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( g Dalla Settimana 13adopo la Croce, 1 Evang la Domenica ed al sabato che la precede, mentre dal lunedì al venerdì si proclama l'Evangelo di Marco (2a P 3 * 6 dl q uesta proclamazione). Qui, ai fini della celebrazione più consapevole del Signore Risorto, presente con il suo Spirito Santo alla sua Chiesa a partire dalla divina Parola, interessa la teologia che è sottesa dal tempo liturgico che corre dall'Esaltazione della Croce fino al Natale, e poi fino alla Quaresima. La linea degli Evangeli domenicali di Luca porta questi contenuti: Domenica 1. Lc 5,l-ll: la vocazione dei discepoli; 2. Le 6,31-36: il "discorso della pianura" e la misericordia; 3. Le 7,11-16: la resurrezione del giovane aNairn; 4. Le 8,5-15: la pazienza del Seminatore che attende i frutti; 5. Le 16,19-31: il povero Lazzaro ed il ricco; 6. Le 8,26-39: la guarigione degli indemoniati di Gerasa; 7. Le 8,41-56: la resurrezione della figlia di Giairo e la guarigione del l'emorroissa; 8. Le 10,25-37: il buon Samaritano; 9. Le 12,16-21: la parabola del "ricco scemo"; 10. Le 13,10-17: la guarigione della donna rattrappita; 11. Le 14,16-24: la parabola della Cena grande; DALL'ESALTAZIONE DELLA S. CROCE AL PERIODO DEL TRIÒDION Questa enorme frazione dell'Anno liturgico che termina con il Trió-dion traversa momenti cruciali e nodali della celebrazione domenicale della Chiesa, come il nucleo formatosi intorno alla Festa dell'Esaltazione della Croce, come quello formatosi intorno al Natale del Signore ed alla Teofania del Giordano, e come il graduale ingresso alla Quaresima in vista della Resurrezione. Essa contiene inoltre alcune Feste del Signore, della Madre di Dio e dei Santi di rilevante importanza teologica e spirituale, e non meno storica. Come per il tempo che segue la Pentecoste assegnato alle "Domeniche di Matted", anche questo dall'Esaltazione della Croce fino al Triò- dion dipende dalla data pasquale, e le Domeniche assegnate a Luca ricevono a loro volta sensibili spostamenti, anche per l'intervento di ce- lebrazioni che vi si sovrappongono, e che

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( gDalla Settimana 13adopo la Croce, 1 Evang

la Domenica ed al sabato che la precede, mentre dal lunedì al venerdì si proclama l'Evangelo di Marco (2a P3*6 dl questa proclamazione).

Qui, ai fini della celebrazione più consapevole del Signore Risorto, presente con il suo Spirito Santo alla sua Chiesa a partire dalla divina Parola, interessa la teologia che è sottesa dal tempo liturgico che corre dall'Esaltazione della Croce fino al Natale, e poi fino alla Quaresima. La linea degli Evangeli domenicali di Luca porta questi contenuti:

Domenica1. Lc 5,l-ll: la vocazione dei discepoli;2. Le 6,31-36: il "discorso della pianura" e la misericordia;3. Le 7,11-16: la resurrezione del giovane aNairn;4. Le 8,5-15: la pazienza del Seminatore che attende i frutti;5. Le 16,19-31: il povero Lazzaro ed il ricco;6. Le 8,26-39: la guarigione degli indemoniati di Gerasa;7. Le 8,41-56: la resurrezione della figlia di Giairo e la guarigione del

l'emorroissa;8. Le 10,25-37: il buon Samaritano;9. Le 12,16-21: la parabola del "ricco scemo";10. Le 13,10-17: la guarigione della donna rattrappita;11. Le 14,16-24: la parabola della Cena grande;12. Le 17,12-19: la guarigione dei 10 lebbrosi;

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DALL'ESALTAZIONE DELLA S. CROCE

AL PERIODO DEL TRIÒDION

Questa enorme frazione dell'Anno liturgico che termina con il Trió-dion traversa momenti cruciali e nodali della celebrazione domenicale della Chiesa, come il nucleo formatosi intorno alla Festa dell'Esaltazio-ne della Croce, come quello formatosi intorno al Natale del Signore ed alla Teofania del Giordano, e come il graduale ingresso alla Quaresima in vista della Resurrezione. Essa contiene inoltre alcune Feste del Si-gnore, della Madre di Dio e dei Santi di rilevante importanza teologica e spirituale, e non meno storica.

