallo spirito che tende verso ciò che è sempli- ce ed uno. La legge di questa elaborazione non è la confusio- ne cemplificatrice Q posteriori, ma l'unità a p i o a che attira lo spirito e che realizza la sostanza prima in se et ad a h d . La singola sostanza è al termine di un vettore delineato dalla costruzione concettuale. Mentre il particolare è parte di una generalità vaga, il singolare è la realtà completa dell'univerca- le. Veramente ciPietro è un uomo»; se non lo fosse, «uomo>, dovrebbe ricevere un senso diverso da quello che gli ricono- sciamo abitualmente.

Il concetto rende con ciò possibile la conoscenza degli enti singolari ed uniti in se stessi. L'intelligenza non può farne a meno, utilizzando solamente deittici e nomi propri. Infatti, una conoscenza che risulta da termini che rrsupporrebberofi sol- tanto per mezzo di particolari, non potrebbe stabilire relazio- ni che li raccolgono insieme e non potrebbe mettere così in opera le mediazioni delle forme universali. Tuttavia, benché universale, ii concetto conviene agli enti singolari. Quando dico che «U signor "X" è presidente della Repubblica», affermo qualche cosa che è vera, a condizione tuttavia che il presiden- te delia Repubblica si chiami effettivamente "X" . L'univer- salità del concetto non costituisce affatto uno svantaggio per la sua applicazione corretta ad un caso singolo. L'universale esiste con ciò concretamente non tuttavia in se stesso, ma in un soggetto che lo singolarizza, la sostanza prima che esiste realmente neI19ente.

L'universale esprime l'intelligibilità deil'ente. Come potrebbe farlo se non convenisse realmente all'ente singolare? E neces- sario che l'ente sia realmente il suo universaie. Qualunque discorso è composto di universali; senza di essi non potrern- mo comprendere nulla, né comprenderci. Impedire alla cono- scenza di raggiungere ciò che è unico e in sé, tramite la rnedia- zione del concetto universale, condanna al silenzio della «pian- ta», evocata da Aristotele l .

VIl . L'INTENDIMENTO 2 1 1

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2 . Le categorie

I1 lavoro intellettuale non si accontenta di indurre rappre- sentazioni generali; fa conoscere le singole sostanze, benché ciò avvenga con strumenti universaii. Sarebbe ailettante arti- colare la singolarità e l'universalità come se la sensibilità fos- se Ia facoltà della prima e l'intendimento quella della secon- da. Ma l'oggetto formale della sensibihtà è già universale. Da un lato, la sensibilità coghe nelle diverse apparenze l'unità sin- tetica deii'ente; dali'dtro, accoglie ogni oggetto secondo la sua forma. Essa stessa è un universale disponibile ad accogIiere tutto il sensibile. La sensibilità è anche atta a percepire gli aspetti molteplici di un ente nella sua unicità. In quanto d ' i n - tendimento, il suo cammino attraversa la differenza che sepa- ra il singolare dall'universale; ii suo concetto, benché univer- sale, presenta la sostanza individuale. La conoscenza va dun- que dalla sensibilità ail'intendimento in modo diverso che dal particolare dl'universale. L'intendimento aggiunge alla sensi- bilità I'esplicitazione di ciò che essa svolge. Questa esplicita- zione segue tuttavia leggi sue proprie, di modo che la cono- scenza di intendimento si distingue dalla conoscenza sensibile e , assumendola, la supera.

I1 primo momento dell'esplicitaziorie della conoscenza è la sua enunciazione nel linguaggio. La riflessione coglie prima il senso del concetto che costituisce l'elemento base di ogni enun- ciato in teuigibile; esplicita poi questa conoscenza dell'univer- sale e ne analizza le condizioni. La costruzione della tavola delle crcategorie» si presenta come una fase nel cammino di esplicitazio~e. Ed è ciò che mostreremo in un primo momen- to; presenteremo poi le categorie fondamentali che sono l'uni- versale, il necessario, l'a pnoi e l'a posteriori.

a) L e tauole delle categorie

Sin dagli albori della filosofia, aicune categorie sono servi- te ad organizzare gli strumenti linguistici della conoscenza uma- na. Prima di Socrate, i termini fondamentali della spiegazio- ne universale venivano scelti tra i concetti che rappresentano

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il mondo. In Empedocle, per esempio, i quattro elementi cosrnici ed il loro legame di amore e di odio costituivano una prima messa in ordine deli'universo. I pitagorici seguivano lo stesso progetto quando raccoglievano gli elementi del mondo nelie loro liste duali. I presocratici ponevano così le loro clas- sificazioni a servizio di una ricerca razionale che non aveva tuttavia ancora trovato la sua espressione autonoma; i termi- ni classificati erano esageratamente derivati dall'evidenza imme- diata e pre-critica.

Le crcategorien di Aristotele non sono tutte generi supremi o prime divisioni deli'ente in quanto ente, come risulta evi- dente per quanto riguarda la ciposizione>> seduta o in piedi. Mettono insieme ciò che è detto degli enti secondo la qualità, la quantità, la relazione, la situazione nel tempo, e il luogo, che sono altrettanti punti di vista sulla sostanza. E ben diffi- cile individuare il principio di organizzazione di queste cate- gorie. Molti commentatori giudicano arbitrario l'elenco delie Categorie. Aicuni tentano con prudenza di proporne una manie- ra di deduzione; poiché <<essere ente» ed cressere detto» convergono 2, spesso congiungono le tavole delle categorie e quelie del linguaggio. Ma se si mantiene Ia distanza dell'ente percepito nei confronti del linguaggio, le categorie non posso- no avere un fondamento puramente linguistico. Devono rice- vere un senso più vicino all'ontologia. Esse strutturano la sostanza o l'ousza, alla maniera del Sofista di Platone o dei libri da 4 a 1 1 della Me&$isica; queste categorie sarebbero la sostan- za, l'essenza o l'accidente, ecc., piuttosto che la qualità o la quantità. Porfirio neli'rsagoge distingue cinque categorie, che la tradizione ha chiamato «predicamenti» e che strutturano l'en- te attraverso il genere, la specie, la differenza, il proprio e l'ac- cidente.

Per Kant, la spiegazione dei fatti empirici non può ricavare dalla loro sola esperienza sensibile tutti gli elementi della sua efficacia. Ciò di cui tratta la conoscenza non può essere ridotto alla sola intuizione sensibile; il sensibile, per essere compreso, dev'essere misurato dail'intelletto che lo trascende. L'inteili-

vrr. I . ' ~ N T E D I E 2 13

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genza del sensibile è data da una sintesi di intuizione e di con- cetto. Un concetto senza intuizione è vuoto ed un'intuizione senza concetto è cieca. I concetti hanno una sorta di consi- stenza che non proviene dall'intuizione; sono organizzati secon- do le loro regole categoriali. Queste categorie sono a priori rispetto al sensibile; se provenissero dd'esperienza non potreb- bero strutturarne i concetti che la trascendono per la loro aprio- rità. Non possono neppure far numero con i concetti; li tra- scendono poiché li classificano. A priori, ma, secondo Kant, senza peso ontologico, esse appartengono d a logica trascen- dentale.

Le categorie hanno un significato a causa del progetto spi- rituale che le sostiene. Chiamiamo <<categorie» i principi di clas- sificazione dei concetti utilizzati nei nostri giudizi. Proponia- mo questo esempio: <<Questo è un foglio utile per scrivere». Questo giudizio comincia con un deittico, «questo», ai quale si riportano alcune informazioni che lo determinano situan- dolo tra altri oggetti. La parola <<foglio» oppone <{questo» a tutto ciò che non è <<foglio*. La paroIa <<scrivere» significa un'attività specificamente umana, in mezzo ad altre ugualmente proprie dell'uomo. sutile)> indica che <{questo» risponde ad un progetto, ad un'intuizione.

Ciascuno degli elementi della proposizione data come esem- pio entra così in classi generali (deittico, parola, attività); queste classi sono esse stesse suscettibili di venire riunite in meta-

,,, classi. Da un punto di vista grammaticale, si distingue ii sog- getto, la copula e il predicato; da un punto di vista sintattico, si ha il sostantivo, il verbo e l'attributo; da un punto di vista semantico, si mette insieme ciò che esprime una cosa, un'a- zione ed una qualità astratta. Il numero di classi che permet- tono di raccoghere gh elementi delle nostre proposizioni è, evi- dentemente, cospicuo, forse indefinito. Per quanto riguarda la categoria, questa svolge un'opera superiore di unificazione; dà un nome al principio che sovrintende alle diverse dassifi- cazioni. Si legittimano coci le due prime categorie di Aristo- tele, la qualità che determina la fisica e la quantità che deter- mina la matematica.

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Nessuna di queste classi e di queste categorie nasce dall'e- sperienza immediata delle cose del mondo. Io non ho mai sen- tito nel mondo un verbo distinto da un aggettivo, né una qua- lità distinta da una quantità come una sedia da un tavolo. Que- ste classi e categorie provengono da una riflessione sugli enun- ciati che noi fabbrichiamo per esprimere intelligibilmente le nostre esperienze sensibili. La loro origine è dunque un'ecpe- rieriza, ma non quella che si impone al senso; è l'esperienza deila comprensione degli enti. Le scienze elaborano così dei discorsi secondo che classificano elementi sperimentati e le loro condizioni di intelligenza sotto categorie specifiche; formano discorsi secondi o sistemi categoriali i cui principi non sono determinati dalle cose, ma dall'ordine riconosciuto in esse e giudicato interessante dal punto di vista della ricerca scienti- fica particolare.

I sistemi categoriali sono cosi molteplici come le scienze. Ma non ve n'è for,se uno formato da categorie che tutti potreb- bero utilizzare? E uno lo spirito che costruisce molteplici discorsi riflessi o secondi. Si può dunque pensare che se vi sono categorie comuni esprimeranno l'organizzazione del lavoro dell'intendimento nella sua origine universalmente disponibi- le. Il sistema categoriale primo sarebbe costituito daIle ca- tegorie delio spirito che prende coscienza esplicita delIa sua alleanza con gli enti. Il nostro capitolo di antologia potreb- be essere inteso in questo senso. Tuttavia, vi sono categorie pih originarie, quelie che l'intendimento impiega per dare un significato all'esperienza sensibiIe ed aile categorie ontologi- che stesse. Queste categorie dell'intendimento esprimono l'esperienza intellettuale che intesse tra gli enti un ordito di relazioni oggettivamente fondate. Si possono allora riconoscere categorie comuni a tutte le opere dell'intendimento e senza le quaii nessun lavoro intellettivo sarebbe possibile. Queste categorie, che sono l'universale, il necessario, l'a priori e l'a postetioP1, esprimono di fatto la potenza dello spirito che costruisce le sue sintesi unificanti; sono più che logiche, poi- ché raggiungono l'essenza dello spirito ed hanno un significa- to riflessivo.

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La spiegazione è resa possibile dall'universale prima che lo sia tramite la causalità. La spiegazione della genesi di un ente mediante la causaiità efficiente non basta infatti a spiegare tutti g l ~ enti, per esempio quelli matematici. Certo, ogni scienza spie- ga l'ente per mezzo della sua causa; presuppone con ciò che la relazione causale sia fonte di intelligibiiità. Ma le cause sono di molteplici generi; è dunque la relazione che è fonte di intel- ligibilità piuttosto che una forma particolare di causalità. Ora, la relazione è precisamente «ciò che unisce diversi*, il cui sche- ma è l'universale. L'intelligenza deIl'universde procura dun- que l'intelligenza di qualsiasi altra scienza; l'universale costi- tuisce con ciò la prima deile categorie.

L'universale è la condizione a priori del lavoro dell'intendi- mento. Non nasce da nessuna esperienza poiché questa, sen- sibile o intelligibile, riceve da esso la possibiIità della sua arti- colazione intelligibile. Ii chiarimento di questa condizione non è agevole; suppone infatti che l'universale sia già costituito, poiché viene utilizzato per essere pensato.

Se si definisce l'universale come ciò «che si estende all'uni- verso nel suo insieme* e come ciò «che si estende all'insieme deila realtà o delia collettività considerata» j, si rischia di far- lo svanire nella generalità della forma vuota di ogni sostanza

: prima. Un tale universale è piuttosto una generalità. Al fine , di evitare di confondere iI generale con l'universale, la tradi-

zione fiiosofica distingue l'universale astratto e l'universale con- creto. L'universale astratto è costituito da ciò che è comune a diversi enti. In queste proposizioni: <{I1 tavolo è rosso», «il cielo è rosso*, «egli vede rosso», «rosso» è comune a diversi enti; determina una classe di oggetti simili sotto un aspetto, che è astratto («tratto fuori da>>, secondo l'etimologia di que- sta parola), nel senso che non tiene conto delle note che fan- no dei tavolo un tavolo, di un sentimento un sentimento. L'universale astratto risulta da un'unificazione di moIteplici

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esperienze sotto un tratto di somiglianza comune. E a poste- Rori, costruito grazie alle proprietà della memoria, ma disco- nosce l'ente singolare unito nelia sua complessità. Affermare che <(I1 signor X è presidente della Repubblica* non dice il suo colore politico, la sua età, il suo stato civile, neppure quale Repubblica presiede. La conoscenza data dall'universale astratto è dunque molto parziale.

L'universale astratto risulta in larga misura da abitudini deri- vate dalle nostre storie personali come dalle nostre tradizioni culturali. Tuttavia esso fa ugualmente conoscere ciò che è. Se questo non avvenisse, la proposizione aSocrate è un uomo», convenzionale per quanto è possibile, non farebbe conoscere nulla, ciò che sarebbe insensato sostenere. Le nostre lingue strutturano il mondo, ritagliandolo a loro modo, ma dicendo- ne ugualmente a volte qualcosa di vero. Pretendere il contra- rio non è ragionevole; sarebbe rifiutare che la verità possa esse- re affermata in maniera convenzionale. Ora, ogni lingua è con- venzionale, anche quella in cui si obietta contro ciò che abbia- mo detto.

L'universale concreto è innanzitutto l'esistente che sorreg- ge diversi attributi astratti e che dona loro di partecipare alla sua realtà. E ii «singolare» distinto dal «particolare». Il parti- colare è una parte di un tutto, come la specie umana è una parte del genere dei viventi; al contrario, ii singolare realizza in sé la totalità di note dell'universale, per mezzo del quale lo si determina, come Socrate che è tutto ciò che è un uomo. Per Platone l'idea è un universale concreto; infatti essa è uni- versale e la si afferma come reale. Occorre valutare il motivo di quest'affermazione. Gli enti, per essere belii, ad esempio, devono riceverla; da se stessi sono infatti incapaci di conce- dersela. L'idea platonica non è dunque solamente una forma mentale, una rappresentazione generale; è la fonte dinamica che dà il loro valore alle nostre apparenze. Con ciò è univer- sale, poiché conviene a tutto ciò che è bello, ed è concreta, poiché si dona dinamicamente in partecipazione al sensibile in modo tale che esso sia bello. HegeI ha similmente esplici- tato la struttura dell'iiniversale concreto, identificandolo COI movimento dello spirito che percorre i diversi momenti del-

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l'inteliigibilità e che li unifica donando loro con ciò di essere deile tappe intelligibili, attraverso le quali in reaità lo spirito accede a sé.

Secondo la mentalità contenuta in queste proposizioni hege- liane, lo studio degli universali astratti permette di accostarsi progressivamente ai concreto, così per lo meno si è in grado di ritrovare la ragione dei loro collegamenti; la loro spiegazio- ne ragionevolmente articolata costituisce l'universale concre- to. La metafisica che proponiamo nella nostra opera comprende questo radicamento per analogia con il movimento dello spiri- to che f a riflessivamente ritorno sulle proprie operazioni. La conoscenza in atto è un universale concreto che sintetizza dina- micamente i suoi elementi molteplici. Senza questi elementi la conoscenza non potrebbe pretendere di essere ciò che è effet- tivamente. Essa non è riducibile ad uno di questi, né ad dcu- ni solamente; non è la ragione senza la sensibilità, né la sensi- bilità senza la ragione, ma Ii unisce tutti, mettendoli in eser- cizio. Tutti i suoi elementi cooperano insieme, e ciascuno per la propria parte, d 'uni tà del suo atto. Se il sentito non entra in comunione con chi lo sente, se ii compreso non comunica con chi lo comprende, se l'universale concreto non li riunisce tutti, mai il senso potrà sentire l'ente come esso è, né il senso potrà offrire all'intendimento un sensibile da comprendere, né l'intendimento potrà portare il sentito d a sua intelligibiiità. L'universaie concreto assume così la forma di un universale determinato dalla riflessione deil'intelletto sull'unità del suo atto di conoscenza.

C) JZ necessario

L'universale concreto, al punto di incontro delle astrazio- ni, costituisce la reaità che l'intelletto desidera conoscere. Que- sto concreto non è costruito n posteriori; è l'a priori al quale il pensiero riferisce 1e sue affermazioni, il centro reale che sostiene e convalida le sue astrazioni. Illuminata dall'univer- sale concreto risplende la necessità deil'affermazione oggettiva.

In generale è necessario ciò che, essendo, non può non essere ciò che è. Così, è necessario dire che «un lettore legge questa

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frase», se in realtà voi mi leggete. S i distingue la necessità ipo- tetica e la necessità categorica. E necessario ipoteticamente ciò che segue necessariamente da una causa che può essere o non essere; è necessario categoricamente ciò che non segue nes- suna condizione.

Nell'esperienza sensibile l'oggetto è un universale concreto ipoteticamente necessario; è necessario poiché è presente, ma non è necessario intrinsecamente. La sua esistenza particolare è necessaria quanto a noi, se essa è, ma ipotetica quanto a s&: potrebbe non essere. L'oggetto sensibile non ha in se stes- so di che venire all'essere e di non divenire altro da sé. La nostra esperienza comune lo attesta. Non è <<di per sé».

Nella necessità ipotetica il nesso di causalità è tale che si può sicuramente risalire dd'effetto d a causa; tuttavia, la causa produce il suo effetto a condizione che essa sia ed essa può non essere. Per esempio, «se il vento cambia direzione il tem- po sarà più mite». I1 legame di necessità ipotetica è tale che, se l'effetto si presenta, io posso inferirne la causa da cui pro- cede. «Il tempo si è fatto più mite, dunque il vento ha cam- biato direzione,,. L'effetto, che non può non prodursi una volta che la sua causa esercita ciò di cui essa è causa, è necessario ipoteticamente, non essendo la causa da se stessa necessaria. Per quanto riguarda la causa di una necessità ipotetica, que- sta è necessaria quanto al suo effetto, poiché non può non esse- re stata esercitata una volta che è stato prodotto il suo effet- to, ma è ipotetica quanto aIla sua sussistenza in sé: ~o t rebbe non essere, e dunque ~otrebbe non produrre l'effetto. La neces- sità ipotetica mostra così una differenza tra la causa e I'effet- to: la relazione tra la causa e l'effetto non è reciproca. Inol- tre, se io posso inferire la causa dall'effetto poiché il Iegame è in questo caso necessario, non posso inferire l'effetto dalla causa.

Al contrario, nel caso della necessità categorica, vi è una stretta reciprocità tra la causa e I'effetto, in modo tale che l'effetto sia in una certa maniera la causa della sua causa e la causa l'effetto del suo effetto; la necessità senza ipotesi è incondizionata, assoluta, e dunque reciproca. Per esempio il «padre>> e il cdiglio»: <{figlio» non è <(figlio» senza «padre», e

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<{padre» non è <<padre» senza <<figlio»; nessuno di questi ter- mini è significativo senza l'altro.

La necessità categorica ci interessa di pih della necessità ipo- tetica, poiché è esercitata dalle nostre attività spirituali. Ne abbiamo un'esperienza più riflessiva che sensibile. Il pensiero conosce la differenza che vi è tra i suoi enunciati espliciti e l'atto che li propone. Sa che la sua espressione può non for- mulare esattamente ciò che dice non solo sul piano dei conte- nuti descrittivi («ecco qui una frase verde»), ma anche sul piano che ci tocca più da vicino, quello delle proposizioni riflessiva- mente fondate («non vi sono affermazioni vere»). Vi puà non essere identità tra l'espressione enunciata e la pretesa imrna- nente a questo enunciato. Ma riflettendo su questa differen- za, lo spirito si riconosce invitato ad un'unità perfetta, armo- nizzando la sua espressione e il suo atto: la sua espressione nasce infatti dal suo atto per essere vera. 11 pensiero sa che la sua espressione può allontanarsi dai rigori imposti dall'at- to, ma vi è una necessità categorica che vuole che l'atto e l'espressione siano unificati, che sia rispettato l'accordo tra que- sti piani differenti, senza che nessuno di essi possa essere ricon- dotto all'altro.

I1 luogo più rigoroso deli'universale o della relazione è rive- lato dalla necessità categorica. L'esercizio della conoscenza esige relazioni categoricamente necessarie tra i suoi livelli differen- ti, la sua esteriorità e la sua interiorità.

d)! L'a priori e I'a posteriori

Chiariamo in ultimo le categorie delle operazioni at traver- so le quali colleghiamo questi diversi livelli e nello stesso tempo le nostre astrazioni nell'universale concreto, vale a dire l'a preoa e I'a poste~on. È p ~ w ciò che è anteriore, per esempio la causa rispetto al suo effetto. Un ragionamento w p a o i muove da ciò che precede e termina in ciò che segue, posterius. Ma, diceva Aristotele, ciò che è pritls e ciò che è postenns per la cono- scenza delle cose sensibiIi sono in un ordine inverso per la conoscenza dei principi. Nel momento in cui si considera la nostra intelligenza del sensibile, si deve distinguere ciò che

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è primo per noz e ciò che è primo in sé. Per la comprensione deu'esperienza sensibile, l'effetto si presenta prima (prius) della causa @osterizas); noi spieghiamo infatti l'ente risalendo alla sua causa. Al contrario, nell'ordine reale delle cose, la causa pre- cede @ n 4 l'effetto @ost&us). Vi è dunque un'inversione nella sequenza causale quando si passa dalla conoscenza delle cose di esperienza al loro ordine effettivo. La riflessione f sull'ordine reale delle cose muove dai principi. Coci la meta- fisica, se prende le mosse dai principi o segue l'ordine reale delle cose, è a priori. Tuttavia, poiché la nostra conoscenza è umanamente limitata, essa conduce posterius d principio, mentre il principio rimane pnzls.

Queste determinazioni classiche non sono affatto diff eren- ti in Kant, per il quale le condizioni di possibilità dell'espe- rienza sono a priori, benché la loro scoperta sia progressiva, a posteriori. Si intendono innanzitutto per conoscenze a priori non quelle che hanno luogo indipendentemente da questa o quella esperienza, ma quelle che sono assolutamente indipen- denti da qualsiasi esperienza. A queste si oppongono le cono- scenze empiriche, o quelle che sono,possibili a posteriori, vale a dire per mezzo dell'esperienza4. E dunque a pi.io;rz ciò che non proviene dall'esperienza empirica, ma la precede per chia- rirla; è a posteriori ciò che, al contrario, si inferisce dall'espe- rienza. Questi significati, mettiamolo in evidenza, sono pre- senti nelle nostre pratiche attuali comunemente empiriste; cer- chiamo infatti di correggere gli a priori dei nostri interlocuto- ri quando, a nostro parere, i loro giudizi non poggiano su nuUa che sia verificabile ed accettabile, sono arbitrari e senza fon- damento di esperienza.

Un ragionamento che inizia dall'esperienza sensibile è a posteriori, ma le sue condizioni di possibilità sono Q priori, necessarie per rendere conto dell'intdigibilità che esso apporta a l sensibile. La tradizione idedista ha cercato nell'ambito della soggettività il fondamento di questa condizione, la cui origi- ne non può essere l'oggettività empirica; le tesi idealiste giun- gono però a conclusioni troppo affrettate. Con più calma e

l Cfr. E. KANT, Cnlicu delfa ra~iun pum, p. 41.

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prudenza, la ritorsione chiarisce un a priori categoricamente necessario che si impone ad ogni soggettività e che noi caglia- mo quando, facendo ritorno sulia nostra attività, vi scopria- mo ciò che ne rende possibile la coerenza; la verità è exercite la <{causa» della verità della proposizione enunciata sigfiate. L'a priols riceve allora un senso preciso: è esercitato d'interno dei- l'enunciato esplicito, come ciò che ne assicura in modo imma- nente la ,qualità o il peso ontologico.

Abbiamo così esposto le categorie fondamentali della ricer- ca intellettuale. La prima, l'universale, è la categoria dell'uni- tà ritrovata nel molteplice; la seconda, Ia necessità, è la cate- goria della molteplicità in cui i termini diversi vengono insie- me, pur restando diversi. Queste due prime categorie danno pertanto il loro senso al processo rl priori e a posteriori dell'in- tendimento che va dall'uno verso il diverso e dal diverso ver- so I'uno.

3. Nozione, concetto e idea

Il principio non è l'oggetto di un'affermazione che si limi- terebbe a descriverlo; l'intelletto vi accede riflettendo sulle sue operazioni. Più che un fatto è un diritto. Come chiamarlo allo- ra? I metafisici ne parlano in termini di atto, di essere, di vita, di nulla, secondo le opzioni di ciascuno. Ma si può parlarne in tal modo senza valutare preliminarmente il significato onto- logico, non già i termini utilizzati e il loro contenuto intelligi- biIe, <ratto» o <(nulla», ma la loro forma del principio in seno alla conoscenza? I1 principio è w priori o trascendentale. I1 ter- mine «idea» indica la sua trascendentalità. D'altra parte, alcuni ne parlano come se fosse una <<nozione» o ancora un {concet- to». Questi vocaboli sono altrettanto appropriati che il termi- ne «idea>>? Per saperlo e fissare la nostra terminologia, proce- diamo ad analizzarli successivamente.

Si intendono per <(nozioni» di una scienza, ad esempio del- la fisica antica o della matematica moderna, i termini che ne determinano nei modo più elementare i campi di azione e le procedure. Si potrebbe pensare che queste nozioni siano ele-

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menti così fondamentali che riunendoli si potrebbe costituire l'essenziale di una scienza, da cui il resto verrebbe dedotto alIa maniera della geometria euclidea. Ma le nostre scienze non lavorano in questo modo; le loro nozioni generali non svolgo- no questo ruolo di partenza mediante un processo ipotetico- deduttivo. Tuttavia, queste nozioni generalmente stabilisco- no gli spazi e gli orientamenti globali delle ricerche scientifi- che a cui convengono; guidano le loro indagini delimitando il loro ambito e fissando Ie loro maggiori acquisizioni. Le nozio- ni hanno un ruolo essenzialmente pedagogico ed euristico; sono con ciò destinate ad essere precisate, se non superate e modi- ficate nel corso del progresso scientifico. Per esempio, la nozio- ne di <<massa» è apparsa recentemente in fisica a motivo di una necessità imposta dai progredire della scienza. In quanto al principio metafisica, non può essere una nozione in questo senso; non limita nessun campo del sapere e non guida nessu- na indagine volta a nuove scoperte che potrebbero stimolare altre ricerche. Inoltre, il principio non dev'essere precisato, poiché tutto è interiore ad esso; è infatti a p n o i o non è.

Parlare del principio come di un concetto è ugualmente ina- deguato. I1 concetto nasce infatti da una ripetizione di espe- rienze; la memoria gioca un ruolo essenziale nella sua costru- zione; lo ricava dalla totalità dell'esperienza trattenendo ciò che appare comune o costante tra diversi enti. Si intende così il concetto come un'astrazione sempre più generale e vaga; rap- presenterebbe un aspetto deila realtà, ma senza presentarla veramente, poiché mette da parte l'unicità della sostanza rea- le. 11 principio non può essere <(questo puro essere [che] è la pura astrazione, e, per conseguenza, è 1'ascoIutamente negati- vo, il quale, preso anche immediatamente, è il niente» >. In realtà, il principio, che deve integrare tutto, è l'opposto di una privazione; esso sovrabbonda fin nei suoi particoIari.

Tuttavia, come abbiamo visto, la costruzione a posteriori del concetto non lo spiega interamente. Il concetto risponde infatti ad un duplice a priori. Anzitutto, accediamo tramite questo d'inteiligibilità deil'universale concreto che unisce in sé i suoi

G.F. W. HLGEI , Enciclopedia delk scieme fihsoficbe, I, Li scienza &h lnogicu, 9 87.

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molteplici attributi; inoltre, l'unità formale del concetto uni- versalizzante non è ragionevole se è fondata solo su una ripe- tizione di esperienze nate casualmente nella nostra esistenza. L'elaborazione del concetto esercita certamente un principio a priori, benché il concetto non sia il principio; non possiamo assolutamente accedere ai principio costruendolo a partire da ciò che esso non è. Il principio non è un concetto, per quanto la costruzione di questo lo metta in esercizio e per quanto sia dunque attraversato d'interno di se stesso da ciò che lo supera. Vi è dell'a priori nel concetto, mescolato con dell'd posterioti, ma il principio è semplicemente Q priori.

Nondimeno, in una certa maniera, edifichiamo il principio progressivamente; esso è sotto questo punto di vista quasi un concetto. La ricerca che anima questa opera Io testimonia. Pri- mo in se stesso, esso è infatti secondo quanto a noi. Questa costruzione a posteriori concerne tuttavia soltanto la nostra maniera di conoscerlo e non la sua propria essenza. Il princi- pio è a posteriora* per quanto riguarda il nostro accesso alla sua intesa, ma rimane a priori in sé, altrimenti non sarebbe vera- mente il principio.

Sappiamo pure che il principio è necessariamente a pnoti, di modo che vogbamo conoscerlo neUa sua apriorità. Atrimenti nulla è fondato, neppure il concetto. Dobbiamo conoscerlo come questo, a meno di non poter conoscere nulla in maniera fondata. Il problema è di sapere se la condizione di aposterio- riti della nostra conoscenza effettiva del principio non impe- disca di percepirlo neIla sua natura originale, al principio di tutto ciò di cui esso è il principio. Sappiamo con necessità tra- scendentale che, a causa della sua natura, è assolutamente pri- mo e che la sua apriorità è senza condizione. A rigore, il prin- cipio non è un concetto a postenoi. La sua unità a priori è ali'origine di qualsiasi Iavoro di unificazione concettuale. In se stesso, esso supera ogni divisione; è la forma stessa del lavoro di unificazione del molteplice tramite l'universdità e la neces- sità. Ma al tempo stesso progrediamo nelia scoperta del prin- cipio e delle sue caratteristiche proprie, che sono dunque, quan- to a noi, u PosterioR. Per questo motivo, dopo aver scartato la possibilità di dare ai principio il nome di «concetto», si può

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eventualmente dirlo «sovra-concetto», vale a dire più che un concetto Questa espressione è indicativa. Dal punto di vista della conoscenza umana, iI principio è al di sopra (szaper) del concetto; tuttavia, in sé, è semplicemente a priore'. I1 ter- mine csuper-concetto» si riferisce cosi, per essere sensato, al concetto, benché <traper» abbia una funzione negativa. Que- sto termine nega dunque ciò sul qude si appoggia, pur appog- giandosi su di sé; è con ciò ambiguo. Per questa ragione pre- feriamo non utilizzarlo.

I1 termine aidea» non sembra neppure del tutto adeguato ad indicare il principio. Si può infatti intendere l'idea come una nozione del tutto generale. <<Avere quakhe idea di ciò che è la metafisica}} è averne una conoscenza generale, vaga e con- fusa. L'idea ha anche una nota soggettiva: a ciascuno le sue idee, in seguito alle quali e& organizza il suo mondo ed orienta la sua azione. Il principio non ha evidentemente nessuna di queste sfumature di imprecisione e di soggettività arbitraria.

Per Platone la paroIa «idea», che si traduce anche con c<for- ma», significa uno schema mentale a priori che è alla fonte dell'inteIligibiIità del molteplice e del sensibile. Citiamo un testo famoso della Repubblica: *Però le idee relative a questi mobili sono soltanto due, una del letto e una del tavolo. [...l E non siamo anche soIiti dire che l'artigiano dell'uno e del- I'altro di questi mobili guarda all'idea, per fare cos i l'uno i letti, l'altro i tavoli che noi usiamo? e non è aIlo stesso modo per gli altri oggetti? Ma l'idea stessa non la costruisce nessun artigiano* '. La forma è dunque, per lo meno, uno schema a priori utile tanto per la conoscenza del. molteplice, quanto per la produzione del sensibile.

Platone non ha scoperto il processo dell'astrazione. Per que- sto motivo la sua spiegazione della conoscenza del sensibile impone una mediazione tra la cosa sensibile ed il reale intelli- gibile, un <<terzo uomo» tra Socrate e l'<{uomo in sé». Per Ari- stotele, questa problematica di Platone impone inevitabilmente la creazione di una nuova mediazione tra questa mediazione sostantivata ed i termini mediati, in maniera da impegnarci

Cfr. j.3. Lurz, Essere e concetto, p. 170. Prnmh-F, Lu Repubbbca X. 596b.

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in un processo ad infinit~sm. Ciò non toglie che il pensiero pla- tonico sull'apriorità della forma sorregga efficacemente la rifles- sione che si applica a ciò che deve precedere I'esperienza per farne un'esperienza intelligibile. Per costruire il concetto, noi mettiamo in opera processi di unificazione su cui non possia- mo riflettere o tematizzare senza esercitarli. Questi processi sono dunque di un ordine diverso e anteriore, a priori, alla loro applicazione riflessa o meno. L'unità che presiede alla rac- colta dei sensibili sotto un universale è a priori, ai pari deIle leggi essenziali dell'intelletto; queste sono meno conosciute che riconosciute neil'esercizio del pensiero. L'a primi platonico, ricondotto alla sua verità trascendentale, illumina la riflessio- ne sul principio.

L'idea a pg.iup& è proprio ciò a cui l'intelletto si sottomette quando esercita legittimamente la sua potenza. Per Platone l'idea originaria è attiva; costituisce il centro che congiunge in alleanza la conoscenza e le sue forme; «questo elemento che agli oggetti conosciuti conferisce la verità e a chi conosce dà la facoltà di conoscere [...l è l'idea del bene» Questo bene unificante appare quando l'inteuetto, ritornando sulla sua atti- vità, riconosce ciò che ne condiziona l'efficacia.

L'apriorità del principio e la sua operatività negli atti della conoscenza invitano a non chiamarlo <<nozione», né «concet- to», ma «idea». Il principio, che è un'idea a priori, non è una determinazione particolare dell'esperienza sensibile o intelli- gibile; si impone a tutti i nostri giudizi e a tutte le nostre affer- mazioni, o ancora a tutti i nostri atti, perché essi possano essere effettivamente esercitati.

Concetti, categorie ed idee formano così una gerarchia di termini sempre più unificanti. I primi uniscono ciò che la sen- sibilità raccoglie dei fatti sensibili; i secondi classificano i con- cetti così come gli dtri eIementi che compongono i nostri enun- ciati; i terzi designano ciò che muove l'intendimento in tutte le sue operazioni. Si potrebbe dire, in maniera schematica, che il concetto connota la sensibilità, la categoria l'intendimento e l'idea la ragione. La ragione sarebbe così la potenza più uni-

"n-, VI, 50Sd-e.

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* ficatrice; essa è adeguata a percepire riflessivamente il princi- pio che trascende tanto il sensibile quanto I'intelligibile,

Ma queste distinzioni e questi accostamenti tra i livelli del- la conoscenza e le classi di forme unificanti devono essere ben soppesati; sono più complessi di quanto non sembri. Per ren- dercene conto, prestiamo attenzione a questo problema: la distinzione dell'idea e della categoria è opera dell'intendimento? Se si, l'intendimento, e non la ragione, è padrone deU'idea. Così pure, I'intendimento è ail'origine dei concetti? Se sì, la sensibilità non è più necessaria per costruirli. Ma, al tempo stesso, l'idea sarebbe senza significato se l'intendimento non potesse padroneggiarla, distinguendola dalla categoria e dal con- cetto. Lo stesso si verificherebbe a proposito del concetto, di cui giudica ugualmente l'intendimento, ma che si appoggia su un'esperienza che non è immediatamente la propria. Tutti que- sti termini sono dunque connessi gli uni agli altri, poiché ven- gono analizzati dall'intendimento, ma distinti in quanto signi- ficano operazioni le cui strutture sono indipendenti Ie une dalle altre. L'intendimento, in quanto intendimento, conosce ciò che lo supera. Le classi che abbiamo distinto non formano dun- que una gerarchia che potrebbe condurre più in alto deil'in- tendimento; se gerarchia vi è tra queste, è agli occhi deU7in- tendimento, ie cui analisi perme t tono di comparare strutture, rassomiglianze formali e proiezioni astratte e che, con ciò, supe- ra se stesso.

Ma la ragione, facoltà dell'unità sintetica e del principio, non è più elevata dell'intendimento, facoltà dell'analisi che scompone? La relazione tra I'intendimento e la ragione è estre- mamente difficile da articolare con chiarezza. Tenteremo di farlo nel capitolo seguente.

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CAPITOI-O OTTAVO

RENDERE RAGIONE

Gli enti sensibili sono accolti grazie aXX'oggetto formde della sensibilità; sono espressi con l'aiuto dei concetti che clascifi- cano l'intendimento. Ad ogni livello l'intelligenza mette in ope- ra un a priori unificante. Ma non potrebbe esserci allora un

priori piii alto, che unifica la sensibilità e l'intendimento? E ciò su cui medita adesso la riflessione, applicandosi così a quello che vi è di più fondamentale nell'intelligenza.

La sensibilità percepisce le cose sensibjli e l'intendimento comprende la loro intelligibiiità. Essi hanno dunque i loro *oggetti» propri. La ragione avrebbe un oggetto ed una for- ma propria, per esempio le «idee» platoniche da intuire, come la sensibilità e l'intendimento? Sarebbe una potenza deli'in- teliigenza omogenea aile altre due? Ma se fosse così, non dovremmo trovare ancora piu in alto di essa un nuovo livello di intelligenza che possa giudicare l'accordo di tutte queste potenze precedenti? E non saremmo d o r a travolti da un pro- cesso sfibrante che ci rinvierebbe ad i~jinitzm?

Noi sosteniamo la tesi che la ragione è una potenza nuova e superiore all'intelligenza in misura minore di ciò che unisce la sensibilità e l'intendimento. Essa non ha un oggetto pro- prio ed ideale. Non può essere considerata come se avesse un'intenzionalità simile a delle altre potenze dell'intel- letto; Ia sua specificità è più riflessiva che estatica. La ragio- ne è la potenza deUa riflessione che sintetizza. Le essenze della sensibilità e dell'intendimento sono state spiegate ricercando

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le condizioni delle loro operazioni; ora l'essenza della ragione sarà ugualmente chiarita, analizzando la sua attività riflessi- va.

In questo capicolo rifletteremo suil'articolazione deila sen- sibiIità e dell'intendimento; ne esporremo alcuni modelli fon- damentali, dapprima lo scientismo e I'empirismo, poi l'ideali- smo. Concluderemo interrogandoci sul «principio di ragione*, rivendicato al tempo stesso dagli empiristi e dagli idealisti.

1. Lo scientismo e I'empirismo

Vedremo in un primo momento come l'esperienza comune della differenza tra la sensibiIità e l'intendimento fa nascere il dubbio. Sottolineremo in seguito che il progetto scientifico vuole superare questo dubbio. Facendo cib, la scienza rende possibile una convinzione scientista che l'empirisrno tenta di proporre filosoficamente.

a) L'affermazione e ik dubbio

Secondo Kant la ragione raggiunge l'apice sul. cammino del- l'intelletto che tende verso l'unità. «Ogni singola esperienza è soltanto una parte dell'intera sfera del suo dominio: senun- ché, Z'iaatero assolfito di ognz possibile esperienza non è, esso, per ndla, un'esperienza, e ciò nondimeno esso costituisce un problema necessario per la ragione, per la semplice imposta- zione del quale essa ha bisogno di tutt'aitri concetti da quei concetti puri deil'intelletto [...l; i concetti della ragione tra- passano alla completezza, cioè all'unità collettiva deli'intera possibile esperienza, e I...] oltre ogni esperienza data, [essi] diventano trascendenti* l.

Le nostre affermazioni sui fatti del mondo richiedono una fondazione che li inglobi dapprima al loro stesso livello, poi sul piano degli strumenti messi in opera per conoscedi. Que- sta fondazione viene esercitata dalla più modesta delle nostre

E. KAXT, Prok~umeni sd ogni jutuua mctnfnricu, 5 40.

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fl conoscenze, di modo che l'unità prima a priori suscita in noi il desiderio di conoscerla come un bene molto prezioso che si presenta in ciascuna delle sue manifestazioni. Tuttavia, non

esprimerla senza discorsività ed analisi. Nessuna ana- lisi è in grado di abbracciare I'unità sintetica dell'ente e degli enti senza celare la sua semplicità. Nondimeno, se ogni discorso è molteplice nel suo enunciato, l'intelletto percepisce nel suo atto l'irradiarsi deila sua unità e della sua coerenza fontale.

In qualche modo l'intelletto reca in sé l'idea dell'unità =he si desidera conoscere. Esercita questo ideale ai diversi livelli del suo procedere. Il desiderio dell'unità è tuttavia costante- mente inquieto. L'unità deli'en te singolo e quella dell'univer- SO sfuggono sempre in certa misura alla chiarezza delle cono- scenze esplicite. Anche se l'accordo su oggetti materiali ed immediatamente sensibili non rappresenta spesso un proble- ma («ecco un tavolo, una penna biro»), il principio unificante non comporta con facilità un'adesione definitiva. Gli scien- ziati si interrogano sull'esistenza degli atomi, del «più picco- l o ~ ; la fisica contemporanea sogna sui r{quarks», che <{sono» senza +esistere». Che cosa sarebbe dunque il apiù grande*, il nostro spazio in espansione? La tridi&encLnale, ter- restre ed evidente, non ne sostiene molto il pensiero. L'idea- le della verità scientifica definitamente certa è oggi imprati- cabile; la scienza attuale è provvisoria. L'unità deI principio non è un dato acquisito, ma un orizzonte per la ricerca.

Sfidati da diverse teorie su ciò che dovrebbe tuttavia esse- re un <{oggetto» scientifico sicuro, abbiamo le medesime reti- cenze del filosofo del Discofio: <{considerando come in uno stes- so argomento possano aversi opinioni diverse di persone dot- te, mentre, invece, non ne può esistere più di una vera, repu- tavo quasi falso tutto ciò che era solo verosimile» 2. La strut- tura essenziale della materia sembra essere piu sconosciuta agli scienziati che assegnano la sua origine ad una massa esplosiva che si reputa significante, ma a quale prezzo? Big Bang è un operatore intelligibile, degno della ragione? La scienza si tra- sforma qui in mito. Come giustificare che la massa primitiva

R. DESCUTES, Dircono &/ metodo, pp. 136-137.

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sia scoppiata ad un certo momento per diventare così fecon- da nelia natura incantratrice e nei deserti mortali? E da dove verrebbe questa massa primitiva? I1 sapere delle cose naturali non ha fine per la scienza. Pih sappiamo, più sappiamo di non sapere, a meno di cadere nel mito. Tuttavia, l'unità è neces- saria per la ricerca intellettuale che, senza di essa, diverrebbe assurda. Questa unità non può essere una rappresentazione mitica.

La ricerca intellettuale è spronata dall' attrattiva di un'uni- tà che supera infinitamente le sue anaiisi. 11 centro unificante degli enti sfugge alle prese dell'intendimento. Tuttavia, l'in- teiletto reca in sé il desiderio di accedervi; senza di ciò tutti i suoi sforzi sarebbero a priori vani. Ora, l'accesso alla pro- fondità dell'ente non è possibiie se I'unità, inaccessibile alle nostre parole, non viene offerta fin dalla percezione sensibile e dalla costruzione categoriale. L'unità degli enti e dell'ente deve intersecare gli effetti che essa scava nel17intelligenza ed esserne conosciuta. 11 fondamento non ha senso se è privo di quest ' apertura e di questo attaccamento spirituale.