Come per il tempo che segue la Pentecoste assegnato alle "Domeni-che di Matted", anche questo dall'Esaltazione della Croce fino al Triò-dion dipende dalla data pasquale, e le Domeniche assegnate a Luca ri-cevono a loro volta sensibili spostamenti, anche per l'intervento di ce-lebrazioni che vi si sovrappongono, e che saranno segnalate.

L'Evangelo di Luca dunque si proclama nelle sue pericope stabilite, a partire dalla Settimana che segue la Domenica dopo l'Esaltazione della Croce fino all'inizio del Periodo del Triódion, che è la Settimana del Pub-blicano e del Fariseo (e fino al giovedì della Settimana dell'uso Latticini).

dopo UT Croce, 1 Evangelo di Luca resta solo al-

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S. CROCE- TRIOD1ON

13.Le 18,18-27: l'incontro con il giovane ricco;14.Le 18,35-43: la guarigione del cieco di Gerico;15.Le 19,1-10: l'incontro con Zaccheo;16.Le 18,10-14: la parabola del Pubblicano e del Fariseo;17.Le 15,11-32: la parabola del Padre buono e del Figlio dissoluto.

Appare in traluce l'insistenza nel presentare la condizione umana di totale povertà., ma anche di grande umiltà:

a) del genere umano, nelle sue figure:- Dom. 3a: la morte;

- Dom. 5a:l a povertà; A

Dom. 6a:la possessione demoniaca;- Domi 7':" \a morte; , . x

Dom 8a- nuseria e la canta;Dom. 9a: la miseria morale che è la ricchezza;

- Dom'. 10- ,la malattia; A .Dom. 1V- vocazione dei poveri;

- Dom'. 12a: ,la malattia;

Dom 13a- rochezza come rigetto della vocazione;- Dom'. 14;: }a malattia; ,

Dom. 15a- ncchezza, la sua rinuncia per la vocazione, la ricchezza

Dom 16a- *a suPert)ia e l'umiltà;Dom. 17a: la miseria del Figlio dissipato.

A tali miserie, se trova l'apertura del cuore, il Signore viene per por-tare il rimedio finale;

b) di Cristo stesso:- che si fece povero per gli uomini, e prende su di sé tutti i mali, e la

stessa morte degli uomini;- che dunque prende la carne dalla Vergine di Nazaret;- e si fa battezzare per la sua missione divina tra i poveri ed i peccato

ri;- alla fine, assume volontariamente la Croce, l'ultima "più profonda

umiliazione", la massima povertà davanti agli uomini.

La Chiesa di fronte a questa visuale storica e salvifica:

a) venera la Santa Croce vivificante, prostrandosi davanti al Segno del-la divina Misericordia, facendosi umile e confessandosi sempre neces-sitosa della Grazia della Luce del Volto;

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COMMENTO - CORSO DELLE DOMENICHE

b) accoglie l'umiltà della Nascita del Signore del mondo con il digiuno e la penitenza;

e) accoglie di nuovo le Sofferenze del Signore con il digiuno grande della Quaresima.

In questo, seguendo il filo delle Domeniche, non si perde mai la vi-suale della Pentecoste, che invece prevaleva con le Domeniche di Mat-teo; anche qui si deve dire in un certo senso, poiché la realtà penteco-stale è perenne ed onnipresente lungo l'intero Anno liturgico.

Per comprendere l'avvio del periodo "dopo l'Esaltazione della S. Croce", occorre rifarsi alla consecuzione così espressiva, visibile se si pongono in ordine le Letture bibliche ed i Versetti salmici di queste ce-lebrazioni, con i temi concatenati. Si indicano i Prokéimena, gli Apó-stoloi, gli Alleluia e le pericope evangeliche, rimandando ai commenti seguiti secondo l'ordine calendariale:

Dom. avanti la Croce: Sai 27,9.1 Salva, Signore, il popolo tuo !

Gai 6,11-18 Gloriarsi solo nella Croce

Sai 88,20-21.22 David Servo, l'Unto

Gv 3,13-17 L'esaltazione sulla Croce, co-me il Serpente

Esalt. della Croce Sai 98,5.1 Esaltate lo Sga-bello dei piedi

1 Cor 1,18-24 II "discorso della Croce"

Sai 73,2.12 II popolo ri-scattato

Gv 19,6-11.25.28.30-35 La Croce, lo Spirito, il Sangue e Acqua

Dom. dopo la Croce: Sai 103,24.1 Tutto nella Sa-pienza

Gai 2,16-20 Crocifìsso, nonvivo io

Sai 44,5.8 II Re Unto

Me 8,34-9,1 La Croce e il vero discepolo

Dom. 1" di Luca: Sai 32,22.1 La Grazia su noi

2 Cor 9,6-11L'ilare donante

Sai 17,48.51 Dio dona le vit-torie

Le5,1-11 La vocazione

Gli Evangeli partono dalla profezia dell'esaltazione del Signore sulla Croce, fino all'Evento di essa, al programma del discepolo vero che accet-terà la Croce per seguire il Signore, perciò alla vocazione dono del Signore.

Gli Alleluia salutano questa proclamazione conseguente alternando il Servo "Unto" del Signore con la redenzione del popolo, di nuovo con il Re "Unto", e con le vittorie che il Signore dona con la Croce.

Gli Apóstoloi parlano del paolino gloriarsi solo della Croce del Si-gnore, svolgendo il "discorso della Croce" debolezza e follia di Dio, ma sua Potenza e Sapienza, mostrando l'esperienza dell' "essere croci-fisso" e del "vivere di Cristo" nel discepolo, fino al dono della carità.

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S. CROCE - TRIÓDION

I Prokéimena implorano epieleticamente: "Salva, Signore, il popolo tuo", che è versetto salmico che confluisce nei Tropari della S. Croce; esortano a celebrare la Croce quale Sgabello dei piedi del Signore; ce-lebrano il Signore per queste sue opere salvifiche, che avvengono nella sua divina Sapienza, per cui il Signore si ammanta di maestà e splendo-re; e finalmente implorano di nuovo: "Sia la grazia tua su noi - nella misura in cui noi speriamo in Te".

È un momento per alcune settimane, di grandiosa epopea della Croce. Sotto questo "segno" si prosegue fino alla Nascita di Colui che deve sa-lire sulla Croce. Si insiste sul Battesimo per la Croce, sulla Presentazio-ne sacrificale offertoriale di Lui nel tempio, sull'Annunciazione di Lui, il Salvatore e Signore, alla Madre Vergine - per confluire dunque nell'in-tensità staurotica della Quaresima, fino al Venerdì delle Sofferenze del Signore. Un immane crescendo, che travolge ogni pensiero dei fedeli, e li rende discepoli docili a seguire il Signore sulla Croce, Egli nel fatto storico, "sotto Ponzio Pilato", essi enMystèrió, nella potenza battesima-le che determina l'intera loro esistenza.

Se adesso si segue la "linea degli Evangeli" diLuca, si vede come le Domeniche dopo la la parlano cona bbondanza di temi guU, istituzio-ne", sulla formazione dei discepoli che debbono seguire il Signore, e di noi oggi con essi, facendoci anche noi docili all'ascolto e all'obbedien-za: la resurrezione del Figlio della vedova di Nairn, quella della figlia di Giairo, capo della sinagoga, le guarigioni, gli insegnamenti, fino alla Trasfigurazione, fino alla "salita a Gerusalemme" in vista della Croce, sono tutti gradi in successione e crescendo. Come si accennò, per i di-scepoli di allora, il Signore pazientemente amministra una lunga circo-stanziata catechesi per così dire "da zero", su se stesso e sulle realtà del Regno. Per noi, invece, è mistagogia "tutta e subito", poiché noi stiamo costitutivamente dopo la Croce, dopo — a causa — a partire dalla Re-surrezione, che Domenica per Domenica, fino nel cuore della Quaresi-ma, si celebra quale ritmo divino dell'esistenza cristiana redenta. Questa è la santa mistagogia della Chiesa.

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DOMENICA 18aDOPO PENTECOSTE

i a di Luca

"Sulla cattura dei pesci"

1. AntifoneDella Domenica, o i Typikd e i Makarismói.

2. EisodikónDella Domenica.

3. Tropari

1) Apolytikion anastàsimon, del Tono occorrente.

2) Apolytikion del Santo titolare della chiesa.

3) Kontàkion: Prostasia tòn christianòn.