Noi intendiamo quest ' apertura dell'intelletto alla luce del dubbio cartesiano. L'inquietudine ravviva lo spirito critico e sollecita 1'inteIletto a giudicare le sue opere. Jean Lacroix nota che if dubbio, escludendo le evidenze troppo urgenti, rende attenti d o slancio della Iibertà. Esso «appare prima di tutto come una presa di posizione eroica della volontà per elevarsi dal mondo corporeo ai mondo spirituale e raggiungere la pie- na spiritualità dello spirito*; esso <<è sempre possibile perché l'idea non si afferma mai in noi senza di noi, perché l'assenso dipende sempre dalla nostra buona volontà, poiche l' attenzio- ne è libera. La possibilità del dubbio è l'affermazione virtuale del primato del soggetto» ', senza che, ciò nonostante, que- sto primato arrivi a rinchiudere il soggetto in una ubris sciol- t a da ogni unità nei confronti della realtà. Ed. Husserl sostie- ne un'idea simile nelle sue Meditazioni cartesiane: «Non dob- biamo forse ricondurre, in fine, la desolazione della nostra situazione filosofica al fatto che gli impulsi provenienti da quel-

5 ]. LACKOIX, M a ~ i ~ t ~ 1 c , ~~istentralisme, penonnaliimc, pp. i8 C 81.

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r le Meditazioni hanno perduto la loro originaria forza vitale, poiché è andato perduto Io spirito stesso del carattere radica-

- le deua responsabilità filosofica?>>4. Qual è il senso fonda- mentale di ogni filosofia vera? Non è di tendere a liberare la filosofia da qualsiasi possibile pregiudizio per fare di essa una scienza veramente autonoma, realizzata in virtù di evidenze ultime tratte dal soggetto stesso, e che trova in queste evi- denze la propria giustificazione assoluta? Il dubbio scarta le evidenze oggettive in favore della responsabilità soggettiva. Occorre inoltre che l'intelligenza accetti di disfarsi delle sue evidenze, che riconosca l'oscurità dell'originario e che misuri tutte le sue acquisizioni con questo metro.

Ma non si corre d o r a i1 rischio di sottomettere la verità d a soggettività responsabile? Certamente no, poiché il velar- si del principio rispetto d'intendimento non significa per l'in- tendimento stesso la sua inaccessibilità assoluta. Celato alla discorsività, il fondamento si presenta da se stesso all'intelIi- gema in ciascuno dei suoi interventi; il discorso non ne è il padrone, ma può ugualmente esprimedo. La comprensione degli enti e l'indefinitezza del loro ritrovamento sono misurati da un sapere fondatore che assume serenamente, ma dinamica- mente, I'incomprensibilità nella comprensione provvisoria di ciò che è. La rivelazione dell'unità fondatrice è affidata d ' i n - tendimento e alle sue categorie essenziali. Certo, enunciando- la, I'intendimento tradisce l'unità del principio, senza tutta- via che nulla ne sia detto. La riflessione sa ritrovarne I'eserci- zio nella discorsività dell'intendimento fedele alle sue categorie.

Lo stupore aveva generato un momento di dubbio. Dubi- tando, noi accettiamo la provocazione di ciò che ci libera dal- le nostre evidenze e impedisce di chiudere le nostre certezze ne1 loro apparire di un momento. I1 dubbio non può tuttavia essere totale; non è questo <{scetticismo [che] si nega ponen- dosi come vero>>, osservava J. Lagneau, riflettendo coci la pro- b h a t i c a della ritorsione. Anche radicaie, ecco è propedeuti- co- Non nasce dalla inconoscibilità degli enti, ma dalla diffi-

ED. IIUSSERL, Medi.tutioni cur t~s~nne, pp. 49-50 in parte. L 4 righe cht ceyiionu ripor- tano il testo che manca neiln iraduzionc iiiilianli.

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coltà, se non dalla impossibiiità, di esprimere l'unità in maniera discorsiva e, ancora di più, dal conoscere questa difficoltà.

I1 dubbio esprime dunque un'attitudine scientifica essenzide, cosciente dei suoi limiti. Ci rende attenti al contenuto delle nostre affermazioni, a1 fatto che esse delimitano adeguatamente le apparenze dell'ente senza rendere impossibili nuove affer- mazioni che lo concernono. Non eleviamo il dubbio a legge assoluta della conoscenza. Esso si ritrae infatti in presenza del- l'ente unito. Si rivolge solamente ai nostri enunciati di cui sot- topone ad analisi ii contenuto per verificare se essi realizzano effettivamente ciò che pretendono di dire in modo intelligibi- le. I metodi scientifici di verifica trovano qui Ia loro origine.

b) La cosfmzione scientifica

Questi metodi sono molteplici, ma si possono ricondurre d a forma sempIice che impone Ia loro necessità. Nei fatti speri- mentiamo molteplici cose particolari, ma le conosciamo in maniera universale. La sproporzione tra questi due aspetti della conoscenza richiede Ia verifica: ciò che conosciamo in manie- ra univerde è basato sui fatti? Piiì a fondo, vi è una diffe- renza insormontabile tra l'unità del principio e ciò che noi ne affermiamo. I diversi modi di verifica provengono dalla coscien- za di questa differenza. Lo schema elementare del loro proce- dimento si impone do ra con evidenza. Essi seguono la sequen- za di riduzione dell'universale nelle cose molteplici, che Car- tesio ha enunciato nella sua quinta regola: <<ridurremo gradual- mente le proposizioni oscure ed involute alle più semplici» 5 .

Facendo ciò, le verifiche sottostanno tuttavia ad una medesi- ma prospettiva più fondamentale, ma meno evidente; si trat- ta di fondare iI derivato nell'originario, essendo il derivato pen- sato ad immagine del concetto costruito ed essendo l'origina- rio identificato con I'immediatarnente sentito. La verifica con- siste dunque nel disfare le costruzioni concettuali molteplici per ritrovare I'unità semplice da cui proviene ogni intelligibilità.

3 R. DESCAH'L~S, Regok per Ea guidn &/l'intelligenza V, p. 61.

234 viri. RENDERE RAGIOKE

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P Le dottrine scientifiche, empiriste ed idealiste, prendono in esame il problema della riduzione del cornpIesso al semplice. Ma prima di esporre queste dottrine, è bene fermarci un momento sul processo della costruzione scientifica, particolar- mente sulI'articolazione delle sue due prime fasi, l'osservazio- ne e l'ipotesi. L'articolazione di questi due momenti farà toc- care con mano l'essenza deI nostro problema.

L'osservazione scientifica non riflette la semplice esperien- za, tutt'altro. Essa è fin dall'inizio orientata e sofisticata. L'os- servatore, che cerca ciò che vuole trovare, determina di con- seguenza il suo campo di lavoro e i suoi strumenti di approc- cio. Per quanto riguarda l'ipotesi, da una parte, essa precede Iyesperienza al fine di orientarla secondo lo scopo ricercato, e , dall'altra, la segue riferendo il suo risultato a ciò che E già conosciuto, al fine di rendere possibiie l'invenzione di nuove leggi. Quando muoviamo da ipotesi, cerchiamo in seguito con ]e nostre osservazioni di concludere se in circostanze, deter- minate tecnicame~te, queste ipotesi sono valide oppure no, e in quale misura. E evidente che il rapporto tra l'ipotesi ante- cedente e l'osservazione è stretto; l'ipotesi delirnit a l'osserva- zione che, da parte sua, risponde ad una domanda precisa sulia sua validità; se una tale risposta non viene espressa, si rifor- mderanno ora l'ipotesi, ora le circostanze dell'osservazione. I1 fatto osservato è relativo all'ipotesi e con ciò d a teoria scien- tifica che è d'origine della sua invenzione. Un puro «fatto», assolutamente privo di qualsiasi teoria, è, per la pratica scien- tifica, un'idea «filosofica». L'ipotesi che segue l'osservazione indica la fecondità intelLgibile del fatto osservato.

LI ritmo complesso, ma continuo, del lavoro scientifico che costruisce teorie sempre più vaste per fatti sempre pih preci- si, rivela come il sensibile e l'intelligibile si intersecano; l'in- telligibile a paori e l'osservato a posteriori non sono isolati l'uno dd 'd t ro . Certamente, da un punto di vista quantitativo, un'i- potesi suscettibile di divenire una legge universale non può essere interamente verificata; lo sarà solo su alcuni casi scelti. Ma questi pochi fatti osservati saranno in ogni modo sotto- messi preIiminarmente alle prescrizioni imposte da ciò che ci si attende, vale a dire ad una dimensione già universale; lo

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sperimentato è un concetto singolarizzato. fatto scientifico risulta da ipotesi preliminari; la sua realtà è determinata dalie teorie che sovrintendono alla sua invenzione. La scienza uni- fica così l'esperienza in un'intelligibilità ultima a priori, in cui si tenta alla fine di unire tutte le osservazioni.

I1 processo scientifico, che lo scientismo e l'empirismo si applicano ad interpretare, unisce dunque strettamente il sen- sibile d'intelligibile; mette in pratica ciò che lo scientismo afferma senza critica e che l'empirismo presenta come razionale.

A dire il vero, lo scientismo è una convinzione, se non un'i- deoIogia, vaga, condivisa da molti dei nostri contemporanei in ragione dei successi gloriosi e meravigliosi della scienza. La sua base teorica è tutt'ora fragile; costituisce una variante del raziondismo. Questo identifica il reale e il razionale, secondo l'a priori del tutto legittimo e classico per il qude il reale è necessariamente razionale per poter essere inteso secondo le potenze del nostro intelletto: <(Ciò che è razionale è reale, e ciò che è reale è ra~ionale*~. Si concIude da questa tesi che gli strumenti della ragione sono suscettibili di cogliere la giu- sta articolazione del reale.

Ma che cos'è ii razionale? Per lo scientismo è razionale Ja sola verità deIl'esperienza sensibile. Gli strumenti della razio- nalità sono dunque quelli della sperimentazione. I1 sensibile accertato in laboratorio riceve il pesante onere di fondare tutti i nostri giudizi veri. Per avvalorare una tale maniera di veri- tà , lo scientismo suppone un'adeguazione perfetta tra Io spe- rimentato ed il reale. Di fatto, sperimentando, lo scienziato controlla le sue operazioni, sorveglia i suoi atti; le sue affer- mazioni possono cos'i pretendere di riflettere l'esatta reaItà oggettiva. Sono valide universalmente; l'arbitraggio soggetti- vo è eliminato. Ma vi è qui un'ambiguità per quanto riguarda

6 Cfr. G.W.F. HECTL, «Prefazione. dci 1.ineamrnti dij5losofM del &irto; cfr. il 5 6 del- I'Enczclopedia deMP scienze .fiEosoficihe.

236 VIII. KENDCRE RAGIONE

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f lo statuto dell'osservato. L'attività scientifica consiste vera- mente nell' annullare la presenza soggettiva dello scienziato?

vero che ce la sperimentazione è svolta in modo corretto, chiunque può ripeterla. La sua universalità è il segno certo della sua oggettività. Ma, nonostante tutto, essa è orientata, e per

occorre aver fatto proprio il sistema teorico che ha presieduto alla sua invenzione. Non saranno tutti capaci di con- durre rettamente un'osservazione e di confermarla ragionevol- mente. Il reale osservato non è semplice; è il termine di un progetto decisamente articolato.

Per Io scientismo il razionale, vaie a dire l'osservato, è rea- le. Ma questa riduzione del razionale ali'osservato è proble- rnatica. Se il dato sperimentale è solo rede, se il sensibile sol-

+ tanto è il fondamento di ogni realtà, le dimensioni propria- mente intelligibili o a priori dell'esperienza sono respinte dal- la sfera del reaIe. L'esperienza rivendicata dall'attitudine scien- tista è allora ingenua, incapace di controllare ciò che la prece- de o I'anticipa. Può anche essere socialmente pericolosa. Se il reale & solamente ciò che è sottomesso agli strumenti della sperimentazione, è manipolabile in qualunque modo, purché se ne abbiano i mezzi, vaie a dire secondo l'arbitrio di poten- ze, per esempio industriali, che non si curanc del sapere per il sapere.

Lo scientismo ha un'influenza eccessiva sulla nostra cultu- ra contemporanea. Per restituire d a nostra esistenza l'ampiezza e il sapore che vanno oltre i laboratori, occorre ristabilire i limiti della scienza sperimentale e precisarne la portata. Que- sto può farsi in diverse maniere, teoriche e pratiche. Una pri- ma critica dello scientismo è teorica. Se tutto il reale è l'os- servato scientificamente, le proposizioni fondamentali dello scientismo, per riflettere la realtà, devono essere osservabili anche scientificamente. Ma vi è una scienza sperimentale del- la scienza sperimentale e che possa costruire stabilmente il pro- cedimento dell'esperienza? Pretenderlo significherebbe supporre che l'esperienza sensibjle immediata sia sufficiente a se stessa e supporre di toglierle ogni misura e ogni guida. In realtà, l'og- gettività della scienza non proviene dal suo carattere sperimen- tale- Infatti, se l'esperienza bastasse, perché verificare a poste-

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noti il risultato positivo delle affermazioni scientifiche? L'espe- rienza bruta non è sufficiente? Per quale motivo preoccuparsi delle affermazioni sostenute a suo riguardo? Queste afferma- zioni hanno un senso a condizione che non dipendano dalla sola combinazione casuale dei fatti, ma anche dall'organizza- zione previsionale dei ricercatori. Vi è un saito tra la sensibi- lità e l'intendimento; ridurre questa distanza ripiegando il giu- dizio sulla percezione non permette di rendere conto di que- sto salto. Per ragioni teoriche l'esperienza non può dunque essere la sola norma dei discorsi scientifici.

Perveniamo alla stessa conclusione con argomenti di ordine pratico. Si ritiene oggi che le leggi della fisica siano vdide sta- tisticamente. La questione della loro verifica si pone quindi in termini nuovi. Esse sembrano infatti sussistere prima di esse- re applicate ai fatti che le realizzeranno, in maggiore o mino- re misura. L'osservazione rivela la realtà generale di questa legge e il calcolo ne precisa il valore approssimativo. AIcuni autori ,come Russell pensano che questa indeterminazione sia provvisoria, che le leggi statistiche derivino da leggi più gene- rali che non conosciamo ancora, ma che un giorno arriveremo ad enunciare. Per il momento, siamo in ogni caso limitati alla statistica; la scienza attuale parla dunque di cose oggettive sen- za rigorosa certezza. Altri autori, soprattutto dopo le discus- sioni di de Brogbe e di Heisenlxrg s d a natura della luce, affer- mano che la legge scientifica è statistica perché l'oggetto sen- sibile non è mai conosciuto come se fosse oggettivamente osser- vabile in se stesso. Esso infatti è determinato dal soggetto conoscente; il caicolo statistico viene a precisare i margini d'in- terno dei quali sarà collocato l'avvenimento oggettivo per un osservatore in tale situazione. Si vede in tutte queste ricerche che una verifica semplicemente fattuaie e sperimentaie non riflette la pura e semplice oggettività sensibile; percorre piut- tosto ii rapporto che lega effettivamente il fatto osservato all'in- telligibile, ma senza rifletterne le condizioni.

La verifica non è dunque così sicura come vuole la conce- zione scientista. Perché lo scientismo sia vero, I'uomo di scien- za dovrebbe andare al di Ià dei limiti del suo discorso ed iden- tificare i fatti direttamente; dovrebbe dunque immaginare sem-

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P f atri che sarebbero le norme dell'intelligibilità, essendo discorsi primi e sdenziosi. Ma la scienza tradisce in ogni caso queste norme mute, comprendendole a suo modo. L'esigenza di un hguaggio primo e silenzioso è puramente astratta; noi

sempre i fatti nei nostri discorsi, il cui fondamen- to non è la sola esperienza fattuale. Lo scientismo è dunque ingenuo o distratto; non si accorge che un a priori struttura intelligibiImente il sensibiIe. In fondo, non connette ragione- volmente i1 sensibile e l'intelligibile; non realizza ciò che pro- mette.

L'empirismo teorizza lo scientismo. Come quello pone l'ac- cento sulla verifica sperimentale; solo il sensibile è ai suoi occhi la norma della verità. Ma, contrariamente allo scientismo, non limita il «senso>> al fattude. Ciò che è vero è fattude, certa- mente, ma ciò che è sensato lo è ancora di più. Al di là di una rassornigIianza con Io scientismo e l'ingenuità della sua ideologia, l'empirismo considera con determinazione il diva- rio esistente tra i fatti sensibili e i loro significati scientifici. Questa distanza rappresenta teoricamente un problema, ben- ché la pratica scientifica lo supponga superato.

K.J. Ayer nega ogni significato alle proposizioni che pre- tenderebbero di avere accesso a redtà trascendentali e non sen- sibili. Egli adotta così Ia tesi kantiana di riempimento del con- cetto mediante la sola intuizione, disponendola però nell'am- bito degli enunciati comuni.

Per legittimare le sua tesi, Ayer critica dapprima ciò che intende {{per intuizioni metafisiche~. «Un modo di attaccare ii metafisico che pretende d'aver conoscenza di una realtà tra- scendente il mondo fenomenico, sarebbe quello di ricercare da quali premesse siano dedotte Ie sue proposizioni. Non deve partire anch'egli, come gli altri suoi simili, dall'evidenza dei fatti? E, se è cosi, qudi ragionamenti validi possono mai con- durlo a concepire una realtà trascendente? Da premesse empi- riche è sicuramente impossibiie trarre concIusioni legittime, quali che siano, intorno aile proprietà o ali'esistenza di alcun-

VlIl. RENDERE KA(;IONE 239

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ché di sovra-empirico,i . Dal sensibile provengono informa- zioni appropriate al solo sensibile. Tuttavia, forse, «di fronte a questa obiezione iI metafisico negherebbe che le proprie asser- zioni si fondino in definitiva sull'evidenza dei sensi. Direbbe d'esser stato dotato di una facoltà d'intuizione ititellettuale che lo mette in grado di conoscere fatti non conoscibili per esperienza sensibile» Ma una tale intuizione intellettuale non è legittima. Per l'empirismo il punto di partenza di ogni conoscenza è costituito dal <<fatto» che si rivela dl'osservazio- ne immediata dei sensi o attraverso la mediazione di strumenti tecnici; questo <<fatto>> esaurisce qualsiasi realtà. Infatti, non vi è altra intuizione all'infuori di quella del molteplice sensi- bile. il trascendente, che non è sensibile, non può essere intui- to. Se il metafisico pretende il contrario, si attribuisce un pri- vilegio tale da rovinare l'universalità di questa «realtà» che egli dice fondamentale e la priva di qualsiasi interesse scientifico.

Tuttavia, anche per Ayer, ogni <<fatto» non esaurisce la tota- lità del rede. Per essere fatto di scienza è sottoposto alle con- dizioni della conoscenza. Vi è il fatto bruto e il fatto di scien- za. L'empirismo accetta che il fatto bruto sia astratto; lo lascia dunque da parte. Per analizzare il fatto di scienza, assume oggi un punto di vista logico, senza piii interessarsi alle analisi psi- cologiche di Hume e dei suoi successori. Così ha avuto inizio la filosofia analitica.

Nella sua analisi Ayer distingue il fatto dal senso. «Noi non accusiamo il metafisica», continua Ayer , «di tentare l'impie- go dell'intelletto in un campo dove quest'ultimo non può avventurarsi con profitto, ma di produrre enunciati che non si conformano alle sole condizioni in cui l'enunciato può ave- re significato nel senso letterale. [...I Il criterio da noi usato per mettere alla prova l'autenticità di quelle che si presenta- no come affermazioni di fatto è il criterio di verificabilità. Diciamo che un enunciato è significativo in senso fattuale per qualunque dato individuo, se e solo se quest'ultimo sa come verificare la proposizione che l'enunciato si propone di espri-

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P mere - cioè, se egli sa quali osservazioni Io condurrebbero, cotto certe condizioni, ad accettare la proposizione come vera o a rifiutarla come falsa» y . Notiamo questa opposizione del- la e della falsità nell'ambito delle osservazioni sensate. Si pone così una differenza tra la verità ed il senso; una pro- posizione può essere sensata, essendo vera o falsa. Per Ayer, e in ciò superiamo lo scientismo, è scientifico ciò che, essen- do sensato, è verificabile per quanto riguarda ii suo indice di

o di falsità e non solamente ciò che è effettivamente vero. È infatti sensato, secondo la formula tutta sfumata di Ayer, ciò che si può verificare, e non solamente cib che è veri- ficato; dalia verifica segue allora la verità o la falsità della pro- posizione.

La verifica è il termine medio tra il sensibile e l'intelligibi- le. Per R. Carnap una verifica scientifica esatta non può esse- re che una ciconferma>>, il che suppone il carattere di anticipa- zione del discorso scientifico o la sua trascendenza di fronte al semplice fatto. K. Popper parla invece di «falsificazione» della proposizione; con ciò invita a cogliere la verità della pro- posizione nei limiti della sua applicazione - il che significa che la proposizione scientifica ha un senso non a causa deI fatto che vi risuona, ma a causa del sistema globale degli ele- menti teorici che si limitano gli uni con gli altri. Queste sfu- mature confermano la distinzione del senso di una proposi- zione e della sua verità fattuale. I1 senso di una legge univer- sale, in realtà, non è mai verificato totalmente, proprio per- ché essa è universale e nuovi fatti potrebbero infirmarla. Ma la capacità che ha la legge o il fatto di scienza di anticipare i semplici fatti, perfino di predirli, attesta che essa è sensata prima ancora di essere vera; il suo senso ha un fondamento che le dà a priori la sua validità teorica.

Secondo l'ernpirismo, noi andiamo dal senso alla verità tra- mite la mediazione della verifica; la verifica non crea dunque il senso. Ma, a nostro parere, quest'affermazione prudente non è sufficiente a rendere conto della scienza. L'empirismo rico- nosce la specificità della legge, ma non la riflette come tale.

iu . , pp. 12-13.

V111 RENDERE RA(;IONE 24 1

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Alla fine, esso si lascia sedurre dal fatto bruto, mentre aveva negato in pratica che il discorso lo rifletteva. Se non lo nega- va, perché insistere tanto sulla verifica del senso? Le tesi empi- riste sono ragionevoli soltanto se si riconosce una distanza tra il fatto e il diritto, l'osservato e la legge, la verità e il senso, e tra il secondo, a primi, che anticipa il primo, a posteriore*. Ma se limita il senso del discorso al fatto sensibile, I'empiri- smo si trova in accordo con lo scientismo e si rende incapace di legittimare ii senso che precede la verità e di cui aveva affer- mato l'autonomia o priori. II discorso scientifico non si accon- tenta di constatare i fatti; l'empirismo lo sa, ma la pressione dello scientismo glielo fa dimenticare.

2 . Dal soggettivismo all'idealismo

«La prova scientifica [. . .l si afferma nell'esperienza altret- tanto bene che nel ragionamento, al tempo stesso in un con- tatto con la realtà e in un riferimento alla ragione»; per que- sto motivo lo sforzo di giustificazione della scienza si alimen- ta di un «quieto eclettismo» fatto di <{razionalisrno e di reali- smo» lo o di idealismo e di empirismo. Questa dualità nell'in- terpretazione delle scienze nasce d d fatto che la ricerca scien- tifica è un dialogo tra lo spirito e la natura. Ma i filosofi delle scienze hanno spesso priviIegiato un polo di questo dialogo, trascurando l'altro. L'ernpirismo, nella stessa misura che l'idea- lismo, pretende di occupare il campo deli'dtro e di escluder- lo. Queste due correnti arrecano tuttavia alla riflessione il loro contributo di verità; l'intero processo scientifico articola infatti ciò che ciascuno indica a suo fondamento. La loro pretesa ege- monica le conduce così a demolire la loro eccellenza rispettiva.

Mostreremo adesso come la riflessione sul processo scienti- fico va dall'empirismo d'idealismo attraverso il soggettivismo. Riprenderemo in seguito la nostra riflessione sul dubbio; ci accosteremo in ultimo ali' idealismo propriamente detto.

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Si verifica un enunciato scientifico scindendo la sua com- plessità negli elementi e negli operatori semplici che lo costi- tuiscono. I1 metodo cartesiano della scomposizione, adottato d;tll'empirismo logico, è efficace per purificare gli elementi da ciò che corrompe ii loro vigore. Si pretende di raccogliere nel-

la fonte di ogni verità. Ma questa esigenza racchiude un idealismo segreto. Infatti, l'elemento non è suscettibile di e s c a stabilito mediante analisi. L'elemento è in effetti l'estre-

aI di Ià del quale I'anaiisi non ha più nulla da scomporre; è contrario dell'analizzabite, è l'unità sintetica. Non è com- posto da sotto-elementi che si potrebbero di nuovo separare per analizzarli. L'analisi scompone fino ad imbattersi in ciò che riconosce come non più scomponibile. Ora, se la ricerca ignora l'essenza sintetica dell'elemento, non ne assume vera- mente il centro unificante. Accade Io stesso per I'osservazio- ne scientifica; l'osservazione, ripetuta quante volte si vuole, potrà aggiungere prospettive elementari, ma non potrà rende- re conto della sintesi oggettiva originaria.

A questa difficoltà mossa ai metodo analitico, l'ernpirismo risponde che la validità dell'enunciato proviene dal fatto che esso riflette l'ordine del mondo; i giudizi sintetici duplicano correttamente le sintesi reali quando la sintesi deil'enunciato viene scomposta in maniera analitica. Ma questo non è aspet- tarsi troppo dali'analisi? La scomposizione anaIitica tradisce l'unità ontologica che il giudizio mantiene in ogni caso a1 suo orizzonte. Non si può al tempo stesso scomporre I'ente com- plesso ed unificato pretendendo di non perderne nulla. Del resto, l'analisi è sempre provvisoria, lascia al suo margine, e senza negarne la possibilità, le sorprese che riserva l'unità sin- tetica dell'ente; ne è talmente convinta che è pronta ad un nuovo passo, ad un complemento di studio, eventualmente ad una correzione.

L'anaiisi non legittima la sintesi; vi trova piuttosto la sua condizione. Che cosa sarebbe infatti I'universale concreto ana- lizzato senza la sintesi che ne misura il peso ontalogico e che resiste alla scomposizione maldestra? La sintesi assicura all'a-

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nalisi la sua oggetrività; la legittima al tempo stesso che la limi- ta. Incontra i suoi elementi in sé, mentre l'analisi li astrae iso- landoli gli uni dagli altri. Se si misura la verità dell'enunciato col metro dei suoi elementi astratti, non rischiamo di com- prendere il reale ad immagine dei suoi elementi scomposti, in particolar modo di quelli della proposizione, il soggetto e il predicato che saranno la sostanza e l'accidente? La logica si impadronirebbe allora delle cccose stesse».

La teoria ernpirista della scienza si rinchiude così in alcune impasses. Per contraccolpo, la teoria idedista usurpa lettere cre- denziali. Una prima forma, sogget tivista, di slittamento dal- l'empiricmo all'idealismo si presenta in Hume. Per IIume le relazioni tra le cose, soprattutto la causdità, non sono inteui- gibili a priori; risultano dalle nostre proposizioni azzardate e sono dunque a posteriori. <{In realtà, tutti gli argomenti tratti dall'esperienza sono fondati sulIa somiglianza che scopriamo fra gli oggetti deila natura e dalla quale siamo indotti ad atten- derci effetti simili a quelli che abbiamo visto seguire a tali oggetti. t...] Da cause che ci appaiono simili attendiamo effet- ti simili; questa è la somma di tutte le nostre conclusioni sul- l'esperienza. Ora pare evidente che, se questa conclusione fosse formata per mezzo della ragione, sarebbe tanto perfetta fin dall'inizio e sulla base di un solo caso quanto dopo un lungo corso di esperienza. Ma il caso è ben diverso. [...l E solo dopo un lungo corso di esperimenti uniformi di una certa specie, che raggiungiamo una fiducia ed una sicurezza stabili riguar- do ad un determinato fatto), l'. Ciò che garantisce le nostre opinioni e ci permette di cogliere l'universalità degli eventi particolari» è la coasuetudine o abitudine. Infatti ovunque la ripetizione di qualche atto od operazione particolare produce una inclinazione a ripetere lo stesso atto o la stessa operazio- ne, senza la spinta di qualche ragionamento o processo del- I'intelletto, noi diciamo sempre che questa inclinazione è l'ef- fetto della consuetzkdine» 12.

11 D. IIch?r, Ricerche siill'znteldeffo a,wdno, pi'. 511-71 In.. p. 59.

244 viri. RENDEKE R,\GICINE

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P L'empirismo di Hume approda così al soggettivisrno; fonda il significato degli schemi scientifici sulle abitudini, forme degradate della memoria aristotelica di cui la psicologia ernpi- rista si farà premura di dimostrare il meccanismo chiuso. Le nostre rappresentazioni sono <<fenomeni» soggettivi, relativi a

Ciò non vuol dire che siano fantasiose, nate dalla libera immaginazione di ciascuno; risultano da una concate- nazione legata dal determinismo. I1 mondo dell'esperienza è certamente soggettivo, ma risulta da processi cerebrali e da abitudini di cui alcuni psicologi tenteranno di mostrare la neces- sità, e che ciascuno esercita secondo la propria situazione.

Questo meccanicismo soggettivo può essere peraltro messo in discussione. La sintesi reaIe precede la costruzione della sua forma. M. Merleau-Ponty lo sottolinea con veemenza. La teoria che fonda il sapere sul comportamento c<costruisce Ja perce- zione per mezzo di stati di coscienza cocì come si costruisce una casa con delle pietre, e si immagina una chimica mentaie che faccia fondere questi materiali in un tutto compatto. Ana- logamente a ogni teoria empiristica, anche questa descrive solo processi ciechi che non possono mai essere l'equivalente di una conoscenza, poiché in questo cumulo di sensazioni e ricordi non vi è nessakno che veda, che possa esperire l'accordo del dato e del17evocato - e, correlativamente, nessun oggetto saldo dife- so da un senso contro il pullulare dei ricordi [.. .]. Ritornando ai fenomeni, troviamo come strato fondamentale un insieme già pregno di un senso irriducibile: non sensazioni lacunose, fra le quali dovrebbero inserirsi dei ricordi, ma la fisionomia, Ia struttura del paesaggio o della parola, spontaneamente con- forme alle intenzioni del momento come alle esperienze pre- cedenti» l j.

10 riconosco un senso al mondo perché il mondo è già sen- sato. Io riconosco che vi sono legami tra le cose, perché nelIa realtà le cose sono veramente sintetiche. La sintesi scientifica costruita mentalmente segue la sintesi oggettiva. La conoscenza dei nessi sintetici non avviene certamente senza i processi psi- cologici osservati da Hume e delimitati dagli psicologi moder-

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ni; il filosofo critico non comprende però come si spiega suf- ficientemente la genesi di una rappresentazione causale affer- mando che essa è ricreata meccanicamente ad arbitrio delle sole potenze psichiche. L'empirismo humiano è soggettivista nel senso più stretto del termine. Non riconosce lo splendore del reaie, a priori unificato.

b) L'uscita dal dabbio

Il soggettivismo humiano può essere faciimente superato in idealismo; Kant ha insistito su questo punto 14 . Per accosta- re I'idealismo riprenderemo l'analisi del dubbio avviata all'i- nizio di questo capitolo. Il dubbio invita a verificare le nostre affermazioni. Noi possiamo ingannarci, e ci inganniamo alle volte effettivamente; le nostre affermazioni possono perdere ciò che è o nasconderlo sotto un'immagine senza significato reale. Si interpone una distanza tra l'affermazione e ciò che viene affermato. Il superamento di questa distanza, che è al tempo stesso l'uscita dal dubbio, è impossibile se non ad alcune condizioni. L'analisi empirista delle nostre proposizioni non è sufficiente da se stessa; il suo successo proviene da un pre- supposto, da una ca priori che dobbiamo mettere in luce.

La proposizione scientifica è diversa dalla sintesi oggettiva; per questo motivo è legittimo il dubbio che invita a verificare il legame, o la sintesi razionale, che si stabiiisce tra questa pro- posizione (sintesi scientifica) e l'esperienza (sintesi oggettiva). In che modo fondare questa sintesi razionale? Secondo l'ari- stotelismo, ogni conoscenza comincia dall'esperienza. La cono- scenza del fondamento della sintesi razionale affonda dunque le proprie radici in un'esperienza. Secondo l'idealismo questa esperienza, sintetica ed a priori, è quella del pensiero che, affer- mandosi pensandosi, cogito, sum, si riconosce in atto (suna) di affermare (cogito) . Questa esperienza originale rende intelligi- bile Ia sintesi razionale deIl'enunciato e del fatto.

Tentare di verificare una proposizione non è ragionevole se è a priori impossibile di raggiungere I'ente nel suo centro che

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unisce tutti i suoi aspetti scomponibfii. L'orizzonte di signifi- cato della verifica è la sintesi oggettiva. Tuttavia la sintesi oggettiva non può essere raggiunta che attraverso la discorsi- vith deila conoscenza, prestandosi dunque all'analisi. Per que- sta ragione, la verifica non può raggiungere immediatamente l'ente nella sua unità sintetica; la sua validità è mediata dai nostri discorsi, la cui discorsività sarebbe un ostacolo assolu- to se non fosse sostenuta da un'esperienza sintetica a prioi . Questa esperienza è quella in cui lo spirito raggiunge ce stes- so affermandosi in ciò che esso non è, in una proposizione formata secondo Ie Ieggi convenzionali del linguaggio. 11 peri- siero accede a sé esponendosi fuori di sé; è se stesso essendo in un altro da sé. Vediamo come l'affermazione del cogito arti- cola riflessivamente la proposizione discorsiva e l'esperienza sintetica, fondando così ogni processo di verifica analitica.

L'ente nel quale il pensiero accede a sé non è una presenza che potrebbe sussistere fuori dell'atto che lo afferma. Questo ente l'affermazione di sé: «io penso, io sono». Espressione perfetta delio spirito senza del quaIe essa non ha senso, que- st'affermazione, necessariamente d a prima persona del sin- golare, non è un possibile o una determinazione semplicemente mentaie. I manuali distinguono il «possibiie logico» e il rcpos- sibiIe reale*. E <<possibile logico>> ciò che non è contradditto- rio, vale a dire ciò che è pensabile; un universale indotto è un possibile logico. L'affermazione di sé nelIa proposizione cogi- to, suna è quanto meno un <<possibile logico*; i termini uniti nel suo enunciato non si contraddicono. I1 «possibile reale» è il contingente reale. L e cose deila nostra esperienza sono con- tingenti; sono necessarie nel senso che non si può dire che non sono una volta che ne abbiamo fatto l'esperienza, ma sono contingenti per il fatto che non hanno in se stesse la loro ragio- ne di essere: potreblxro non essere. Quando il pensiero si rico- nosce nell'enunciato cogito, rum, conosce un <(possibile reaJe}>, una realtà necessaria, inevitabile, ma che potrebbe non esse- re. Noi siamo mortali, ed anche spesso distratti. Tuttavia, una volta che siamo attenti al presente del nostro atto, l'oscurità del dubbio è radicdmente illuminata; la proposizione «io penso, io sono» esprime una necessità assoluta.

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I1 dubbio era nato da un'inadeguatezza tra la proposizione e il fatto. L'esperienza del cogito supera questa inadeguatez- za, mentre la verifica analitica non ne è capace. Infatti, il dis- solvimento ernpirista deil'universaie nel particolare non è un'ar- ticolazione sufficiente della proposizione e del fatto. L'univer- sale è un possibile logico; la verifica diluisce dunque un possi- bile logico nei fatti reali. Siccome non articola l'universale e il fatto poiché diluisce il primo nel secondo, essa constata sol- tanto che l'universaie conviene a qualche particolare; in tal modo, non conduce al fondamento degli enti particolari, ed ii dubbio vi mantiene sempre la sua dimora. La verifica non dà ciò che ci si attende se la si fonda sulla scomposizione del comp~esso nel semplice, supponendo che il complesso sia il con- cetto universale e il semplice il sensibile particolare.

Il dubbio, per non essere uno scetticismo confuso, suppone infatti che la sintesi oggettiva sia affermabile; si preoccupa solo di sapere se l'enunciato la esprime bene. Pone dunque domande per apprendere come fondare la sintesi scientifica neUa sinte- si oggettiva. Perciò, orienta la nostra attenzione verso la capa- cità che ha il pensiero di dire ciò che è unito, ma diffratto nelle sue apparizioni intelligibili. I1 pensiero è necessariamen- te capace di tali affermazioni. Una semplice ritorsione lo mostra immediatamente: negarlo, affermando che il pensiero non può esprimere l'ente unito nei suoi diversi aspetti, sottrae alla nega- zione qui enunciata la sua realtà unita e sensata; ciò sarebbe dunque non negare. Vi è necessariamente una realtà intelligi- bile ed affermabde. Lo scetticismo totale non è degno del dub- bio che ha come funzione di orientare verso la profondità del reaIe, al di là delle opinioni che si arrestano ai fenomeni imme- diati; di fatto, il dubbio si appoggia sulla sintesi oggettiva che lo scetticismo non vuole conoscere.

I1 dubbio si estingue davanti ad un'idea che presenti la necessità dell'ente nella sua apparenza. Questo è ii senso del cogito, sum. La proposizione: <<Io penso, io cono» sprigiona una luminosità senza ombre. L'idea si esplicita in un enunciato signate, il cui fondamento è ii suo esercizio. L'esistenza non è conclusa dall'enunciato; essa è la condizione dell'atto impli- citamente esercitato. Nella sua Seconda Meditazione Cartesio

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sopprime la forma di inferenza, ii <{dunque», proposto neila formula parallela del Discorso s d metodo; nel passare da un testo all'àitro, l'immediatezza D l'interiorità delpatto nelia sua espressione ha assunto l'evidenza. La certezza è tratta dal movi- mento del pensiero che si conosce in atto, dunque esistente, inserendosi nell'oggettivit à del suo enunciato.

I1 pensiero in atto non è mai colto come una cosa. È tutta- via reale perché nessun enunciato scientifico potrebbe essere senza di esso. La sua realtà è originaIe. Costituisce il fonda- mento o l'origine di ogni conoscenza oggettiva; non è un fat- to esclusivamente materiale, né un fatto di scienza. La cpe- ranza che ha fatto seguito aUa constatazione della fallibiliti dello spirito e che ha messo in movimento il dubbio metodico è così compiuta. Noi riconosciamo nell' atto del cogzto l'effet- tuazione delte condizioni della sintesi razionale capace, in linea di massima, di accogliere la sintesi oggettiva in una sintesi scientifica. L'idea non è qui un concetto a posteriori, costrui- to mediante qualche inferenza logica; risiede invece nell'af- ferrnazione tranquilla e non delimitabile del cogito, l'atto a pio- ri esercitato nell'enunciazione della sua idea.

Si deve forse ritenere che con ciò abbiamo raggiunto il prin- cipio di ogni sintesi reale? I1 riserbo cartesiano di fronte d'<<estensione» ci impedisce di pensarlo. Dd'idealismo car- tesiano non è possibile ricavare l'esistenza deI mondo. Il pas- saggio dal. pensiero d'«estensione», dalla sintesi razionale d a sintesi oggettiva, resta problematico.

C) L'idealismo

11 cammino cartesiano non conduce al principio ultimo. La scoperta del senso della necescith è riflessiva; ma la necessità sintetica non è misurata dalla presenza del pensiero a sé. La sintesi perfetta, la pura semplicità esposta in un'esteriorità iden- tica a sé, è riconosciuta ne1 momento del ritorno riflessivo deI pensiero sul suo atto, ma in esso non è compiuta. Lo spirito riconosce una necessità alla quale può solo partecipare, e spesso molto male; esso si conosce in un'affermazione di cui non è il padrone. La presenza spirituale non è in tutt i i suoi aspetti

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all'origine di sé. Lo spirito dissimula la sua unità in un'espres- sione che cadrà in oggetto di analisi, ed esso dovrà ancora pen- sare in maniera coerente tutto ciò che non ha pensato nel momento in cui si è raccolto in sé. La presenza dello spirito a sé è dunque in un certo senso necessaria; il dubbio urta qui contro il suo limite; ma ciò nonostante il principio ultimo non è stato svelato. I1 pensiero si scopre così attuato da un princi- pio di cui non è la misura perfetta. Sa di non essere tutto; riconosce con ciò la trascendenza del principio.

Chi disconosce Ia distanza tra l'idea della presenza a sé e la realizzazione di questa idea nell'espressione "alterante" non ammette l'essenza estatica del pensiero e riduce & enti ai loro fenomeni interpretati come espressioni del pensiero. La legge del pensiero o della logica schiaccia allora ii reale; la serie degli enti è descritta come una successione di aspetti di cui il pen- siero fissa la logica secondo le proprie necessità. La sintesi reale è trascurata in favore della sua apparenza fenomenale, pro- porzionata a qualche istanza della coscienza che si va costi- tuendo. L'idealismo hegeliano moderno ha qui ii suo domi- nio; la reaItà dell'idea dipende dal pensiero.

Ma l'idealismo classico è diverso. È una dottrina deii'a priori che trascende il pensiero. Per sant 'Agostino vi sono neila cono- scenza aspetti di necessità di cui lo spirito umano non può essere l'origine, poiché è fragile e tanto mutevole. Secondo la dottrina dell'illuminazione, noi vediamo in Dio la necessità delle idee che trascendono lo spirito, la loro forma intelletti- va e perfino anche il loro contenuto 15. Agostino pensa così di rendere conto di regole matematiche, leggi naturali, e anche delie idee di unità, beatitudine o saggezza, la cui immutabili- tà non può essere spiegata diversamente.

Vediamo ciò che iI santo dottore dice dell'unità: «Ora se si ha la vera nozione deli'uno, si trova certamente che non può essere percepito dai sensi. Si ha certezza infatti che l'og- getto sensibile universalmente non è uno ma molteplice per- ché è corpo ed ha quindi innumerevoli parti. Un corpuscolo, per non parlare delle sue parti ridottissime e meno differen-

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ziate, ha per Io meno una parte a destra e una a sinistra, una di sopra e una di sotto, oppure una di qua e una di là o anche d u n e d a periferia e una al centro. Dobbiamo per logica neces- sità riconoscere che esse sono presenti in ogni particella del corpo per quanto piccola. Pertanto non si ammette che alcun corpo sia uno da un punto di vista ideale. Ma soltanto median- te la distinta conoscenza dell'uno ideale si possono in esso sud- dividere tante parti. Quando dunque cerco l'uno nei. corpo e non dubito di non trovarvelo, so ciò che cerco, ciò che non vi trovo e che non potrò trovarvi, anzi che non v'è affatto. Se dunque so che il corpo non è uno, so che cos'è l'uno» l 6 .

Secondo Ia forma classica o platonica dell'idealismo, l'idea è reale perché precede il pensiero che si conosce giudicato da essa. I1 concetto è a posteioPI; non è capace di giusrificare la realtà presa in considerazione d d e nostre affermazioni. La real- tà non è costruita cr posteriori, a partire dagli elementi del suo enunciato; essa precede a priori la sua scomposizione analiti- ca. La realtà è prima, ed il movimento dell'intelligcnza è ad -

essa necessariamente interiore; può essere espressa per mezzo dei nostri discorsi senza esserne derivata. L'idea è reale poi- ché è necessaria ed Q priori. Essa precede l'esperienza per ren- derne efficace I'analisi.

Ma dire che l'idea è reale non ha senso se la si confonde con la realtà empirica; occorre dunque precisare in che modo intendere la *realtà». É . GiIson suggerisce di distinguerla dd7«esistenza sensibile,}: «Attribuire alle Idee quella esisten- za sensibile che Platone considerava come un quasi non-essere, sarebbe affermare ciò che egli non ha mai cercato di negare. In compenso, rifiutare loro questo genere di esistenza è non attribuire loro se non un essere di cui non ci è possibile alcu- na rappresentazione, a meno che non si vada liberamente attra- verso una completa dissociazione dei concetti di redtà e di esistenza, fino a dire che le Idee sono degli esseri, ma che, Per questa stessa ragione, esse non sono» 17. Ma come inten- dere questo <<essere)> che non è un «esistere sensibilmente*?

lb ID. 11 22. " ET GILSON, L'euere c l'esretxa, p. 22.

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Considerare che l'idea, per esempio quella dell'uno, è reale impone di determinarla in una maniera o in un'altra. Una realtà senza determinazione è inaccessibile, e non è dunque veramen- te reale per noi. La necessità e l'apriorità sono le prime deter- minazioni dell'idea del principio. La realtà dell'idea non è espressa direttamente se la si afferma a portenori d o stesso modo di un concetto o di una rappresentazione mentale. Essa dev'essere a priori; è messa in chiaro riflettendo su ciò che esige il pensiero per affermare ciò che è. Però qui si introdu- cono delle ambiguità. Il pensiero riconosce nell'idea ciò che rende possibile il suo dinamismo, ciò che l'orienta. L'idea del- I'uno manifesta la pienezza verso la quale tende il pensiero, e che articola gli stadi del suo itinerario. L'idedismo tenta d o - ra di fare slittare l'idea fuori della sua semplicità originaria e di determinarla attraverso le fasi del suo accesso. Alcuni idea- listi, gli hegeliani soprattutto, pretendono di conoscere, oltre alla loro situazione particolare, l'orizzonte finale delle nostre vite. L'idea del principio diventa allora lo spirito assoluto. Que- sta prospettiva ha prodotto sistemi prestigiosi che hanno voluto fondare su se stessi la norma della loro logica, ma dei quali la storia ha manifestato la pretenziosa mostruosità.

L'idealismo classico non voleva ricondurre l'origine a ciò che è originato, ma rendere testimoniama ad un fondamento essen- zialmente trascendente. Vi è una definizione moderna dell'i- deaiismo che, riducendolo ad un puro soggettivismo, psicolo- gico in Hurne o assoIuto in HegeI, non è platonica. Questo soggettivismo esclude che <fesist ano» «cose» «al di fuori» dello spirito; afferma così l'irnmanenza del mondo al soggetto che, pensandolo, lo crea. Ma la tesi platonica del realismo delle idee significa al contrario che il pensiero umano non è padrone di ciò che Io giudica.,Il principio non è un gioco di rappresenta- zioni a poste;iori. E a p h r i ; non ri-presenta nulla poiché pre- cede qualsiasi conoscenza. Per Platone l'intelletto accede alla verità volgendosi verso i! Bene da cui tutto, compreso ce ctes- SO, riceve d'esistenza e I'essenza»18. In tal modo colui che si dirige verso le forme a priori per contemplarle conosce di un

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P sapere superiore al principio. L'allegoria della caverna, all'ini- zio del libro VI1 della Repubblic~, iilustra ciò; la meditazione culla reminiscenza ha lo stesso significato.

Noi comprendiamo in questa maniera l'idea riflessiva. LO spirito è contingente, poiché non accede mai a sé immediata- mente a partire da sé, benché esso conosca necessariamente se stesso; è dato a sé, ma non di per sé. Questo paradosso è pensabile. L'<<idea» ne traccia il cammino di intelligenza. Essa

il pensiero che riflette sulla sua natura paradossale, che conosce la molteplicità ideale della sua presenza a sé al pari deii'impossibiIità di un'espressione semplice della sua eccen- za. L'idea desiderabile trascende lo spirito, ma non è ciò nono- stante impensabile, poiché lo anima interiormente quando esso unisce in sé tutte le sue operazioni. Nell'idea Io spirito si riflet- te secondo la necessità tipica della sintesi reale, secondo la sem- plicità unica di ciò che, assolutamente presente a sé nella sua espansione fuori di sé, non è misurato dalla contingenza del pensiero umano.

3. I1 principio di ragione

Abbiamo visto come l'empirismo e l'idealismo interpretano con due diverse accentuazioni l'esercizio della conoscenza e la sua articolazione del sensibiie e dell'intelligibile, dell'a poste- riori e dell'a priori. Queste due dottrine esprimono di fatto le due facce di una stessa realtà, come lo indicherà adesso l'ana- lisi del «principio di ragione,,; le dottrine di cui abbiamo par- lato sono infatti esplicitazioni derivate da questo principio che guida ogni ricerca intellettuale. Mostreremo dapprima come questo principio è legato d a causaiità; vedremo in seguito come I'empirisrno e l'ideaiismo lo intendono.

a) I l principio di ~agione e .h causali&

L'intelletto si accorda alla presenza degli enti, cercandone Ia ragione. Non si accontenta di contempIarli passivamente. L'indagine sulla ragione degli enti appartiene alla sua essen-

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za. Supponiamo di lasciar cadere questa questione; sapremo giustificare razionalmente questo abbandono adducendo a pre- testo o di aver trovato una risposta soddisfacente alla nostra domanda o di rinunciarvi. In questo ultimo caso, ci scusere- mo con motivi diversi: la stanchezza, I'attrattiva per l'oscuro, la decisione di non voler comprendere tutto o il panico dinanzi alla complessità del reaie. Insomma, rendiamo conto del nostro abbandono portandone le ragioni.

La metafisica congiunge l'apertura essenziaie dell'intelletto alla ragione degli enti; pretende di condurci cocì fino al «per- ché» ultimo, alla causa più universale, la piii profonda e la più originaria, la causa ultima di ogni ente. Alcuni pensano tutta- via che nulla potrà veramente condurci accanto ad una tale causa, poiché la ragione non conosce alcuna risposta che non possa divenire essa stessa l'oggetto di una nuova domanda. Jaspers raccontava che un bambino, ascoltando l'esordio del Genesi, «domandò subito: "Che cosa c'era dunque prima del- l'inizio?". Scopriva così che le domande si generano all'infi- nito, che l'intendimento non conosce limiti alle sue investiga- zioni e che, per esso, non c'è risposta veramente conclu- dente» 19.

Domandare la causa di qualche cosa, cercarne il «perché», significa cercarne la ragione. I1 <<principio di ragione*, essen- ziale d a ricerca intellettuale, è stato formulato a più riprese da Leibniz: <<Nulla accade senza che vi sia una causa o alme- no una ragione determinante, che possa, [...l servire a rende- re ragione a priori perché una cosa è esistente piuttosto che non esistente e perché è così piuttosto che in un altro modo}>; «nessun fatto può essere vero o esistente e nessuna proposi- zione vera, senza che vi sia una ragione sufficiente perché sia così e non altrimenti» 20. Per «ragione>> Leibniz intendeva infatti ciò che spiega un problema di ordine essenzialmente proposizionaIe; la ragione della proposizione giustifica il modo in cui la verità vi si presenta; infatti, come Leibniz scriveva ad Arnauld, crvi è necessariamente sempre qualche fondamen-

l9 K. JASPERS, Ein/rihnrng in ddc Philosopbie, p. 11. ti. W. LEIBNIZ, Teodicea 1 44 c Monadoloy~ 5 32.

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t, d a connessione dei termini di una proposizione, che deve trovarsi neUa loro nozione),. La <<ragione>) della verità di una

Niede anzitutto nel senso delle sue nozioni. Acce- dere d a ragione di una proposizione è scoprire come i cuoi termini sono legati gli uni agli altri in una tela senza pieghe nascoste.

perché il progetto di Leibniz sia realizzabile, occorre che le definizioni siano sddamente fissate. Ora, per le scienze anti- che c o ~ ~ come per le moderne, le definizioni non sono assolu- tamente necessarie di fatto; non rappresentano esattamente le cose ({in sé». Dipendono dalle condizioni storiche della loro messa a punto, daila cultura, dai progetto e dalla competenza scientifica di chi le formula. Ne consegue che, se lo studioso di scienze spiega le cose suila base della loro definizione le fa dipendere dal suo punto di vista. Dopo il nominalismo e Cartesio, il principio che giustifica risiede di fatto in una deci- sione del pensiero, anche se questa decisione è Sottomessa evi- dentemente ad alcune regole. La ragione dell'ente appartiene a colui che {{determina & oggetti in quanto oggetti nella rnoda- Età del rappresentare che giudica [...l. A partire da Descar- tes, cui segue Leibniz e con lui l'intero pensiero deU'età moder- na, l'uomo viene esperito come quell'io che si pone in rela- zione con il mondo in modo da fornirselo in connessioni di

' rappresentazioni, cioè in giudizi corretti0 21. Il principio di ragione così compreso dai tempi moderni gestisce la nostra mentalità occidentale, essenzialmente tecnica. Ogni cosa ha una ragione, essendo sottoposta ai nostri progetti che si catalizza- no nelle definizioni e nei loro succedanei. La tecnica, con le sue manipolazioni del mondo, si impone come i1 riferimento universale della nostra cdtura contemporanea. L'uomo si inor- g~&sce così di essere il signore del mondo e del suo destino. L'età atomica porta a compimento queste pretese moderne; 2 l'età del calcolo massimo, al di fuori del quale non vi è più, si dice, futuro, ma che può anche distruggere l'uomo in modo massiccio.

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Poiché la ragione soggettiva può rivolgersi così contro se stessa, poiché si inebria talvolta del suo potere di nulla, è urgente ripristinarla, risvegliando it senso giusto della sua domanda sull'origine e sul suo rapporto agli enti. II fondamento non è al termine dei nostri calcoli: è al principio di sé. Hei- degger ricorda l'espressione di Goethe : «"Tu attieniti al poi- ché, e perché? non domandare". Che cosa dice il "poiché"? Esso [...l infatti è senza "perché?", non ha un fondamento, è esso stesso il f o n d a m e n t ~ ~ ~ . I1 principio nel quale e dal quale viene l'ente è per sé il proprio sfondo: cr Gmnd è ciò su cui tutto riposa, è il fondamento che per ogni ente "c'è già" (uorla'egt) come "ciò che lo supporta". Il "poiché" nomina que- sto esserci-già supportante davanti al quale non possiamo fare altro che arrestarci. Il "poiché" rimanda all'essenza del fon- damento. Tuttavia, se la parola che parla dell'essere come fon- damento è vera, allora il "poiché" rimanda al tempo stesso d'essenza dell'essere~ 2 3 .

Questi pensieri di Heidegger introducono in maniera viva aile questioni poste dalle interpretazioni ernpiriste ed ideali- ste della scienza; mettono in guardia infatti sulla pretesa del- la tecnica moderna di sottomettere la ricerca intellettuale al volere demiurgico di cui I'ideaIismo è l'araldo manifesto, ma che l'empirismo non ignora. L'empirismo e l'idealismo rendo- no omaggio alla nostra volontà di potenza. Secondo l'empiri- smo, la conoscenza è determinata dalla sua struttura psicolo- gica o logica; per l'idealismo, i1 pensiero, ritornando sul suo atto, afferma la propria capacità di porsi come origine univer- sale. La soggettività domina il sensibile, orizzonte dell'empi- rismo, e l'intelligibile, orizzonte dell'idedismo.

Queste dottrine hanno aspetti contraddittori. Le polemiche che le oppongono non provengono da un equivoco che si potrebbe rettificare con maggiore attenzione ai loro legami. L'empirismo attribuisce al sensibile un'originalità che resisre ad ogni riduzione sistematica, mentre l'idealismo rivendica per questo stesso sensibile ~n'intelli~ibilità che il concreto non

22 Il)., pp. 213-211. " p. 213.

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apporta da se stesso, ma che in qualche modo gli viene aggiun- ta. La contrapposizione tra quesre due dottrine riflette la dif- ferenza che vi è tra la sensibilità e l'intendimento. Ma questa dgferenza non esclude la loro articolazione, di cui è segno la mutua integrazione nell'unit à della conoscenza. Quest 'artico- lazione indica il principio che non appartiene né aI13ernpiri smo, né a117idealismo, ma che li unisce.

L'espressione «principio di ragione» ha due significati diversi: {{ogni ente è intelligibile» e «ogni ente ha una causa». La pri- ma formula f a appello all'intelligibdità alla quale è sufficiente l'universale, mentre la seconda rinvia ad una causa che con- ferma Ia necessità dell'ente. La prima formula conviene in maniera privilegiata all'empirismo, e la seconda all'idealismo. L'intelligibilità (universalità) e la causa (necessità) non sono tuttavia opposte, poiché la causa è intelligibile e l'intelligibili- tà dà accesso alla necessità. Questo incrociarsi reciproco per- mette di precisare in che modo l'empirismo e l'idealismo, al di là della loro contrapposizione, si alleano nella ragione.

b) L'enapi~smo e la ragione

Secondo 17ernpirismo, I'intelligibilit à degli enti è determi- nata dalla loro situazione nel mondo; la loro <ragione» è ogget- tiva, individuabile nell'insieme delle relazioni mondane da cui provengono. 11 principio dell'universalità assorbe allora quel- lo della causaIità; riduce la successione alla contiguità tempo- raIe e d a costanza di questa unione.

Per l'empirismo di Hume, I'inferenza della causa è fondata sd'abitudine. Tuttavia, poiché lo psichismo umano puì, esse- re leso o può confondere ciò che non è altro che somiglianza, alcuni strumenti tecnici vengono sostituiti ad esso. Si suppo- ne così che la relazione della causa all'effetto o dell'effetto d a causa possa essere interpretata e costruita meccanicamen- te. Infatti, né in generale, né in particolare, qualunque causa produce qualunque effetto, né' qu dunque effetto è prodo t to da qualunque causa. AIla causalità si aggiunge così la conti- nuità, in modo che, analizzando I'ef fetto scopriamo l'essenza della sua causa. Ora, ciò che è identico nei diversi, in questo

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caso alla causa e all'ef fetto, è universale. L'empirismo riduce dunque la causa all'universale.

Tuttavia, l'universalità degli omogenei è costruita a partire da esperienze molteplici. L'universale è dunque posteriori, frutto dell'abitudine. Ma si può ridurre un effetto a ciò che esso condivide con la sua causa solo lasciando da parte I'uni- cità della sua sintesi oggettiva. Certo l'effetto ha in sé di che essere unito analiticamente alla sua causa; non è tuttavia real- mente la sua causa. La gallina è la causa reale del suo uovo, effetto reale, ma non è realmente iI suo uovo. L'empirismo rivela così il suo carattere astratto. Esso riduce la causalità ad un universale che è piuttosto una generalità ed esclude ciò che fa dell'universale una relazione tra singoli eIementi consisten- ti per se stessi.

Di conseguenza, I'empirismo prende in considerazione del lavoro delI1inteUigenza soltanto le sue rappresentazioni. I1 f on- damento delta causalità sarà allora psicologico o logico. La mol- tiplicazione di esperienze affini darà luogo alla rappresenta- zione vaga ed arbitraria di un aspetto comune tra enti molte- plici. Questa connessione tra i fatti sirniiari non è necessaria che per i sentimenti. Si può infatti sempre concepire un cam- biamento della natura, una rottura delle relazioni regolari tra la causa e l'effetto. Si può pensare che la costanza dell'infe- renza della causa a partire dall'effetto sia provvisoria. Una deduzione certa dell'effetto muovendo dalla sua causa è quin- di illegittima. Per l'empirismo, il principio di causaIità fun- ziona, ma non è del tutto affidabile. E analitico e soggettivo; dipende dalla nostra potenza di rappresentazione fenomena- le, dall'intendimento: non ha una vera ragione.

In realtà la scienza non funziona così. Essa è infatti proiet- tiva e anticipatrice. L'universalità che mette in opera non risul- ta dalle nostre sole abitudini. La scienza non si accontenta di rappresentare omogeneità formali o generali e di sistematiz- zarle. La regolarità tra i fatti le è essenziale, ma la risonanza soggettiva o l'abitudine non legittima affatto questa fiducia, poiché non fonda su nulla l'universale. L'empirismo non spie- ga il valore ontologico della scienza, né la sua efficacia sul reale.

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L'idealismo e h ragzone

L'empirismo si rivolge all'analisi e ricerca identità formdi tra gli omogenei, mentre l'idealismo si appIica alle sintesi rea- li ed eterogenee. Nell'empirismo la causdità è ridotta alI'iden- tira delia forma generale; nell'idealismo assume l'aspetto del- la sola necessità.

Tuttavia, a prima vista, la dottrina idealista sembra confon- dere il principio di ragione con quello di identità per il quale g ~ i ò che è è come è». In generale, Ia ragione di un ente è ciò che esso è, la sua «natura>>. Un tale principio non ha grande feconditi per gli enti sensibili sempre mobiIi, che non sono già pih ciò che sono non appena lo sono divenuti; ai contrario è molto fecondo per gli enti inteliigibili ed astratti. Dal monlen- to che l'identità è caratteristica dell'idea eterna, il principio di identità è considerato dalle dottrine idealiste come il fon- damento superiore o trascendente dei sensibile mobile. Ma que- sta identità non può essere una formalità generale; è caratte- ristica deli'atto delio spirito. L'idealità idealista è dinamica, una tensione tra enti eterogenei.

Abbiamo mostrato, trattando dell'idealismo, il motivo per cui questa dottrina poneva un fondamento che trascende il sen- sibile immediato. 11 primato dato d'esperienza del cogito for- nisce infatti criteri che legittimano il principio di identità. Ogni ente in atto è affine ai pensiero in atto. L'esperienza riflessi- va, in cui lo spirito riconosce la sua identità nei momento in cui si esprime fuori di sé, chiarisce la sintesi di ciò che è ete- rogeneo. Ciò che è diverso può essere unito dali'attività dona- trice di unità che è l'atto spirituaie. Secondo A. Forest, <<è proprio della coscienza non essere una cosa tra le cose, non poter mai essere esattamente percepita dail'esterno o come un oggetto; essa non è che quest'azione interna colta dalla rifles- sione su se stessa. In altre parole, quando abbiamo effettuato questo movimento che ci riconduce dall'essenza d ' a t to , dal- l'oggetto d'attività spirituale, siamo in presenza non piii di ma cosa data, ma di un'attività che dona, ed è questa la ragio- ne profonda per cui il pensiero potrà essere, nello stesso tem-

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po che il luogo o la misura, il principio delle cose>,2" Que- sta è la tesi idealista: accediamo al principio degli enti ritro- vandolo esercitato dalla ragione; la riflessione raccoglie nelle diverse configurazioni delio spirito le forme in cui questa iden- tità spirituale si afferma in maniera molteplice. I1 principio idealista è dunque dinamico, rnoIto più di quanto la forma astratta del principio di identità non lo avesse presentato.

Ma l'idealismo isola lo spirito nel suo orgoglio e disconosce la sua apertura ad una trascendenza assoluta. 11 ritorno dello spirito su di sé dà accesso alla sua identità dinamica, ma lo induce a pensare di essere all'origine di tutto il reale. Ne con- segue che I'unità spiritude è la prima condizione di ogni sin- tesi concreta. Per l'ideaIismo, lo spirito non è un ente tra gli altri, distinto in ceno agli altri enti omogenei solamente da qualche dignità secondaria. Se facesse numero con gli enti, se non se ne distinguesse che per gradi, lo spirito sarebbe sem- pre a distanza da sé, incapace di cogliere la sernpiicità della sua origine. Se esso è al principio di sé e di tutto, deve tra- scendere ogni «fatto», ogni «dato»; è un <<facendosi>>, un ndonandosi>>, un atto che non può essere un oggetto per altri atti, ma che, facendosi, fa essere gli enti in sé. Questa è la necessità, secondo l'idealismo. «È collocandosi da questo punto di vista che il pensiero si coglie esso stesso nel suo atto di riferimento e di relazione; da quel niomento, non rischia più di perdere la realtà dell'essere, poiché la sintesi è da sola capace di costituirne il fondamento» 15.

L'eccellenza deilo spirito nella sua semplicità ideale vieta di imporgli una «ragione» che esso non potrebbe essere. Mentre nessun altro ente non è da se stesso, Io spirito solo è di per sé; si dona a se stesso; è al principio di sé. L'ego del. cogito è un'attività prima e donatrice di essere. Il soggetto spirituale subisce, forse inevitabilmente, informazioni oggettive, ma ne crea il senso universale. I1 peso antologico degli enti è così misurato dallo spirito che concede a rutto di essere e di esse-

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re alla sua misura, idealmente pensabiIe. Lo spirito è la causa defl'intelligibilità perché ne è la sintesi originaria. Insomma, solo esso 2 e si riconosce in tutte le cose.

L'opposizione tra l'empirismo e l'idealismo non consiste nel fatto che il primo sarebbe oggettivo e il secondo soggettivo, ,-orne spesso si sostiene. Di fatto, mettono piuttosto entrambi l'stento su una diversa operazione della conoscenza. Del resto I'empiricm~ ha superato la pretesa che ha la scienza di essere puramente oggettiva. Per l'empirismo, le nostre impressioni

i fenomeni delie cose. Ma in realtà il senso degli enti, pure percepito, è a priori, ciò che l'empirismo non arriva a pensare. In quanto all'idealismo, che affida il principio allo spirito, lo chiude nella produzione di sé di per sé, vietandosi & riconoscere qualche consistenza a ciò che non è generato da questa munifica energia spirituale. Ma il <<fatto» degli enti reciste a questa creazione ideale. Che gli enti siano e siano ciò che sono non dipende assolutamente dallo spirito. In real- tà, gii enti concreti, orizzonte della produzione spirituale, non procedono dallo spirito.

La rivendicazione da parte dell'empirismo e dell'idealismo dello stesso principio di ragione, ma interpretato in maniera differente, invita a discernervi una dialettica che queste dot- trine riducono escludendosi a vicenda. L'analisi di questa dia- lettica permette di chiarire la natura della ragione. L'ernpiri- smo attira iI principio di ragione dal lato della causalità fat- tude, ma lo comprende alla luce dell'universalit à formale; l'idealismo spiega la ragione dell'identità di una sintesi idea- le, ma con la preoccupazione di mantenere la differenza tra 10 spirito originario e i suoi fenomeni. I1 principio di causali- tà, che tocca la realtà viva delle cose, e quello di identità, che si applica d a loro formalità, si incrociano così donandosi mutuamente i loro propri beni.

L'ernpirismo sembra il più concreto, ma è in fondo il più lontano dalla reaità degli enti unici; l'ideaiismo sembra il più astratto, però mantiene in sé il senso della differenza tra gli enti uniti dinamicamente. Nel caso dei fatti retti dalla causa-

efficiente e compresi dali'empiricmo, la causa produce I'in-

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telligibilità dell'effetto, perché lo penetra nella sua identità; la realtà causale è così compresa come una formalità universa- le. Ali'inverso, nell'idealismo, l'identità formale dello spirito è colta come un ideale inaccessibile, ma praticato necessaria- mente in un atto sintetico di presenza a sé nei suoi diversi fenomeni.

I1 principio di ragione congiunge l'identità e la differenza legando l'intelligibile analitico o l'universale e il reale sinteti- co o il necessario, l'empirismo e I'ideaIismo. I1 reale è intelli- gibile e I'intelligibile è reale; la formalità intelligibile concer- ne ragionevolmente l'ente reale e la causalità si riflette ragio- nevolmente sulla sua intelligibilità. Considerato in questa maniera, il principio di ragione ingloba le astrazioni prodotte dalla contrapposizione dell'empirismo e dell'idealismo. Vedre- mo nel capitolo seguente in che modo le scienze esercitano di fatto la pienezza di questo principio diaiettico di ragione.

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CAPITULO NONO

LE SCIENZE ESATTE

È proprio del principio primo essere il più universale. La sua universalità non è una generalità; non è colta al termine di un processo che abbandonerebbe le determinazioni del reale per trattenerne solo le forme generali. Ciò che distingue l'uni- versaIità dalla generalità è la presenza del tutto nelle sue par- ti, vale a dire una relazione dinamica di cui la necessità cate- gorica deila presenza dello spirito d a sua espressione è l'espe- rienza archetipica ed il modello. L'universalità del principio primo implica questa sorta di necessità in quanto penetra ogni ente, rispettandone I'unicità.

La metafisica orientata verso il principio assume così la for- ma di un'indagine sd'articolazione dell'universde e del neces- sario nell'esperienza umana. Ma non ha la prerogativa di una tale ricerca. Le scienze pretendono ugualmente di concludere i loro argomenti in maniera universale e necessaria, limitata- mente a1 loro ambito di azione. Senza dubbio, per una certa scolastica aristotelica, le scienze sarebbero determinate dai loro oggetti particolari, mentre la metafisica tenderebbe verso un principio che le sovrasterebbe tutte per la sua maggiore glo- balith; la metafisica, rispetto a tutte le altre scienze, sarebbe così la più universale. Ma la realtà della ricerca è diversa. Le scienze non sono separate le une dalle aitre come i loro ogget- ti particolari, il fiore, il numero, ecc. Fin dall'antichità, esse sono legate le une alle altre nella successione continua dei tre gradi di astrazione.

rx. LE SCLENZE ESATTL 263

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Questa sequenza organizza ed unifica un progetto intellet- tude che coinpreride la totalità degli enti. Si distinguono le astrazioni qualitative, quantitative ed una terza a cui per ora rinunciamo a dare un nome. A ciascuno di questi gradi corri- sponde un tipo di scienza teorica; prima la fisica per I'astrazio- ne qualitativa (astrazione dell'individualità dell'ente per non trat- tenerne che la forma qualitativa), poi la matematica per l'astra- zione quantitativa (astrazione deiia forma sensibiie dell'ente per non trattenerne che la forma quantitativa), ed in ultimo la meta- fisica per la terza astrazione (che elimina ogni materia, tanto sensibile quanto inteiligibiie, trattenendo solo una forma sepa- rata). Quest'ordinamento aristotelico non avviene senza ripe- tere la divisione platonica degli oggetti sensibili ed instabili, degli enti matematici eterni, ma molteplici, e delle idee sem- plici ed immutabili. Ma mentre in Platone questa distinzione riflette una successione di enti <<reali», in Aristotele rende conto del dinamismo della conoscenza. Lo Stagirita ricerca infatti il principio che classifica le scienze <<nelle particolarità proprie ai processi cognitivi grazie ai questi oggetti sono colti come distinti gh uni dadi altri, pur rispondendo forse ad una stessa ed unica re&» l. La distinzione aristotelica delle scienze non è fondata sulla pluralità degli oggetti studiati, ma sulla diversi- tà delle potenze dell'intelletto, il cui movimento totale è iUu- strato dal seguito delle astrazioni che possono applicarsi tutte ad un medesimo oggetto sensibile.

L'unità dell'intelletto fa sì che le tre astrazioni siano pre- senti fin dalla conoscenza più semplice; abbiamo potuto par- lare così della «semplice apprensione» deil'essere fin dd'espe- rienza sensibile. Ma la specificità delle astrazioni ha anche pro- dotto una specidizzazione delle scienze. La fisica concerne piut- tosto l'universalità del sensibile e la matematica la necessità deli'intelligibile; la metafisica chiarisce il lavoro proprio della ragione, che è di connettere questi due primi livelli della cono- scenza. Preciseremo adesso ciò che è la fisica, poi ciò che è la matematica; concluderemo in ultimo il capitolo mostrando come andare al di là di queste scienze.

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La fisica moderna apparentemente non ha più molta affini- t g con la fisica antica; questa, contemplativa, è infatti legata

forme ed alle qualità a posteriora, mentre quella, proietti- va, è deliberatamente strutturata da norme a priori e matema- tiche. Vorremmo mostrare che vi è tuttavia una continuità della fisica antica con la moderna. Esporremo dapprima il signifi- cato della prima astrazione classica; presenteremo in seguito la fisica aristotelica; metteremo in evidenza in ultimo le carat- teristiche più importanti della fisica moderna, in riferimento al nostro studio.

Per gli antichi la prima astrazione, quella che determina il campo della fisica, è qualitativa. In generale, si intende per aqualità» un'impressione sensibile che appartiene alla natura di un oggetto. Secondo Ie Categora*e di Aristotele 2 , la qualità è suscettibile di essere realizzata «pih o meno» nei fatti. Una bandiera verde può essere più o meno verde, verde bottiglia o verde pallido. Notiamo tuttavia che se le qualità accidentali sono in realtà «più o meno),, le qualità che appartengono ail'es- senza della sostanza non accettano una tale elasticità; un ogget- to è colorato o non lo è, senza termini intermedi. Questi due tipi di quaiità non sono tuttavia senza legami. La qualità acci- dentale determina infatti realmente la qualità sostanziale. La tonalità verde delle foglie dipende dalle stagioni e dagli indi- vidui, ma determina realmente il verde che appartiene a tale specie. L'astrazione qualitativa trascura l'individuo e conosce forme sensibili generali; libera la qualità generica di un ente, eliminando ciò che varia nell'applicazione particolare di que- sta qualità. Quest 'astrazione è connessa alla costruzione con- cettuale.

Si dice che la fisica aristotelica provenga da questa prima astrazione concettualizzante, ma sarà opportuno verificarlo. In

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conformità alla natura della scienza, essa tende verso un prin- cipio universale ed unificante; si applica ad una prima unifi- cazione degli enti inducendo le loro qualità generiche o Ie loro forme qualitative universali, dopo aver osservato un gran nume- ro di loro fatti. L'astrazione della qudità generica a partire dalle sue realizzazioni individuali pone deile forme purificate di ogni grado e varietà. Essa esercita così il destino fonda- mentale di ogni sapere: ricercare l'universalità che unifica e fa comprendere. Superando l'individuo, quest'astrazione ade- risce al movimento di universaiizzazione essenziale alla ricer- ca intellettuale e che già svolge il primo livello della conoscenza, la sensibilità. L'intelletto informato dai sensi sull'ente, mette da parte il carattere individuale del percepito e ne trattiene una forma che riconosce comune ad altri individui.

Si riduce spesso la fisica antica ai procedimenti dell'astra- zione qualitativa in cui la qualità è un concetto che rappre- senta un'apparenza sensibile generale. Ma Ia prima scienza teo- rica in realtà non è costituita dalla sola costruzione di una tale

Se la fisica fosse questo, sarebbe sufficiente proce- dere da generalità meno grandi a pih grandi, gerarchizzare così le qualità in specie che integrano gli individui, poi in generi che inglobano le specie, elevandosi così verso la qualità che, assolutamente generale, abbraccerebbe tutte le qualità prece- denti. L'individuo <{verde pallido» fa parte della specie <<ver- de» che appartiene al genere «coIorato», ecc. Ora, la fisica ari- stotelica non si preoccupa di costruire in questo modo una qua- lità prima. Le opere di Aristotele sulla natura, che siano Del cielo, la Meteorologia o Delkz generazione e della comzione, par- lano di movimenti e non di qualità. In greco la parola <<fisica» indica d'altronde ciò che nasce e cresce @huo"). La phusis di Aristotele è il principio del movimento; il trattato che ne porta il nome ne anaIizza l'essenza senza preoccuparsi di trovare la qualità più generale di tutte. Ma allora, come mai la fisica ha potuto essere caratterizzata dail'astrazione quditativa? Que- st'astrazione è senza dubbio un caso particolare di una logica più ampia che sostiene la fisica come scienza; per scoprirlo, occorre mettere in evidenza il senso dell'universalizzazione che Te è proprio.

266 ix. 1.e scrsxzr. ESATTE

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b) La fisica aristotelica

Per I'iIemorfismo aristotelico, la forma qualitativa non è ceparata dal sensibile come in Platone; infatti essa Io penetra

* I intelligibile. L'astrazione non trae una realtà al di fuori del concreto; considera solamente un aspetto particolare dd'ente sensibde, ma comune ad altri enti sensibili, mostrando cosj che I'individuo è aperto alla totalità del reale.

La Fisica di Aristotele non si preoccupa di precisare una gra- dazione delle qualità e di farvi corrispondere una gerarchia di enti. Certamente, il processo di astrazione pone delle forme che possono essere applicate a piG individui, trascurandone cia- scuno in particolare. Ma se la fisica non facesse che astrarre delle generalità a partire da& individui, conoscerebbe solo for- me e nient'altro. A meno di disconoscere il senso dell'ilemor- fismo, la fisica non può risultare dalla sola astrazione di taii

Non si può tuttavia negare che la fisica di Aristo- * A

-q$ $:y

tele astrae delle forme. Per comprendere ciò bisogna precisa- -,$% - g. re che cos'è una forma fisica. Per un discepolo di Platone, la

materia è opposta alia forma come l'inintelligibile indetermi- nnatoèappostoall'inteUigibiledeterminante.Ma,perArisro- tde, il sensibile, perché informato, è intrinsecamente intelli- gibile. Occorre dunque reinterpretare le opposizioni platoni- che facendo loro corrispondere non livelli diversi di enti, ma esigenze differenti della ragione. Così considerata, I'astrazio- ne qualitativa produce una forma che non è separata dalla materia, ma dall'individuo. Costruisce una generalità propor-

; zionata d'esigenza naturale dell'inteiietto. In tal modo è meno oggettiva che oggettivante; rappresenta l'ente accanto all'in- teiietto, essendo una forma intenzionale che l'intelletto coglie secondo Ia sua natura. La forma qualitativa non è un ente per

(;+ i sensi, ma è una presenza dell'ente proporzionata all'intellet- .&$ to, affinché esso possa comprendere «qualche cosa». Ma il reale non è soIamente proporzionato d'intelletto. La

'Q linguaclassicaèambigua.LaformaèinessaoraI'inte1ligibile determinante opposto alla materia indeterminata, ora ciò che si oppone all'individuo. L'individuo perii non è identico alla materia e dunque la sua forma non è identica all'intelligibjlità

rx LE ~ .T FI \ 'ZE LSATTE 267

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determinante. La forma dell'individuo è il principio della sua propria unità, mentre la forma della materia è il principio che determina la sua generalità proporzionata all'intelletto. Si distingue così la forma qualitativa che determina la materia in favore deU'intelIetto e la forma che, composta coii la mate- ria, costituisce I'ente concreto in atto.

[Epi~temolo~ia] [Ontologia] Forma intelligibiIe determinante Forma unificante (atto) Materia sensibile indeterminata Individuo sostanziale (potenza)

I1 senso della forma è complesso; i suoi contesti sono mol- teplici. La sua portata è epistemoIogica quando la si dice in generale; ha un significato ontologico se essa è iI principio del- l'unità dell'ente. La Fisica di Aristotele poggia sul rapporto epistemologico della forma e della materia dove la forma deter- mina la materia; ma la sua intenzione non è epistemologica. Le categorie della forma e della materia sono congiunte alla luce di una nuova coppia categoriale, quella dell'atto e della potenza; l'indeterminato è una potenza orientata verso ciò che la determina unendola al suo atto. Per I'epistemologia qiiest'at- to è anzitutto una forma intelligibile in cui l'intelletto ricono- sce i suoi oggetti; si parla allora dell'atto dell'essenza. Ma dal punto di vista ontologico, i! ruolo dell'atto è differente. Il pro- blema è di pensarlo in modo corretto. L'atto intellettuale è tuttavia talmente primo nell'eredità platonica che la scienza ne segue spontaneamente le indicazioni; essa divide I'ente in materia e forma intelligibile tratta dal concreto mediante l'astrazione qualit ativa. Tuttavia, la forma unificante compo- sta con la materia del concreto non è un intelligibiIe astratto. La fisica aristotelica cerca in realtà la forma che unifica il con- creto piuttosto che le sue qualità più generali; in ciò è una <(ricerca dell'essenza, della causa e dei principi»j non meno che la scienza moderna.

La forma che unifica un ente non si presenta al termine di un processo di astrazione a posterioff; è a priori, inerente agli enti. L'intelligibilità deIl'individuo non proviene da una for-

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ma astratta e separata, ma ddl'articolazione della sua causa e della sua causa formale. La sua essenza non È. una

forma tratta dalla sua concretezza, ma una struttura articola- ta e unificata, fatta di potenza (materia), di atto (forma) e di privazione; ne parleremo adesso.

La natura è un movimento, un passaggio da un punto ad un altro, un divenire. Le categorie dell'ente, quelle di mate- ria e di forma, sano specificate da quelle che Aristotele asse- gna al divenire, la potenza e l'arto. La sovrapposizione delle categorie deil'ente e del divenire, in cui la materia è potenza e la forma atto, fa comprendere la forma in un senso che ignora Iyastrazione quahativa. I1 movimento è infatti unificato sen- za che si possa disconoscere la diversità delle sue posizioni suc- cescive. I1 suo vettore procede da un inizio (la potenza) ad una fine (l'atto); è in ragione della Ioro differenza, ma questa non avrebbe alcun significato se non fosse unificata in esso. Le categorie del movimento uniscono e distinguono la forma e Ia materia che l'astrazione presentava solamente separandole.

Si può allora valutare l'originalità deii'ilemorfismo aris tote- lico. La materia non è ciò che il platonisrno considerava come pura assenza di attività, un puro ricettacolo da cui lo studio- so deve scostarsi per contemplare l'idea intelligibile. Essa è certamente passiva nel senso che riceve una forma, ma la riceve essendo predisposta positivamente dl'atto che la penetra. In tal modo ha «normaimente sull'agente una reazione che pu?, modificarne l'azione e con ciò anche l'effetto finale»:'. La materia è una potenza che offre una resistenza positiva alla sua forma o al suo atto; è dunque preformata, e non una mate- ria pura. Aristotele spiega in questo modo la produzione degli enti che non realizzano l'essenza della loro specie. Quando la forma è ricevuta in una materia che non è adeguatamente ad essa preformata, che ciò sia per accidente oppure no, ne risul- ta un ente aberrante, per esempio un vitello a cinque zampe. Nella nostra esperienza sensibile, non vi sono pure potenze; la potenza è già in atto.

rx. LE S(:TF,KZE ESATTL 269

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La potenza e l'atto si distinguono in ragione del dinami- smo del corpo in movimento più che del suo stato. Di fatto, l'ente sostanziale è in potenza e in atto; non è una pura poten- za, né un puro atto, ma, secondo Aristotele che non è privo di ottimismo, esso tende verso un atto sempre più puro. Che cosa si deve intendere con ciò? L'atto orienta il vettore in movimento; gìi dà il suo senso. Conoscendo l'atto, il movi- mento diventa dunque intelligibile. Ad Aristotele sembra inaf- ferrabile e incomprensibile ciò di cui non conosce il fine. Per questo motivo chiama l'atto *forma». Ma la forma di cui allo- ra si tratta non è una qudità astratta; & piuttosto un elemen- to della struttura che organizza la sostanza nel suo stato pre- sente, attualmente unificata in questa o quella maniera, in quanto orientata in questo o quel senso.

I1 movimento è articolato da due principi simultanei e con- trari, l'atta e la potenza. La loro sintesi è reca possibile dalla <<privazione» che segna la potenza. La privazione, essendo nega- tiva, non è una causa positiva. Grazie a questa categoria, Ari- stotele esce ddle impasses degli eleati; il conflitto tra l'essere (atto) e iI non-essere (potenza) nel divenire non è una Iotta tra due principi presenti e antagonisti. Per privazione si intende ciò che manca d a potenza perché essa sia I'atto finale, ciò che fa di essa una potenza in vista di tale atto. Essa chiama la potenza materiale in una maniera più finalistica ed armo- niosa che meccanicistica e conflittuale. Dona l'intelligenza del movimento naturale teso verso jl suo fine. La costruzione razio- nale della natura trova qui la sua chiave di volta. I1 fine è in un certo senso immanente al movimento per dirigerlo, ma sotto la forma negativa della privazione. La fisica di Aristotele toc- ca qui il suo punto estremo; accede a ciò che cercava, d a causa ultima degli enti, che non è la loro forma intelligibile, ma l'atto della loro essenza totale fatta di materia e di forma, demorfica.

La fisica aristotelica non è dunque solamente qualitativa o a po~terion. Essa integra tuttavia le qualità, ma interrogando- si sulie loro condizioni di apparizione, di scomparsa e di varia- zione di intensità. Per fare ciò, mette in opera le categorie di atto e di potenza il cui significato è a priori.

270 rx. LF, SCIENZE ESA'I'TE

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Sul finire del Medio Evo, ripiegando I'atto o il fine suUa forma intelligibile, la scolastica ha dato adito alle ambiguità di una fisica quaiitativa in cui la forma razionale veniva con- cepita come la causa dei fatti particolari; la causa delI'uomo jndivid1iale diventa cosi l'essenza deI17icuomo». D'altra parte, Aristotele lo proponeva lui stesso: <<il composto di materia e forma non è natura, ma è per natura; ad esempio, l'uomo. E la forma Ldefinibilel è più natura che la materia: ciascuna cosa, infatti, aliora si dice che è, quando sia in atto, piuttosto che quando sia in potenza}} S . Se la spiegazione della fisica esclu- de la privazione come ragione del movimento e non mantiene a questo effetto che la forma intelligibile e determinante, allora la forma qualitativa è sufficiente a determinare l'individuo. La spiegazione del divenire fisico è così sostituita da quella delle forme; il che Ia consegna all'idealisrno che identifica la causa degli enti con uno dei loro componenti, l'intelligibilità. Quando Cartesio ironizza sulle forme sostanzidi della scola- stica, ha di mira i prodotti di queste confusioni.

C) Lo fisica moderna

I moderni hanno reagito d a fisica astratta o a poskvioR della fine del Medio Evo, mettendo in evidenza le dimensioni a prio- t.s' che reca la matematica nella costriizione intellettuale della natura; per questo motivo hanno ricondotto Ia diversità feno- menale sotto l'unità deila misura. Per Cartesio le idee oscure provengono dai sensi; sono qualitative, mentre le idee chiare sono matematiche. La fisica, per essere scientifica, deve eli- minare Ie simditudini qualitative per ritrovare le sue cause e principi esatti, vale a dire matematici. La matematizzazione della natura assume dapprima l'aspetto di un ritmo metodico. La seconda parte del Discorso del metodo come la Regoh cin- que distinguono l'analisi e la sintesi. Questa distinzione, pro- priamente matematica, dominerà su tutti i procedimenti delle scienze. La legittimità della scomposizione analitica e della ricomposizione sintetica si fonda sull'evidenza intelligibile e

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non sulle informazioni del sensibile. La fisica cartesiana non si fida deile percezioni quotidiane dei sensi che sono a poste- rioti e dipendono daiia casualità degli incontri. La fisica moder- na, che vuole ottenere una certezza ferma, non cerca più di rappresentare il mondo dei molteplici sensibili.

Il cambiamento tra le fisiche antiche e moderne è reso evi- dente nel momento in cui si prendono in considerazione le loro prospettive sul movimento. Per la fisica qualitativa, i cui concetti sono derivati dall'esperienza sensibile stabdizzata in un atto finale che è una forma, l'universo è chiuso, perché il suo movimento tende verso un fine, l'atto dell'essenza for- male che r e ~ d e intelligibile. L'ideale antico è la stabiiità del mondo e la contemplazione di forme fisse. I1 movimento, per i greci, tende verso iI fine che gli dà d'ora in poi il suo orien- tamento, che ne appaga il desiderio c gli assicura la tranquilli- tà. I1 mondo antico è davvero <<finito}>, limitato a una forma prima.

Questi punti di vista sul movimento conducono ad alcune impasses. Se la privazione è soltanto provvisoria, se l'atto è la forma intelligibile, l'ente in movimento è un meno-ente opa- co in attesa della luce della sua forma intelligibiIe in cui sarà assorbito. La fisica delle forme qualitative in realtà non tiene conto del contingente; ne colloca il compimento in un fine nel quale la privazione materiale sarà colmata da una forma defi- nitiva. La fisica aristotebca evoca così d suo carattere astrat- to. Per essa il reale mobile non ha verità; lo studioso che cono- sce le essenze eterne può dunque esprimere un giudizio a modo suo. Queste posizioni non sono lontane da un idealismo radicale.

La matematica permette di trascurare meno la contingenza degli enti. Grazie alla matematizzazione, infatti, la natura è rappresentata come «uno spazio infinito in cui non vi è pih né ordine, né struttura gerarchica, né bellezza. Uno spazio pie- no di nulla, nel quale non vi sono movimenti; movimenti disor- ganizzati, movimenti senza scopi e senza fine»h. La scienza moderna lascia da parte l'atto ideale in cui gli antichi riassor-

272 rx. LE SCIENZE ESATTE

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hivano tutti i movimenti del mondo; alimentata dalla mate- -- rnatica che non vede più l'infinito come un'impossibilità razio- n&, ma come un dato stimolante, essa si sviluppa al di là delle forme costruite a posteriori. Dieci anni luce non rappresenta- no nulla; ma come conoscere oggi il mondo senza questo genere di categorie? La aquaJità>> della fisica antica è così resa inope- j-ante; non presenta più di che comprendere I'ente sensibile. 11 sensibile, per essere conosciuto veramente, non risulta più ddla percezione dei fenomeni.