4. Apóstolos

a) Prokéimenon: Sai 32,22.1, "Inno di lode".Vedi Domenica 2adi Matteo.

b) 2 Cor 9,6-11Comincia oggi il Ciclo 3° delle epistole paoline, mentre prosegue la

lettura della 2 Corinzi.La pericope 9,6-11 sta alla conclusione (a 9,15) dei due singolari capi-

toli che sono 2 Cor 8,1 - 9,15. L'Apostolo li dedica per intero al proble-ma, per lui molto importante, e per alcuni versi decisivo per il futuro del-le Chiese in comunione tra esse, che sono le logiai o logéiai, da légo (o logéuó), "raccogliere", da cui le "collette", i fondi che debbono servire per donativi ai meno abbienti. Paolo vi torna con le sue Comunità diverse volte, in tempi e luoghi successivi. I destinatari sono "i Santi", ossia gli Apostoli delle Comunità di Gerusalemme e di Palestina, la Chiesa Madre di lingua aramaica, quella che poi sarà chiamata dei "giudeo-cristiani" (cf. At 24,17); essi stessi avevano sollecitato questa carità da Paolo (cf. Gai 2,10). E Paolo aveva disposto la raccolta in un modo esemplare, os-sia di Domenica, durante la celebrazione del Signore (1 Cor 16,1-3), quando l'amore per il Risorto si poteva anche riversare verso altri suoi fedeli. L'appello era rivolto, è ovvio, ai fedeli piuttosto benestanti, ma nessuno ne era esentato, Corinto per sé essendo nota come opulenta città industriale e commerciale (un porto di mare), e la Comunità paolina che vi viveva contava anche membri benestanti, rimproverati dall'Apostolo per certa loro chiusura verso i poveri (cf. 1 Cor 11,17-34).

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DOMENICA 1- DI LUCA

La questione delle "collette" stava molto a cuore a Paolo. Se ne parla verso l'inverno del 57 ai Romani, che non sono una Comunità sua, e se presenta l'impresa come molto impegnativa per l'intera strategia mis-sionaria apostolica (cf. Rom 15,25-27), Paolo in realtà durante quel me-desimo anno aveva già insistito ancora con i Corinzi, anzi nella com-plessa 2a epist°la inviata ad essi (da Filippi), aveva dedicato alle colletteben 2 capitoli: 8,1 - 9,15, ossia 39 versetti, un piccolo, documentato e denso trattato. La motivazione dell'impresa caritativa stava per lui sotto un tema duplice: quello della comunione tra le Comunità di totalmente diversa costituzione, provenienza, cultura e indole. E però comunione già iniziata dalla Chiesa Madre, che aveva inviato gli Apostoli alle na-zioni pagane, e quindi a Corinto, e che queste nazioni ormai "fatte di-scepole" del Signore Risorto (cf. Mt 28,19) a loro volta dovevano accet-tare, ratificare, "significando" in qualche modo che essa vigeva, stava in funzione efficace. È quella che si chiama con linguaggio della Tradi-zione, la "cattolicità" della Chiesa, ossia lo scambio vitale fraterno illi-mitato tra le Chiese sorelle, o anche: di figlie verso la Madre, poiché le figlie a loro volta diventeranno anche esse "madri" se annunceranno l'Evangelo. Tale scambio è di "beni": materiali, ed ecco le "collette"; ma anche "spirituali", ossia dello Spirito Santo, i Beni messianici, ed ecco allora l'Evangelo della Grazia e gli Apostoli che lo portarono.

Esattamente, Gerusalemme e le altre Chiese palestinesi hanno invia-to i Beni messianici. In questo momento si trovano in difficoltà gravi, per via della povertà, accresciuta ed aggravata dalle carestie. Per Paolo è giunta finalmente l'opportunità di "cattolicizzare" — se può passare un orribile neologismo — le "sue" Comunità, inducendole allo scam-bio con le altre Chiese. Dietro questo sta anche la teologia del dono e dell'azione di grazie.

Infatti biblicamente, chi riceve il dono non dice "grazie" e se ne va peri fatti suoi, come un "rito di congedo". Bensì deve in qualche modo rendere partecipe del dono il donante stesso, restituendoglielo in qual-che forma, offrendoglielo. Verso il Signore, Donante di infinita genero-sità, si deve "rendere grazie", celebrandolo in quanto è Lui ed in quan-to è Operatore di fatti mirabili e Distributore di doni sempre sorpren-denti; all'azione di grazie si accompagna l'offerta del "sacrificio" paci-fico; un testo classico qui è Sai 114-115, in antico unica composizione (tale restata in ebraico), che è un'"Azione di grazie individuale".