Prendiamo l'esempio della pesantezza. È stata rappresenta- ta un tempo come una qualità rede dei corpi, una forza intrin- seca che li farebbe tendere verso il centro della terra. La fisi- ca antica riferiva così i corpi a un fine immobile, l'atto che pone un limite alia potenza. Ma esiste nel mondo un punto che sia di questo genere? Anche il centro deila terra è in movi- mento, in relazione all'insieme degli altri pianeti e delle stel- le. La legge moderna del movimento è piuttosto l'inerzia, secondo la quale ogni movimento prosegue il suo corso in maniera rettilinea finché sia costretto a cambiarlo sotto la pres- sione di qualche forza; un corpo in movimento proseguirà eter- namente la sua strada retta se nulla viene ad impedirla. Quando il mobile A incontra il mobile B e si urtano così reciproca- mente, qual è stata la causa prima della loro mutua deviazio- ne? Per Leibniz, il movimento «non è una cosa interamente reale, e quando diversi corpi cambiano posizione tra loro, non è possibile determinare daUa sola considerazione di questi muta- menti a quale di loro il movimento o la quiete dev'essere attri- buito» 7. I1 rapporto tra i mobiIi è semplicemente in relazio- ne a1 loro movimento rispettivo e non ad un segno di ricono- scimento comune determinabile. La fisica moderna non tiene piU in alcun conto i punti di riferimento antichi; non com- prende più ii mondo come se tendesse verso un fine. L'ap- propriazione matematica degli enti ha reso possibile il mecca- nicismo del XVII secolo. La puntuale regolarità dei movimenti naturali è stata creata da questo gande matematico che è il Dio di Leibniz. La matematica ha permesso di liberare la scien-

G.W. I , t .r i i~rz, I.e!ire au I.awdgraue de Hesse-RciprfEbr, p. 414.

rx. r . ~ S(:IENZE ESATI'E 273

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za dall'evidenza sensibile; ha così insediato il suo dominio nelia necessità che regge w priori iI nostro mondo.

Tuttavia, la fisica matematica dev'essere oggi ripensata. La precisione meccanica di un calcolo senza resti non è piìi alla portata della scienza. Le esperienze di de Broglie sulla luce o le relazioni di indeterminazione di Heisenberg fanno vede- re che l'ideale scientifico non risiede più nell'esatta formula chiara e distinta. La scienza è divenuta statistica. Non è tut- to rigorosamente meccanico nel cosmos, che conosce spazi di libertà

2. La matematica

La matematica è la regina delle scienze moderne. La sua sto- ria è tuttavia molto antica. La seconda astrazione aristotelica, chiamata «quantitativai>, determina il suo campo. Secondo la Metafisica Y, la matematica considera alcuni enti che, pur non sussistendo separati dalla materia quantificata, possono esse- re concepiti come se Io fossero. Tradizionalmente questi enti sono di due specie: la quantità discreta e la quantità conti- nua. La quantità discreta è aritmetica; ii numero 1 ne è la misu- ra moltiplicata nella serie dei numeri interi. Questa quantità esprime l'unità sostanziale il cui principio, a primi, non è una conclusione dell'esperienza. La quantità continua è geometri- ca; significa una grandezza, vale a dire relazioni, anzitutto spa- ziali o rappresentate tra enti o unità discrete. La legge mate- matica che riferisce alla sua forma diversi elementi in sé indi- pendenti gli uni dagli altri ne è il tipo; questa quantità $ ugual- mente a pP.e'ori, ma per ragioni più inteUettuaIi che sostanzidi.

Descriveremo dapprima l'astrazione quantitativa ponendo- la a confronto con l'astrazione qualitativa; insisteremo poi sul carattere a priori della matematica; in ultimo parleremo del- l'importanza teorica delI'assiomatica contemporanea.

5 Cfr. I. PKIGOGYNF et I . STEYLEKS, Entw & trmpx et I'étemiié. ARISTOTELE, Mefufisicc VI 1, 1021ia.

274 rx. LE SC~ENZE ESAT'I'E

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cl) L 'astrazione quantztatiua

Si presenta spesso l'astrazione quantitativa come se conti- nuasse il processo avviato al momento dell'astrazione qualita- tiva; essa prenderebbe in considerazione di questo primo risul- ~ a t o già astratto un aspetto ancora più astratto. Come I'astra- zione qualitativa separava la forma sensibile universale dalla materia individuale, così l'astrazione quantitativa separereb- be da questa forma sensibile il suo aspetto intelligibile. L'astra- zione matematica spiegherebbe cosl l'intelligibilità delle qua- lità formali unificandole più in alto. In realtà, il dinamismo intellettuale verso l'unità induce a sussumere le diverse forme sensibili in un'unità superiore. La molteplicità delle qualità non lo soddisfa; essendo discontinue, non hanno in se stesse la pos- sibilità di essere collegate. Secondo la gerarchia aristotelica, la matematica è superiore alla fisica perché pih universale. La fisica moderna sottostà ad una stessa esigenza; la mathesis uni- uetsalis è in grado di sintetizzare gli elementi della fisica ren- dendoli omogenei sotto il numero.

Tuttavia, la continuità da un'as trazione all' altra dal punto di vista dell'unità non può nascondere la loro differenza. Per- ché la matematica possa unificare gli elementi disgiunti in fisi- ca, occorrerebbe che il numero fosse omogeneo alla qualità; ma questo non avviene: la qualità è a posteriori e la quantità è a piori. Le differenti astrazioni non devono essere concepi- te come se si andasse dall'una all'altra escludendo sempre di più le differenze prima tra gIi individui e poi tra le qualità astratte, come se l'astrazione matematica risultasse anch'essa da un processo a posteriori iniziato altrove. Nella successione delle astrazioni, comprese secondo l'ordine che impone la natu- ra dell'intelligenza, la matematica segue senza dubbio la fisi- ca, poiché ogni conoscenza segue l'esperienza sensibile. Tut- tavia, l'ordine dell'esperienza deila conoscenza è inverso a qud- lo dei principi della conoscenza; La matematica non dipende da nessuna esperienza sensibile che, al contrario, dipende da essa per essere significante; non vi è n d a in questa di a poste- rioti, ma tutto vi è puramente a pra'ori. Quando l'astrazione

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qualitativa universalizza per unificare, esercita un'esigenza che appartiene alla matematica come tale.

Al termine dell'astrazione qualitativa, l'intelletto accogbe del- le forme. Un tale accogIimento non avrebbe alcun senso se l'intelletto non sapesse a priori che queste forme valgono per l'individuo e che vi sono tra gli individui e le forme relazioni diverse dalla separazione dell'individuo e delI'universale. La fisica qualitativa sarebbe molto povera se il suo ambito fosse definito soltanto dalle forme ricavate dall'esperienza e senza riferimento al reale concreto. Quando lo S t agirita distingue la potenza e l'atto, non parla di qualità astratte; la dialettica del movimento permette piuttosto di congiungere neila sostanza una diversità di apparenze successive e mobili, di comprende- re così una relazione dinamica tra I'attuale e il fine, o una necessità presente nel cuore del reale. Ne consegue che non si può escludere che la sostanza singola sia espressa corretta- mente attraverso forme universali.

La dialettica quantitativa non subentra dunque semplicemen- te all'astrazione qualitativa. In realtà, la riflessione degli anti- chi va dalla qualità alla quantità, chiarendo le condizioni di possibilità deiia prima piuttosto che impoverendo la forma sen- sibile in un pura intelligibile. La condizione di possibilità del- la forma sensibile unificata, materia intelligibile per il pensie- ro, è la quantità. L'astrazione qualitativa a posterio?i suppone dunque l'astrazione quantitativa a prio i . Certamente, la per- cezione riconosce al sensibile l'unità delle sue qualità diverse e l'unità propria della sua sostanza. Ma questa unità è già arit- metica; è riconosciuta e non costruita come una forma quali- tativa. Ora, questa unità 6 in pericolo nell'esperienza; il sen- sibile appare, si modifica e scompare. La regolarità del movi- mento, nonostante la diversità indefinita delle sue applicazio- ni, si impone allora come una necessità per l'intelletto. Se que- sta regolarità non fosse un diritto a prPari, mai la fisica potrebbe fidarsi dell'esperienza e costruire un discorso valido dai pun- to di vista scientifico. I1 diritto alla continuità ha fatto elabo- rare alla fisica moderna le categorie della forza e della massa mentre la fisica cIassica aveva definito nei particoiari quelle dell'atto e della potenza. I1 sensibile mobile riceve così una

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P struttura intelligibile che Io misura nella continuità o stabili- tà. L'unità discreta deiia sostanza sensibile e I'unit à continua della iegge fisica sono entrambe a pio^, condizioni della fisi- ca antica e moderna.

b) L. 'a priori m~~fematico

L'intelligenza a pnon deil'unità, messa a profitto dall'osser- vazione sensibile, risiede in una memoria più metafisica che psicologica. Abbiamo già evocato l'unità a priori del sensibile quando abbiamo parlato della sensibilità; mediteremo adesso sull'unità geometrica. Non solamente l'unità del sensibile, la

unità discreta o aritmetica è I'espressione tipica, ma anco- ra le relazioni tra i sensibili, la cui unità continua o geometri- ca è I'articolazione scientifica, sono fondate a priori. Tutta- via, I'apriorità di queste unità è propria di ciascuna. L'unità del sensibile appartiene a ciò che è all'origine deile nostre per- cezioni sensate; l'unità geometrica ha un'origine diversa da quella degli enti. Quando delle unità particolari entrano in una legge scientifica che sistematima il loro insieme stabilendone i rapporti necessari, sono accolte in un'uhità superiore che ne segnala Ia convenienza dal suo punto di vista. La trasforma- zione di ogni sensibile in un numero o segno algebrico favori- sce questa omogeneità che tuttavia non nega la tensione che si stabilisce tra gIi elementi riuniti. Questa tensione è infatti costitutiva delle relazioni o della Iegge matematica. La legge superiore ritiene che ciascuno dei suoi elementi sia relativo agli altri secondo una necessità di cui essa è la sola ragione. La legge definisce allora i suoi termini sulla base della loro tensione in sé. Non trascura dunque la Ioro differenza che com- prende tuttavia in una relazione necessaria, l'unità a priori che, pur supponendola, supera l'unicità propria del numero o del segno.

La diversità è mantenuta nella legge scientifica; è la condi- zione della sua intelligibilità. Se tutti i termini vi fossero con- fusi, la legge non avrebbe alcun significato. I termini delIa Iegge sono necessariamente diversi dal punto di vista strutturale, ben- ché reciprocamente connessi. Per questo motivo, la legge non

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è analitica, ma sintetica. E fondata altrove che nell'esperien- za a posteriori e rischiosa dei suoi termini. E sintetica a priori e indica un'unità specificamente intelligibile, alia quale il sen- sibile non può dare una conferma definitiva.

La legge matematica è w priori nei riguardi di ogni esperienza possibile. La legge di ricorrenza, che fa riferimento ad un infi- nito matematico intelligibilmente possibile, lo manifesta. San- t'Agostino ne dà una versione che riassume così: «In tutti gli altri numeri scoprirai la norma che si verifica nella prima coppia di numeri, cioè neli'uno e nel due, e cioè di quante unità è un determinato numero inizialmente, di tante dopo di esso è il suo doppio* lo. Questa legge di ricorrenza è stata ripresa da Pascal. Poincaré vi vedeva la pura espressione della potenza dello spirito <<che si sa capace di concepire la ripetizione inde- finita di uno stesso atto fin da quando quest'atto è una volta possibile» I l . Secondo questa legge, se il teorema <<X>> è vero per il numero <<O» e per il numero intero «N» e se è vero anche per i! numero «N + I», è vero per tutta la serie dei numeri interi. Ora, questa serie non può essere totalmente percorsa; si può sempre aggiungere 1 numero più grande al quale ci si sarà fermati. La verità del teorema crX» valido mediante ricorrenza è dunque teoricamente certa, ma non verificabile praticamente. Se ne conclude che la verità deiia legge di ricor- renza è a priori. Senza dubbio, questa legge è affine all'indu- zione qualitativa; prendiamo infatti le mosse da alcuni casi par- ticolari e risaliamo similmente verso una legge che varrà per tutti i casi dello stesso genere. Ma nel momento in cui l'indu- zione qualitativa non conduce ad un'evidenza assoluta, poi- ché ogni concetto può essere affinato e precisato, lo spirito sa con la maggiore certezza che la sua legge vale senza che alcun contesto nuovo potrà affinarla o modificarla. Importa notare che una legge matematica di questo genere è in grado di anticipare tutti i casi ai quali potrà essere applicata; questo aspetto è del tutto caratteristico della fisica moderna.

~"GOSTLNU, Il libero arbiko I1 23. H . Por'rcmÉ, la science et I'bypothèse, pp. 23-24

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L'apriorità della matematica concerne i suoi termini, I'uni- aritmetica, ma soprattutto la sua operatività. G. Bachelard

proponeva questa bella form~la: nell'operazione matematica < < j ~ delle entità domina la loro ncrtzlrw e [...l I'essenza è contemporanea alla relazione* 12. Su questa base si costruirà innanzitutto l'algebra in cui i termini non hanno alcun signi- ficato al di fuori della loro funzione proposizionale. I sistemi formali attudmente in uso radicalizzano questa prospettiva. ~ f i elementi che compongono i loro assiomi sono infatti deter- minati dalla loro funzione in questi assiomi e nell'insieme delle leggi in cui intervengono. 11 grado di verità di un sistema for- male non dipende dall'evidenza dei suoi elementi isolati, ma dd'operatività che esercitano tra questi elementi.

Si è voluto vedere nell'assiomatica il. coronamento del lavo- ro matematico; e se la matematica fonda la fisica, I'assiomati- ca ne coronerebbe anche la razionalità. L'assiomatica sarebbe cosl al fondamento di ogni sapere, tanto pih che si tenterà di identificare le matematiche con gli assiomi della logica; si può cercare così di ricondurre i grandi principi della logica mag- giore, la non-contraddizione, il terzo escluso, l'implicazione ecc. ad alcuni assiomi primi. Questo sforzo prodigioso, in cui l'in- telligenza sembra toccare la punta estrema delle sue possibili- tà e portare a compimento la sua ricerca sulI'unità, deve tut- tavia essere accuratamente analizzato. Per farlo, adotteremo la descrizione che J. Ladrière ne dà. L'assiomatica è un siste- ma formato da un insieme di proposizioni con elementi e ope- razioni strettamente definiti, insieme che non dev'essere giu- stificato diversamente che da se stesso.

a11 formdismo stesso der'essere compreso come sistema. E lo scopo C ~ E

persegue l'analisi cornbinatoria t in definitiva di ricostituire, a partire da operazioni tanto elementari quanto sia possibile, le operazioni più complesse che sono immanenti aiie investigazioni formali più diverse e così, a poco a poco, dilucidare i meccanismi che permettono la cosrru- zione formale piii generale. AUo stato presente delie ricerche, non dispo- niamo di un sistema unico nel quale potrebbero trovare posto tutte Ie discipline matematiche formali conosciute. Al contrario, assistiamo ad una straordinaria moltiplicazione dei sistemi. Ma tra questi differenti

rx. LE SCIWZE ESATTE 2 77

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sistemi ci sono dei varchi che ci fanno presentire che essi appartengo- no tutti ad un medesimo ordine di realtà. E se non è forse wossibilc costruire un giorno un sistema inglobante che farebbe apparire concre- tamente l'unità del mondo iormalc, è lecito pensare questa u n i t i come condizione immanente ai sistemi (parziali) fin qui costituiti. I sistemi realizzati costituiscono soltanto prelievi limitati in un campo che ci appa- re infinito e che si riotrebbc chiamare il camno formale assoluto. in opposizione ai iorrnalismi esistenti che rappresentano solo una parte delle possibilità della formalizzazione e sono per conseguenza segnati da relatività,, 13.

C) Il progetto assiomatico

Prima di analizzare la portata dell'assiomatica, è interessante ricordare il suo significato, vedere a quale progetto risponde. L' assiornatica è una combinatoria. Si intende per combinato- ria un sistema di regole che permettono di collegare tra loro alcuni sotto-sistemi autonomi. Essa organizza coci il passag- gio da un sistema ad un altro, senza tuttavia trarre la sua legit- timità da ciò che appartiene a questi sotto-sistemi; Ia combi- natoria è infatti a priori. L'idea di una combinatoria è nata con la «caratteristica combinatoria,, di R. LuIlo. Leibniz ne ha rinnovato la proposta nella sua Disseratio de arte combina- toricr del 1666; riteneva che gli elementi del mondo possano essere tradotti in segni o caratteri dgebrici in modo tale che le loro relazioni siano espresse in enti purificati da tutte le ambiguità provenienti dai nostri concetti generali. Suppone- va perciò che I'universo fosse riducibile ad un insieme di mondi simili alle lettere dell'alfabeto; il sistema combinatorio è una frase composta da queste lettere. Leibniz voleva ricondurre così le nostre proposizioni letterarie a forme matematiche, ridu- cibili a loro volta a segni di proposizioni ancora pih formali. L'avvento della pace universale, cara al filosofo di Hannover, sarebbe a prezzo di questo lavoro di riduzione.

I1 progetto Ieibniziano ebbe un'eredità moderna. Nel suo Beg~ffsscschrift del 1879, Frege cercava un modello capace di mettere in evidenza le strutture che il pensiero esercita in tutte

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le sue formulazioni. Similmente numerose ricerche di questo secolo hanno tentato di mettere in forma matematica le ope- *azioni comuni del pensiero. Per i Principia Mathematica di B. Russeil e A.N. Whitehead (1910), ad esempio, la logica, alla

si riduceva la matematica, è veramente la lingua univer- sale; negli anni successivi ai 1964, nei suoi Mythokogiques, C1. ~évi-Strauss ha tentato di trascrivere in forma matematica ciò che giudicava fossero strutture comuni a diversi miti.

Queste ricerche conducono d'idea che combinando diver- si sistemi assiomatici autonomi si potrebbe stabiiire un mini- mo di assiomi che abbraccino la totalità delIa nostra esperien- za. Si raggiungerebbe così un sistema a priori originario, il sogno di ogni intelligenza umana.

Questa prospettiva suppone che l'evidenza sensibile non sia più indispensabile per lo sviluppo efficace deIla scietlza. E di fatto «i logici moderni [.. .] ritengono di dover prescindere dai punto di vista dell'evidenza. Alcune ragioni storiche che con- dussero aI prevalere di questo atteggiamento esistono, ed alme- no due sono anche ben note: lo sviluppo di geometrie non euclidee verso la metà del secoIo scorso mostrò che è possibi- le costruire geometrie coerenti (nel senso che non si è riusciti a dedurre in esse delle contraddizioni) anche muovendo da sistemi di assiomi ai quali il senso comune parrebbe negare ogni evidenza (ad esempio contenenti assiomi che contraddi- cono il postulato euclideo dell'unicità della parallela); in secon- do luogo i lavori di sistemazione concettuale operati nell'arn- bito delle matematiche mostrarono che certi paradossi e certe difficoltà [dei sistemi classici] derivavano dall'aver troppo fidato su nozioni I.. .] di prima evidenza>> 1 4 .

La costruzione dei sistemi assiomatici dipende dalla creati- vità del teorico. Non ha alcun appoggio nelle nostre rappre- sentazioni del sensibile. Segue la sola necessità della coerenza e la volontà di non mantenere che ii più piccolo numero pos- sibiIe di assiomi. L'evidenza di un principio primo ed unico non è pih ritenuta originaria. L'assiomatica tenta soltanto di organizzare un sistema, la cui coerenza delle prime proposi-

l 4 Ev. AGAZZI, I n t r o d t t ~ i ~ n ~ di probkmi deU'urriumaticu, pp. 12-13.

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zioni possa irradiarsi il pih largamente possibile; il criterio della sua verità è la semplicità dei suoi principi e l'abbondanza del- le conclusioni che se ne possono ricavare. I teorici formulano così alcuni assiomi e delimitano un piccolo numero di leggi di funzionamento; in seguito, muovendo dagli assiomi e con l'aiuto di queste leggi, deducono delle proposizioni che potran- no diventare sia definizioni, sia nuove funzioni operatorie. A poco a poco, l'assiomatica si propone di spiegare una massa sempre più importante di fatti, in modo tale che, alla fine <<il quadro delle possibilità di esperienza [sarà] d o r a il quadro delle assiornatiche* 15.

La differenza tra la geometria descrittiva e la geometria ana- litica mostra iI sopravvento di quest'ultima in rapporto aila prima. La prima, erede di Euclide, è legata alj'intuizione del- le figure; la seconda, al contrario, sceglie la matematica come metodo di ideazione. Non è che la geometria intuitiva man- chi di coerenza, ma è costruita al di fuori della pura necessità razionale. La coscienza che il pensiero scientifico ottiene pro- gressivamente dai suoi procedimenti e dall'originalirà funzio- nale dei suoi a priori gli rivela la sua libertà nei confronti del- !'intuizione sensibile. Nel xm secolo, con la matematizzazio- ne della fisica o la riduzione dei fatti al numero, gli studiosi di scienze traducono le osservazioni in formule matematiche; queste formule vanno poi a sostituirsi alla descrizione diretta degli enti, esprimendo felicemente ed agevolmente la regola- rità del reale. Da quel momento, la matematica rivendica il dominio sulla realta.

Numerosi sono attualmente gli studi s d a problematica della ricerca scientifica e sul suo adeguarsi ai tempi moderni; pen- siamo ai lavori di Kuhn o di Popper. I modelli a priori orien- tano l'indagine del fisico. L'importanza dell'ipotesi teorica, sciolta dall'evidenza sensibile ed d a cui creazione sovrinten- de l'immaginario, diventa manifesta a tai punto che si tenta nel xm secolo di <{provare» il quinto postulato di Euclide, quel- lo che non si era ancora potuto «coordinare d'insieme dei teo-

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remi dimostrati>> Per risolvere il problema, ci si propone di ridurre questo postulato allo statuto del semplice teorema. Con una variazione rapida e violenta dell'evidenza, si vorrà duri- que stabilirne la prova.

~obatchewski cercò di dimostrare questo quinto postulato di Euclide ponendo un assioma senza significato sensibile: da un punto situato fuori di una retta si può condurre un'infini- tà di parallele a questa retta. Per l'autore, se si giunge a dimo- strare che questo assioma conduce ad una contraddizione, si dovrà roncludere alla verità del suo contraddittorio; il postu- Iato di Euclide sarà d o r a provato ed il problema della sua coordinazione risolto. Ora Lobatchewski non arriva a dimo- strare che il suo assioma conduce ad una contraddizione. Non ci conclude dunque nulla per quanto si riferisce allo statuto del quinto postulato, ma si scopre la potenza inventiva del- I'assiomatica capace di un rigore totale senza ricorrere all'in- tuizione sensibile.

Riemann approfondisce la ricerca; pone come postulato che la somma degli angoli di un triangolo è maggiore di 180' gra- di. Crea cosi una geometria per la quale lo spazio non è piu un piano, ma una curva. Da questo assioma segue che, per un punto esterno ad una retta, non si può far passare nessuna parallela a questa retta; vi è dunque una geometria non-euclidea che Hilbert, uno dei fondatori dell'assiomatica, dimostra non- coqtraddit toria ".

E ceao che l'assiomatica contemporanea sceglie come assiorni formule che non hanno aicuna evidenza, a condizione che que- sti assiomi siano coerenti con gli altri assiomi scelti nel siste- ma di base e che permettano di giungere alie conseguenze più ampie e più precise, sempre senza contraddizioni. In pratica, quella che si ritiene la conclusione di un teorema in un siste- ma assiomatico può diventare un assioma in un altro; I'eccel- lenza delia scelta dipende esclusivamente ddla fecondità del sistema, come avviene per l'astronomia, cosi soggetta oggi dle opzioni geometriche dell'dtimo secolo. Elaborando questi siste- mi, il pensiero esulta e raggiunge il massimo cui può aspirare, ciò che unifica universalmente e necessariamente.

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3. La scienza e la riflessione

L'assiomatica vuoIe raggiungere il principio primo, univer- sale e necessario, esprimendo ciò che vi è di pih semplice nel- la riflessione, come vedremo in un prirno punto. Mostreremo in un secondo punto che la sua riflessività è incompleta. Con- cluderemo cercando un cammino nuovo verso il principio, met- tendo Ie scienze in rapporto le une alle altre, secondo le loro strutture peculiari.

a) La di~iuersiti degli assiomi

La trascendenza dell'operazione assiomatica in rapporto ad ogni intuizione sensibile è radicale se il sistema originario è fondato su se stesso o è autosufficiente. Per questo occorre che un assioma ne significhi l'auto-produzione; è dunque ideal- mente enunciata in un assioma, la cui intelligibilità è c<rigoro- samente contemporanea alla sua effettuazione)) 1 8 . Non tutte le operazioni possono essere cos'i illuminanti. La redizzazione assiornatica è essa stessa sottomessa a norme che le danno un senso. E sensata quando esprime l'atto dell'intelletto. Gli assio- mi operatori sono espressioni dell'intuizione che l'intelligenza ha della propria operatività. La loro applicazione <<si accom- pagna ad ogni istante ad un'appropriazione diretta della natura degli atti posti»17. Riconosciamo qui la stessa struttura che vi è tra l'atto (exercite) e la sua espressione (rigmte). L'assiorna- tica s i presenta in tal modo come l'espressione archetipica del- l'atto deit'inteiletto.

L'originalità degli assiomi operatori conduce ad affermare la loro indipendenza e la loro trascendenza in rapporto all'in- tuizione sensibile. Essi non sono senza poter essere appIicati d'esperienza sensibile, ma non è questa I'origine del loro senso. L'applicazione del principio attesta la sua libera energia. Si conclude che «in quanto iI pensiero puro è sciolto da ogni oggetto, ed esso non mette in opera un'intuizione diversa da

284 1X. T-E SCIFNZE ESATTE

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quella delle attività algoritmiche, può essere detto a priori. E in quanto a p ~ o r i , ha un carattere demiurgico, poiché abbrac- cia per cosi dire nella totalità che esso è l'insieme di tutte le

di costruzione» Ma un assioma «operatorio)>, per operare, dev'essere appli-

cato a ciò che non è. In pratica, gli studiosi di assiomatica lo utiiizzano applicandolo ad altri assiomi chiamati «definito- ri),. Perché il sistema assiomatico sia interamente unificato, occorrerebbe che gli assiomi definitori fossero omogenei agli assiomi operatori. Ora questa omogeneità non è realizzabde. Le assiornatiche non possono essere perfettamente chiuse in una semplicità assoluta. I loro assiomi operatori non sono inte- grabili ai loro assiomi definitori. L' assiomatica potrebbe pre- tendere di essere il discorso all'origine di tutt i i discorsi di scienza se spiegasse a priori il principio a pre'oi. Ma non ne è capace. Di fatto, i sistemi assiomatici sono formati da una pluralità di assiomi irriducibili gli uni agli aitri, ma tutti neces- sari in vista della fecondità che se ne attende. La pluralità degli assiomi impone praticamente Ia non-semplicità del sistema. Si dirà tuttavia che questo limite proviene dallo stato attuale della ricerca e che si arriverà un giorno dl'assioma originario. Ma questa pretesa è illusoria anche per ragioni di diritto. Questi assiomi sono o definitori o operatori, e tale diversità è insor- montabile. In che modo gli assiomi operatori potrebbero gene- rare definizioni? Se il sistema è perfettamente omogeneo, asso- lutamente auto-fondato, è destinato ad auto-prodursi. Ma un assioma di operazioni che non avesse definizioni preliminari s d e quali applicarsi non funzionerebbe; non avrebbe nulia sul quale essere applicato. Accade qui come tra il signate e l'exer- cite; senza espressione non vi è esercizio.

Poiché la dualità è essenziale tra gli assiomi tematici e gli assiomi operatori, l'auto-produzione del sistema non può essere perfetta. Ma, proporrà il sostenitore dell' assiomatica ideale, la sintesi dell'operazione e della definizione potrebbe pure esse- re fondata su un'operazione pih alta? No. La distinzione tra l'operazione e ii luogo della sua applicazione rimane ancora

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qui. Si sarà d o r a indotti a cercare per questo nuovo sistema un fondamento ancora più elevato, in una metalogica, poi in una meta-meta-logica, ad a'nfinitam, senza che mai scompaia la dualità della definizione e dell'operazione.

In fondo, questo processo è infinito anche per tutto ii tem- po che si esige di ricondurre in un sistema l'interezza di ciò che lo fonda. Ma se il fondamento non è sistematico, non potremo noi venir fuori dal problema? Di fatto il fondamento dell'assiomatica non può essere differito indefinitamente; fun- ziona effettivamente neUa ricerca, e in modo del tutto premi- nente. Ora, siccome non può essere un eIemento del sistema, ma dev'essere in esso presente, è ciò che unisce a priori I'ope- razione e la definizione. I1 fondamento deila matematica è interno alla matematica come ciò che essa esercita, ma che non è in grado di padroneggiare. E inutile ricorrere ad una meta- matematica che bisognerebbe in seguito fondare in una meta- meta-matematica, ad infinitum. Questo rinvio d'infinito, che obbhga a rinunciare a qualsiasi fondazione matematica è radi- caimente superato e fondato in ciò che la matematica pratica, ma non integra. I1 fondamento della matematica non è mate- matico.

6) 11 limite dell'assiomtica

A fondamento dell'esigenza di auto-fondazione del sistema assiomatico, noi riconosciamo l'unità a PYZ'O~ dell'inteliigibile; una tale unità è postulata perché ogni proposizione scientifica possa essere veramente efficace. Ora, una proposizione senza elementi e senza relazioni interne non esiste. L'unità intelli- gibile incontra dunque la diversità di questi elementi e la sua potenza di sintesi. Al di fuori di ciò, lo sforzo scientifico di coerenza non ha alcun senso. Ma questo incontro non è acces- sibile per la scienza assiomatica; anche se riconosciamo l'idea- le, messo dmeno in esercizio nell'attività scientifica, di ciò che J. Ladrière ha chiamato il «campo formale assolutor>, questo ideale non può essere realizzato nell'assiomatica. La distanza è insormontabiie tra la tesi e l'operazione. Gode1 l'ha mostra- to nel suo articolo «Uber forma1 unentschiedbare Satze der

286 xx. LE SCIENZE ESATE

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Pincipia mathematicd und verwandter Systeme I» del 1931 sui limiti del formalismo.

d e g l i ultimi due secoli il metodo assiomatico ha incominciato ad esse- re usato a fondo con una potenza e un vigore sempre crescenti. [. .]. Si è così creato un diffuso convincimento che tacitamente suppone che ogni settore del sapere matematico possa essere corredato con un insie- me di assiomi sufficienti per sviluppare sistematicamente l'infinita tota- lità delle proposizioni vere nell'ambito di una data area di ricerca. 11 Iworo di Gode1 ha dimostrato che questa ipotesi è insostenibile Egli offrì ai matematici la stupefacente e mahnconica conclusione che il meto- do assiomatico possiede certe limitazioni intrinseche, che escludono la possibilità di una piena assiomatizzazione anche per l'ordinaria aritme- tica degli interi. Vi è di più: egli ha dimostrato che è impossibde pro- vare la coerenza logica interna di una classe molto ampia di sistemi deduttivi (per esempio, l'aritmetica elementare), a meno che non si adot- tino principi di ragionamento così complessi che la loro coerenza inter- na è dubbia come quella dei sistemi stessi. Alla luce di tali conclusioni, si può vedere come non sia raggiungibile alcuna sistemazione iinale di

g i L>

molte aree importanti delle matematiche, e come non si possa fornire L-.- alcuna garanzia infallibile che molti rami significativi del sapere matc- h- matico siano completamente esenti da contraddizioni interncii2'. $* 4 5- Il teorema di Gode1 ha messo fine al le pretese di auto-

fondazione dell'assiomatica. In seguito a questo scacco, la ricer- ca ha rinunciato ad esprimere ii principio primo per essere piU attenta al suo esercizio effettivo nei diversi campi del sapere. L'unità ultima non può consistere in un assiorna, ma è eserci- tata nelle nostre molteplici affermazioni. Da qui deriva anche l'importanza accordata oggi alla filosofia pragmatica, benché questa, attraverso gli espedienti della fiiosofia del linguaggio, esiti ad abbandonare il mondo dell'analisi pura. Tuttavia, l'es- senza sintetica del fondamento è divenuta manifesta, ciò che rende problematico i1 suo approccio analitico. La riflessione filosofica che articola l'exercite e ii sìgnate segue una via simi- le a quella del pragmatismo, ma a nostro parere meglio fonda- ta. L'intelligenza dell'essenza sintetica ed a prn'ori del princi- pio è necessaria per fondare la ricerca intellettuale. Vi si può rinunciare, ma questa decisione rischia di danneggiare ogni sfor-

2' E N A G ~ L e J R NLWMAN, .h proz7u di G d e l pp 13-14

ix r E SUENZE ESATTE 287

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zo intellettuale. Il principio è un diritto. Qualsiasi decisione a suo riguardo deve riflettere questo diritto.

Noi sosteniamo che la sintesi originaria, orizzonte dell'as- siomatica, è suscettibile di essere raggiunta in maniera rifles- siva. Può essere pensata a partire dal modello che presenta l'esperienza che lo spirito ha di sé quando si espone nella sua espressione: «io penso, io sono*. Ora, la presenza dello spiri- to a sé è impegnata fin dalle sue prime attività. I1 principio non è da situare a i termine di una ricerca gerarchica in cui la fisica sarebbe soppiantata dalla matematica, e questa dal- I'assiomatica. Di fatto, il principio non è al vertice di una costruzione; ne è l'anima. Lo mostreremo adesso e nel capito- lo seguente. I1 paragrafo che segue è piuttosto difficile; ne chie- diamo scusa al lettore, ma è indispensabile per spiegare linear- mente il decorso della domanda metafisica: le categorie che rendono possibile I'enunciato del principio vi trovano la loro base ragionevole.

C) La fisica, la mcatematzca e il reale

La costruzione assiornatica sembra condurre a termine il movimento intelIettuale verso l'unità. Ma questo movimento non si accosta al suo termine quasi si fosse del tutto allonta- nato dal punto di partenza. La formalità matematica non nasce da una nuova astrazione realizzata muovendo dai residuo del- l'astrazione qualitativa precedente; il suo enunciato tematizza piuttosto l'operazione che ha reso possibile l'astrazione quali- tativa e che, essendo universalizzante, realizza a suo modo la ricerca verso l'unità. Certamente I'unità, forma dell'universa- le, è il tema delia matematica che, in tal senso, viene dopo la pratica della fisica; ma in realtà l'unità precede la possibili- t à interna dell'astrazione qualitativa. Per questo motivo, nes- suna fisica, né moderna, né antica è semplicemente c<qualita- tiva» o a posteriora'.

La matematica fonda Ia fisica tematizzando ciò che la ren- de possibile, le unità delle sue forme e quelle delle sue opera- zioni. Si può pensare di fondare la matematica alla stessa maniera, vale a dire tematizzando ciò che la rende possibile.

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,- Come la fondazione della fisica sembra garantita quando il pro- getto è tematizzato dalle unità marematiche, così la materna- tica sarà fondata mediante la tematizzazione di ciò che sinte- tizza le sue operazioni e le sue definizioni; di qui il fascino defl'assiomatica. Ma come la fisica è fondata nella matemati- ca in una maniera che non è anzitutto gerarchica, ma riflesci- va, così la matematica non trova un fondamento essendo ricol- legata ad una scienza che sarebbe semplicemente superiore, ma lì dove i suoi strumenti sono legati a priori.

La matematica fonda riflessivamente la fisica; è a sua volta fondata riflessivamente. Si intende significare con ciò che il suo fondamento è messo in esercizio; lo si riconosce dunque come l'anima delle sue espressioni. Come la matematica è inter- na aIla fisica, così la scienza prima è interna alla matematica. Possiamo d o r a determinare i tratti essenziaii di questa scien- za prima. Essa unisce le due unità, discreta e continua, che costituiscono l'una I'interiorità della matematica alla sostanza concreta, l'altra la specificità della matematica. L'interiorità delia matematica alla fisica è evidente; l'unità continua mate- matica simbolizza con l'unità degli enti concreti. 11 passaggio dalla fisica alla matematica è agevoIe: l'unità continua mate- matica simbolizza con la forma universale costruita a partire

-

dd'esperienza sensibile e con le sue norme necessarie. Come gIi enti sensibiii sono sostanze unite crin sé», lo stesso è per le unità discrete che entrano nella serie dei numeri interi; come le forme sensibili sono universali che trascendono gli esistenti riuniti, così l'unità continua presenta una struttura che ha un significato indipendentemente dalla realtà dei suoi elementi. La scienza prima articola i suoi due modi di unità, ma in una maniera riflessiva e non più ternatica, come voleva farlo f'as- siornatica o la meta-matematica.

Proponiamo questo schema per guidare la nostra riflessione:

[sensibile] [intelligibile] sostanze individuali universale concreto unità discrete unità continue anaiisi sintesi orizzonte della fisica orizzonte della matematica

TX. LE SCIENZE ESA1''lmE 289

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La metafisica cerca ciò che unisce senza confondere le due parti di questo schema, approfondendone le esigenze ad esso irnmanenti.

L'indipendenza della matematica nei riguardi del sensibile non ne rivela tutto ii senso; la matematica ha infatti presa sul reale e deve dunque poterlo fare. Senza concordanza tra il suo sistema formale ed il sensibile, gli assiomi operatori non chia- rirebbero intelligibilmente gli enti fisici, che rispondono tut- tavia effettivamente alla loro sollecitazione. 11 significato di un sistema formaie non può essere compreso disconoscendo- ne la potenza pratica; in quanto raggiunge reaimente l'empi- rico gli spetta di poter10 fare. Se la fisica è matematizzabile, è perché l'inteliigibjle l'accetta; se la matematica è efficace, è perché il sensibile l'accetta. Questa dialettica tra le scienze fisiche e matematiche è stretta; poggia sull'unità a priori del sensibile e deD'intelligibile neli'ente. Questa unità trascende tuttavia l'unità discreta e l'unità continua.

M. Blondel ha pagine straordinarie e vigorose su questa dia- Iettica immanente agli enti sensibili: «Le scienze della natu- ra», scrive, «descrivendo gli [enti] o determinando i fatti come li osservano o li producono, suppongono sempre la reaItà ori- ginale, la perfezione relativa, la sufficienza di ogni sintesi in quanto sintesi. L'unità concreta vi è considerata come un tut- to che, sebbene divisibile, non è però risolubile nelie sue par- ti: a questa condizione soltanto codeste scienze sono possibili e valide» zz. La fisica suppone dunque l'unità sintetica dei suoi oggetti sensibili. U problema è allora di sapere quale lega- me si può avere tra l'unità matematica a prionf e la sintesi con- creta defle scienze della natura. La riflessione sulle diverse unità messe in opera daila fisica ce lo mostrerà.

La scienza accoglie ii suo oggetto che è fatto di sostanze individuali, ma scomponendolo in unità diverse secondo i gradi dell'astrazione: a tutti i livelli, quello della sostanza e quello deile realtà astratte, le unità sono ogni volta irriducibili a qua- lunque altra. Non vi è nulia di più simile ad una penna biro appena uscita dalle catene di produzione che un'altra penna

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biro nuova; ma queste sostanze concrete non sono una sola biro; cono diverse. La formula di un corpo chimico trae una forma da un corpo reale; lo collega così agli altri cor- pi &mici definiti sotto il medesimo punto di vista formale, ma in tal modo un'unità specifica distinta dalle altre unità specifiche. L'unità discreta della sostanza sensibile non entra serie dei numeri che a condizione di essere rnante- nuta nella sua originalità rispetto ad ogni altro numero. Essa c b b l i z z a con la sostanza individuale; I'unit à continua crea lega- mi tra & elementi; simbolizza con l'universale concreto.

Queste unità discrete e continue, benché diverse, cono uni- te. Una tale unità considerata d d a scienza analitica appartie- ne infatti effettivamente o possibilmente a questo concreto sin- tetico. Questo legame è esercitato d d e diverse scienze unite tra loro; la dialettica immanente d 'ente, al tempo stesso sen- sibile ed intelligibile, si riflette su una dialettica che congiunge h fisica e la matematica. La fisica analizza sintesi concrete e riporta loro i suoi risultati: al contrario, la matematica sinte- &a elementi analitici astratti e ritorna ad essi. La scienza empi- rica analizza la sintesi concreta riducendola anaiiticarnente alle sue forme astratte; ma si compie riferendo le sue forme all'u- nità sintetica concreta. M'inverso, la matematica ricompone un'unità sintetica muovendo da unità puramente anditiche o dipendendo da definizioni, ma conducendo a nuove definizioni.

I1 circuito intellettuale è complesso, già ai momento dei suoi giudizi sul sensibile più banale. Sembra formare un arco, che tuttavia non percorre in maniera lineare. Non va prima dalla sintesi concreta all' anaiisi astratta, poi dall'analisi alla sintesi. Non percorre un cammino che si innalzerebbe dalI'osservato empirico d'ipotesi teorica, che verificherebbe poi questa ipo- tesi intelligibile ritornando verso il sensibile esaminato. Se vi è un progresso nel cammino dell'intelletto, non è lineare, ma va verso iZ centro unificante di ciò che è, dal sensibile all'a- swatto, poi dau'astratto a1 reale. Infatti, la scienza moderna non è solamente sperimentale; la sua forma matematica ne indi- ca la trascendenza che verifica la sua potenza di anticipazione sui fatti bruti. L'orizzonte deila ricerca scientifica, mediata dalle sue astrazioni, non è il semplice fatto deIl'esperienza immedia- ta. In fisica l'unità originale del concreto è scomposta nelle sue

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astrazioni; tramite la sintesi matematica, essa è resa ad una for- ma di unità sintetica che è più reale del sensibiie immediato.

In un testo bello, ma compatto, Blcndel ci propone que- s t' articolazione che unisce profondamente la fisica e la mate- matica: < L ' è dunque nella scienza, e nel suo principio mede- simo, un dualismo manifesto. Ora, a i di fuori dei fenomeni immediatamente percepiti, essa cerca ciò che è generalità astrat- ta e connessione necessaria; dimenticate la natura dei compo- sti e le qualità peculiari agli elementi, ii calcolo appare la for- ma continua dell'universo. Ora, dimenticata l'unità di com- posizione, si adopera a dare ail'intuizione sintetica una preci- sione quantitativa e una individualità definita. Ricondurre ogni cosa ail'omogeneo, riconoscere e definire dovunque l'eteroge- neità, queste due tendenze sono egualmente scientifiche, questi due metodi sono egualmente completi e sufficienti ognuno nel Ioro senso. L'uno e l'altro usano l'analisi e la sintesi; per il primo, l'analisi, per il secondo, la sintesi è ipotetica. Per il primo, la sintesi per così dire è analitica Q priori; per il secon- do, l'analisi è sintetica a postefiovi, cioè l'una si edifica con gli elementi di una analisi ideale e l'altra nelle sue scomposi- zioni non perviene se non a sintesi reali» 23.

Possiamo adesso concludere il nostro studio suIle scienze esatte e sulle loro articolazioni ragionate. La conoscenza ten- de d'unità del reale; questo proposito non è realizzato né d d a fisica, né dalla matematica. L'analisi della tensione dello spi- rito verso l'intelligenza del reale ha permesso di strutturare le diverse scienze al ritmo delle diverse astrazioni. Ma una gerarchia di astrazioni non riesce veramente a spiegare delie sintesi scientifiche. I1 progetto di unità della ragione è realiz- zato in un altro modo, riflessivamente. L'unità riflessiva non è inutile; se lo fosse, l'organizzazione delie scienze così come i nostri molteplici rapporti agli enti non avrebbero un princi- pio. Se il progetto di unità fosse vano, nessuna scienza avreh- be piu misure universali e necessarie; sarebbero tutte rimesse all' arbitrio degli scienziati.

2' ID., pp. 75-96

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CAPITOLO DECIMO

IL PRINCIPIO E L'ATTO

Le scienze esatte additano un cammino che tende verso il principio di spiegazione di tutti gli enti. L'intelletto vi eserci- ta la sua apertura a ciò che è universale e necessario. Secondo la struttura classica deIl' astrazione, la fisica, che mette insie- me le qualità, sembra essere la scienza dell'universale, mentre la matematica si applica alla quantità e, con ciò, alla necessità delle relazioni intessute tra gli enti. Ma la matematica è già immanente alla fisica, la cui universalità non è senza necessi- tà. Similmente, il principio è interiore d a fisica e aIla mate- matica; la sua scienza vi ha già avuto inizio. La scienza rifles- siva di questo principio è la scienza prima, la metafisica nella sua essenza classica.

Per fondare ultimamente le scienze esatte, dobbiamo dun- que mettere in luce come d principio primo le penetra tutte. Per fare ciò, insisteremo sulla struttura riflessiva dei processi che, a loro volta, le astrazioni classiche hanno tentato di clas- sificare.

Vedremo in seguito come i nostri giudizi e le nostre affer- mazioni sono essenzialmente articolati; questa riflessione ci per- metterà di sottolineare la differenza che vi è tra l'espressione dd'at to di conoscenza (szgnate) e ii suo esercizio (exmcite). Con- cluderemo questo capitolo esponendo il modello dell' atto spi- rituale che ci sembra il migliore per sostenere l'intelligenza riflessiva del principio.

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1. L'astrazione e la trascendentalizzazione

La metafisica, secondo una interpretazione scolastica tradi- zionale, opera una terza astrazione che segue quelle della qua- lità e della quantità. Si tratta tuttavia di intendere in modo corretto questa successione; essa rischierebbe di far pensare che il principio è progressivamente purificato eliminando pri- ma il carattere individuale dell'ente (astrazione qualitativa) , poi la sua materia sensibile (astrazione quantitativa) ed in ulti- mo la sua materia intelligibile (terza astrazione). Di fatto, il procedimento è piir complesso di quanto non lo faccia pensa- re questa presentazione riducente della ricerca del principio. Cercheremo in un primo momento di far percepire il senso riflessivo di ciò che la tradizione ha determinato attraverso la gerarchia delle astrazioni. Proporremo in seguito di sosti- tuire iI termine di astrazione con quello di trascendentaiizza- zione .

a) L gerarchia e l'astrazione

Secondo una gerarchia che si potrebbe chiamare «utilitaria», le scienze che hanno bisogno di altre scienze per compiere ii loro progetto particolare integrano queste altre scienze e le diri- gono in funzione dei loro disegni. Per esempio, <<come la fab- bricazione delle briglie d'ippica e così pure tutto ciò che con- cerne l'equipaggiamento del cavaliere; la stessa azione milita- re è subordinata d a strategia; e nello stesso modo le aitre sono rispettivamente subordinate ad un' altra capacità» l . In tale prospettiva utilitaria, la scienza più elevata è quella che ingiun- ge alle altre scienze di presentare oggetti che corrispondono ai suoi progetti; con ciò se le subordina. Si concepisce taivol- ta la metafisica in questa maniera; il suo oggetto, l'ente in gene- rale, include gli oggetti di tutte le altre scienze, imponendo loro ciò che devono essere.

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X. IL PRINCIPIO E T.'ATImC7 295

5 Tuttavia, in questa gerarchia utilitaria, la scienza superiore non può sostituirsi all'inferiore. Non spetta allo stratega deci- dere come nutrire i cavalli; parimenti se il fisico sottomette a sé gli strumenti dell'informatica per determinare un tipo par- ticolare di eIemento naturale, non può ridurre l'informatica a questo solo uso. Per questa ragione, nella gerarchia utiIita- ria, una scienza può avere d sopravvento su un'dtra, mentre pecedentemente la loro successione sembrava inversa; per

la fisica, modello della biologia secondo il meccani- cisrno scientifico che trae origine dal XVII secolo, tende oggi ad esserle subordinata. Zl fatto è che la gerarchia utilitaria non è ass~lutamente determinata da una ragione interna che met- terebbe a priori un ordine necessario tra le diverse scienze.

Una gerarchia che non fosse utilitaria, ma necessaria, ordi- '

na le scienze innalzando al di sopra delle altre quella che è più intelligibile o meglio fondata nell'unità razionale. Da questo punto di vista, si riconosce una precedenza necessaria della matematica su tutti gli altri discorsi scientifici, perché, scien- za dell'unità e delle sue leggi, è più semplice e li integra con ciò tutti. Certamente, tutte le scienze moderne utilizzano la matematica, che trascendono dunque dal punto di vista utili- tario. Ma la matematica non ha bisogno di nessun'altra scien- za per svilupparsi; le trascende dunque tutte di diritto. La matematica è cocì una scienza prima in rapporto alla fisica. Tuttavia non le sottrae iI suo oggetto; le propone invece come elaborare ii proprio oggetto in maniera tale che senza di essa sarebbe meno penetrante. Detto ciò, la matematica non coro- na in modo definitivo l'insieme delle scienze. Non essendo assolutamente unificata, non è intelligibile incondizionatamen- te; non è auto-fondata nella gerarchia costruita sotto il crite- rio dell'universalità e della necessità. Si può dunque ricercare da questo punto di vista una scienza superiore alla matemati- ca. Questa scienza è Ia metafisica.

Secondo la tradizione classica, dopo Ia matematica che astrae la materia sensibile dagli oggetti di pensiero già disindividua- lizzati mediante l'astrazione qualitativa, la metafisica astrae la Ioro materia intelligibile. Così, la metafisica è la scienza più astratta perché è la meno materiale; e se la scienza prima è

m

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alI'ultjmo grado dell'astrazione, è la più immateriale di tutte le scienze. Siccome però la scienza prima ha anche come cri- terio la riflessività dei suoi principi, interessa congiungere l'im- materialità e l'unità interiore e chiedersi se la prima non sia una determinazione essenziale della seconda.

Di fatto, dicendo che astrae ogni materia, la scolastica sem- bra restringere l'ambito della metafisica all'imrnateriaIe costi- tuito dalle forme determinanti opposte alla materia indeter- minata. Ma ciò fa si che la scienza prima, allontanandosi dal- la materia propria alle altre scienze, non possa piiì integrarle. Il predicato «immateriale» indica allora ciò che nella metafisi- ca vi è di più platonico, nel senso deteriore del termine; ad essa appartengono gli enti più formali e diversi del nostro mon- do concreto. Non pensiamo che la metafisica possa essere immateriale in questo senso, poiché, universale e necessaria, non può lasciare nulla da parte, nemmeno la materia determi- nata degli enti demorfici. Se dunque si mantiene il termine di immaterialità, occorrerà interpre tado senza riferimento all'opposizione categoriale della forma e della materia. L'im- materialità della scienza prima non è proporzionale alla sua

- - - - h a l i t à intelligibile. Potremmo intendere d o r a la «materia» in questo modo: la materia è il molteplice di cui Ia metafisica cerca l'atto unificante. Allora, comprendere la metafisica come <(scienza immateriale» consiste nel confermare la sua vocazio- ne all'unità.

L'espressione «immateriale» oppone la metafisica a ciò che è materiale. Questo polo opposto, nella tradizione ilemorfica recepita in metafisica, non pu8 essere la forma. Per essere fede- le d 'un i t à degli enti concreti e al fine di non dover rigettare la terminologia classica, dobbiamo opporre la materia non alla forma, ma al principio che unifica la molteplicità. L'atto di essere è questo principio unificante. Dire che la metafisica è immateriale significa quindi che essa è unificante. AUa disper- sione materiale risponde l'unificazione dell' atto. La metafisi- ca è immateriale perché studia ii principio o l'origine del mol- teplice, di tutte le nostre scienze molteplici. La spiegazione di questo principio definisce l'originalità scientifica della meta- fisica.

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La condizione incondizionata delle scienze non è né quali- tativa, né quantitativa, ma riflessiva. Ciò di cui tratta la meta- fisica non ha un'evidenza simile a quella degli oggetti fisici o matematici; è piuttosto la condizione interna di tutte que- ste materie pensate. Esercitiamo questa condizione in tutti i nostri atti di affermazione, quali che siano. La condizione incondizionata delle scienze è chiarita dalla riflessione su ciò che ogni affermazione esercita necessariamente. Le scienze sono d o r a fondate su un principio universale e necessario.

b) LA trascendenta Iizzazione

La parola <<astrazione», in virtù della sua etimologia che evo- ,

ca un lavoro di separazione e di esclusione, non denomina cor- rettamente il processo che chiarisce il principio primo univer- sale e necessario. Per questo motivo parleremo a tale proposi- to piuttosto di trascendentalizzazione 2. I1 principio, se è veramente primo, viene costruito nel corso della ricerca intel- lettuale. La conoscenza che lo scopre non si appresta a stu- diarlo a partire da ciò che esso non sarebbe; non è al di fuori, ma interna ad esso. Accediamo al principio riconoscendo che precede la conoscenza che possiamo averne e che lo mettiamo in esercizio quando conosciamo qualunque cosa sia. Se il prin- cipio è l'«ente in quanto ente», come proposto dalla tradizio- ne aristotelica, questo «ente» non è ottenuto per via di elimi- nazione di ciò che esso non è, ma è riconosciuto riflettendo sulie condizioni della conoscenza in atto, vale a dire dell'af- fermazione.

Quando abbiamo descritto I'esperienza dello stupore, abbia- mo notato che l'intelletto vede scavarsi dinanzi a sé una dif- ferenza tra la sostanza e le sue apparenze; scopre in tal modo la sua apertura a ciò che nessuna determinazione apparente racchiude in realtà, benché la sostanza non sia conosciuta che da essa. II cammino della conoscenza è ritmato dalle interru- zioni riconosciute evidenti tra la sostanza e le sue apparenze e le riaffermazioni continue dei loro rapporti. L'intelletto pro-

2 Cfr. Y. B A I ~ T I I A ~ A R , La rnttbode en métaphyriqfie, p. 23.

X IL PRIN(.IPIO E L'ATTO 297

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cede in tal modo ad un'indagine scientifica sempre piti ampia. Seguendo il progresso della conoscenza così destata dallo stu- pore, possiamo accostare il senso di cib che costituisce l'oriz- zonte del principio nel quale ogni ricerca intellettuale si svol- ge. Possiamo in tal modo assumere il progetto compiuto alla sua maniera dalla messa in ordine delle diverse astrazioni, ma sfuggendo alle sue ambiguità.

I1 progresso della conoscenza è animato da un puro deside- rio di conoscere. <<Inizialmente, in ogni individuo, ii puro desi- derio [di conoscere] è un orientamento dinamico verso un total- mente sconosciuto. A misura che la conoscenza si sviluppa, I'abiettivo diventa sempre meno sconosciuto, sempre più noto» 3 . La conoscenza tende infatti a superare le sue inter- rogazioni e le sue ignoranze, ponendo giudizi che riconosce sicuri perché può difenderli o legittimarli esplicitamente. Vi è tuttavia un paradosso in questa progressione della conoscenza: «In qualunque momento, l'obiettivo include sia tutto ciò che è noto sia tutto ciò che resta ignoto, poiché è la meta del dina- mismo immanente del processo conoscitivo, e questo dinami-

1 smo soggiace ai raggiungimento attuale e insieme Io oltrepas- sa con sempre nuovi interrogativie4. I1 termine deila cono- scenza è dunque propriamente oggettivo, ma nel senso della trascendenza di un orizzonte che attrae e che, a prioPe', con- tiene già tutto ciò che potrà esserne detto. L'oggettività tra- scendente verso la quale tende il puro desiderio di conoscere non è veramente un oggetto che potrebbe essere un giorno interamente chiarito. Vi è sempre, a proposito di qualunque cosa, un invito a saperne di pih e in maniera meglio fondata. La conoscenza desidera senza tregua ampIiare i limiti del suo sapere e comporre sintesi che inglobino sempre più Ia com- plessità degli enti; ma pih essa conosce, più la complessità del reale le appare evidente. Solo l'incompetente giudica che tut- to è chiaro e semplice.

La spiegazione degli enti progredisce sotto I'impulso di un desiderio aperto aila comunicazione con il reale mediante la

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definizione e la determinazione. Esplicitamente enunciata, dispiega ciò che è piegato nell'apprensione semplice, questo momento innato, ma oscuro di ogni conoscenza. La spiega- zione deU'appreso semplicemente non si accontenta tuttavia di scomporre analiticamente gli elementi. Vigila per riportare le sue molteplici forme astratte alla sua unità sintetica con- creta ed aila sintesi che è a ppioi la totalità dell'univerco. La spiegazione del semplicemente appreso progredisce coci al rit- mo della conoscenza che conquista la sua chiarezza e la sua distinzione, ma senza cessare di riferirla al fondo oscuro che rimane la sostanza nella sua origine.

I& dispetto della sua apprensione dcll'essere, l'uomo comune si immerge dapprima e per lo pii1 nelI'ente, perché l'essere ', se gli è a dire il vero T

conosciuto, non è ancora da lui riconosciuto. Infarti è un ente finito o intra~ate~oriale che forma l'oggetto diretto della sua comprensione, mentre l'essere non collabora a questa che come il principio suprema del comprendere. L'essere non appare dunque nella comprensione di se stesso, ma solamente nella comprensione di un altro; per conscguen- za, non già come compreso in quanto tale (in maniera che esso stesso sia compreso), ma come compreso facendo comprendere (vale a dire innalzando un'altra cosa ai livello della comprensione) o come semplg- cemente saputo. L'apertura dell'essere arriva, è vissuta, senza divenire come tale oggetto del comprendere [...l. Una tale apprensione dell'es- sere tende necessariamente a superarsi; il nostro spirito non può ripo- sarsi in essa. Tramite la conoscenza riflessa, esso eleva il principio di conoscema ai rango di oggetto di conoscenza, ciò che è compreso facen- do comprendere un'altra cosa ai rango di compreso da se stesso [...l L'essere che non era prima che conosciuto con e attraverso la compren- sione deìl'ente S adesso liberato espressamente per se stesso e posto come contenuto del comprendere. L'apertura d'essere, che era in un primo momento soltanto vissuta come evento non riflesso, si compren- de adesso come tale e si sviluppa in comprensione de.07essere>> fi.

Ma il compimento del progresso delia conoscenza non con- siste neil'assumere il principio come oggetto di scienza alla maniera dell'oggetto esplicito di qualunque scienza. ({L'essere non è assolutamente più il noti'isimum, I'intelligibile di per sé nel senso della conoscenza volgare»'. La spiegazione o I'espli-

' In altri termini il uprincipioi>. h J.B. LOTI, Das il unti Sein, pp. 15-16,

Ibid.

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citazione di un livello inferiore del sapere in un livello supe- riore, dell'appreso nel compreso, si applica a ciò che viene eser- citato ai piano anteriore per esplicitarne ulteriormente le con- dizioni di possibilità o i principi di intelligibilità. Ciò che ani- ma una scienza anteriore diviene così l'oggetto diretto di una scienza posteriore. Per contraccolpo, la scienza anteriore è tra- sfigurata; ma ciò non è possibile se la scienza posteriore vede le sue premesse già attive nelfa scienza anteriore. L'implicito matematico della fisica trasforma la fisica, mentre la matema- tica lo sviluppa per se stesso; diventa allora uno strumento di analisi infinitamente più flessibiie e preciso dello strumento qualitativo, solo però se Ia fisica e non la matematica lo rnet- te a profitto. La conoscenza percorre dunque un tragitto che muove d d a semplice apprensione, attraversa la conoscenza esplicita e fonda finalmente questa esplicitazione sul princi- pio primo che non è astratto, ma interiore al punto di parten- za di ogni conoscenza. I1 progresso del sapere non è lineare, ma riflessivo; il suo termine è infatti già presente al. suo pun- to di partenza, ma occultamente.

I1 principio è necessariamente conosciuto come principio fin dalla conoscenza di ciò che ha avuto inizio, anche se in maniera oscura. Non può mai essere concepito come un oggetto che, succedendo ad altri oggetti conosciuti, ne sarebbe condizio- nato; lo conosciamo esplicitamente come la condizione sinte- tica della fisica e della matematica. In realtà, non è l'oggetto di una conoscenza determinante, ma la condizione di ogni atto di determinazione. Ali'origine di qualsiasi sapere determinan- te, esso è radicalmente indeterminato. Da sempre neIla nostra memoria metafisica, lo sappiamo determinante e in tale maniera inconoscibiIe, poiché determina e non riceve alcuna determi- nazione che incanalerebbe il suo movimento determinante in una direzione particolare. Esigiamo adesso, al termine della riflessione sull'attività scientifica, di rispettare questa modali- tà di essere del principio. I1 principio è inconoscibile perché trascende ogni conoscenza determinata. Tuttavia, se è inco- noscibile, e dev'essere tale, non 10 è che a partire daila deter- minazione che esso non è. Il progresso della conoscenza non consiste dunque nel determinarlo, ma nel ritrovarlo come fonte di ogni determinazione.

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2 . Giudicare ed affermare

Cogliere il principio non è un fatto intuitivo, ma riflessivo. Non lo conosciamo infatti mai semplicemente in sé, ma quan- to a noi, a partire dai nostri atti; lo conosciamo così parados- salmente, inconoscibile e trascendente. In quanto il principio è il centro focale che illumina ogni spiegazione scientifica, i nostri atti che vi danno accesso sono quelli della conoscenza scientifica. Chiariremo dunque il principio di questa conoscen- za, non dal punto di vista dei suoi contenuti di pensiero, ma della sua forma e del. suo atto. Vedremo in un primo punto come le categorie di universaiità e di necessità determinano i giudizi scientifici e richiamano l'attenzione verso il princi- pio che ne è la ragione. In un secondo punto distingueremo i giudizi predicativi e i giudizi oggettivi. In un terzo punto rifletteremo suil'affermazione mediante la quale ci accordia- mo al fondamento di tutte le nostre conoscenze.

al 1 giudizi scient$ci

Proponiamo un modo di organizzare i nostri giudizi secon- do i criteri di universalità e di necessità, di apriorità e di apo- steriorità che costituiscono le categorie fondamentali dell'in- tendimento.

(2) Universale astratto, forme deil'intcndimento che astrae. Giudizio analitico (1) Sostanza individuale: ciò che t , l'ente conosciuto. Semplice apprensione

NECESSARIO (universale concreto) (3) Necessario ipotetico: leggi deiia ragione che unisce. Giudizio sintetico Q posteriori (4) Necessario categorico: ciò che è, condizione di conoscenza. Giudizio sintetico a priorz

La comprensione degli enti progredisce in quattro fasi. Nella semplice apprensione, percepiamo ci apprima I'esistente nella sua complessità unificata e sintetica (1); anaiizziamo in segui-

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to i diversi tratti di questo esistente (2); poi tentiamo di uni- re questi tratti in una sintesi intelligibile (3); cerchiamo in ulti- mo di poggiare questa sintesi su un principio auto-fondato (4). Questi quattro momenti articolano la riflessione trascenden- tale. La condizione dell'intelligibiiità dell'ente semplicemente appreso (l), dipende dall'intendimento che collega questo ente ad altri astraendo i loro aspetti comuni ( I ) , poi mettendo questi aspetti in rapporto gli uni agli altri (3) e riconoscendo final- mente la sintesi che è all'origine dei legami precedentemente messi in evidenza ed a posteriori; questa sintesi finale rischia- ra tutto il cammino percorso (4).

Ciascun piano di conoscenza è caratterizzato da un tipo spe- cifico di giudizi. La semplice apprensione, che esprime il giu- dizio diretto spontaneo, coglie ciò che è semplicemente: «La strada è larga». Questo giudizio non rifiette sui significato della proposizione enunciata e inoltre non ne analizza gli elementi. II giudizio analitico spiega questo primo giudizio e rende pos- sibile precisarne il significato intelligibile: <<La larghezza della strada è di 8 metri*. Si considera qui, apparentemente, sol- tanto il soggetto delia proposizione; di fatto, l'ideale del giu- dizio analitico è la tautologia nella quale ii predicato è identi- co aI soggetto e può esserne ricavato per semplice analisi. I1 giudizio analitico spiega dunque l'unità del soggetto in elementi di cui si conosce la diversità. I1 giudizio sintetico a posteriori verifica l'esattezza della conoscenza così costruita estenden- dola ad altre esperienze, e a partire da qui alla totalità poten- ziale delle nostre esperienze; questo giudizio congiunge così i predicati al soggetto non attraverso l'anaiisi della definizio- ne, ma muovendo da ciò che insegna I'esperienza: «La strada è molto bella oggi». In ultimo, il giudizio sintetico Q pRon è inverificabile nell'esperienza sensibile, che esso misura tutta- via come la condizione della sua intelligibilità; per la scienza, questo giudizio è problematico.

L'analisi dell'esperienza riflette I'ente unito in se stesso, ma per mezzo di strumenti eterogenei gli uni agli dtri, come ad esempio e in maniera assolutamente elementare, la diversità del soggetto e del predicato, impegnata fin dal giudizio diret- to. La sintesi a posteiioui esprime in seguito una necessità ipo-

302 X. IL PRINCIPIO E L'ATTO

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tetica derivata dali'ente nello stesso tempo uno e diffratto in aspetti eterogenei; l'ente è realmente uno, come l'ha colto Ia semplice apprensione, nia le sue analisi lo mostrano come se non avesse in sé il principio della sua unità intelligibile. Final- mente, la sintesi a ptaon lascia risuonare ciò che unifica neces- sariamente l'ente nell'intelligibjle.

A ciascuno di questi giudizi corrisponde un'universalità spe- cifica. L'universalità di un termine analitico è astratta, men- tre l'universalità della sintesi è concreta. Infatti, quella è pre- cisata in seguito ad esclusione di ogni altro termine, unendola però a tutti gli enti che hanno lo stesso predicato («la strada è larga», e non stretta), mentre questa riunisce qualità astrat- te ed eterogenee sotto I'unith deil'ente che le sorregge e che è l'universale concreto ( d a strada è larga e bella n). La neces- sità è anche ogni volta specifica. Quella delI'anaIisi è garanti- ta soltanto dalla successione degli avvenimenti verificati Q poste- riori o perché la definizione dell'ente è proposta in questa maniera. Su questo piano, le relazioni non hanno ancora obbli- ghi fondati sulla pura necessità; il giudizio analitico è appena necessario; risdta dall'incontro fortuito delle circostanze o dd- l'arbitrario deile definizioni. La necessità è su questo piano ipotetica. È invece categorica nella sintesi a priori.

Nell'apprensione semplice l'universaiità è ignorata, senza avvalersi della scienza. Nel giudizio analitico si separa ciò che è unito in favore di una presa di coscienza della natura degli elementi del soggetto. L'universalità può allora essere rifles- sa, ma indirettamente, in dipendenza dd'estensione delia qua- lità; rimane tuttavia così parziale al tempo stesso da parte del principio unificante che non conosce ancora in sé e da parte delI'ence appreso di cui maschera la potenza di sintesi. L'uni- versalità analitica è formale e senza necessità; la creazione delle forme generali ha qui la sua origine. Nel giudizio sintetico a postm'oP.i la molteplicità degli universali è progressivamente cen- trata attorno al loro soggetto; la ragione concreta del giudizio viene messa in evidenza. La necessità induce allora a precisa- re di più gli universali e la loro convenienza: ne risulta la fisi- ca. 11 giudizio sintetico a prioi, in ultimo, è interamente basato su una necessità che non ha appoggio sull'esperienza sensibile

X. IL PHNCIPIO E L'ATTO 303

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e sugli universali che ne derivano. Questa necessità è infatti d'origine delia propria validità; in essa Ja matematica affon- da le proprie radici. A quest'ultimo livello, la necessità deter- mina l'universalità, stabilendo delle relazioni, mentre prima eravamo risaliti dagli elementi astrattamente universali a ciò che è necessario; in questo ribaltamento verificheremo che la matematica inverte il cammino naturaIe della spiegazione scien- tifica e dà inizio all'intelligenza del principio. I1 matematico è fratello del metafisica.

b) La sintesH predicativa e la sintesi oggettiva

Tutti i giudizi che abbiamo elencato sono predicativi. Per definizione, la sintesi predicativa riferisce dei predicati al sog- getto della proposizione, mentre la sintesi oggettiva risponde alla questione della verità o della falsità di questa proposizio- ne. Nel giudizio predicativo, scomponiamo il soggetto analiz- zandolo e componiamo l'essenza degli enti sintetizzandola; que- sto giudizio dà cosi la possibilità di interpretare, o di spiega- re, gli enti. Affermando o negando, riconosciamo inoltre che è veramente così oppure no. Ed è su questo piano dell'affer- mazione o della sintesi oggettiva che si compie l'alleanza del- lo spirito e del principio.

Nella sintesi predicativa l'intelletto distingue prima il sog- getto dalle sue forme andizzabiii; poi riferisce Ie forme al sog- getto. I suoi giudizi sono dunque analitici e sintetici a poste- riori, Ma la composizione che segue Ia scomposizione non com- pleta il lavoro intellettuale. ~nfatt i , quando l'intelletto riporta aicuni predicati ad una soggetto, suppone che il soggetto I'ac- cetti, che la sua intelligibilità intrinseca legittimi questi rap- porti determinanti, ma ciò nonostante non ha riconosciuto scientificamente che ii soggetto è in se d'origine di questa legit- timità. In realtà, per giungere al compimento del lavoro del- l'intelletto, le sintesi predicative devono essere sottoposte alIa questione della loro verità o della loro falsità. La ragione deve andare al di là dei rapporti formali e penetrare fino alla sinte- si oggettiva. Offrendo o ponendo sintesi oggettive, I'inteIli- genza riconosce che l'ente accoglie w prioi i suoi predicati, che

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>

2 dunque intrinsecamente intelligibde, così determinabile e determinato perché vi si dispone da sempre.

La sintesi oggettiva è radicalmente sintetica a priori. Certa- mente, la conoscenza del predicato particolare dell'ente è a posteioti, ma sappiamo che l'ente riceve questa forma a con- dizione di accettarla, di aprirsi volentieri da se stesso, presran- dovisi la pre'ori. L'affermazione della corretta attribuzione di un predicato ad un soggetto è fondata sul riconoscimento che questo soggetto è originariamente intelligibile, che i suoi pre- dicati, e tali predicati, provengono in qualche maniera da se stesso e che non gli sono sovrapposti in modo arbitrario.

Ne consegue il senso originale del verbo <<essere>> utiiizzato come copula nelle nostre sintesi oggettive o nelle nostre affer- mazioni. -Esso indica I'atto del soggetto che è ciò che è. Non è solamente una copula predicativa, un legame costuito a poste- riori tra il soggetto e il predicato. Esprime piuttosto l'imma- nenza a priori del predicato al suo soggetto perché il soggetto vi si doni a priori e, donandosi così attivamente, si disponga ad essere inteso dau'intelletto. Il verbo «essere>> segnala un atto di presentazione di ciò di cui si parla in ciò che se ne dice. La sintesi oggettiva riferisce così il predicato non sola- mente ad un soggetto logico, ma ad un ente che si presenta in questa maniera determinata ed a partire da sé. La copula «è» connota dunque la donazione dell'ente nella sua intelligi- bilità determinata. Ma questo senso del verbo <<essere» ha luogo veramente solo se l'affermazione è suscettibile di ricevere il sigillo deila verità o della falsità vale a dire di un'adesione o di un rifiuto da parte dell'intelletto; esso connota anche l'at- to intellettuale che corrisponde a questo dono, aderendovi oppure no. La copula «è» sintetizza con ciò due atti che, piut- tosto che affrontarsi, cooperano tra di loro.

La sintesi predicativa è radicalmente fondata nel momento in cui riceve il sigillo della verità. Da se stessa, benché inreili- gibile, formalmente sensata, potrebbe pure non avere alcuna verità. Essa è compiuta, in aitri termjni riconosciuta come vera o falsa, essendo assunta in un atto di affermazione oggettiva in cui tutti i suoi aspetti sintetici, esercitati nelle diverse sin- tesi predicative (giudizi analitici o sintetici w posteriori), sono

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confermati in una necessità derivata da ciò che è. Perché la verità della sintesi predicativa sia riconosciuta, occorre che l'in- telletto vi intenda l'ente che vi si presenta e ne faccia una sintesi oggettiva. La meditazione su questa intesa e sulle sue condizioni da parte dell'inteiletto conduce alIa posizione del principio primo che non è più una forma intelligibile,,ma un'd- leanza attiva di atti reali dell'ente e dell'intelletto. E tuttavia evidente che ogni conoscenza è mediata da concetti astratti e da sintesi predicative, ivi compresa la conoscenza del prin- cipio sintetico a priori. Ma è riflettendo più sulle condizioni che rendono possibile I'atto di affermazione o di sintesi ogget- tiva che sui contenuti conosciuti che potremo raggiungere il fondamento di ogni conoscenza.

Tre condizioni dell'affermazione conducono a questa fon- dazione: è dinamica, sintetica e finalizzata. La prima caratte- ristica delia sintesi oggettiva è il suo dinamismo. Abbiamo già suggerito un tale dinamismo quando abbiamo parlato del desi- derio di conoscere. Questo dinamismo è dapprima messo in luce a partire dail'insoddisfazione che dimora nell'intelletto in procinto di prendere coscienza del carattere parziale deIle sue conoscenze. Ma nell' affermazione l'intelietto esercita un dina- mismo più radicale, un'attività che lo fa aderire alla verità o rigettare la falsità del giudizio predicativo. Aderendo a que- sto giudizio, l'intelletto assume la rappresentazione in cui I'ente si dona intelligibilmente; rifiutandolo, nega che il soggetto si dona veramente in questo predicato. In ogni modo, si lascia attirare dalla necessità di dire convenientemente ciò che è, o di conoscerlo al meglio quale è. L'affermazione oggettiva è cosi dinamica perché esercita un atto di adesione a puioi deIlo spi- rito d 'ente, qualunque ne sia la possibile manifestazione a postetiori. L1 dinamismo dell'intelletto sorge da una fiducia pre- liminare nell'ente, veramente conoscibile anche se lo è solo parzialmente per il momento o per sempre.

In secondo luogo, l'affermazione oggettiva è sintetica. Que- sta sintesi ha diversi 1iveIli. Concerne anzitutto il soggetto del

306 X. 11. PRINCIPIO E I.'i\TTO

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giudizio predicativo; più radicalmente, è I'alleanza degli atti dell'affermato e deu'affermante. Consideriamo dapprima il pia- no del giudizio predicativo. Per giudicare l'ente, l'intelligen- za ne elabora in un primo momento un concetto mentale. Que- sto concetto, per dar luogo ad una conoscenza esplicita, dev'es- sere successivamente espresso con parole. Il predicato è pri- ma un concetto generato mentalmente, poi un parola articola- ta foneticamente. Gli elementi che compongono ii giudizio pre- dicativo sono dunque nelio stesso tempo mentali ed espressi- vi, interiori ed esteriori. Questo stesso giudizio implica un'at- tività le cui determinazioni non provengono tutte dall'ogget- to conosciuto (l'oggetto formale deIle facoltà ha un ruolo ina- lienabile nella sua formazione) e neppure dal soggetto cono- scente: <<quando l'intelletto giudica, non solamente concepi- sce, ma per di più esprime», dice un adagio scolastico, crcorne ce il soggetto, per affermare, dovesse uscire daila sua intimi- tà, manifestarsi in qualche con mezzi che gli si impongono. L'espressione, benché ai di fuori del soggetto e senza pura presenza deu'oggetto, non tradisce tuttavia la cono- scenza; al contrario, la compie esercitando un atto spirituaIe fondamentde. Se non esprime nulla, I'intelletto non effettua in alcun modo ciò per cui è fatto. Pertanto, il contegno atti- vo che si esprime neil'enunciazione del concetto manifesta «un movimento particolare dal centro stesso del soggetto, una spon- tanedti si potrebbe dire»" che ha necessariamente un senso.

L'affermazione è possibile se la spontaneità dello spirito è orientata come una risposta al dono che l'ente fa di sé nelle sue determinazioni intelligibili. Questa risposta è effettuata dal- l'intelletto che comprende la verità predicativa alia luce del- l'ente, come se questo manifestasse cocì la sua fecondità com- misurandosi ad esso. I1 predicato, materia delia sintesi ogger- tiva, è più che una rappresentazione provvisoria ed inadegua- ta del soggeto; è riconosciuto come Xa manifestazione dell'en- te, il risultato del suo atto offerto d'intelletto. Percepire questa verità del predicato indica il «prolungamento virtuale [del movi-

J. MAR~C.IIAL, Lr point & &a*, p. 305 In., p. 306.

X TI. PRTNCiPIO E L'ATTO 307

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mento di spontaneità del soggetto conoscente] al di là del sog- getto, ueno un assoluto» 'O, che non rinchiude nessuna presen- za all'intendimento, ma di cui testimonia la necessità inalie- nabile del predicato: ciò che è, è veramente la sua apparenza.

L'intenzione della sintesi oggettiva o l'affermazione è di fatto già esercitata dalla sintesi predicativa o dal giudizio. Infatti, questa suppone che il soggetto della proposizione sia un'unità intelligibile e non confusa; se l'unità di questo soggetto fosse a pnori confusa, nessun predicato potrebbe legittimamente con- venirle e legittimarla. Eppure, nonostante tutto, ii soggetto della proposizione non è suscettibile di essere ridotto a una delle sue determinazioni; la sua intelligibilità, a priori nei con- fronti delle sue determinazioni possibili, le trascende tutte e non si confonde con nessuna. L'affermazione oggettiva rag- giunge questa luminosità dell'ente che si irradia a priori negli elementi enunciati nella sintesi predicativa; sposa la chiarezza di questa sintesi in atto aderendovi.

Il dinamismo dell' affermazione oggettiva esercita una sin- tesi primordiale più profonda deIla sintesi predicativa. L'af- fermazione non è compiuta senza un atto spirituale che rico- nosca la verità o la falsità del giudizio, e l'atto intellettivo non è ultimato senza esprimere questo riconoscimento in un' affer- mazione. Vi è un'dleanza tra l'atto soggettivo e l'atto ogget- tivo perché la proposizione possa essere affermata come vera. Il fondamento di tde alleanza non è in uno di questi atti sepa- rato dall'altro; è la loro mediazione a priori. Di fatto, «l'atti- vità propria del giudizio introduce, nel contenuto del pensie- ro, un'unith che non si perfeziona che per riferimento di que- sto contenuto ad un termine distinto dal pensiero soggettz- uo I I ; in questo termine, che è I'ente realmente presente a sé, la proposizione riceve il significato che suscita l'accordo dello spirito e che rende possibile l'affermazione. L'affermazione oggettiva pone dunque, nel seno stesso del giudizio predicati- vo, un'oggettività che non domina l'intelletto.

-"hid. 11 In., p. 707

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In ultimo, la finalità costituisce il terzo carattere dell'affer- rnazione. Il dinamismo intellettuale è finalizzato innanzitutto tramite I'ente, l'ens primum notam, non già in quanto possia-

facendo astrazione da tutte le sue determinazio- ni, ma in quanto precede ciascuna di esse, come la condizio- ne che ne fa sue presentazioni; la presenza dell'ente significa la sua trascendenza nei confronti delle sue manifestazioni. Ora, l'intelletto tende verso l'ente come tale e non verso una delle sue determinazioni, benché non possa farlo che attraverso que- ste. L'ente è dunque per esso un ob-jectum a pioa che fina- lizza il suo dinamismo, che l'orienta verso un'alterità che, al di là dei suoi predicati, è un atto oggettivo.

La redtà oggettiva d'orizzonte deil' affermazione è in un certo senso immanente all'intelletto. Possiamo descriverla in maniera induttiva, come ii termine che orienta la ricerca intel- lettuale; è ciò che abbiamo tentato di fare nei capitoli che han- no trattato delie scienze esatte, della loro articolazione e del loro fondamento. Il principio che unisce l'universale e iI neces- sario è la realtà oggettiva assoluta. Questa realtà non risulta dall'orientamento intellet tuaie che, al contrario, risponde al suo richiamo. L'intenzionaiità è necessaria perché Io spirito conosca «qualche cosa» di conoscibile o ami «qualche cosa» di amabile. In conseguenza, «l'oggettività non è solamente un dato di fatto che si è condotti a constatare o a subire. E in se stessa un vaIore e, in un certo senso, un diritto» 12. I1 det- to secondo il quaie d'ente è il primo conosciuto» significa dun- que, secondo l'ordine critico delle condizioni a priori del dina- mismo spirituale, che I'orizzonte ultimo dell'intelligenza è un oggetto assoluto che la ragione esige al di 1à di sé e ai di là dd'ente singolo ed essa riconosce di esserne attivamente attrat- ta. Di conseguenza, l'oggettività ai termine deli'intenzione intellettiva è intesa nel legame con lo spirito che «è in se stes- so attenzione, presentimento, attesa, [. . . che] si possiede nel- lo stesso tempo che si arricchisce nella rivelazione del- l'altro» ' 3 .

A. FOREST, Szgnificuiion de I'ubjccticifé, p. 44. In., p. 50.

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3. 11 pensiero in atto

La riflessione dello spirito sul suo atto di conoscenza offre un modello capace di sostenere l'affermazione sul principio. L'uno e il molteplice non si oppongono in modo assoluto. La riflessione congiunge infatti la diversità senza distruggerla. L'in- telletto accede a sé a condizione di esteriorizzarsi in ciò che esso non è. La molteplicità è interna d 'uni tà spirituale. Tut- tavia, il progetto spirituale non esige che l'unità sia una for- ma compatta? L'inclinazione verso un principio che supera ogni differenza, a rischio di annullarla, è costante, ma nello stesso tempo incessantemente contestata, nella filosofia occidentale. In quanto è pensabile come un atto, il principio unisce in sé la diversità che gli permette di mantenersi in esercizio. Per pensare un tale principio, la riflessione deilo spirito su se stesso dona un modello fecondo, poiché essa rispetta la diversità unendola in un atto. Tuttavia il principio preteso dall'intel- letto non è d a misura dello spirito; l'intelletto riconosce che la sua esigenza lo conduce più in alto di se stesso nel rnornen- to in cui conosce il limite intrinseco della sua presenza a sé. In realtà, lo spirito non è una pura autoposizione di sé di per sé sotto tutti i suoi aspetti; accede alla sua unità a partire dal- la sua diversità. I1 principio, invece, deve a priori donarsi la sua diversità come segno della fecondità della sua unità. La riflessione sul principio sarà svolta in un'altra opera. Vorrem- mo adesso concludere i1 nostro cammino fino alla soglia di que- sta riflessione esponendo il modelio spirituale che ad essa conduce.

In un primo punto, presenteremo la struttura metafisica della conoscenza di sé; vedremo così come l'unità è interiore alla diversità. In un secondo punto, manifesteremo in che modo lo spirito esercita il suo atto a condizione di essere limitato; potremo allora concepire come l'unità è posta grazie alla mol- teplicità. In un terzo punto, mostreremo come l'atto di affer- mazione apre lo spirito ad una trascendenza, facendogli eser- citare un'attitudine costantemente al di fuori delle prese del- l'intendimento scientifico.

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a) L'atto spintnale

Efis phmum notum: I'ente è il primo conosciuto. Offerto alla apprensione, non è il concetto svuotato di ogni deter-

d i o n e , I'em pazdpenimum, ma è l'ente che sintetizza a priori i suoi molteplici aspetti intelligibiii e che, attraverso questi, ci alla totalità degli enti. Non accediamo a questo ente al termine di una ricerca che muoverebbe da ciò che esso non è. L'ente deve presentarsi da se stesso o a priori e l'intelletto dev7esser& accordato da se stesso o a priori. L'intelligenza aria-

lizza l'ente, evidenziando aspetti che sa di potergli riferire. Quest'andisi non avrebbe interesse se si sapesse che l'ente scomposto non rimarrebbe unito in sé. La discorsività fram- menta il concreto, ma l'intelletto riconosce il frammento come frammento e sa che può riportarlo al suo fondamento necec- cariamen te unificato. Ii anche analitico, ha un fondamento sintetico; ope-

ra una sintesi predicativa. L'analisi separa il soggetto della pro- posizione dal suo predicato, ma questa separazione non scin- de ii soggetto che possiede il suo predicato legittimo nella sua unità fontale. L'analisi ha una funzione che concerne l'inten- dimento e non l'ente; l'appartenenza del predicato al sogget- to, immediata ne1 soggetto, è per lo spirito progressivamente rivelata. La copula media ques t'appartenenza, mettendo in evi- denza I'immanenza del predicato al soggetto o la sua intelligi- bilità a priori

L'esperienza del cogito serve da modello per pensare il radi- camento dell'anaiisi neiia sintesi originaria. Cogito, sum. Quan- do io penso, mi pongo dl'origine del mio atto di pensiero, pur esprimendomi a i di fuori di me. La conoscenza che lo spirito ha di sé nella sua espressione attesta Ia sua presenza nella sua dterid. Lo spirito si conosce così come una potenza di sinte- si; si mostra in un'esteriorità che sa di non essere, ma attra- verso la quale pone in atto se stesso. Sa dunque di realizzare la sua identità in ciò che non è. La metafisica riflessiva vede in questo atto spirituaie il modello del principio che sintetiz- za a priori ciò che l'analisi potrà scomporre a posteion, pur rimanendo nella verità.

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Lo spirito è presente a sé, ma 10 sa solo attraverso una rifles- sione seconda; esso «si conosce se ha prima conosciuto^^ 14;

non accede direttamente a sé. Per principio, ogni conoscenza è conoscenza di qualche cosa; è intenzionale. L'intenzionalità spirituale significa che lo spirito tende verso ciò che non è per essere ciò che è. Inoltre, come mostra san Tommaso, lo spiri- to accede a sé riflettendo sul suo dinamismo estatico; Ia coscienza, conoscendo un oggetto e facendo ritorno sul suo atto, si conosce in procinto di conoscere attivamente. In tal modo la conoscenza è neilo stesso tempo diversa (intenziona- le) ed una {riflessiva).

L'affermazione tomista è ispirata da Aristotele. La perfe- zione di una disposizione consiste nel suo esercizio. L'uomo di scienza è perfettamente uomo di scienza quando fa scien- za, non quando dorme; similmente, la potenza conoscitiva è esercitata quando pone attivamente un oggetto conosciuto. Quando la conoscenza è in atto porta a compimento ciò che è e conosce la sua pienezza. Ora, ed è qui I'originalità della tesi, se la conoscenza di sé suppone la conoscenza oggettiva, questa non è una conoscenza oggettiva nuova. Conoscere e conoscersi non sono due atti, ma due aspetti di un solo e mede- simo atto. Questi due aspetti dell'atto, exercite o riflesso (uni- tà che si conosce) e signate o oggettivo (che conosce l'oggetto diverso) sono simultanei l'uno all'aitro. La conoscenza che si conosce può certamente prendersi come oggetto di studio, ma a condizione d i essere preliminarmente esercitata a prioil in una prima conoscenza deil'oggetto. La conoscenza di sé in atto di conoscere si acquista mediante una conoscenza diretta di oggetti, ma non è di questo genere.

Se il conoscente si conosce conoscendo, s i conosce a condi- zione di oggettivarsi nell'azione di conoscenza. L'atto non è mai colto direttamente, nella sua semplicità; per essere cono- sciuto dev'essere oggettivato, divenire altro da sé. «In tutte le potenze che possono riflettere sui propri atti è necessario che prima l'atto di esse si rivolga ad un altro oggetto, e poi sul proprio atto. Se infatti l'intelletto intende la propria intel-

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lezione, prima bisogna che intenda qualche cosa, e quindi inten- de se stesso nel17atto deU'intendere» 15. Psicologicamente, dunque, viene prima la posizione dell'ogetto, poi l'accesso d'i- dentità deli'at to tramite riflessione seconda su questa inten- zionaIità oggettiva e prima. La riflessione sembra così ogget- tivante. L'atto d'origine della conoscenza può essere oggetti- vato. Per conoscersi deve d'altronde essere posto come un fatto conosciuto», al participio passato. L'intelletto d'origine di ogni conoscenza può comprendersi facendosi oggetro di cono- scenza, anaIizzabile come ogni oggetto di conoscenza, ma per questo deve porsi ail'origine di tale conoscenza. E l'atto che conosce ciò può essere anche conosciuto come tale ad un secon- do grado7 come facciamo adesso, grazie ad un atto di terzo grado che, a sua volta, sarà oggettivato ad un quarto grado, ecc.