Verso i fratelli occorre "significare" l'accettazione comunque, do-nando a propria volta. Solo così si entra in comunione: con il Signore, è del tutto chiaro; con i fratelli, ma qui non bastano le parole come spes-so si usa, occorre donare.

Nel caso della comunione — ricomunicazione, che è comunanza di beni, comunione di spiriti, è Comunità universale in atto — che Paolo

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COMMENTO - CORSO DELLE DOMENICHE

vuole decisamente stabilire tra Corinzi e Gerusalemme, avendo i Co-rinzi ricevuto i Beni dello Spirito Santo, non possono a loro volta per così dire materialmente restituirli, poiché essi vengono dalla Fonte, la Chiesa Madre. Ma possono significare la loro accettazione e vissuto, e mostrare la loro gratitudine sopperendo alle necessità, con beni mate-riali. E questo avviene.

Si chiama, come si è già accennato, la "cattolicità della Chiesa", la quale è he Katholikè Ekklèsia solo se nel suo interno sono abbattuti i diaframmi, i compartimenti stagni, le conventicole, gli scismi, e la Chiesa sia quel Corpo di Cristo che riceve in tutte le sue membra lo Spirito Santo che discende dalla Kephalè, la Testa, il Signore Risorto. Qui noi cristiani di oggi dobbiamo interrogarci se veramente viviamo "la Chiesa cattolica"; dobbiamo interrogarci lealmente, tutti, in specie quelli che si arrogassero il titolo senza i contenuti.

Già si è trattato sopra il concetto biblico di leitourgia, ossia 1'"opera infavore del popolo", che la Triade santa consustanziale indivisibile di-spone lungo la storia e realizza in indicibile pienezza con la Croce, la Resurrezione, la Pentecoste, la Parousia. Tale opera deve essere prose-guita da Cristo Unico Liturgo del Padre, ormai nella Chiesa degli Apo-stoli, e perciò lungo i secoli e le generazioni, diventando così anche "opera del popolo". Si indicò sopra lo schema: l'annuncio dell'Evange-lo è Liturgia (cf. Rom 15,16, testo classico); e lo è il culto divino. Più difficile è accettare il fatto che "le opere della carità", e tali sono le "collette" paoline, siano Liturgia. Basterà qui rimandare proprio a 2 Cor 9,12, dove Paolo addirittura calca i termini, affermando che si provvede alle necessità dei "Santi" con "la diakonia di questa lei-tourgia", il servizio fraterno che è questa carità "per il popolo".

Così inquadrata la pericope, se ne possono vedere alcuni significati. La pericope è particolarmente ricca. Anzitutto Paolo comincia con la formula asseverativa: "Questo, poi, tonto dé\ che propone come messa in evidenza di quanto adesso afferma. E subito fa appello duplice alla generosità dei suoi fedeli: a) in negativo: il seminatore al risparmio, pheidoménós, oltre tutto poco intelligente, anche al risparmio, phei-doménòs, mieterà il suo scarso raccolto. Dunque, occorre generosa-mente spargere il seme che renderà "il cento, il sessanta, il trenta" (cf. Mt 13,23, e par.); b) in positivo: chi semina nella consapevolezza delle benedizioni divine (en eulogiais), anche nelle benedizioni divine mie-terà un ampio raccolto. Il dono delle "collette" per i poveri veri, i "Santi" delle Comunità apostoliche di Gerusalemme e della Palestina, i fratelli dunque più cari e più vicini, deve avvenire nella generosità del non risparmio, e così starà sotto le divine benedizioni (v. 6).

È ovvio, non tutti i fedeli avranno eguale agiatezza. Perciò Paolo suggerisce la buona regola dell'equilibrio, così che ciascun fedele co-

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DOMENICA 1- DI LUCA

me nel suo cuore ha già predisposto, donerà, tuttavia mai nella tristezza della separazione dai beni che dona, né sentendosi costretto dal rispetto umano. Poiché qui interviene la divina Sapienza, e l'Apostolo cita un testo sapienziale, alludendo anche ad un altro:

Infatti il gioioso (hilarón) donatore, Dio lo ama (Prov 22,8a), con

una leggera modifica del testo dei LXX, che ai vv. 8.+ 8a dice così:

Chi semina scarsamente, mieterà male, la fatica delle sue opere porterà al colmo. L'uomo gioioso (hilarón) e donante, Dio lo benedice, la vanità delle sue opere consumerà.