Sembra così che nulla impedisca una regressione ad infini- tum della riflessione. San Tommaso, dall'oggettivazione del- l'atto di intellezione, conclude che «l'atto col quale I'inteUet- to conosce la pietra è diverso da quello con cui conosce di conoscere la pietra, e cosi di seguito. D'altra parte non c'è difficoltà ad ammettere nell'intelligenza un'infinità potenzia- le» 16. M. Merleau-Ponty sostiene una dottrina simile: «Così l'autopossesso, Ia coincidenza con sé non è la definizione del pensiero: P invece un risultato dell'espressione ed è sempre un'iilusione, nella misura in cui la chiarezza di ciò che è acqui- sito riposa sull'operazione fondamentalmente oscura grazie alIa quale abbiamo eternato in noi un momento di vita fugace»". La riflessione non può raggiungere il principio di identità senza situarlo in un dominio accessibile al linguaggio comune ed a1 diverso che non è proporzionato all'atto semplice ed uno. I1 processo della riflessione dell'atto su se stesso è dunque vota- to all'infinito. Lo stesso per Sartre: uogni conoscenza che si riflette è infatti irriflessa in se stessa, ed occorre un atto nuo- vo e di secondo grado per porla. Vi è qui [...I un rinvio aU'in- finito, perché una coscienza non ha bisogno di una coscienza riflessa per essere cosciente di sé» 18.

TOM~TASO, Somma contro i Gentili 111 26, C. I1 I. 'VO~L~ASO, La somma tpoluiica 1 87 3 ad 2. '' M. MFRLEAU-~'OK,L,Y, Fenome~o!ogPa dclh percezione, p. 500. '".I'. SAKIRP, h tfansicmiance de I'qo, p. 29 .

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Tuttavia, riconosce Merleau-Ponty, la riflessione non deve regredire all'infinito se coglie l'atto come atto; l'origine della conoscenza riflessa non si conquista come un oggetto da cono- scere, ma si riconosce in atto. «Noi non vogliamo dire che 1'10 primordide si ignori. Se si ignorasse, esso sarebbe infatti una cosa, e nulla potrebbe far sì che in seguito divenisse coscien- za» l'. La riflessione non è condannata a perdersi ad infinituna nel momento in cui la specificità dell'atto è riconosciuta alla sua origine. <<La prima cosa che si conosce intorno ali'intelli- genza è precisamente la sua intellezione~ 20. Per conoscere occorre conoscere qualche cosa; ma ciò che è prima conosciu- to di un'anteriorità di principio veramente a priori è I'atto o l'<<io>> originario.

Ci troviamo qui nella stessa situazione che a proposito del principio, secondo per quanto riguarda la conoscenza che ne abbiamo, ma primo quanto a sé ed affermabde come tale tra- scendentdmente. La conoscenza riflessa non aggiunge alcun oggetto dla conoscenza diretta; il suo rccontenuto rappresen- tativo rimane identico; la riflessione, come tale, non aggiunge alcun elemento nuovo. Cambia soltanto l'orientamento del pen- siero, rivolto verso l'interno e non verso l'oggetto, oppure, se si preferisce, fissato all'esistenza intelligibile dell'oggetto ed alie sue condizioni soggettive piuttosto che alle determinazio- ni di questo oggetto»21. Lo spirito in atto non si intuisce come un fatto del mondo, ma come un atto all'origine di ogni conoscenza.

Lo spirito conosce l'originalità del suo atto originario. Ma sa che le sue rappresentazioni non sono solamente da esso e per mezzo di esso. Esercita la sua presenza in tutte le sue atti- vità oggettivanti. Ma le scienze che lo considerano unicamen- te in questa esteriorità non raggiungono l'origine delI'atto come origine pura; mancano l'azione spirituale non tenendo conto del suo carattere originario. Da parte nostra affermiamo che lo spirito si conosce come soggetto originario e presente a sé

19 M. MERLEAU-PUIITY, Feetdom~no10giu della percezione, li. 518 20 TOMMASO, La rumnau teologicu 1 87 3 C.

J. nF FINANCE, C U R ~ ~ U cartésien, p. 42.

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in ogni atto di affermazione; si riconosce aliora identico al suo atto (exercite) ali'interno della sua azione espressiva (signafe).

spirito si pone come un soggetto in atto attraverso la media- zione di ciò che esso non è.

6) il pensiero limitato

11 pensiero è limitato interiormente dalle necessità che ci impongono d a sua pratica. Innanzitutto, non può mettersi in esercizio se disprezza le regole della logica che rendono coe- rente la sua espressione proposizionale. Se trasgredisce la leg- ge di non-contraddizione, distrugge ciò che & permette di svol- gersi. Se si esprime in un modo qualsiasi, esprime qualunque cosa, vale a dire nulla. Inoltre, iI pensiero è limitato dalla sua intenzionali ti. Occorre pensare qualche «cosa» per pensare. La noesi o I'atto dell'intelietto tende verso un noema o una tra- scendenza oggettiva che corrisponde alla sua apertura a prio- ri. In ultimo, il pensiero è anche limitato dalia presentazione di un noema reaimente limitato; il termine che corrisponde d a sua apertura dev'essere determinato. Che cosa sarebbe i1 pensiero se non avesse n d a di simile da conoscere? Non vi sarebbe mai nulla da conoscere se fosse conoscibiie solo l'in- determinato, sempre diverso da ciò che è effettivamente espresso.

Conoscere è conoscere in maniera Iimitata. E tuttavia noi conosciamo, così ad effettivamente, la reaità che è più delle determinazioni presentate all'intelletto. Le molteplici limita- zioni interne o esterne della conoscenza sono le condizioni del suo esercizio reale e del suo accoglimento deli'ente qude real- mente si presenta. Ma non sono la totalità del suo atto. L'in- telletto sa che può andare al di là delle sue analisi limitate moltiplicandole; sa che, facendo ciò, non si accontenta di som- mare idormazioni limitate senza legami tra loro. Sa che meglio determina la sintesi reale, megIio si accorda a1 suo splendore. L'analisi non si fa a sfavore dell'accoglimento deil'ente unito, ma a suo favore. Aderendo ai suoi limiti, l'intelletto è invita- to ad elargire le sue acquisizioni ed a riconoscere la presenza ricca e feconda del reale che dà slancio e prudenza alla sua

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analisi. L'invito a progredire neu'analisi proviene da un sape- re per sempre irriducibile alle precisazioni analitiche indefini- tivamente possibili. La divisione o l'analisi non è padrona, ma serva del pensiero. 11 principio è l'ente che si offre nella sua unità all'intelletto ed è proprio così che I'intelletto l'intende.

L'intelletto, che conosce i limiti dell'analisi, sa che non vi sono limiti per la sintesi originaria. Questa conoscenza dell'il- limitato è espressa paradossalmente dai mezzi dell'analici, poi- ché non abbiamo altre possibilità di espressione. L'intelletto esprime l'illimitato in maniera significativa, ma indirettamen- te. Se non lo potesse, non potrebbe conoscere alcuna sintesi; se non potesse conoscere, non potrebbe giudicare che le sue conoscenze di intendimento, limitate e frammentate, sono chia- mate ad andare più lontano. Ma come conoscere questo illi- mitato, fondamento deila conoscenza del limitato, senza che questa sia un conoscenza limitata? In che modo dire la sintesi che è all'origine delle determinazioni conosciute senza farne una determinazione analitica? La conoscenza dell'illimitato è limitata.

Si distinguono tuttavia diverse modalità d d a determinazione limitativa. Vi sono le determinazioni che si limitano le une con le altre, e le determinazioni di cib per cui un limite è cono- sciuto come tale. Abbiamo distinto in questo modo il concet- to, la categoria e l'idea., L'illimitato, determinato oltre le sue determinazioni anditiche, è conosciuto come la condizione deI movimento dell'intelletto che va al di 1à delle sue determina- zioni scientifiche. E questa condizione è un'idea che può essere espressa grazie al concetto.

Di fatto, il concetto gioca un ruolo che supera l'anaiisi a postenoti. Vi è in esso, più profondamente che un riflesso del- I'esperienza, un w prioi, la sua potenza di sintesi di cui noi abbiamo il sapere originario e che possiamo esprimere in manie- ra significativa. Conosciamo, per mezzo delle categorie, i limiti delle nostre diverse forme concettuali; tramite l'idea, cono- sciamo l'illimitato che, a prioti, e in modo radicale, rende ogni limite intelligibde. Il significato dell'idea dell'illimitato pro- viene da un'esperienza, e in questo senso l'idea ha anche qud- cosa del concetto, ma un'esperienza originale, puramente intel-

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ligibile ed a priori, I'esperienza riflessiva del Cogito, presente a sé attraverso le determinazioni della sua espressione. La rifles- sione sdl'esperienza spirituale dona cosi alcuni concetti che

l'origine ideale. L'inteUetto conosce il suo atto oggettivandolo in una maniera

che può essere analizzata; ma cosi fissandolo, si pone ancora in atto di conoscere. Questo atto non Io può porre per analiz- zarlo senza esercitarlo; l'atto szgr~ate, analizzabile, suppone un atto exmi&, la sua origine che vi s i riflette senza potervi essere dissolta. L'intelletto non si riconosce veramente in procinto di conoscere nel momento in cui si coglie nei suoi elementi andizzabili, ma quando si coglie nuovamente e riflessivamen- te d'origine delle sue proposizioni. Vi è una conoscenza imme- diata di sé di per sé nel suo atto di proporre le sue conoscen- ze oggettive. Io non conoscerei di conoscere se non conosces- si gzkalciSe cosa; ma, inversamente, non conoscerei di conosce- re qualche cosa se non mi conoscessi all'origine di questo atto di conoscere.

La conoscenza di sé è resa dinamicamente. È impassibile ridurre questa tensione in un'unith formale, risolverla in un'al- ternativa: o io mi conosco come un oggetto conosciuto e non mi conosco come un soggetto conoscente; o mi conosco come un soggetto conoscente e non mi conosco come un oggetto conosciuto. Quest'dternativa è assurda; io mi conosco cono- scendo qualche cosa. I due poli analitici dell'atto, la sua origi- ne e la sua espressione, non sono distrutti I'uno dall'aitro, ma si appoggiano sinteticamente I'uno suu'dtro.

Si tenta alle volte di semplificare questa tensione, distin- guendo l'intendimento analitico o oggettivante e la ragione sin- tetica o soggettivante. La conoscenza dell'oggetto sarebbe così prerogativa dell'intendimento determinante, mentre la rifles- sione del soggetto su se stesso sarebbe riservata alla ragione sbtetizzante. Ma questa soluzioi~e non soddisfa; non mostra come le diverse potenze dell'intelIetto, l'intendimento e la ragione, si sostengano l'un l'altra e si penetrino reciprocamente. In reaità, le conoscenze di intendimento e di ragione non sono distinte l'una dall'alira come la conoscenza oggettiva e anali- tica e la conoscenza soggettiva e sintetica. Da una parte, l'og-

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getto non è esteriore al soggetto spirituale, ma è l'unità reale che lo trascende richiamando il suo esercizio fedele e perspi- cace; è un orizzonte di intelligibilità che l'intelletto desidera raggiungere. D'altra parte, l'intelletto svolge la sua attività all'interno dei limiti della propria intenzione e delie presenta- zioni molteplici dell'unità oggettiva; conosce a partire da qui, che è invitato a superare le divisioni dell'intendimento af fi- nando da una lato le sue anaiisi e ddl'altro riferendole all'u- nità sintetica dell'ente.

Lo spirito scopre così la sua affinità con ciò che non può essere ridotto alle acquisizioni dell'analisi, ma che non è un'in- determinazione assolutamente in secondo piano rispetto alle sue determinazioni particolari. L'ente reale si presenta in atto nelle sue apparenze; lo spirito, in atto di conoscerlo, si cono- sce così limitato come ciò che conosce, potenza in qualche modo aperta a priori d 'ente a priori, fecondo nelle sue deter- minazioni. Questi limiti nei quali l'ente e lo spirito si commi- surano l'un l'altro, sono assunti nel momento in cui la rifles- sione Iascia risplendere l'alleanza ontologica che congiunge lo spirito e l'ente, l'uno al di là deIl'altro.

C) I2 consenso all'essere

L'intelligenza si esercita dinamicamente neil'affermazione. Lo spirito si pone in atto affermando. Ma, facendo ciò, impe- gna più che le sue potenze intellettuali. LI principio scoperto riflessivamente è più delI'unità inteliigibiie. Vi è affermazio- ne quando l'intelletto, a priori aperto a <<ciò che è», ne rico- nosce la chiarezza ed aderisce alle determinazioni che acco- glie nel suo giudizio; vi è negazione quando rifiuta la sua ade- sione. L'adesione o il rifiuto, che sono le determinazioni sog- gettive attraverso le quali il giudizio diviene l'affermazione, evocano un momento volontario interno d'attività intellet- tuale. Certamente, si rifiuta di sottomettere l'attività dell'in- telietto ad una condizione che vi introdurrebbe un arbitrario soggettivo. La voIontà, che anima il compimento del lavoro intellettivo, non è libera dalle sue scelte; non determina la real- tà unita dell'ente. Alcuni filosofi specificano dunque questa condizione soggettiva come un habitas dell'inteliigenza.

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Al fine di esprimere una differenza tra la volontà e l'babi- dell'intelligenza, si distingue talvolta l'c<assenso» e il «con-

senso», questo essendo più «volontario>> di quello. Così, la paro- Ia <<assenso» <<sembra essere identica al giudizio, ma sottoli- neando i suoi aspetti soggettivi e riflessivi. E il giudizio come atto personalecche impegna la persona e di cui la persona è responsabile. E il giudizio in quanto fondato su un'appren- cione deli'evidenza, in quanto essa include la coscienza della propria validità come di una verità nel soggetto, piuttosto che come una verità assoluta e come un mezzo nel quale la verità è raggiunta» 22. NelIa medesima linea, J. Maréchal affermava: <<l0 che I'assensus [...l designa un' [...l attitudine psicologica finale del soggetto conoscente [...I. E noi possiamo dunque identificare formalmente l'crssensus con l'affimatio. 2 che I'as- sensus o I'aflzmatio è un atto delia facoltà inteIlettuaIe e non della volon t&>> 23.

Si possono non avere questi scrupoli. «I1 consenso i: pro- priamente l'atto attraverso il quale lo spirito corrisponde d'es- sere come benevolenza>.>24. Per mezzo di quest'attitudine, l'intelletto esercita la più profonda delle attitudini spirituali. La volontà, che esprime allora la totalità del soggetto in allean- za con l'essere, non è ciò nonostante arbitraria; raccoglie piut- tosto la Jibertà nella verità del suo slancio. I1 consenso «è la risposta pura della nostra iibertà d'attrattiva che ci viene dalle cose. Non può essere sovraggiunta, esteriore d a nostra volontà; la sua forza non può essere presa in prestito, né derivata. In quest 'attitudine spoglia [. ..l, ritroviamo l'intera presenza spi- rituale che è la condizione prima delia libertà,,z>. Secondo san Tommaso, si può dire che l'intelletto dona il suo assenso essendo mosso dalla volontà 26. L'babztus del consenso dipen- de dalia volontà naturale che anima la natura dinamica e fina- lizzata dell'intelletto.

22 B. LONEHGAN, Vcrhum, p . 61. J. U É C ~ L , Le poi~nb de &$OH, pp. 3 10-3 11.

24 A. FOREST, Commbm~'flt c i créution, p . 50. 2' A. FOREST, Obe'isnnce et tiberlé, p . 242. 26 Cfr. TOMMASO, LA somma leolof~ca 1-11 15 1 ad 3

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Riconoscendo un ruolo deila volontà nell'atto dell'intelligen- za, si mette in rilievo l'estasi dello spirito conoscente. In gene- re, la conoscenza ha un carattere nozionde ed i suoi strumen- ti sono immanenti all'inteIletto. I1 concetto non eesis te» nelIa natura, ma nel pensiero; il dinamismo spirituale orientato verso la trascendenza appartiene piuttosto alia volontà. <<I1 rappor- to dell'appetito alla realtà concreta si trova molto di frequen- te affermato in san Tommaso, e per lo piii in contrasto col carattere nazionale della conoscenza. Mentre quest'ultima ha luogo mediante la recezione di una f o m a pih o meno elabora- ta, l'appetito teizde verso la cosa in sé (in i p s ~ s r e ~ ) ~ ~ ' . L'ac- cesso all'oggettivit à dell'ente è dunque assicurato dalla volon- tà più che dall'intelletto.

Per questo motivo .«noi possiamo concepire, dell'oggetto all'anima, un duplice rapporto. O l'oggetto è presente allo spi- rito, ma aliora, non potendovi sussistere secondo il suo esse propria, esso riveste un essere spirituale. Oppure, al contra- rio, è l'anima che si riferisce mediante una relazione origina- le, au'oggetto concretamente esistente [. . .]. La possibilità per l'oggetto di essere rappresentato nello spirito lo costituisce conoscibile; l'ordinamento dello spirito alla cosa dona a que- sta la rcrtio appetibi l is~~~. L'intelligenza si mette dunque in rapporto al suo oggetto cogliendone interiormente I'intelIigi- bilità, mentre la volontà si dirige in maniera estatica verso di esso. Per questa ragione, la facoltà della realtà oggettiva è più la volontà che l'intelligenza. «Chi sente o intende ha un vero rapporto con la cosa esistente fuori dell'anima mediante la volontà o La volontà è la facoltà del trascen- dente, mentre l'intelligenza è quella dell'immanente. «Se la conoscenza, nella sua realizzazione più aIt a, l'intellezione, è ordinata d'esse, è precisamente perché l'intelligenza è essa stes- sa tutta penetrata di appetito. Spogliarla del suo dinamismo, sarebbe ridurla ad una pura facoltà delle essenze>>30.

2' J. I>K FINANCB, Etre et agir, p. 195. ZA ID., p. 196. ''I T O ~ Z ~ I A S O , Summci contm i Gcwtili I 72 30 J, nF. FINANCE, Due d agir, p. 178.

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Si viene così a strutturare l'attività intellettuale come un desiderio dinamico articolato mediante il rapporto della potenza e dell'atto. La potenza è una privazione positiva, e non asso- luta, dell'atto. Ugualmente, il desiderio prefigura con il suo orientamento il fine che Io attira; il suo termine gli & interior- mente presente per guidarlo. Vi è un'immanenza del fine al deciderio intellettuale. Il dinamismo intellettuale è così orien- tato da ciò che si presenta intelligibilmente e che esso pre- comprende. Questa pre-comprensione, esercitata fin dal]'ap- prensione semplice, ha una portata ontologica che non pro- viene dd'anaIisi dell'intendirnento, ma da un'affinità dello cpi- rito con ciò che è e in cui l'intelletto riconosce il bene che desidera. «In quanto l'appetito è già in atto e può essere acsi- milato ad un movimento, possiede con il suo termine un'affi- nità positiva, una similitudine, una connaturalità; si realizza già in germe» )l . A motivo di quest'affinità che gli strumenti del nostro sapere non possono ridurre, si può dire che il ter- mine della conoscenza è una grazia o un dono.

<<Ma nello stesso tempo, a causa del suo aspetto potenziale, lo prefigura, per così dire, al suo interno» 32. 11 termine intel- lettuale trascende I'inteliet to; se fosse semplicemente imma- nente, il desiderio sarebbe appagato e ii suo dinamismo spen- to. I1 desiderio intellettuale non raggiunge mai il suo fine ulti- mo, l'ente nella sua unità semplice; vi tende in maniera esta- tica: il suo fine gIi è presente sotto il modo dell'attrattiva. La volontà risponde a quest'attrat tiva. Per tale motivo I'aIleanza con l'ente è esercitata nei nostri giudizi da un'apertura volon- taria che potremmo chiamare iI consenso dell'intelletto a ciò che è, la sua risposta al dono che ci viene fatto gratuitamente.

j1 IL. pp. 198-199. " ID.. p. 199

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CAPITOLO UNDXCESIMO

L'ATTO E LA PERSONA

I1 pensiero, nell'atto di affermare, non si accontenta di rac- cogliere elementi che descriverebbero gli enti. Le sue affer- mazioni non riflettono soltanto le apparenze del mondo. L'af- fermazione non è senza l'impegno di colui che la pone. Essa implica un atto di consenso il cui carattere soggettivo e volon- tario non può essere ignorato. L'oggettività, in questo senso, è spirituate, un valore da conseguire più che un fatto acquisi- to. LO spirito vi aderisce mettendo in opera alcune disposi- zioni come il rispetto e il riserbo attento. La conoscenza ha con ciò una dimensione etica che le garantisce ii giusto senso dd'oggettività. La nostra riflessione cercherà adesso di met- tere in evidenza questa dimensione etica che appartiene d ' a t to dello spirito.

Lo stupore è animato da ciò che non dipende so10 dal sape- re. Questa esperienza ha un aspetto negativo, l'angoscia, di cui parleremo in un primo punto, ed un aspetto positivo, I'in- contro con l'altro, oggetto del nostro secondo punto. Un ter- zo punto concluderà parlando delta persona, l'ente più pro- fondamente atteso e voluto dailo spirito.

1. Un abisso spirituale

I1 dinamismo dell'intelletto, messo in movimento dallo stu- pore, rivela ii desiderio dello spirito conoscente e Ia sua aper- tura verso ciò che esso non è. Questo desiderio ha tonalità

xr. L'ATTO E LA PERSONA 323

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volontarie più che noziondi. Richiameremo alla memoria che lo stupore è una prima forma dell'esperienza della differenza antologica. Ma questa differenza può essere talmeme riassor- bita dall'intendimento scientifico, il <{mistero» può essere tal- mente dissolto nel «problema», che si viene a pensare che lo stupore non sia l'esperienza pih fondamentale di questa diffe- renza; ne abbiamo un'altra più originaria. Evocheremo in segui- to l'esperienza dello scacco, per mezzo della quale viviamo la differenza ontoIogica nel quotidiano.

Tratteremo in ultimo delI'angoscia, uno dei temi essenziali del pensiero contemporaneo, così attento a non opprimere la contingenza reale delle nostre vite con onori che la loro dignità non permette di tollerare.

a) A2 di qzla dello stzipore

Lo stupore fa presentire la profondità deil'insolito, J'al di là delie apparenze immediate. La scienza si sforza di ricon- durre questo insolito nell'ambito delle sue evidenze, dandogli iina norma ragionevole. Tuttavia, nonostante questo tentati- vo di annullamento, il pensiero non può evitare di vedere che si P scavato in sé un abisso che nulla potrà più colmare vera- mente. Lo spirito è stato attraversato da un mistero; non potrà mai più appagarsi delle sue evidenze apparenti. I1 dubbio è divenuto per esso un omaggio al reale. L'ente riprende allora una nuova profondità il cui significato antologico sarà svelato solo qiiando si sarà lasciato sollevare verso ciò che I'intendi- mento non avrà potuto racchiudere in sé. Lo stupore ha reso il pensiero inquieto, ma non gli ha svelato la profondità del fenomeno.

L'interiorità di ciò che stupisce si è ritratta lontano dalle evidenze dell'intendimento. I1 lavoro intellettuale diventa d o r a problematico. L'avvenire della conoscenza può essere affida- to ail'ingegnosità delle tecniche incessantemente nuove e più precise. Ma se non è che un effetto del lavoro dell'intendi- mento, non andrà molto pih lontano da cib che è adeguato alle sue rappresentazioni; non uscirà dal problematico. I1 moJ- tiplicarsi dei lavori scientifici non permette di raggiungere ciò

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che soddisfa a primi la conoscenza. Le nostre conoscenze aumentano indefinitamente, ma conosciamo meglio? L'interio- rità semplice dell'ente che si ritira dietro i suoi fenomeni sem- pre più complicati e parziali sarebbe forse vana?

La conoscenza che riduce l'ente all'omogeneità della sua coerente non permette di giungere ala sua pro-

fondità. Comprendiamo tuttavia bene ciò che diciamo quan- do affermiamo che le nostre conoscenze parziali si riferiscono all'ente unito che la loro complessità non esaurisce. Compren- diamo anche che le nostre conoscenze non possono essere altro che prziali. Lo spirito è cosciente dei limiti delle sue cono- scenze determinanti; anzi li conosce quanto più conosce delle determinazioni. Chi non conosce nulla crede di saper tutto; più conosciamo, più sappiamo che l'ente è ricco e inesauribi- le. Conosciamo dunque I'unità deli'ente, centro che sintetiz- za le sue apparenze intelligibili.

Ma in che modo potremmo conoscerla, se avessimo solo conoscenze limitate? Come conosciamo le ricchezze a priori del- la sostanza che si mantiene in sé al di 1à delle sue apparenze particolareggiate? L'ente, al di fuori delie sue presenze, non ci dona intelligibilmente che attraverso queste; al contrario, I'inteIiigibilità ha un senso grazie al dono che l'ente fa di sé determinandosi. Ma come conoscere questo dono in maniera inteiligibiie? Alcuni filosofi hanno parlato a questo proposito di «simpatia», di connaturaliti o di affinità. Riprenderemo le intuizioni essenziali che sono espresse con questi termini per penetrare ciò che fonda I'atto dell'inteliigenza.

L'ente unito in sé è radicalmente diverso dalle sue appa- renze determinate come l'originante è differente dall'origina- to. L,'intelletto conosce questa differenza tra Ia sostanza e le sue determinazioni intelligibili perché ha esso stesso una cer- ta connaturalità sia con l'una che con le altre. Esso conosce il. rapporto che si stabilisce tra i suoi punti di vista realmente parziali e la parzialità delle manifestazioni reali dell'en te. Cono- sce la pienezza dell'ente, ed è con questo metro che giudica e pondera tutte le sue affermazioni. Sa che il sapere deIl'uni-

è anteriore a tutte le sue conoscenze discorsive, poiché può riportargli tutte le sue determinazioni. Ma l'ente conosciuto

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in sé è irriducibile alle sue determinazioni; la conoscenza che gli viene proporzionata è il sapere di ciò che, unico, resiste alla sua riduzione in frammenti calcolabili.

Lo spirito, per affermare, rispetta ciò che riconosce nella sua oggettività. Questa oggettività è spirituale, evidenziata attraverso il ritorno dello spirito sui suo atto, come I'orizzon- te di questo atto. Essa lo trascende orientando il suo dinami- smo, facendogli attraversare tutte le sue determinazioni, sen- za fermarsi in nessuna, poiché non è misurata da nessuna acqui- sizione determinata. Il pensiero che cerca di spiegare le con- dizioni del suo atto incontra così un limite insormontabile. Quando esprime la sua conoscenza dell'oggettività, la sotto- mette ad un principio che non può essere semplicemente espri- rnibjle. Il sapere dell'ente-uno non può essere una conoscenza di intendimento. Ma ogni conoscenza è di intendimento. Non vi è dunque conoscenza dell'ente-uno, neppure tramite il ritor- no del pensiero sul suo atto; l'analisi riflessiva rimane un'ana- lisi. L'esigenza deil'unità che sostiene ii movimento dei pen- siero si arena dunque ed è destinata al silenzio.

AlIa trascendenza dell'ente corrisponde un comportamento nuovo delio spirito. Per la maggior parte del tempo, soprat- tutto nella linea di Aristorele, lo stupore disconosce i misteri che problernatizza riconducendoli sotto le sue forme intelligi- bili. I1 sentimento delio scacco e dei17angoscia esprime un com- portamento più rispettoso della trascendenza deli'ente; assi- cura la rettitudine deu'intenzione spirituale e la sua apertura ad un oggetto assoluto; sostiene lo slancio dello spirito in modo migliore dello stupore.

b) Lo scacco

Lo scacco è un sentimento che colpisce l'affettività. Ma I'af- fettività può accedere al fondamento? Ciò non sarebbe possi- bile se fosse soltanto «uno spazio di calda interiorità, di dia- logo intimo con se stesso. [Ma in realtà,] è in rapporto con l'azione che regola, con l'oggetto al quale ci assimila» l . I sen-

l J. LACHOIX, Les rmtiments et h vie mora&, p . 4.

326 xr. L'ATTO E I,A PERSOKA

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timenti non ci ingannano sulla realtà delle cose. Certamente sono soggettivi; ciò di cui si ha il sentimento ci è relativo. Ma questa soggettività e questa relatività ci informano su ciò &e per noi le cose sono realmente. Percepiamo l'ente-uno qual 2 per noi grazie ad un sentimento fondamentale.

Non si f a filosofia con buoni e cattivi sentimenti. Ma la si fa con dei sentimenti tout court. I sentimenti mettono in esercizio l'essenza estatica deiia volontà meglio dell'intendi- mento assimilatore. Malebranche distingueva la conoscenza di idea o di intendimento che co&e l'essenza dalla conoscenza di coscienza o mediante il sentimento che va verso l'esisten- te. L'intelligenza affinata fa quaicosa di più che analizzare scru- polosamente gli enti per rendersene padrona; è l'amica che comunica o simpatizza senza mai confondersi con il suo amico.

Lo spirito, affermando, impegna il suo consenso. Se l'af- fermazione è un'azione e se la passività è essenziale ai senti- mento, nessun sentimento entra nell' affermazione, Ma l' azio- ne deii'affermazione non è semplicemente attiva. E piuttosto, al termine delia costruzione inteIlettude, un consenso o una sottimissione dello spirito a ciò che è come è. Di fatto, già durante la costruzione del giudizio, Io spirito deve rispettare i procedimenti deila scienza al fine di mantenere un ragione- voIe rapporto tra ciò che è e il suo giudizio. Fondamentalmen- te, l'intelletto è teso in maniera dinamica verso un'dterità; questo desiderio è la sua passione originaria. L'intelletto rispon- de all'attrattiva de& enti impegnando tutta la sua potenza neiia risposta. Il suo impegno è un'azione che risponde a ciò che lo trascende. L'attenzione a ciò che 6 Io distoglie da se stesso per metterlo al servizio della realtà che desidera conoscere e nei confronti della quale si vuole radicahente ricettivo. E allo- ra che viene a proporsi il senso adeguato dell'oggettività. L'og- gettività è una trascendenza desiderabile aI termine di un desi- derio estatico. Questo termine non è determinato dal deside- rio che orienta. L'intesa metafisica dell'oggettività spirituale fa eco a questa indisponibiiità. I1 desiderio spirituale si mette a disposizione di cib che esso non riesce a dominare.

L'affettività è passiva. Se si lascia impressionare da qualun- que cosa, conviene sorvegliarla. Se non fosse sotto l'autorità

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della ragione, custode delle realtà, si lascerebbe sopraffare dalle sue impressioni successive e momentanee. Ciò detto, che cosa sarebbe deiia ragione senza le sue passioni? L'affettività sospin- ge all'azione; i suoi interessi stimolano ad approfondire le nostre conoscenze teoriche. Le nostre passioni ci votano a <<cau- se» ideali che trascendono i nostri limiti presenti e soggettivi; si riconoscono solidali a questi ideali la cui realizzazione sem- bra assicurare il loro compimento. La volontà esaltata dalla passione conduce l'intelligenza al di 1à delle anaiisi delI'inten- dimento, al fine di farla accedere alla sua attuazione.

Questa realizzazione non è senza dolore. Lo slancio del desi- derio non è senza sofferenza. Abbiamo desideri inutili. Pos- siamo vivere i nostri insuccessi come se ci insegnassero la ras- segnazione ai dato. Ma Io scacco non concerne soltanto i nostri desideri oggettivamente vani. Tutto il dinamismo soggettivo ne reca l'offesa. La realizzazione dei nostri desideri non è mai alla loro misura. L'intelligenza conosce l'inaccessibilità deli'u- no e deiia sostanza; la volontà sa che nulla potrà esaurirla. Que- s te potenze trascendono tutte le loro realizzazioni. Quando delle resistenze si fanno strada, cercano di superarle mobili- tando tutte le loro forze. Donano vigore alle scaltrezze del- I'intelligenza e della volontà, ma queste astuzie sono dei ripieghi.

Il sentimento dello scacco attraversa la coscienza non sol- tanto quando i nostri desideri non hanno esito, ma perfino quando sono realizzati. «Si può provare il peggiore sentimen- to di scacco nel successo» 2. La distanza rimane infatti insor- montabile tra il nostro dinamismo teso verso qualche ideale e le nostre potenze che mediano nel quotidiano la realizzazio- ne di questo desiderio originario. Lo scacco manifesta la tra- scendenza del desiderio sulle sue realizzazioni. Può certamen- te distruggere i nostri slanci, farci disperare di ritrovarci impe- gnandoci nel fugace. Può così distruggere il desiderio, annien- tarsi presentandosi come il risultato di un destino orgogliosa- mente stoico e rassegnato. Ma il senso vero dello scacco, quello che non lo sopprime, è di aiprenderci senza tregua, di impos-

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nuovamente di noi, vale a dire di ritornare a questa =*usalità originaria e generatrice la cui certezza è consuctan- Zide alla nostra esistenza stessa» ' e che si reaiizza solamen- te nella contingenza delle nostre esistenze. La scacco risve- glia chi si addormenta sulle sue acquisizioni, rianima il dina- mismo del suo desiderio, richiama la sua spiritualità trascen- dente. La riflessione sulla scacco rivela <<la presenza, mai annui- &, d d a causalità deil'io, non di una cauidità rivale o di una forma di cui si potrebbe determinare l'influenza, ma di un non- [ente] che si sottrae all'analisi e rimane l'indice di ciò che vi i: nell'io che sfugge al suo potere^^.

Ma come potremmo separare l'intenzione del desiderio e il suo potere di reaiizzazione nel mondo dell'analizzabile? Un desiderio che non si realizza in nessuna maniera è cosa vana. La verità delia sua intenzione è la sua realizzazione. Le buo- ne intenzioni sono incapaci di produrre da se stesse qualche frutto. All'inverso, la realizzazione per essere umanamente degna, dev'essere desiderata. La sua verità è l'intenzione che la conduce. «II fondamento dello scacco è che [queste] due veri- tà [dell'intenzione e della realizzazione] non coincidono>>5. Infatti, la reaiizzazione rivendica la sua autonomia recando d'intenzione una sanzione oggettiva che la supera. Ma, nello stesso tempo, l'intenzione va oltre la realizzazione come il desi- derio oltrepassa ciò in cui viene a sostare provvisoriamente. Così I' azione e l'intenzione sono necessariamente unite, ma non sono misurate l'una dall'altra. Non vi è giusta proporzio- ne tra il desiderio e la sua realizzazione. <<Se I'azione delude non è perché la coscienza può fare a meno di questa per ade- guarsi a se stessa. Ma nasconde a me il suo essere vero, per quanto essa gIielo scopra» 6. Tuttavia, ii desiderio non è nul- la senza una pratica concreta. Quindi deve non soltanto sot- trarsi aila parzialità della sua pratica, ma anche e nello stesso tempo volersi consegnare. 11 desiderio vive così di una tensio- ne che non può placare, poiché essa costituisce la sua natura.

ID., p . 58. J. N A ~ ~ , K T , Ék:;mcnts pouu une ~:thiyrre, p. 30. ' J. LACROIX, I.'échec, p 58.

h J. N A ~ E R T , E1Crnenis pour une étbique, p. 32.

xr. L'ATTO F, LA P ~ K S O N A 329

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I1 desiderio è un dinamismo aperto. Ciò significa che la vita spirituale è votata all'indefinito? Ma il desiderio non può disfar- si di questa tensione senza sopprimere se stesso; superarla sarebbe annullarsi, darsi un termine in cui si spegnerebbe o si inoltrerebbe nell'inconsistenza.

Si potrebbero distinguere le sfere della vita naturale e della vita spirituale come <<due mire affettive fondarnentaIi, quella della vita organica che si compie nella perfezione istantanea del piacere, quella della vita spirituale che aspira alla totalità, alla perfezione deila felicità* 7. Queste due sfere sono analo- ghe a quella del bisogno che tende verso la sua pienezza acqui- stando beni sensibili e muore nella sua ricchezza, ed a quella del desiderio aperto indefinitamente ad una trascendenza alla quale non accede mai veramente per mezzo delle sue reaiizza- zioni. Queste due intenzioni, naturale e spirituale, sono unite nella nostra esistenza, ma dando origine alla <<sproporzione del bios e del logos di cui ii nostro "cuore" soffre il discorso ori- ginario» La sofferenza del desiderio che, pur non potendo, deve realizzarsi necessariamente, desta così lo spirito alla sua trascendenza. Attesta la sua appartenenza a ciò che non può essere portato interamente a compimento né nell'esposizione di sé nel mondo, né in un atto immaginativamente liberato daile costrizioni dell'esistenza.

L'angoscia nasce nel momento in cui lo spirito, scoprendo che la piena realizzazione del suo desiderio & n d o stesso tempo impossibile e necessaria, sa che il suo scacco è inevitabile. La volontà volente non si chiude mai in una delle sue realizza- zioni, anche la piG prestigiosa, ma deve sempre andare pih lon- tano; le è dunque impossibile realizzarsi. La reaiizzazione del desiderio nel contingente le è tuttavia necessaria; la sua veri- tà è allora inutile. Lo spirito si identifica coci con un'apertura interiore da cui non può distaccarsi senza negare se stesso. Gli

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esistenzialisti hanno messo in evidenza questa tensione spiri- tuale, tragica, inerente alia condizione umana. Lo spirito si impegna in mezzo agli enti, ma nessuno è veramente degno di un'adesione totale che esso sa riservata ad un termine asso- luto verso il quale tende, ma che non può incontrare poiché è votato al contingente. Nulla è degno di fiducia. Il desiderio diventa allora per se stesso un'assurdità. L'assurdo è la condi- zione della sua verità.

L'esperienza delI'assurdo può essere superata e nello stesso tempo mantenuta senza essere negata. Abbandonato e senza qpoggi, lo spirito perviene alla libertà. Non è responsabile di sé per altre ragioni che se stesso. La sua responsabilità è sospesa su un abisso; non è determinata che da sé. La sua ragio- ne è senza una ragione che potrebbe precederla. La parabola deUa lotta del padrone e deUo schiavo espone questo evento della libertà. HegeI ne è stato l'inventore. Kierkegaard l'ha articolata in una prospettiva religiosa luterana. Per Il concetto delk'langoscia, lo spiato, senza riferimento a Dio, vive nell'in- nocenza, o pih esattamente nell'indifferenza nei riguardi del valore. Al contrario, dinanzi a Dio, intende che vi è un bene ed un male; prende allora coscienza di essere capace di tutto, del. bene come del male, e di essere interamente responsabile d d a sua scelta. Quando sarà giudicato, ciò avverrà dunque con giustizia. L'angoscia nasce così come il segno dell'etica. La spirito scopre la potenza infinita, ma senza ragione, della sua libertà. La sua scelta è propria, nulla può determinarla tran- ne se stesso. Essere, per lo spirito, è essere capace di tutto ciò che è indefinitamente possibile.

Heidegger laicizza il pensiero di Kierkegaard. Distingue la paura e l'angoscia. La paura nasce daila minaccia di un ente determinato, mentre l'angoscia non proviene da qualche cosa di preciso; ad "davanti-a-che" dell' angoscia è completamente indeterminato» L'angoscia nasce nel momento dell'impegno deUa Libertà in un mando che non dà nessuna presa ai proget- ti della libertà e che non ha allora più nessuna utilità signifi- cativa. Se il Dasein non fosse nel mondo, potrebbe distaccar-

xr. L'AT'I.O E LA PERCOKA 33 1

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sene agevolmente e così tranquillizzarsi. Ma il nulIa deI mon- do è ii suo vero soggiorno; l'angoscia il quotidiano della sua verità.

<{Il "duvanti-a-che " delliangoscia è l'essere ~zel mondo come tale» lo. L'angoscia rivela il mondo come il campo delle rca- lizzazioni sia possibili che impossibili deva libertà; questo cam- po non ha altra fondazione che l'apertura alla libertà. «Nel- l'angoscia l'utilizzabile intramondano e l'ente intramondano in generale sprofondano»ll. Il mondo non dura che attraver- so lo slancio proiettivo del Dasein che si riconosce unico respon- sabiIe; è un puro possibile che nulla pub adeguatamente deter- minare. Lo slancio della libertà perde così ogni capacità di rien- trare in $', «L'angoscia apre [il Dasein] come esser-possibile, e pretisamente come tale che solo a partire da se stesso pu9 essere ciò che è: cioè come isolato e nell'isolamento»l2. I1 Dasein non è del mondo che progetta davanti a sé, ma non può liberarsene o possederlo. Il solipsismo lo crporta nel modo più rigoroso dinanzi al suo mondo e quindi dinanzi a se stes- so come essere-nel-mondo» 13.

La libertà, che non può compiersi in ciò che essa non è, mantiene la sua potenza in secondo piano rispetto d e sue rea- lizzazioni parziali, adducendo a pretesto, e giustamente, che ciò in cui essa si impegna non eguaglia mai l'ampiezza delia sua apertura. Essa è, a condizione di non essere. Ma attraver- so questo ritrarsi, rivela la sua potenza come una velleità o un'impotenza. Se essa è possibile tramite l'impotenza, essa non è. Per affermare la sua potenza trascendente, occorre dunque che domini la contingenza della sua effettuazione, innanzitut- to impegnandosi, poi accordandosi alla determinazione inevi- tabile del suo impegno. Ma rischia così di spegnere il suo slan- cio, di negare la sua trascendenza, di reprimere la sua poten- za non più nell'impotenza, ma nella debolezza. Di ciò si ango- scia la libertà sartriana; il «rnasca.izone>> vi soccombe. Che rifiuti o che accetti ii suo impegno nel mondo, la libertà perde ogni

]"n,, p. 233. l1 l o , p 235.

In . , pp. 275.236 I ' T i i . , p, 236.

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se lo rifiuta, è una potenza che si vuole impoten- te; se lo accetta, è una potenza che si fa impotente.

Ma la libertà è condannata ad una tale impasse? I1 suo dina- mismo è correttamente descritto dalio scacco e dall'angoscia? Queste esperienze manifestano la trascendenza della libertà in rapporto alle sue espressioni, ma non chiariscono cosa sono le sue espressioni come anche le sue realizzazioni non &limi-

Identificare la libertà con ciò che riveIa l'angoscia decide tra la sua apertura ideale e la sua realizzazione parziale, ma senza congiungere queste due dimensioni tuttavia realmente unite. Questa scelta, per la quale la libertà è assente a sé, non è necessaria; è astratta.

2. L'atto

L'angoscia non è originaria. L'essenza dello spirito non vi è veramente esercitata. L'esperienza nella quale si radica qual- siasi conoscenza è di ordine etico. Vedremo in un primo momento come, incontrando l'altro con rigore e rispetto, pre- sentiamo il principio. Questa esperienza ci indurrà poi a pen- sare il principio nei termini di dono gratuito e non pih sola- mente come norma universale e necessaria. Dopo di che arti- coIeremo due aspetti dell'atto, nello stesso tempo mio e reale, in seno ad un dono primo. Avremo cosi spiegato l'esperienza che, sintetizzando la differenza e l'unità nella comunione, rive- lerà il senso profondo del limite che costituisce la nostra sog- gettività.

a) L'atto e l'altro

La volontà è aperta ad un possibile. Se l'orizzonte della volontà fosse impossibile, i nostri sentimenti di scacco o di angoscia non potrebbero avere origine. I nostri desideri inap- pagati non avrebbero piii alcun significato. L'uomo non sarebbe più realmente un essere di desiderio. Non avrebbe piu nulla da cercare. Dovrebbe sottomettersi soltanto d fluire degli awe- nimenti di cui non potrebbe immaginare il senso. Ma l'affer-

XJ. L'ATTO E LA PERSONA 33 3

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mazione sul non-senso del senso è anch'essa,sensata; il non- senso non può essere pensato come assoluto. E dunque neces- sario dire che la volontà è tesa verso un possibile sensato.

Secondo le spiegazioni date dai filosofi dell'angoscia, la liber- tà è un abbandono, una negazione delle sue realizzazioni par- ticolari. Ma se la volontà non si impegna veramente, perché se ne dovrebbero negare le espressioni? Come si potrebbe rite- nere che essa deve trascenderle per divenire libera? La descri- zione deil'angoscia come esperienza originaria della libertà non spiega iI motivo per cui la volonti ha dovuto anzitutto impe- gnarsi nel mondo per negarvi in seguito la sua realizzazione e rivendicare la sua pura apertura. La volontà non è dunque aperta indef~ tamente senza impegnarsi nel finito. Essa si sra- dica d d e sue apparenze se vi si dona veramente.

La libertà è ugualmente distacco o negazione. Prende distan- za dalle sue realizzazioni ponendosi nella sua trascendenza. Si identifica d o r a col principio dei suoi atti. Ma può fare ciò solo a condizione di volere che i suoi impegni siano propri, e che essa stessa ne sia responsabile. Pur mettendosi a distan- za d d e sue azioni, essa non si disimpegna. La libertà non ade- risce a sé, volendosi libera da ogni espressione. Esercita piut- tosto l'unità di poli opposti; è sé esprimendosi fuori di sé. 11 distacco della libertà dai suoi aspetti suppone che sia suo ciò che è negato. La dialettica che concede il suo impegno ma per negarlo poi, disconosce la realtà delle azioni alle quali ha affi- dato la realizzazione, almeno per un certo tempo, del suo desi- derio essenziale.

La determinazione dà alla libertà una possibilità di accesso a sé, benché questo accesso sia provvisorio. La presenza della libertà a sé non è sradicata dalle sue azioni e rinviata verso un nidia astratto; al contrario, la negazione immanente al deter- minisrno volontario è recata da una presenza più essenziale che si instaura nella determinazione pur trascendendola. 11. com- portamento antologico essenziale non è l'angoscia; l'adesione a ciò che passa apporta gioia e pace al desiderio dello spirito, forse provvisoriamente, ma realmente.

I1 dinamismo della libertà è spirituale. 11 suo termine non è qualunque ente. La libertà trascende tutti gli enti; da que-

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r'l ' sto punto di vista è un non-ente. Tuttavia, non può realizzar- c i senza impegnarsi concretamente negli enti che, con ciò, la limitano. La libertà tende così, nel finito, verso ciò che non 10 è. L'idea del termine ultimo delta libertà è senza definizio- - - ne. Suggerisce un superamento interiore a se stessa. Lo spiri- to non può racchiuderlo come un concetto determinato. Ora,

movimento di superamento deu'idea è costitutivo di un'i- dea specifica, quella dell'infinito. Essendo questa idea auto- trascendente, nulla la chiarisce ad eccezione di se stessa. Cer- tamente fa parte degli elementi del linguaggio, ma non è come questi; risalta in mezzo ad essi. H a questo di unico che invita a pensare a l di là di ciò che, tuttavia, non si può pensare che mediante il suo concetto.

Abbiamo nelle nostre vite un'esperienza di questo infinito. NeU'incontro con l'altro, sperimentiamo il piii nei meno. «L'idea dell'infinito, I'idinitamente di più contenuto nel meno, si produce concretamente sotto le specie di una relazione con il volto. E soltanto l'idea deil'infinito mantiene l'esteriorità delI' Altro rispetto ai Medesimo, malgrado questo rappor- to» 14. L'altro che viene a me presentando il suo volto nudo fa parte del mio mondo; è un ente tra gli altri, anzi, i1 più fragile, ma che si offre in maniera unica, al tempo stesso tra- scendente e senza elevatezza. N d a è più vulnerabile, pih impo- tente di un volto offerto nella sua nudità. I1 volto delinea con ciò i contorni di una trascendenza che crea al tempo stesso la maggiore distanza e la maggiore prossimità, la maggiore povertà neda maggiore pienezza. Dona un accesso all'infini- to, mentre presenta l'umile offerta, l'implorazione senza rapi- mento, iI ritrarsi umile e rispettoso.

Con iI volto nudo ci mettiamo a disposizione dell'altro; ci rendiamo sensibdi al suo giudizio ed al suo sguardo. Rinun- ciamo a proteggerci e con ciò stesso invitiamo l'altro ad acco- glierci in un dialogo rispettoso. La nudità del volto promuove così il dono mutuo degli interlmtori nella loro libertà. I1 volto può essere percosso; ma nello stesso tempo ingiunge rispetto e vieta la manipolazione: Lo sguardo interpella ii suo interlo-

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cutore e lo richiama alla sua responsabilità. Senza potenza, implora il riconoscimento e suscita nell'altro la conoscenza di una responsabilità in cui deve impegnarsi con una risposta libe- ra e rispettosa.

Questa soggettivazione mutua fa eco ad un desiderio che non è mai appagato. I1 possesso di ciò che è desiderato ravvi- va la sua attrattiva. Il desiderio non assimila iI suo oggetto, ma più se ne avvicina, pih lo rispetta. I1 desiderio risponde alia domanda dell'altro. I1 possesso, per il desiderio, è priva- zione del possesso, abbandono e bontà; il suo avere consiste nell'essere donato. Il bisogno vuole il piacere; il desiderio vuole far piacere. Spiegando l'infinito della sua aspirazione o lascian- done da parte le sue pretese, afferma ciò che è. Orientato verso l'altro che lo desta a sé per comunicare con lui ed unirsi a lui, il desiderio non si compie neila fusione. I1 desiderio obbe- disce ad un'intimazione ed ama l'infinitamente diverso.

b) Dal sapere all'etica

La nostra ricerca di un principio passa adesso ad un capo- volgimento della sua problematica. Precedentemente ci sem- brava che il principio dovesse essere una norma universale e necessaria. Sembrava che la nostra indagine progredisse verso l'uno, l'identico a sé neila sua tensione interiore. Ma ci accor- giamo adesso che una tale unità non può essere il principio, perché, in realtà, non vi è unità che inglobi tutto. L'universa- lità assoluta è un sogno irrazionale e pericoloso. L'atto è limi- tato e non può essere realmente uno con ciò che non è e che lo fa essere.

I greci sono stati assillati dall'uno concepito in un primo momento come una sovra-forma, poi con Plotino, come la fonte trascendente di tutte le determinazioni. Ma questa tradizione greca è votata ali'insuccesso, se non integra la differenza radi- cale che fa molteplici gli enti reali. La tradizione greca o intel- Iettualista, tesa verso il principio di spiegazione universale, va dalla determinazione parziale verso il determinante che è la fonte compatta dell'unità indeterminata. Ma questo indeter- minato principiale non è accessibile in sé. Diffratto nei nostri

336 xx. I :ATT~ e LA PERSOIA

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discorsi, non si presenta immediatamente, ma mediatamente, come risultato delia riflessione sulla nostra discorsività; ma I'in- - - determinato unificante rimane qui, malgrado rutto, inafferra- bile. La nostra conoscenza, che lo suppone necessariamente, lo esercita in pratica negandolo; Xa nostra riflessione è sempre bisognosa e tarda, esitante e neu'oscurità. Velato dalla prati- ca, l'uno è inconoscibile. Il cammino che va riflessivamente dal determinato al determinante assoluto conduce a riconoscere che l'uno è l'altro assoluto, talmente diverso che non può per- fino pih fondare i procedimenti della conoscenza.

La tradizione ebraica del servo sofferente segue un cammi- no inverso. Va dal determinante al determinato. Io non scru- to il volto dell'altro per scoprirvi nel fondo, come in una tra- sparenza impudica, I'infinito che riconcilia gli opposti renden- doli indistinti. L'infinito si rende accessibile nel momento in cui l'altro viene a me senza difesa, imponendo alla mia volon- tà la legge del suo rispetto assoluto. L'origine, indeterminata per la conoscenza, è allora paradossalmente velata al tempo stesso che si presenta come determinante. I1 suo velarsi è ii suo splendore: 1'assolu.uto si commisura a colui che rispetta quelli che non hanno potenza. Mentre il Dasein muoveva alla con- quista del fondamento, l'ospite deii'infinito l'accoglie. Heideg- ger ha visto bene questa novità meditando, dopo Sein zknd Zeit, s u l capovolgimento, la Kehre) provocato dall'attrazione dell'es- sere. Questo capovoIgimento non è una necessità speculativa che si imporrebbe allo spirito per meglio raggiungere l'univer- sde. Indica piuttosto una benevolenza di ciò che, inaccessibi- le, è già detto prima ancora di essere compreso. Il principio fondatore non è pih allora misurato dd'inteiletto guidato daile sue forme a priori, ma si irradia in un'esperienza di pura tra- scendenza.

La tradizione greca ed ebraica si incontrano sul tema della luce. La luce simboleggia il fondamento. «Se un paesaggio è immerso nefl'oscurità, nulla vi fa spicco, nulla vi appare e, tut- tavia, apparire è essenziale ad un paesaggio. Questo paesag- gio è dunque inesistente. Spunta la Iuce, e subito ciascun trarto si delinea e prende vita, gli oggetti e le forme acquistano il loro contenuto: tutto si schiude e ci mostra sotto la sua azio-

Xi. L'A1"lmU E 1.A PERSCINA 337

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ne creatricen l'. Per IIeidegger l'apparenza è uno svelarsi, una messa in presenza che, fissandosi per donarsi in spettacolo, vela così il suo atto originario. L'origine a partire dalla quale awiene la presenza è in questo senso assente; è occultata. La metafora della luce esprime questa origine inafferrabile in se stessa, ma presente in ciò che essa illumina, poiché è attra- verso questa che appare qualche fenomeno o apparenza, men- tre essa rimane invisibile. Attraverso la luce vediamo tutto, ma la luce rimane nascosta.

Questa meraviglia per l'ente gratuito, questo stupore che non può mai concludersi in sapere definito, manifesta il desi- derio dello spirito che oltrepassa la necessità meccanica dei suoi problemi. Lo spiritb4 accordato a questo atto per cui ha rico- noscenza, di cui riceve ii soffio e la cui ricchezza originaria non è esaurita da alcun bagliore. Questa origine appare in modo singolare sul volto deil'altro che, libero di tutto, offre la sua nuda povertà. Meravigliandosi del volto, lo spirito esercita la sua apertura verso I'infinito. Restituisce così con atteggiamento umile il dono che gli è stato fatto. Colpito da tanta grazia e spinto d d a riconoscenza, fa proprio il principio che è infini- tamente aperto ed offerto fin nell'estrema semplicità. In que- sto accordo lo spirito è. In quanto al principio, finalmente, non è, poiché è troppo.

C) La ~spons~bila'tà e il limite

L'esperienza deu'incontro con l'altro, che sottolinea l'alte- rit à fondamentale del principio metaficico, non è necessaria, né universale. Implica una qualità etica di cui le nostre pas- sioni violente spesso dimostrano l'assenza. Tuttavia la neces- sità di questa esperienza può essere spiegata riflettendo sul- l'atto spirituale. Questa esperienza addita il senso originario del principio, che è dono 16.

Riflettendo sulle mie azioni passate, mi rendo conto di lasciar sfuggire la loro realtà di atti che sono stati da me esercitati.

1' A. LC.ONAR~, I'emit &I hotnmes et fòi en Jéswr-Christ, p. 255. 16 Dobbiamo al P. EdmonJ M a y c I'cssenza dei pensieri che seguono e che sono ai cen-

tro illuminante dello sforzo di riflessione condotto nella nostra opera.

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Le mie azioni sono divenute in qudche modo pubbliche; io ne ero l'origine, ma adesso non appartengono più soltanto a me. Tuttavia, pensandovi, mi riconosco alla loro origine. Sono delle azioni che realmente ho posto, le mie azioni; non ho forse avuto coscienza, mentre le compivo, di esserne I'autore, ma nel momento in cui le rievoco prendo coscienza che sono mie. ~e ne rallegro, a meno che, a loro riguardo, non auspico qual- che clemenza.

Ora io non posso, a cose fatte, vedermi +l'origine di ciò è passato se non fossi stato io a farlo. E avvenuto dun-

que che, durante la mia azione, avevo una coscienza, certa- mente non-tetica, di ciò che stavo facendo. Questa coscienza diviene tetica quando faccio ritorno su1 mio passato. Questa rievocazione non può essere soltanto un esercizio di memo- ria, una ricomposizione del passato vissuto un tempo neil'a- nonimato; essa torna in possesso infatti delle condizioni ori- ginarie delle mie azioni. Riflettendo su di esse, prendo coscien- za che sono mie e reali. Sono mie, perché non posso divider- mi in parti e queste non sono senza di me, non sono una par- te di me, ma tutto l'io stesso che sono qui, oggi. Sono anche reali, perché le ho poste in una forma precisa, concretamente vissuta. Le azioni di cui mi ricordo hanno contorni che posso pih o meno richiamare alia memoria, ma sono interamente determinate. La mia azione è, a1 tempo stesso, mia e reale.

Agendo, in altri termini ponendo un'azione in modo parti- colare, esercito una possibilità che è mia e spetta a me far tra- sparire in maniera responsabile, vale a dire attribuendomela. La mia azione nel mondo è l'esercizio di un atto che è senza dubbio una possibilità prima che sia realizzata, ma senza che questa possibdità sia solamente astratta. Non posso dubitare del ruoIo attivo che svolgo facendo della mia azione concreta espressione del mio atto potenziale. Tramite la sua interiori- tà, l'atto precede i determinismi dell'azione a cui impone la sua originalità e la sua intrinseca spontaneità. Anche se la mia azione è necessariamente un'espansione fuori di me, un <{fat- to* originato in un <{fare>> che gli irriducibiie, io aderisco d a mia espressione riconoscendovi il mio impegno e la mia responsabilità. La necessità dell'azione espressiva non fa di que-

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sr'azione la misura dell'atto che rimane un'origine sovrabbon- dante manifestata nelle sue molteplici determinazioni. Io sono in atto interiore creatore di azioni esteriori e responsabile di queste.

La mia azione è determinata dalla sua origine interiore, ma anche dagIi aspetti che le dona la sua visibilità. Con ciò non è soltanto mia, ma è anche concretamente reale. La mia azio- ne ha bisogno di un presupposto visibile per essere effettua- ta; la coincidenza con me stesso, esercitata in atto, è mediata da un'azione che non sono da solo a determinare. Ogni azio- ne comincia in me, ma finisce fuori di me. Non comincia del

- resto neppure soltanto in me, poiché quando agisco rispondo alle sollecitazioni che provengono dal mondo. Non sono crea- tore di oggèttività spazio-temporale; non creo la materia nella mia azione, né 1% sua forza manifesta. Mi è necessario un dato perché possa esercitare il mio atto e compierlo effettivamen- te. Ne consegue che I'atto, coincidendo con il suo movimento di estasi nella sua espressione, no? si identifica mai solamen- te con la sua origine spirituale. E mio e reale a condizione di non essere che da me.

L'esteriorità dell'azione non è realmente prima; non le dà che una condizione in qualche modo materiale. Infatti, la mia azione è veramente reaie a condizione di essere mia. Se non è mia, che cosa sarebbe? Un fatto del mondo, neutro e che fluisce, sballottato dai casi e dalle necessità di una natura astrat- ta e senza volto. Se non è mia, non è di nessuno e non si potrà mai conoscerla per ciò che è, la mia azione. La mia azione proviene realmente dal mio impegno; io ne sono realmente responsabile.

Abbiamo coscienza che le nostre azioni urtano contro la resi- stenza del mondo, e che questa resistenza condiziona il loro essere effettivo. Ma non prendiamo coscienza di questa resi- stenza come se impedisse la espansione infinita dell'atto. AI contrario, vi vediamo la condizione della sua realizzazione, e ce ne fidiamo come se fosse il sostegno necessario del nostro atto. Questo sostegno non è tuttavia il principio ultimo del- l'azione. I1 mondo non è disponibile per un'azione se non ci fosse qualcuno che agisce. E lo spazio di espansione del mio

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atto. La resistenza del mondo non mi apparirebbe se non potes- si realizzarvi effettivamente il mio atto e porvi ii suggello del- Ia mia responsabilità. La proprietà del mio atto permette così al mondo di essere reale.

È impossibile ridurre l'una d ' d t r a la proprietà del mio atto e la sua realtà concreta come anche separarle radicalmente l'una dali'altra. L'atto interiore è presente al suo termine espresso in maniera tale da riconoscersi in esso, ma questo termine è esteriore all'atto a tal punto che l'atto non raggiunge mai ce stesso senza uscire da sé. L'atto come atto è un'estasi, un'e- spansione fuori di sé, un'intenzione verso I'alterità. Non può compiersi nella solitudine della sua interiorità; g t ~ occorre rnodi- ficarsi e limitarsi nella determinazione del mondo. L'atto è in espansione in un'azione determinata di cui io assumo la respon- sabilità. L'espansione dell'azione ha un'origine che scaturisce per sempre, che si dtera e contemporaneamente si afferma in ciò di cui non ha disponibilità. Da quel momento sono costretto a riconoscere I'affermazione del mio atto e il gran numero delle sue poscibiIità nell'azione determinata in cui, limitandomi, mi modifico.

Questo limite è in certo senso superabile in maniera forma- le; ogni limite può essere pensato come limite sullo sfondo del- l'illimitato. Ma se non si tiene conto del limite dell'atto nella sua azione reale, questo gioco formaIe danneggerà la mia responsabilità, vietandomi di rivendicare come mie le azioni che ho portato a termine. L'atto diverrebbe così un sogno. In realtà, il limite è interiore al mio atto. Posso assumere la responsabilità delle mie espressioni perché sono realmente com- misurato d e mie determinazioni. Se ciò non accadesse, il limite dell'atto sarebbe soltanto esteriore ed astratto; la mia azione non sarebbe mia. L'atto dev'essere intrinsecamente limitato per essere l'atto delIa mia azione.

Q) I2 limite ed HZ ~ea le

Io non posso essere limitato interiormente che da un'altra interiorità limitata che mi vieta qualsiasi intromissione su di essa, «tu» in rapporto a ciò che sono «io>>. Se non fosse così,

X1 I.'ATTO E L A PEKSONA 34 1

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mi immaginerei di avere una libertà illimitata, aila fonte uni- ca e indefinitamente feconda di tutto I'universo, ivi compre- so l'altro. <<Io» sarei la perfetta indeterminazione determinan- te al principio di tutte le determinazioni. Ma in realtà, io non accedo a <{me» che essendo donato da «te» che vuoi che io sia «io» di fronte a «te». L'altro è un soggetto che voglio diver- so da me, una soggettività reale che mi limita e mi fa ricono- scere come un soggetto reale.

Ponendo il mio atto come realmente mio, lo voglio limitato reaimente dall'dtro, non da un oggetto, ma da una persona che si rivolge attivamente a me. La condizione che voglio per la mia limiijazione non può essere che un'dtra soggettività capa- ce di promvovermi nella realtà del mio limite e di suscitare la mia sponhnea responsabiIit9. Aderendo al mio atto, pongo dunque nello stesso tempo la mia realtà e il mio limite, e la presenza dell'altro.

Ogni atto reaimente mio richiama una co-azione. L'alterità dell'dtro, più radicale di quella deil'oggetto sottoposto d e mie volontà di potenza tecnica, è presente in me come una rispo- sta libera al mio appello. Pormi in atto di fronte d'altro signi- fica volermi unito a lui in una libera differenza. Il mio atto, per essere realmente mio, dev'essere intrinsecamente orienta- to verso l'altro, senza però imporsi a lui; è adempiuto quando mi riceve accettando la mia unicità, pur chiedendomi anche di riceverlo nella sua unicità. L'essenza della proprietà reale del mio atto è intersoggettiva; essere, per me, è pormi per, con e attraverso te.

L'azione realmente mia è una co-azione. Se la soggettività non si limitasse intrinsecamente, il riconoscimento mutuo non avrebbe altro aspetto che le nostre guerre omicide. Il ricono- scimento dell'unicità di ciascuno dev'essere fondato su un'in- teriorità reciproca tra coloro che si limitano ordinatamente. L'aitro, limitandomi, mi è presente interiormente perché io sono realmente io senza essere alienato. Io non sono dinanzi a lui e lui dinanzi a me in un gioco infinito di specchi. Le nostre limitazioni mutue sono volute da ciascuno in favore del- l'altro, imposte a me piii che a lui. Noi ci conosciamo reci- procamente in misura deiia nostra modestia, della nostra azione di ringraziamento riconoscente perché «tu sei ciò che sei».

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Questa riconoscenza 2 fondata su una presenza che ci tra- scende entrambi. Vi è tra te e me una realtà che ci precede e nella qude siamo impegnati. Io sono riconoscente verso di te per questa pienezza di cui tu testimoni in mio favore, mentre rifiuti di attribuirtene l'origine; io non sono ciò che sono che perché tu lo vuoi. I nostri atti spiegano il loro dinamismo traen- do la loro realtà ultima da un fondamento che noi non siamo, ma al qude partecipiamo insieme. La loro realtà si impone a ciascuno senza che nessuno possa identificarla con la sua cola potenza. Prendo d o r a coscienza dell'assoluta realtà deI movi- mento concreto nel qude ci inseriamo, io riconoscendoti e tu riconoscendomi. Ponendomi realmente in atto, mi rendo pac- civo a necessità immanenti ai nostri atti che non sono dell'or- dine della realizzazione nel mondo, né del nostro riconosci- mento mutuo. Una redtà trascendente si impone a noi. Ritor- nando sul mio atto reale, vi scopro la condizione che gli dona di essere ciò che è attraverso, con e per te. Noi siamo costi- tuiti dda nostra co-azione in una realtà che è mia, tua e nostra. Questa realtà originaria concede di donarmi a me stesso, pur donandomi a te.

Nondimeno, tutto è mio nel mio atto; sono io che mi fac- cio essere, senza di che non sarei responsabile di ciò che fac- cio. L'atto non è dunque mio alio stesso titolo che è nostro. Io sona costituito neila mia realtà da ciò che ci dona di essere reali e <<mio», ciascuno per sé, ma non è questo reale che si impossessa di me come realtà; non mi sottrae a me stesso, ma sono io che me ne approprio come redtà. Non siamo «noi>> che facciamo che io sia «io>>. I1 mio atto, mio e reale, rivela l'esercizio di una spontaneità che soggettiva e realizza nello stesso tempo. Assumendo la realtà che risplende nel mio atto limitato, partecipo dinamicamente alla realtà originaria che, altrimenti, non sarebbe veramente reale. Il reale fondatore non ha ancora un volto; ma accede a sé essendo, per cosi dire, attuato da noi. E un atto, che però non sussiste in sé; sussi- ste in noi, semplice esse conamtlne, consegnato a ciò che noi ne facciamo.

LI mio atto è fondato nel reale che io esercito nella misura in cui, prima di essere mio, questo reale è. La spontaneità del

XI. L'ATTO E LA PERSONA 343

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mio esercizio non è derivato soltanto da sé, ma dal reale in atto al quale partecipo, poiché sono essenziaimente limitato. Posso riconoscere il mio atto, al tempo stesso mio e reale, solo riconoscendo che il reale è preliminarmente, a priori, l'atto che è, la fonte di tutti i miei possibili; riconosco I'atto come mio perché conosco di un sapere più radicale che il reale è real- mente in atto. Non sono io ad essere ii primo, ma i! rede nel quale mi colloco e che fonda la mia propria realtà. E così che io sono e che mi illumina la realtà nella sua fonte donatrice di essere. Acconsentendo con riconoscenza a questa realtà, compio in me l'atto che la costituisce in sé.

Questa realtà, senza la quale non sarei realmente in atto per, con e attraverso te, rimane tuttavia inafferrabile; non coin- cido con essa, poiché mi precede donandomi di essere real- mente in atto, benché limitato di fronte dl'altro. Io non sono la realià, ma sono reale; devo dunque riconoscere che parteci- po aila reaità. Sono pienamente reale come te, ma nessuno di noi è il reale. Facendo mia questa realtà che fonda I'imma- nenza dell'altro in me senza tradire Ia sua trascendenza, attuo necessariamente questa realtà in una duplice dimensione: mia e nostra. Compiere me stesso è nello stesso tempo costruire una società nella contingenza degli incontri e delle situazioni storiche, e non in uno specchio di conflitti tra soggetti. Io mi vieto anche di fondare la società in uno di questi soggetti. L'unità di tale duplice dimensione dell'atto reale, mio e nostro, non può essere fondata né in me, né in te, né in noi; si radica in noi al di là di ciascuno.

L'origine dell'atto mi supera e ci supera. Il dinamismo sog- gettivo attua la nozione originaria della realtà alla quale noi aderiamo, tutti insieme e ciascuno per sé. Un dinamismo dive;- so dal mio e dal tuo anima l'atto mio e reale, tuo e rede. E amore, l'adesione del reale a se stesso, semplicemente conces- so a se stesso, che dona di essere reale a chi partecipa alla sua semplicità. Quest'amore, aI principio di ogni sintesi e di ogni relazione, intendo farlo mio in tutte le mie relazioni e di riconoscerlo esercitato da «te che ti rivolgi a me». Perché i1 reale è in me un amore anteriore ai nostri incontri; il mio amore e il tuo amore sono più profondi dei nostri desideri legati

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d o scambio dei nostri doni. I1 movimento più radicale del mio atto è da questo momento in poi di aderire e di consenti-

, / re totalmente alla realtà che si dona a sé, donandosi a te e a me. Diffondendo questo amore, rispondo ali'invito gratuito che il reale ci fa di entrare in alIeanza con esso.

3. La persona

L'atto mio e reale è l'atto della persona. Per principio, I'at- to non ha la sua ragione nella sua espressione; è al contrario la sua espressione o la sua azione che è fondata in esso. Tut- tavia, l'accesso alltatto è irnpossibiie se non attraverso la sua azione espressiva. E certamente possibile interpretare I'espres- sione in funzione deila sua situazione nel mondo; ma esclude- re la specificità delia prima persona del singolare che vi è in atto le toglie la sua origine fondatrice e l'abbandona al mec- canicismo.

I1 giudizio che pretendesse di rimuovere il suo significato al consenso e che sostenesse l'impersonalità dell'affermazione non avrebbe nulla da esprimere e sarebbe privo di contenuto. I1 pensiero espressivo si origina nella {{persona)} che si cono- sce manifestata nel suo giudizio e che si coglie in atto in que- sto dono. Ricorderemo prima alcuni elementi essenziali della storia antica della categoria di <<persona>>. Cercheremo in segui- to di distinguere da una parte «persona» e dall'altra «sogget- to» e «individuo>>. ConcIuderemo vedendo come in metafisica Ia persona è la sostanza pih eminente.

a) Nella storia

In origine, la parola latina persona traduce la parola greca prosopon che significa «maschera»; la «persona» è così carat- terizzata dal ruolo che svolge con altre «persone» nel teatro della città. Le discussioni teologiche dei primi secoli cristiani hanno rielaborato il loro vocabolario. Il greco zpostasis, che significa letteralmente sub-jectum o stlb-stantia, vale a dire <{ciò che è sotto di», è stato tradotto con perroaaa. La persona con-

'. * ,.. XJ. 1,'ATTO E LA PERSONA 345 'W ;Y '

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nota così il sub-jectum, ciò che è «sotto» i significati comuni; conviene con ciò al tempo stesso alla natura divina (una «sot- to» le tre delia Trinità), a ciascuno di questi tre (uno «sotto» i loro tratti propri), ed alla persona di Cristo (una «sotto» due nature). Numerose tensioni nel pensiero e nella pace ecclesia- le provengono dalle ambiguità di questa espressione. Per tro- vare una soluzione, si tenterà di distinguere la sostanza come «supposito~> o soggetto e Ia persona che è al principio delle sue azioni.

Giovanni Darnasceno propone una definizione di persona che avrà risonanza nella filosofia contemporanea: «La persona, esprimendo se stessa attraverso le sue operazioni e proprietà, pone di sé una manifestazione che la distingue dalle aitre del- la stessa specie» 17. Questa bella definizione, degna della tra- dizione teologica greca, non avrà tuttavia eredi latini imme- diati. Boezio definisce la personu in maniera aristotelica. Egli muove da una totalità generica, la «natura», e precisa per mezzo

- di una divisione progressiva la specie della <<persona». Si mostra prima che la persona è una natura sostanziale, poi che questa sostanza è razionale, in ultimo che è individuale. Si ottiene così questa definizione celebre: la persona è una ~aciostmra indi- viduale dz natura razionale» 18.

Questa definizione di Boezio fa tuttavia difficoltà a causa del suo punto di vista logico. Secondo questa logica, l'esten- sione di un concetto è inversamente proporzionale alla com- prensione; più un termine è ricco di significati, minore è il numero di soggetti ai quali può essere attribuito, e viceversa. Così <(Dio», essendo il soggetto meno esteso, è il più compren- sivo; implica dunque tutti i termini che entrano neila sua com- prensione. La debolezza dd'argomentazione diviene d o r a evi- dente: se «Dio» è ii soggetto più comprensivo, integra anche la materia. Questo esempio mostra che il processo logico non conviene per definire una natura particolare. La formula di Boezio, costruita in una mentalità essenzialista, non potrà esse- re ripresa senza essere modificata.

l? G. Dah%ascwn, Diakctica 43; PG 94, 613. 18 Bomo, Contro Eutiche e hTcstorici i; PL 64, 1 3 4 3 ~ .

346 xr. L'ATTO E LA PERSONA

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Per <{persona» san Tommaso intende <<ogni sussistente di natura razionale» 1 9 . Egli sostituisce cosl la sostanza di Boe- zio con la sussistenza. La sussistenza implica l'individualità jn se e per se della sostanza e la caratterizza mediante il suo atto. La persona è dunque una sostanza in se e per re in atto. 11 suo atto è spirituale o riflessivo. L'introduzione delIa sussi- stenza specifica cosi la razionalità menzionata nella definizio- ne di Boezio; la persona è capace di riflettere su di sé e di assumere le proprie responsabilità. La riflessività degli atti

quindi l'unicità e 17incomunicabiIità della perso- na, senza tuttavia rinchiudere il sussistente in se stesso; appar- tiene infatti a colui che, 4 principio di sé, è responsabile di sé. Per san Tommaso questa responsabilità risulta da un atto intellettuale. Dal momento che la persona è per se subsistens in nafara i n t e l l e c t ~ u k i ~ ~ , il suo atto dipende dalla sua natura intellettuale che è riflessiva. L'origine intellettuale delle ope- razioni appartiene infatti ai sussistenti che <<hanno il dominio dei propri atti, che si muovono da se stessi e non già spinti dall'esterno come altri esseri* 21. L'incomunicabilità della persona è cosi manifestata dal dominio sui propri atti.

Questo dominio è possibile per la relazione che lo spirito ha con sé, tramite Ia sua riflessività. Tale è la persona che ha un rapporto a sé e non ad un aitro}bz2 e che sussiste così. La sussistenza è rifiessività. <{Ritornare sulla propria essenza significa soltanto che una cosa sussiste in sé medesi~na»~~. Si conclude che la «persona>>, padrona di sé e che domina le sue azioni, è incomunicabile proprio quando si esprime, poiché nes- suno d'infuori di sé è responsabile delIe proprie azioni.

U Medio Evo insisterà sull'incomunicabitità della persona. Tuttavia, il dominio della persona sui propri atti non la isola. E esercitato nella comunicazione. E esprimendomi in manie- ra universale, accessibile a tutti, che io mi esprimo singolar- mente. Anzi, l'incomunicabilità rende possibile I'intersogget-

l9 TOMMASO, Ln sommu teologica X 24 3 ad 2. 20 To~hlnso, In .~ententiatrrm 1 23 2 .

T O ~ ~ T A S O , Ln s o m teu.bgico i 29 1. 21 In., 1 2 9 4 ad 1.

ID., 1 14 2 ad 1.

XI. L'ATTO E 1.A PERSONA 347

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tività; d rapporto tra le persone è consistente se ciascuno sus- siste in se e per se. Dire che la persona è incomunicabile non significa dunque che sia chiusa in se stessa, ma che non si sepa- ra da sé anche quando si comunica all'altro. Nel momento in cui si dona, fa persona si dona interamente e si realizza come persona.

La solitudine derivata dall'incomunicabiiità della persona proviene dal fatto che il suo atto non può essere delegato, ben- ché si compia effettivamente al di fuori di essa. <<Per potersi donare, t...] occorre esistere in una maniera eminente, posse- dendo se stesso, vale a dire che occorre esistere in una manie- ra spirituale, in grado di avvolgere [se] stesso con l'intelligen- za e la libertà, e di sovra-esistere in conoscenza e in amore. Per questo motivo la tradizione metafisica deU'Occidente defi- nisce la persona mediante I'indipenden~a»2~ o più esattamen- te come vedremo nel punto seguente, mediante l'autonomia. d a nello stesso tempo che «mior, il mio atto si compie con fermezza e decisione fuori di me. «Essendo nella mia sostan- za una firma o un sigillo che la mette in stato di possedere la sua esistenza e di compiersi liberamente e di donarsi libe- ramente, (?a personalità] attesta in noi la generosità o l'espan- sività di essere che dipende dallo spirito in uno spirito incar- nato, e che costituisce, neIle ~roiondi tà segrete della nostra struttura ontologica, una fonte di unità dinamica e di unifica- zione dall'interno» 25.

b) Il soggetto, l'individuo e la persona

Il pensiero moderno ha assunto le posizioni classiche sul- l'incomunicabilità della persona, ma integrandole con prospet- tive nuove. La sua preoccupazione per i problemi epistemolo- gici l'ha condotto ad interessarsi più al soggetto che alla per- sona. L'intelletto non è più sottomesso al fatam della natura. Soggetto attivo, non è più legato ad un mondo fissato ogget- tivamente, votato aila contemplazione passiva. Diversamente

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%A,

dal mondo, è autonomo, libero e responsabile di sé e del mon- + do. E capace, calcolando, di prevedere gli avvenimenti, di

manipolarli e di plasmarli si suo modo. ~efibniz ha interpretato questo soggetto moderno in una

maniera che segnerà definitivamente la cultura occidentale; il soggetto è un individuo così autonomo da divenire indipen- dente, come la monade senza «finestre, attraverso le quali qual- cosa possa entrare od L'individuo è tuttavia, come la monade, attivo. Ora, perché la sua azione sia realizzabile, occorre che vi sia un'armonia tra questi soggetti indipenden- ti; ciascuna monade, bnché indipendente, deve dunque entrare in consonanza con la totalità deIl'universo. Questo rapporto alla totdità, congiunto all'indipendenza della monade, fa sì che questa, dal suo punto di vista particolare, esprima la totdità dell'universo; a questa condizione, esercita la sua forza senza rischio di essere annullata. L'individuo è dunque membro di un sistema ordinato a priori, il migliore possibile. L'indipen- denza del soggetto non lo chiude dunque del tutto nello splen- dore della sua solitudine altera. La monadologia è cosi con- nessa alla Teodicea.

Con Leibniz, l'umanesimo cartesiano scivola verso l'indivi- dualismo. Ma il soggetto non è l'individuo; è autonomo, mentre I'individuo è indipendente. L'individuo esclude gli altri con sufficienza, mentre ii soggetto integra ciò che esso non è; l'in- dividuo è uno, solo in mezzo ad altri, mentre il soggetto è responsabile delIe proprie azioni. Dopo iI filosofo di Hanno- ver, il cogito, che poteva trovare in sé ii desiderio del tutto, rivendica questo tutto per sé. La filosofia moderna accentua cosi I'incomunicabilità della persona esacerbando la volontà del- l'individuo.

L. Dumont 27 ha interpretato la storia dei tempi moderni in funzione di questo individualismo. Per lui, la storia euro- pea risulta da una lotta tra due principi, olista ed individuali- sta. Il principio olista o totalizzante (holos, in greco, significa <m tutto intero>>) organizza la società come una struttura gerar-

26 G.W. LF.~NI%, Monadolotk, n. 7. 1,. DIIMONT, FJSU~S w r Ilindduid~~uli~nre.

's XT i 'ATTO E LA PERSOXA 349

Page 351: 1. GILBERT La Semplicità del PRINCIPIO (Metafisica)

chica, subordinando gli elementi individuali al principio; gli individui esprimono dunque il tutto a condizione di rispetta- re la Ioro situazione in un universo il cui ordine è definito dal <<principe». Al contrario, il principio individualista pone l'accento sull'unicità di ciascun individuo. La proclamazione dei diritti deu'uomo, nel 1789, concerne di fatto i diritti del- l'individuo; l'uguaglianza e la libertà sono divenuti i valori supremi. L'individuo non è allora più articolato sulla società, ma questa esprime al contrario il gioco dei valori liberi ed indi- pendenti di ciascuno, il frutto del Ioro contratto sociaIe.

A. Renaut 2s pensa che queste vedute sulla storia moderna siano troppo rigide. Altre derivazioni oltre che la riduzione del soggetto d'individuo sono infatti possibili aiia filosofia del cogito. Occorre tener conto delle concezioni che parlano del- l'uomo in termini di autonomia più che di indipendenza. A partire da Kant, soprattutto, è stata resa attuabile una pro- spettiva' nuova sul soggetto.

L'autonomia non si oppone d'indipendenza, ma d'etero- nomia. Questa <{è pure un'indipendenza, ma nel senso in cui la valorizzazione dell'autonomia consiste nel fare delI'umano stesso il fondamento o la fonte delle sue norme e delle sue leggi, in quanto non le riceve né daila natura delle cose, come presso gli Antichi, né da Dio, come nella tradizione giudeo- cristiana. Non è meno vero che, dipendenza riguardo alle leggi umane autofondak, l'autonomia è anche, in un certo senso, una f o m di indipendenza [...l, ma non è indipendenza che in rapporto ad unlAutontà radicale che mi proclamerebbe la Legge. [...l Nell'ideale di autonomia, io resto dipendente da norme e leggi, a condizione di accettarle liberamente* 29. Lasciamo a A. Renaut la sua rappresentazione deli'autorità divina. Pren- diamo in considerazione soltanto il fatto che l'autonomia è Iega- ta alla responsabilità soggettiva. Potremmo anche aggiungere, dopo le nostre analisi suil'atto, che il soggetto autonomo, e non indipendente, è responsabile dinanzi a ciò che lo limita intrinsecamente facendolo essere. Essere autonomo non è essere

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indipendente da una volontà libera sotto tutti i rapporti, ma essere responsabile e con ciò auto-limitato.

I filosofi personalisci degli ultimi decenni hanno reso testi- monianza a queste prospettive, insistendo vivamente su ciò &e distingue I'individuo daila persona. Per Em. Mounier «la persona è definita come un'esistenza capace di distaccarsi da ce stessa, di spossessarsi, di decentrarsi per divenire disponi- bile d'altro, e I'individuo come un mondo chiuso che cerca di separarsi, di opporsi, di farsi centro e di rivendicare sicu- rezze egoiste»30. Similmente, per G. Marcel, l'individuo è l'«io» inautentico che si chiude neli'anonimato e nella banali- tà della tecnica, mentre la persona è I'io autentico che ci apre d'altro, al «tu», e che partecipa così al mistero antologico. La comunicabilith è una caratteristica essenziale della perso- na. I filosofi personalisti sembrano opporsi, con ciò, alla tra- dizione antica deil'hcomunicabilità neUa quale potrebbe radi- carsi l'individualismo se la si comprende al di fuori della razio- ndità riflessiva. Ma se la persona è relazionale (ciò che non vuol dire relativa), non è né indipendente come un individuo con i suoi soli diritti, né dipendente come un soggetto con i suoi soli doveri; è autonoma, responsabile delle sue rdazioni.

La comunicazione, essenziale d a persona secondo i nostri contemporanei, non cancella dunque l'incomunicabilità classi- ca, ma la presenta in maniera decisamente spirituale, a parti- re dall'atto. La persona è un'ccattività vissuta di autocreazio- ne, di comunicazione e di adesione, che si coglie e si ricono- sce nel suo atto»?' effettuato nel mondo. La responsabilità le appartiene poiché essa è capace di cogliersi nella sua azione. Nella stessa linea, Maritain interpreta l'incomunicabilità in ter- mini di esistere; commenta così l'esse tomista che, legato d'es- senza, costituisce Ia sostanza sussistente: <<La mia persona esi- ste prima di agire, e possiede Ia sua esistenza, come la sua natu- ra, in un modo assolutamente suo e incomunicabile. Non sol- tanto la sua natura è singolare, ma possiede così bene l'esi- stenza che Ia attua che vuol essere sola a possederla: non può condividere con nessuno questa sua esis tema» 32.

'O J. LACROIX, Le penotimldSMe comme anti-idéokigie, p. 6. " EM. MOUNLER, Le pef~u~lnulisme, p. S. " J. MAFX~AIN, Distinguere per uni*, p. 274.

XI. L'ATTO E 1.A PERSnN,\ 35 1

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c j L'atto, .h rifkssione e h persona

La riflessione sulla «persona» costituisce un momento cul- minante della metafisica. Questa cerca infatti il principio uni- versale che non cancella la singolarità degli enti. Se Ia rifles- sione si accontentasse di accedere al principio accumulando le differenze e mascherando ciò che vi si oppone, si rende- rebbe incapace di cogliere gli atti reali nei quali le persone si riconoscono reciprocamente in se. E tuttavia è proprio del destino dell'intelletto conoscere con l'aiuto di universali astrat- ti; questi universali, che totalizzano i particolari, esprimono le diverse relazioni che collegano gli enti ad alizld. Spetta alla metafisica tenere insieme necessità contrarie e meditare sugli enti che sono ai tempo stesso in se e ad alizkd.

Come pensare insieme questi aspetti, in re e ad aliud, se esclusivi l'uno dell'altro? Di fatto, vi è un ente che li verifi- ca, la persona, al tempo stesso incomunicabile in atto (in se) e comunicabile in azione (ad laliud) . L'intendimento analitico è incapace di fondare questa contraddizione vissuta; l'intelli- genza la risolverà nella sua espressione nel mondo. L'esperienza delI'incontro con l'altro, in cui accediamo all'idea della perso- na, libera dalla chiusura analitica; la sua intelligenza è di un altro ordine. Si può certamente disconoscere la realtà di que- sta esperienza. L'inteUetto che divide ne è capace. Ma se ignora l'esperienza che sostiene la sua analisi, vale a dire l'atto e la realtà sintetica della persona, si condanna a non raggiungere il reale ed a schiacciarlo sotto forme universali e prive di sostanza.

La dialettica dell'in se e deil'acl atizdd, costitutiva della per- sona, è caratteristica della riflessione 3 3 . Noi comprendiamo in questo senso la «razionalità» mediante la quale gli antichi defi- nivano la persona. La razionalità non è limitata al lavoro del- l'intendimento, appartiene alla ragione. La ragione non è un sovra-intendimento che potrebbe astrarre un concetto piu astratto muovendo da astrazioni già ottenute dall'intendimento. L'idea della ragione non è un concetto costruito a posteiori

" I,a nostra esposizione siilla r<pcrsoiiam si ispirerà a L. SW.FANIN~, al'ersona*.

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e ad un secondo grado; è una sintesi a p~ ioa , l'esposizione del- l'esperienza originaria del pensiero che accede a sé, esprimen- dovi la sua responsabilità. La <(razionalità» della persona non significa il dominio dell'in tendimento suIl'universo sensibile, ma della ragione sul suo atto. Evoca la presenza dello spirito a sé anche mentre si espone fuori di sé. La razionalità è rifles- siva; la ragione è riflessione.

L'unità della persona è quella deIla sua razionalità. La per- sona non è un'unità statica, chiusa in sé, cui il vissuto si aggiun- gerebbe come accidenti esteriori. L'unità della persona è così attiva che la sua esposizione fuori di sé è la sua esposizione. La persona esposta nell'alterità non si duplica; si riconosce in questa esteriorità. La sua unità è quella di un atto che si fa azione, che si diffonde fuori di sé e che si raccoglie in sé in questa espansione stessa. In un certo senso, l'unità personale è conquistata sulla dispersione, ma questa conquista non è un'interruzione dell'espansione; è il riconoscimento di ciò che vi è esercitato, del sé in atto.

L'unità della persona, considerata nel tempo, genera la sua identità. L'identità della persona, o la sua permanenza, non è originaria. E modellata ddl ' azione che proviene dall'unità a priori dell'atto personale. La conoscenza a postetiori dell'i- dentith non è di fatto mai adeguata a quella deIla sua unità originaria. Gli empiristi vorrebbero che la conoscenza di sé risultasse da quella deli'identità personale attraverso la molte- pIicità delle sue opere; ma devono supporre per questo che tali opere provengano dal sé, che è dunque a priori. Infatti, come potremmo conoscerci nelle nostre opere se non vi fossi- mo prima presenti, se, fin dall'atomizzazione della nostra espe- rienza, non vi identificassimo la nostra azione come nostra, ponendoci dunque alla sua origine?

L'identità del sé con la sua espressione è a priori; non è tut- tavia perfetta. La distanza rimane interna all'unità, l'assenza alla presenza a sé. I1 sé, che è semplice, in se, non si pone che in ciò che non è, ad akiud. L'espressione attraverso la quale prende coscienza di sé è possibile perché non S chiuso in sé. Inoltre, questa espressione non proviene solo da sé. I1 sé si esprime li dove può, in ogni modo nell'alterità. Per questo

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motivo diciamo che la riflessività è dinamica, essendo costi- tuita da un movimento continuo. L'unità di questo movimen- to testimonia l'identità della persona; la diversità dei poli in se e ad aliud impedisce di stabilire questa unità in un'unità definitiva. Il sé accede a sé in ciò che non è, atto in se in azione ad aZiud.

La relazione ad a h d , se si fonda nell'unità in se, esprime la fecondità della persona identica a sé neile sue espressioni molteplici. La persona è così la sostanza più perfetta che pos- sa sussistere 34. Essa è prima &n se; è qui il fondamento della sua unità che esclude la sua relatività, ma non la sua relazio- nalità. L'analisi deil'incontro con l'altro è qui illuminante. L'd- tro è essenziale alla posizione del sé. Di fronte a me, mi fa scoprire la mia realtà tanto quanto la mia limitazione. Essen- domi opposto, fa che io sia io, in me, e non lui. L'altro non è alienante, ma personalizzante; opponendosi alle mie pretese di essere iibero da ogni determinazione, mi conferma nel mio limite e nella mia realtà.

La persona, che non è chiusa nella sua solitudine, compie il senso della sostanza che, in atto, si presenta attivamente nelia sua essenza. La sostanza, dl'origine di sé, in se, non è chiusa in sé; in atto di essere riferisce a sé, come alla loro ori- gine, tutte le sue manifestazioni ad aliad, nelle quali la cono- sciamo. Vediamo compiuto questo dinamismo della sostanza dalla persona che si scopre in se ponendosi fuori di sé e racco- gliendosi rifIessivamente a partire da questo momento. La sostanza principiale sulla quaie medita il metafisico è, final- mente, la persona.

In ultimo, la persona è anche per se. Ciò significa che non sussiste in vista di un'altra cosa, ma di se stessa. E un fine per se stessa, non per aliud. Kant vi insiste fortemente: «La natura ragionevole esiste come fine in se stesso» j5, a t d pun- to che si impone questo imperativo categorico: <Agisci in modo da trattare l'umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mez-

3 Cfr. J. SF.IFF.~T, Es~ere e prrsor~a, p. 317. 35 E. Kmr, F o n k i o n e dt-lkn mctuffii~.n dei cosisrmi, p. 87

354 XI. L'ATTO E L A PERSOiJA

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zo» La perseità della persona risulta dalla dignità della sua ragione, dall'autonomia della sua libertà. San Tommaso espri- meva concetti similari. Quando spiegava la provvidenza del Creatore aveva cura di distinguerla dall'as~og~ettamento: <<Le creature intedigenti sono curate per se stesse dalla divina prov- videnza, le altre in ordine ad esse»"; ciò che si precisa in tal modo: «Le sole creature ragionevoli vengono guidate da Dio nei loro atti non so10 per la specie, ma in ordine all'indi- viduo» 38 -

Una etimologia fantasiosa antica faceva derivare persona da per se m a , «per sé una». La perseità indica che la persona si compie da se stessa, che è una ed identica a sé, libera e recpon- sabiIe di sé. Riconoscendosi nelle sue azioni, la persona le rico- nosce come sue. Non è destinata a svuotarsi fuori di sé. La sua ragione finale non le è estrinseca. La persona non si com- pie agitando I'universo, ma essendo responsabile delle sue azio- ni. La libertà alla quale accede riconoscendo Ia sua respansa- bilità non è in un primo momento di scegliere tra diversi pos- sibili differenti, ma di realizzarsi assumendo effettivamente i suoi impegni nel mondo.

Tuttavia la libertà originaria non si realizza da se stessa. Essa non è a se. Per gli idealisti il soggetto si compie crean- dosi gli stumenti della sua realizzazione. Da questo punto di vista, i prcdigi tecnici delle nostre società contemporanee mani- festano l'esattezza di questa dottrina. Ma l'idealismo non è l'ultima parola dell'uomo. Non conosce i limiti al di fuori dei quali l'umanità si precipita in ciò che la distrugge; si vela gli occhi dinanzi alla morte e la rende insignificante. La tecnica, figlia dd'idealismo, rende la vita molto più piacevole, ma non sopprime il mistero dell'esistenza umana. Il mio atto non è a me. Il movimento delio spirito non è così fatto che la sua

possa essere realizzata abbandonando la resistenza del mondo, l'alterità assoluta del'altro, il destino delle nostre gene- razioni successive. La libertà è d'origine di sé, ma esprimen- dosi attraverso e in ciò di cui essa non dispone.

XI L'ATTO E LA PERSONA 355

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La metafisica è alla ricerca del. principio più universale e più necessario. L'universale è comunione; il necessario è sta- bilito tra ciò che è realmente differente. La tensione tra l'uno e il molteplice o tra I'identico e il differente è assunta da ciò che è al tempo stesso universale e necessario, uno e diverso, vale a dire dallo spirito capace di cogliersi in atto nell'azione espressa. La sostanza che sussiste in conformità a questa strut- tura deilo spirito è la +persona>>.

La persona si riconosce identica a sé essendo dinanzi all'al- tro, vale a dire differente, in seno ad uno scambio gratuito, di cui <<persona» ne è la sola origine.

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CONCLUSIONE

Eccoci giunti al termine della nostra ricerca. Avevamo pre- so l'avvio da una questione sull'articolazione del principio: l'al- leanza dell'ente e dello spirito. Abbiamo mostrato come que- st'alleanza sia mediata dall'intreccio continuo dell'universali- t à e della necessità, da queste due categorie fondamentali per ogni lavoro intellettuale. L'universalità unifica il diverso mentre la necessità diversifica l'unità. Le ricerche intraprese ddl'u- manità per interpretare il mondo e comprenderne il destino si sono sviluppate all'interno di questo intreccio che l'espe- rienza spirituale annoda, come si può vedere nel momento in cui vi si rivolge l'attenzione in maniera riflessiva.

Abbiamo riconosciuto nella persona la realizzazione concreta del principio: la persona esercita l'alleanza ontologica incon- trando l'uno e il diverso. Riflettendo su di essa, ii pensiero sembra dunque meditare sulla sostanza più compiuta, quella che illumina tutto il suo cammino intellettuale. La persona è la sostanza più perfetta che ci sia nella nostra esperienza per- ché, in se e per se, assume la responsabiiità delle sue azioni. Tuttavia, benché unita in sé, non è d se. La persona non è il principio che, semplice, fa idealmente provenire da se stes- so una diversità che non subisce; è la sostanza più reale? ma non è il reale ai principio di sé.

L'eccellenza della persona non le conferisce alcun privile- gio che legittimerebbe il suo dominio assoluto sulle cose. La sua perfezione è misurata da ciò che la fonda. La persona è

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contingente. La parqIa c<contingente» significa letteralmente <{che è prossimo a». E contingente ciò che non viene mai da solo, ciò che è sempre accompagnato dalla sua condizione. La riflessione sull'ente contingente assume la forma di una ricer- ca sulla sua origine. Essendo, ii contingente manifesta l'ener- gia dell'atto originario che lo fa essere. Ora, questo atto, donando all'ente di venire d'essere, si rende esso stesso visi- bile. Manifesta la propria energia, si pone in atto. Esercita così ciò che è veramente, l'essere come dono. In questo dono stesso viene alla sua luce. La metafisica propriamente detta medita su questo dono dell'origine a se stessa quando fa esse- re ciò che non è: medita allora sulla differenza ontologica più radicale, suUa profusione deu'essere.

Prima di impegnare questa ultima riflessione in un altro libro, e a mo' di conclusione alla presente Introduzione a h metafizca, accoglieremo le categorie classiche che articolano la tensione che vi è tra l'originato e l'originante, tra ciò che riceve J'essere e l'atto che lo fa essere. Ricorderemo prima aicu- ne fasi essenziali della storia della distinzione reale dell'essen- za e deli'esistere. Questa distinzione connota infatti la diffe- renza ontologica e la contingenza. Tenteremo in seguito di penetrarne il significato. Evocheremo poi il processo dell'a- ndogia che sostiene la riflessione su ciò che supera ogni essen- za. Concluderemo questa opera parlando in ultimo della cau- sdità metafisica. Accennando fin d'ora a questi temi, vorrem- mo condurre la riflessione fino al punto in cui il pensiero del principio esige un'apertura decisiva a ciò che lo trascende.

a) L'esistere e l'essenza nelh storia

La distinzione reale dell'essenza e dell'esistere è stata pro- posta da Avicenna per i1 quale l'essenza, disponibile a tutto, «ha per proprietà fondamentale di essere una, cioè di essere in se stessa esclusivamente ciò che essa è, senza confondersi con niente altro>> ' . Così, ad esempio, l'uomo ha come essen- za l'«umanità»; i suoi diversi tratti personali vi si aggiungono

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come accidenti: riso e gandezza, Socrate o Platone. Ora, I'ec- senza così definita è pensabile anche se non esiste. L'esistere è dunque un accidente che viene aggiunto all'essenza, è escrin- ceco. E ciò che fa dell'essenza un individuo reale.

Nessuna essenza presenta da sé questo accidente particola- re che è l'esistere. Da1 punto di vista dell'essenza e della sua necessità scientifica, l'esistere è gratuito, senza ragione. Nes- sun pensiero deli'essenza implica che questa essenza esista. Di qui un significato della <<realtà» della distinzione in causa. Dire che la distinzione tra l'essenza e I'esistere è reale libera la sostanza dalia sua sola necessità intelligibile e le riconosce ]a sua resistenza ai saperi formali. Lo stupore filosofico trova qui la sua origine e diviene un meravigliarsi.

L'esistere singolarizza l'essenza. Solo il singolo esistente sus- siste. L'essenza e l'esistere sono così differenti come l'ogget- to pensato dafl'intelletto pensante e la sostanza prima in se. Ma l'esistere è anche in un certo senso universale. E proprio infatti di ogni esistente per il fatto che esiste in se. Pensato, è paradossalmente l'essenza formale di ogni singolo esistente. Tuttavia, la sua universalità è specifica. Non è suscettibile di essere affermata come una qualsiasi qualità astratta. L'esiste- re non si aggiunge d'essenza come ii riso ail'umanità. I1 suo destino è di fare essere singolarmente ogni essenza in sé uni- versale. Se l'esistere è un accidente universale, Io è, per Avi- cenna, in una maniera unica.

L'Aquinate parla anche se poco della distinzione <<reale», una sola volta sembra2, ma i suoi testi la suppongono continua- mente. Essa orienta in maniera originale tutta la sua filoso- fia. Non è agevoIe cogLerne ii significato. La difficoltà di com- prenderlo bene proviene dagli a priori di tutte le nostre ricer- che intellettuali sottoposte a concatenazioni formali. Se si distingue l'essenza e l'esistere come due aspetti composti del- l'ente o come due oggetti di pensiero, se ne fanno due forme, I'ens dell'essenza e l'ens deu'esistenza, o due specie di essen- za, l'essenza dell'essenza e I'essenza dell'esistenza, un po' alla maniera dì Avicenna che vedeva nell'esistenza un'essenza dif-

Cfr. TOMMASO, De veri&& 27 1 ad 8.

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ferente da tutte le altre essenze, segnando così la vittoria del pensiero rcscientifico» o formale che riduce tutti i suoi oggetti aila loro inteliigibiiità essenziale. Ma non si può pensare la real- tà di una tale distinzione tra le essenze. Non si possono real- mente distinguere essenze pensate, l'essenza universale di ciò che è universale e l'essenza universale di ciò che è individua- le. Per penetrare ii significato della <<realtà» di questa distin- zione occorre che I'intellet to superi I'oggettivazione analitica dei suoi pensieri e ritrovi la potenza sintetica della riflessione.

La riflessione di san Tommaso segue in ur, primo momento la stessa linea di Avicenna, ma ne mantiene pih viva l'inten- zione originale. L'essenza non fa dono a se stessa di essere. Ciò vuol dire che la sostanza concreta no? è interamente con- tenuta nell'ordine del sapere scientifico. E un dono gratuito. L'ens tornista, abbiamo visto nel nostro capito10 di <{Ontolo- ia», è composto di essenza e di mtus essendi o di esistere. i necessario comprendere bene questa differenza. Per il De

ente et essentia, uno dei primi testi dell' Aquinate, la distinzio- ne reale tra questi due principi si origina nell'evidenza rice- vuta da Avicenna secondo la quaIe <(qualunque essenza o quid- dità può essere pensata senza che venga pensata avente l'es- sere: posso, infatti, pensare cos'è l'uomo o la fenice, e tutta- via ignorare se abbia l'essere nella realtà effettuale), ?. Tutta- via, è assurdo pensare che l'esistere si aggiunga d'essenza come un accidente ad un pensiero. Peraltro l'essenza è più di un pensiero. E materia e forma. Ora, questa coppia della mate- ria e della forma non basta a rendere conto dell'unicità di ciò che esiste. Questa unicità dipende dalI'atto di essere.

Non vi è essenza che possa essere realmente senza atto di essere, Non vi è neppure atto di essere che possa essere real- mente senza essenza. Abbiamo insistito su questo legame nel nostro capitolo di «OntoIogia». La distinzione «reale» non fa che il reale sia composto di due principi che si potrebbero unire o separare a volontà come se sussis tesser0 preliminarmente disgiunti l'uno dall'altro. A prima vista, questi due principi svolgono separatamente ii loro ruolo per la ragione, dal momen-

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to che l'essenza è il principio dell'universalità e I'esistere il principio dell'individualit à. Ma, così opposti, questi due prin- cipi possono non essere che due necessità del pensiero tra Ie quali non vi sarebbe di nuovo alcuna differenza reale, ma sol- tanto una differenza di pensieri. In realtà, quando si parla di differenza <cede», si dice che l'«esistere» non è un principio del reale che sia comparabile d'essenza, un'essenza che ver- rebbe a comporsi con un'altra essenza. Il primato deu'esiste- re suu'essenza è interiore d ' en t e reale, e non al pensiero del- la sua struttura. Indica un sovrappiu gratuito di cui l'intelIigi- bilità deil'essenza non può rendere conto. La distinzione rea- le non significa che il singolo esistere si aggiunga ad un'essen- za universale che non lo implica. Essa articola piuttosto la con- tingenza radicale delt'esistente che non è giustificata dalla sua sola essenza.

L'esistere trascende l'essenza pensata. E meta-categoriale. L'ontologia tornista, «ponendo a l di là dell'essenza un atto del- l'essenza stessa, [...] obbliga a riconoscere I'attualith propria di un esse che, poiché trascende l'essenza, trascende anche il concetto* ! Tuttavia, noi esprimiamo cib che supera il con- cetto e lo comprendiamo. Ne abbiamo dunque un sapere, ed un sapere che trascende ogni sapere deile determinazioni essen- ziali. L'intelligenza della distinzione reale non può appartene- re al giudizio che determina scientificamente gli elementi degli enti composti; dipende da un'altra istanza intellettiva, dalla riflessione che mette in luce le condizioni di affermazione della realtà come realtà.

A partire da qui, come abbiamo tentato di spiegare nel corso di questo studio, soprattutto nei capitoli 10 e I I, il pensiero ascende verso ciò che è il più profondo ed originario, il prin- cipio d'origine di ogni atto di pensiero e di ogni atto di esse- re, di ogni atto ai tempo stesso mio e reale. La riflessione sco- pre nel pensiero piii della sua esposizione signate. Vi è in essa un atto exercik che è all'origine deIla stda essenza. I1 pensiero riflettente si percepisce allora in se stesso come il modello di ogni esistente, nel senso etimologico della parola che abbia-

ET. GUSON, L'errerc r l'essenza, p. 102

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mo elaborato nel capitolo 2. Si scopre come una <<persona» in relazione ad altre persone, la sostanza pih perfetta, al tempo stesso in sé e fuori di sé, la sostanza la cui essenza è animata da un'interiorità che le è irriducibile.

Da qui la nostra terminologia: parliamo di esistere e non di esistenza, perché il sostantivo «esistenza» è un'essenza e il dinamismo originario deli'atto è significato pih esattamente dail'infinito. La distinzione reale segnala una trascendenza al di là di ogni essenza e non una essenza perfettamente intelli- gibile, principio di una spiegazione scientifica ultima. Essa fa eco al dinamismo del pensiero che si origina attivamente al di qua delle sue forme intelligibili e che, in quest'apertura, si lascia animare da ciò che precede ogni spiegazione.

6) La potenza dell'essenza e l'atto di esistere

- La tradizione associa la distinzione dd'esistere e dell'essenza a quella dell'atto e della potenza. L'esistere è un atto e I'es- senza una potenza. Occorre precisare questa sovrapposizione di categorie se si comprende che la potenza è in potenza di essere in atto. Affermare che l'essenza è in potenza di esiste- re in atto non ha aIcun significato se l'essenza è un'intelligi- bilità formale che tenderebbe da se stessa ad esistere. La fisi- ca antica vede nel movimento una potenza che accede d a sua perfezione fissandosi lì dove è il suo fine, che è pertanto il suo atto; la potenza fisica è così soppressa dai suo atto. Ma non può accadere allo stesso modo per quanto riguarda il rap- porto dell'essenza dl'esistere. E troppo evidente che esistere non sopprime la potenza dell'essenza. Il fatto che l'ente esi- sta non lo rende inintelligibiie.

Per san Tommaso I'esistere è la perfezione più intima del- l'ente. Per comprendere questa perfezione la si chiarisce in diversi modi, ma senza che si possa ridurla ali'uno o all'altro sistema categoriale. I1 fine o l'atto è Ia perfezione del movi- mento o della potenza; se tuttavia l'atto è il fine del movi- mento e della potenza, l'esistere non è ii fine deil'essenza. Similmente, se la forma è atto e la potenza materia, la forma è la perfezione della materia; ma l'esistere non è una forma per un'essenza che sarebbe una potenza materiale. D'altron-

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de, secondo l'ontologia classica, la forma e la materia costi- tuiscono insieme l'essenza. Si potrebbe tuttavia dire che I'esi- stere «è» la perfezione deli'essenza, la quale <<ha» la perfezio- ne deila forma. Infatti, l'esistere è l'atto reale dell 'esi~tent~, la cui forma essenziaie è un atto intelligibile, vale a dire la condizione che, rendendo l'esistente materialmente presente d'intelletto, partecipa con ciò aUa perfezione reale dell'esi- stente; la forma <<ha» dunque la perfezione. Schernatizziamo così il pensiero di san Tommaso:

Essenza Esistere

Materia: potenza j i per l'intelletto

Forma: atto i Potenza > < in realtà > <Atto

Vediamo ora come l'titto di essere è la perfezione dell'es- senza che è la sua potenza. Secondo la logica delle categorie, l'atto è primo in rapporto alla potenza. Infatti, si concepisce la potenza ordinandola a l suo compimento nell'atto che è il suo fine. Da se stessa, la potenza è privazione, attesa e desi- derio di ciò che le manca. E definita in funzione dell'atto, che la perfeziona in questo senso. AI contrario, l'atto non ottie- ne aicuna intelligibilità ad essere definito da ciò che ne sareb- be privato. Esso è ciò che è, senza includere potenza. Questa logica categoride, che san Tommaso assume, mette in guar- dia contro la tendenza a comprendere l'atto in funzione della sua essenza, vale a dire l'esistente in funzione della sua essenza. E invece la potenza che ha un senso, essendo diretta verso I'atto. L'orizzonte delia conoscenza tornista non è la forma essenziale o intelligibile, ma l'esistente reale, meta-essenziale.

Il problema è sapere in quale senso l'essenza è perfezionata dalI'atto verso cui tende, essendo chiaro, come abbiamo già detto, che I'intelligibilità non tende ad esistere quasi avesse come fine naturale di divenire un esistente. L'atto di essere è la perfezione dell'essenza. Ciò significa che l'orizzonte del sapere è la gratuità dell'esistente. La distinzione reale dell'es- senza e dell'esistere diviene significativa in questo contesto.

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La conoscenza non conosce solamente essenze possibili, ma anche sostanze attuali. L'esistente è in atto al di Ià delle for- me mediante le quali l'intelligenza lo coglie, e l'intelligenza lo sa. La priorità deil'atto sulla potenza traduce la priorità del- l'esistere suli'essenza, dell'unico sulle sue presentazioni uni- versalmente accessibili. Ogni esistente, per esistere intelligi- bilmente, è prima in se. Se I'unico è determinato dalle sue for- me razionali, se è ad aliud, lo è solo perché prima è in se. E questo noi lo comprendiamo. Ciò suppone che abbiamo del- l'atto un'inteliigenza singolarizzante, intelligenza che è supe- riore a quella delie determinazioni essenziali.

Accediamo a questa inteuigenza riflettendo sulle condizio- ni dell'incontro con l'altro. Riprendiamo qui gIi elementi prin- cipali del capitolo sulla «Persona}>. Il mio atto è riportato d a sua reaItà d a stessa maniera che la potenza è logicamente rife- rita al suo atto. Infatti, il mio atto, in quanto mio, E in poten- za. L'atto mio non è da se stesso un atto. Ne riconosco la realtà a condizione che l'altro l'approvi e me la riconosca o me la doni così. Io non sono a me solamente. Ricevendomi dalJ'altro, lasciandomi limitato da lui, ricevo di essere reaIrnente in atto. Da me stesso, sono soltanto una potenza indefinita. Da lui ricevo di essere realmente. Tuttavia, io non sono più da lui che lui non è da me; io non sono pih lui che lui me. L'atto della mia potenza non è ii suo atto. Io sono in atto per mezzo di lui, ma lui non è il mio atto. Attraverso lui, sono realmente io, non lui. Io sono in atto per mezzo di lui e lui per mezzo di me, ciascuno limitandoci l'un l'altro, ciascuno promuovendoci reciprocamente neil'essere.

Io non sono in atto che ricevendo l'essere, ma io sono l'at- to che sono nella mia azione, e non soltanto un atto estraneo di cui non avrei aicuna responsabilità. Io non sono reale a me, ma sono io che sono reale. Il reale in me non sei tu, né qual- che atto comune. Noi siamo ciascuno responsabile di ciò che facciamo. Io sono veramente in atto, ma non lo sono da me stesso. Io sono contingente. Così, io sono. La distinzione del- l'atto e della potenza nell'unità di ciò che sono, io e reale, esprime la contingenza del mio essere nello stesso tempo che la sua realtà.

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Venendo a me, tu mi hai fatto divenire l'atto di cui ero la potenza; tu però non sei questo atto. Noi siamo in atto per- ché il reale esercita, tramite la nostra mediazione reciproca, la fecondità indefinita deiia sua energia primordiale; ci fa essere nel momento stesso in cui noi ci limitiamo. Io non sono alla mia origine, e tu neppure. Noi siamo in atto, l'uno e l'altro, partecipando all'atto originario che ci dona, a te e a me, a me per mezzo di te e a te per mezzo di me, di essere in atto. L'atto originario si iscrive nei nostri atti facendone queste potenze attive che noi siamo l'uno per l'altro. La nostra real- tà è originata in un atto pih elevato di te e me, benché ciò che ci misura sia realmente ciò che è nei nostri atti, miei e reali.

La riflessione che riconosce il limite dell'esistente in atto di essere assume la molteplicità degli atti che si promuovono limitandosi a vicenda. Quindi, per essere intelligibile, la mol- teplicità degli enti non può più essere ridotta a qualche unità formale. Ciascun esistente è donato al suo atto dagli altri esi- stenti. Ciò vale soprattutto per le persone. Gli enti imperso- nali, senza spirito e dono di sé, possono essere sostituiti sen- za difficoltà gli uni dagli altri. Questa biro nuova vaie quanto quest ' altra biro nuova, indifferentemente. Ma le persone umane sono uniche. La loro originalità e la loro libertb impedisce loro di essere sostituite le une dalle altre. La dignità dell'atto è così d'origine della molteplicità radicale delle persone irriducibdi le une alle aitre pur essendo in comunione.

La distinzione dell'essenza e dell'esistere ha qui la sua veri- tà. Vale per ogni esistente che un altro esistente limita affi- dandolo d a sua finitezza. Ha il suo significato originario nel- l'esperienza interpersonaie. La distinzione reale fonda formal- mente gli esistenti £initi nella pienezza, paradossale per le nostre passioni, della loro contingenza.

C) Il significato dell 'analogia

I1 significato dell'incon tro con l'altro, che abbiamo adesso nuovamente spiegato e che è al centro della nostra riflessio- ne, fa scoprire come un'unità genera una molteplicità. La rifles- sione sull'atto originario è sorretta dalla descrizione di questa

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esperienza. È approfondita intelligibilmente grazie alla tecni- ca dell'anaiogia applicata d ' a t t o di essere. Ricorderemo ora, ma brevemente, gli elementi più importanti di questa tecnica di origine grammaticale. Questa tecnica è infatti fondamenta- le per la metafisica poiché l'atto originario, per essere inteso, dev'essere espresso, ma senza poter essere detto alla maniera di ciò che in noi è presente nelle nostre esperienze pih diver- se e complicate. I1 principio dev'essere realmente semplice e anche la maniera di dirlo. Ciò non significa che l'espressione di questa semplicità risulta dalle nostre facili confusioni tra ciò che è banale e ciò che è semplice. Le banalità, dovute alle nostre abitudini culturali, nascondono di fatto, moIto spesso, complicazioni temibili. La tecnica dell'analogia ci conduce verso ciò che è in sé o realmente semplice.

Si distingue l'univocità, I'equivocità e I'analogia. I1 terrni- ne che ha soltanto un significato è univoco, mentre queilo che ne ha diversi è equivoco. La distinzione tra l'univocità e l'equi- vocità. è importante in logica sillogistica. Infatti un termine può essere soggetto ad una vasta polisemia. Ma quando è uti- lizzato in un sdlogisrno, dev'essere preso in un solo senso, in modo univoco, aitrimenti il siiiogismo sarebbe dmeno a quat- tro termini e non a tre, dunque un paralogismo. La scienza prima, se tende verso il principio scientifico più universaie, comprendendolo come una forma, lo vorrà unico, come in Duns Scoto. Tuttavia, I'univocità non conviene che alle essenze astratte degli individui. Non vale veramente per i singoli enti, le persone in primo luogo, che sono differenti gli uni dagli altri e ciascuno unico.

In realtà, un'essenza se è astrattamente universale, è singo- lare convenendo ad un individuo reale. Per esempio, <<uomo» è un'essenza singolare nel caso di Socrate, che è veramente un uomo. Una tale essenza singolare non può essere univoca. Infatti, Platone non è Socrate. Sarebbe forse equivoca? Nep- pure, perché Socrate e Platone sono ciascuno un uomo, ben- ché l'uno non sia l'altro. Come dunque un'essenza astratta- mente universale può essere forse attribuita in maniera con- veniente ad un singolo ente? La questione si pone in maniera radicale a proposito deli'atto di essere. Si può infatti pensare

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ad un'essenza generaie senza implicarvi un ente determinato, per esempio <<angelo» o «peso». Ma non si può pensare d ' a t - to di essere senza intendervi un singolare sussistente. In ter- mini di essenza, si dirà che l'essere universale o intelligibile deli'atto di essere è l'essere singolare. Ma in questo caso, così vicino a ciò che, seguendo Avicenna, abbiamo detto prima sulle due essenze, quella deH7essenza e quella dell'esistenza, si osser- va che l'essenza universale dell'atto di essere ha debordato dai- l'interno di se stessa. L'essenza di questo atto o deIl'esistenza non è veramente un'essenza conforme ai canoni deU'inteiligi- bilità universalizzante. La tecnica dell'anaIogia mostra così come l'intelligibilità (poiché <<atto di essere» è intelligibile} si apre a ciò che la supera. La struttura dell'intelligibilità è così definitivamente aperta dali'intelligibilità deli'atto di essere al di là deli'essenza puramente astratta. L'atto di essere non può essere pensato come se fosse l'essenza astratta degli esistenti.

L'atto di essere non è in sé univoco o astrattamente comu- ne né equivoco o realmente differente da un esistente all'al- tro; è ?nalogo. L'analogo è al tempo stesso univoco ed equi- voco. E univoco per il suo significato formale ed equivoco per il suo sostrato singolare. L'identità universale degli atti degli esistenti ogni volta singolari costituisce il loro carattere ana- logico.

Si distingue l'analogia di attribuzione e l'analogia di pro- porziondità. L'analogia di attribuzione è a sua volta distinta in attribuzione estrinseca ed attribuzione intrinseca. Ricordia- mo ciò che significa ciascuno di questi termini. Per attribu- zione estrinseca si intende l'attribuzione alla sostanza di un predicato che non appartiene alla sua essenza, ad esempio: {{questo bambino è un angelo)?. In tal. caso, l'analogia è di fat- to una metafora; qualifica una sostanza per mezzo di un carat- tere che appartiene in proprio ad un'aitra sostanza e che è accolto in maniera univoca. Al contrario, l'attribuzione intrin- seca attribuisce ad un soggetto un ~redicato che appartiene alla sua essenza, ad esempio: «questa lettura è sana, questa passeggiata è sana*. In tal caso, i soggetti reali differenti deter- minano l'univocità dell' attributo in maniera concretamente molteplice. Una certa molteplicità entra così nell'attributo

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intrinseco. I1 principio più universale, ma anche il più singo- lare, deve dipendere dall' attribuzione intrinseca.

Distinguiamo adesso l'attribuzione e la proporzionaiità. L'andogia di attribuzione intrinseca è a tre termini, di cui due sono riferiti ad uno stesso terzo: A sta a C come B sta a C; ii terzo termine (C: «sano») dev'essere univoco, benché i suoi sostrati (A e B : <(lettura» e <{passeggiata>>) siano differenti. L'analogia di proporzionalità è a quattro termini: A sta a B come C sta a D; d'albero è per gli uccelli come la città è per la popolazione». Quest 'analogia identifica due rapporti, A-B e C-D; la validità di questa identità non è riposta direttamen- te nei termini utilizzati, ma neli'uguagiianza dei loro rapporti.

La proporzionalità permette di approfondire la riflessione che l'attribuzione lascia in sospeso quando prende in conside- razione il principio in maniera formale, l'atto di essere che, astrattamente univoco (C), appartiene tuttavia realmente a cia- scun ente (A e B). Nell'analogia di attribuzione il principio universale è l'ens commune che non sussiste in sé ma nei sin- goli enti, proprio come <<sano» non sussiste in sé ma in «lettu- ra» e «passeggiata,>. L'analogia di proporzionalità permette di superare ciò che, nel pensiero del principio, sarebbe soltanto formale e privo di qualunque sostanza. Infatti essa enuncia il priiicipio a partire dagli esistenti ogni volta unici, facendo riconoscere in ciascuno di essi il dono di un atto di cui tutti si appropriano per la mediazione degli altri. I rapporti sui quali l'analogia di proporzionalità richiama I'attenzione sono così quelli, dinamici, dell'esistere in atto nelia sua essenza.

L'attribuzione intrinseca conviene all'essenza e la propor- zionaiità d'esistere in atto. L'attribuzione considera l'univer- saiità commisurandoIa alla formalità del predicato; la propor- zionalità esamina I'atto che anima ogni volta gli esistenti. Per l'analogia di attribuzione l'ms cammune non ha essere; è un'es- senza che sussiste nelle singole sostanze. L'analogia di propor- zionalità considera il principio che sussiste in atto all'origine di sé, che si esercita esprimendosi fuori di sé nelie sue azioni. I rapporti molteplici presi in considerazione dall'analogia di proporzionalità sono costituiti da queste strutture molteplici di espressione e riflessione.

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Queste considerazioni tecniche sono ardue, ma estremamente importanti. Se infatti la fiiosofia ricerca l'intelligibilità ulti- ma, iI principio ultimo, le occorre utilizzare strumenti provati di razionalità. La tecnica dell'anaiogia è quella che consente in modo appropriato di aprire I'inteIligenza a ciò che la supe- ra e che essa tenta senza tregua di ricondurre ad una pura for- ma essenziale, come ad esempio ii concetto dell'ente. Ma in che modo questo sforzo è sensato se lo spirito umano non con- serva, nel fondo della sua memoria, il ricordo e l'attesa di un atto che lo supera e che è la perfetta donazione di sé a parti- re da sé, non più un atto che sarebbe in se a condizione di aprirsi ad aliud per essere ricevuto da esso, ma un atto che è ad a h d essendo con ciò stesso in se? L'analogo primo, in rapporto a i qude tutti gb altri hanno il. Ioro significato, dovreb- be essere un atto la cui essenza è la perfetta espressione sin- golare. Questo principio non è più veramente un universale astratto. Non è più misurato dallo spirito umano.

d) La causalità metafisica

Mentre gli enti della nostra esperienza subiscono i loro pre- dicati, ma la loro intelligibilità non dà loro esistenza, I'analo- gia rende intelligibile il pensiero di un atto adeguato alla sua essenza perché vi si dona interamente. L'atto che si dà così la propria essenza, piuttosto che donarsi in un'essenza, non può rassomigliare ai nostri atti contingenti. Ne è radicalmen- te diverso. Vediamo come pensarlo, sebbene sia al di là di ogni essenza formale.

Se ogni conoscenza ha inizio dall'esperienza di ciò che è intelligibile, non possiamo comprendere una sostanza senza accoglierne prima l'essenza. Ma non è perché dobbiamo pen- sare la sostanza secondo la sua presentazione nell'essenza che questa sostanza è solamente la sua presenza essenziale e dev'es- sere pensata entro questi limiti. Dail'impossibilit à di pensare diversamente che accogliendone I'essenza, non si può conclu- dere che il pensiero raggiunge soltanto essenze. Di fatto non si può negare che l'intelletto raggiunge ciò che è realmente. Al contrario, è necessario pensare che raggiunge le sostanze

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che sono le loro essenze sussistendo reaimente in atto, e che noi conosciamo come tali. Negarlo è impossibile poiché sarebbe negare la possibilità di ogni avvenimento reale, compreso quello delIa negazione. Occorre dunque pensare che 5 possibile, per- ché necessario, comprendere dall'interiorità del mondo delle essenze l'atto che è ai di là.

Perché questa necessità conduca fino ali'affermazione del principio in atta scaturendo semplicemente nella sua essenza singolare, occorre che la riflessione cessi di analizzare le essenze formali e si applichi d'energia deli'atto originario che si dona neila sua essenza. La meditazione sull'atto spirituale apporta a questa ricerca una grande luce, se aimeno se ne scorge il limi- te del suo esercizio che è nostro e ci permette di andare più lontano. Lo spirito umano non è interamente padrone delia sua azione nel mondo. Non si dona a se la sua essenza. E insor- rnontabiie la distanza tra il suo atto e la sua azione, I'exercite e- il signate. Io esercito la mia azione grazie a ciò che il mio atto non padroneggia. Il mio atto è così ciò che è per mezzo di ciò che esso non è e di cui si fa radicalmente recettivo. I1 mio atto è paradossalmente una potenza messa in atto grazie a ciò che esso non è. Muovendo da questa contingenza spiri- tuale che mi realizza, è possibile un approfondimento della riflessione.

La riflessione suli'atto spirituale rivela la struttura di ogni sostanza che esiste apparendo nelia sua essenza. L'atto sussi- ste esprimendosi intelligibilmente. Tuttavia nessuna sostanza è abbastanza presente alla sua essenza. La sua sussistenza non è misurata daila sua intelligibilità presente. Infatti è presente tramite ciò che essa non è, ed è più che la sua presenza all'in- teiletto. Ciò non VUOI dire che nessuna sostanza è affermabi- le. Le sostanze vengono affermate nella loro sussistenza per mezzo di ciò che esse non sono, ma in cui si presentano effet- tivamente. Tutto ciò I'intelletto Io sa e Io pratica continua- mente nella sua attività scientifica quando cerca una spiega- zione che «aderisca>> bene aUe cose.

Ma per poter pensare con rigore una tale sussistenza delle sostanze singolari nelle essenze universali che esse non sono semplicemente, occorre poter pensare che sussiste una sos tan-

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za la cui essenza è perfettamente adeguata ai suo atto, perché questo suo atto vi si dona perfettamente. Noi abbiamo un'e- sperienza di questo adeguamento, ma un'esperienza seconda o riflessiva. Cogito snm, dico io alla prima persona del singo- lare, e in latino, pur riconoscendomi in questa frase. Lo spiri- to accede a sé, realmente ma riflessivamente, esprimendoci in un'alterità. Questa sintesi che lo spirito è per se stesso careb- be inintelligibile se non si ponesse un atto che si dona a priori la propria essenza e d quale lo spirito partecipa per ricono- scere l'apriorità della sua semplicità. Lo spirito umano non è la sempIice origine di sé. Riconoscendosi in ciò che non è, non si dona la sua essenza. Si riconosce in un'essenza che riferisce a sé. Esercita con ciò un sapere di semplicità, ma che scopre a cose fatte, a posterioui, e di cui sa di non essere l'origine, benché questa semplicità sia la sua identità prima. Essendo in atto nella sua essenza, esercita un atto di cui lascia risplen- dere su di sé la semplicità fontale, a cui partecipa e la cui essen- za è di essere in atto. A questa condizione Io spirito può rico- noscersi in ciò che esso non è.

L'atto originario appartiene interamente a sé; si dona la pro- pria essenza, che è la sua perfetta espressione. L'essenza di questo atto non è costituita dagli elementi modificanti ed a posteHok del mondo, ma da questo atto stesso. L'atto origi- nario si dona nella sua essenza in intelligibilità puramente a priori. È un atto che fa avvenire l'intelligibilità nel suo atto stesso, in d t r i termini un atto perfettamente trasparente a se stesso. Tale è il pensiero che pensa se stesso, il Dio sul quale Aristotele, e poi tutta la tradizione fiiosofica, ha meditato con rispetto. Lo spirito umano che riflette ed aderisce a sé assu- mendo la responsabilità delle sue azioni partecipa a questo atto, che, esprimendosi come semplice presenza a sé, è originario. La dottrina della partecipazione all' atto originario si appoggia su questo esercizio dell'atto dello spirito umano che accede alla semplicità delI'atto originario perché ciò gli è donato e non ~ e r c h é se lo dona. L'atto originario si dona in maniera priviiegiata al nostro spirito in atto che, riflettendo sulle sue condizioni, lo percepisce intinaor intimo meo. Lo spirito par-

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tecipa alia semplicità dell'atto originario di cui si riconosce, mediante la sua riflessività, un'espressione gratuita.

La metafisica risale dd'esperienza dle sue condizioni. Non accede al principio incondizionato accontentandosi di unifi- care formalmente la diversità deiie nostre vite. Riconosce piut- tosto che esercitiamo nella nostra esperienza spirituale un'u- nità reale e fontale di cui non siamo la misura, ma che la rifles- sione esercita mettendola in evidenza. Lo spirito si riconosce unito a sé, ma sa che non lo E di per se stesso, che si riceve quindi da ciò che è di per sé fin dall'origine. Lo spirito uma- no conosce così che è in se stesso una grazia.

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Questa bibliografia indica i riferimenti delle sole opere citate nelle note. È impossibile menzionare tutti i testi che hanno accompagnato la rifies- sione sviluppata in questo libro.

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INDICE

Introduzione ...................... .. ... ... ................................... ....................................... Q] LA d$.fimltà della metafisica

......................... b) 11 pemanere della donaalah metafisica ............................................ C) Dalk'anità alh semplici&

.......................................................... d) I l nostro piano

........................... Capitolo I . CIIE COS'È LA METAFISICA

.................. I . Alcune definizioni recenti della metafisica

2 . Platone e il significato della parola «ente» ................. .................................................................. a) Il Sufista

................................................... bj La parola e la cosa

3 . Aristotele e la comprensione dell'ente ........................ ........................................... a) a) conoscenza e le cause

...................................................... h) La scienza prima 4 . La domanda metafisica secondo M . Heidegger ...........

Capitolo 11 . L'ENTE E LO SPIRITO .................................. .................................... 1 . L'estensione della domanda

...................................................................... u) L'ente b) I l reale e la foma ...................................................

................................................. C) La realtà e h logica 2 . La domanda pih fondamentale ..................................

........................................................... al I l fonhme~to .................................................................. b) Esistere

................................................ C) La dialettica dell'ente

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3 . La domanda pih originaria ........................................ .................................................. a) I1 soflio e lo spirito

.................................................... h) Lo spirito e h vita

................................... ......................... . I I metodi ............................................................. a) Un metodo

......................................... h) L'induzione e h deduzione C) L'intuizione ..............................................................

.................... 2 . 11 metodo trascendentale ....... ............. .............................................. a) L'implicito e l'esplicito

..................................... b) La fcnorneno logia bblondeliana .................................................. 3 . I1 metodo riflessivo .................................... a) Una p~ecomprenslone .........

............................................................. 6) La ritorsione ................................................. C) Un ritmo a tre tempi

Capitolo IV . UNA DISPOSIZIONE FONDAMENTAI.E ..............

........................... 1 . La tecnica. la saggezza e le scienze ................................................................ a) La tecnica

............................................................. 6) Lra saggezza ................................................................ C) Le scienze

2 . L'intelligenza e la volontà ........................................ ....................................................... a) Uua disposizione

............................................................. b) Due facolti ........................................... C) uno d i a k t t i c ~ spi&uale

3 . Lo stupore ............................ .. ............................... .............................. .....-........... a) Phtone e Aristotelc ..

...................................... ................. b) Heiclegger ..... ................................. C) Una prima differenza antologica

.................... ..................................... . 1 La sostanza ..... ...................................................................... a) Stotia

......................................................... b) Detet-minazione . . . .......................................... 2 . L'essenza e la quiddita

a) Storia ...................................................................... ......................................................... 6) Deteminazione

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. Capitolo XI L'ATTO E LA PERSONA ............................... 323 1 . Un abisso spirituale ................................................ 323 a) Al di qua dello stupore .......................................... 324 b) Lo scacco ................................................................ 326 C) L 'angoscia ................................... .... ......................... 330 2 . L'atto .................................................................... 333

....................................................... a) L'atto e l'altro 333 h) Dal sapere aaketica ................................................... 336 C) h responsc~bihtri e il limite ............................. .. ....... 338 d) I l limite ed il reuke ....................... ... .. .. .. . . . . . . . . . 341 3 . La persona .......................................................... 345

.............................................................. a) Nella storia 345 b) I l soggetto, l'individuo e la persona ............................. 348

................................. C) L'atto. h riflessione e h persona 352

Conclusione .................................................................. 357 al L'esistere e k'essenza nekh storia .................................. 358 b) La potenza dekl'ersensa e l'atto di esistere .................... 362 C) Il sign$icato delkianalogia ......................................... 365 d) La caersalità metafisica ............................................... 369

Bibliografia .............................. .. ............................. 373

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