Il testo poi alluso da Paolo viene da Eccli 35,8-9:

In ogni dono, allieta (hilàròson) il tuo volto,e nella gioia santifica la decima,dona all'Altissimo secondo il dono tuo,e con occhio buono secondo quanto trova la tua mano.

Il detto è grandioso, e deve restare come regola della vita della carità fedele (v. 7).

Paolo adesso da la motivazione delle sue esortazioni alla generosità. Infatti Dio nella sua infinita largita può essere supereffluente sui suoi figli con ogni grazia, sempre gratuita. I Corinzi di fatto godono, almeno in genere, di tanta grazia. Essi hanno la sufficienza materiale, e perciò a loro volta, come segno di gradimento dei doni divini, debbono abbon-dare nella carità. È la risposta spontanea, volenterosa con le "collette", che si presenta qui come il compendio della carità, come "ogni opera buona" (v. 8). E questo è secondo quanto "è stato scritto da Dio", Paolo qui citando il Sai 111,9, un "Salmo didattico sapienziale": il temente del Signore (v. 1), chi si muove a pietà e presta (v. 5), opera così:

Distribuì, donò ai non abbienti, la sua giustizia resta in eterno,

dove dikaiosynè, "giustizia", nel linguaggio biblico è la misericordia soccorrevole, che il Signore considera come sua, come fatta a Lui, il Giusto-Misericordioso per definizione (v. 9). E questa "giustizia" resta per sempre davanti a Dio, come davanti agli uomini.

Il Signore a sua volta precede sempre nelle sue opere. Egli è il divi-no Distributore (epichorègón) di ogni bene agli uomini. Qui di fatto fa

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COMMENTO - CORSO DELLE DOMENICHE

avere il seme a chi deve seminare. Si allude al testo di Is 55,10, che presenta il Signore come quello che fa piovere sulla terra e fa germinare e fruttificare, così da procurare seme a chi semina e pane per nutrire. Perciò il Signore distribuisce {chorégéó) con abbondanza pane per cibo a tutti, ma in modo speciale moltiplicherà la semina dei fedeli che do-nano, così che fa anche crescere i prodotti della loro giustizia. È alluso qui un altro ricco testo dell'A.T., Os 10,12:

Seminate per voi stessi per la giustizia,vendemmiate per il frutto della vita,illuminate voi stessi con la luce della conoscenza,cercate il Signore finché giugano i prodotti della vostra giustizia.

Il fine da cercare è quindi il Signore attraverso le opere della carità mi-sericordiosa e generosa (v. 10).

Così i fedeli saranno "arricchiti in tutto" proprio mentre si separano da qualche loro bene materiale, nella semplicità della vita. La quale semplicità si rende operante mediante i fedeli per il fatto che nell'Apo-stolo (qui, il "noi" di modestia) viene ad innalzarsi al Signore l'azione di grazie per tutti. Poiché la sua Comunità sta finalmente nella condi-zione della piena vita di carità (v. 11).

Non deve essere qui tralasciato il v. 12, che è fuori della pericope di oggi, ma è del tutto fondamentale. Paolo prosegue così:

Poiché il servizio (diakonia) di questa leitourgia (opera per il popo-lo!)

non solo supplisce i bisogni dei "Santi", ma anche abbonda attraverso molte eucharistiai a Dio,

dove il termine tecnico eucharistiai qui significa il "rendimento di gra-zie" che si tributa al Signore celebrando i Divini Misteri.

È il sigillo grandioso alle "collette", alla carità-liturgia e quindi ca-rità-culto. I due aspetti non vanno mai separati.

5. EVANGELO

a) Alleluia: Sai 17,48.51, "&4immg$£ke Messia proclama che la suaVedi le Dom. 2a e 10a

opera regale, le sue vittorie per il popolo santo, è realtà che proviene tutta da Dio. E così il Signore manifesta al mondo la sua continua pre-senza al Re, ed essendo questo il suo "Unto" di consacrazione, concen-tra su Lui, e da Lui sul popolo suo, la sua Misericordia, Yéleos, l'inter-vento soccorritore e potente. Questa è "la morale dell'alleanza", ossia

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DOMENICA 1" DI LUCA

l'impegno eterno assunto una volta per sempre, in irremovibile fedeltà, dal Signore in favore del suo popolo.

b)Lc 5,1-11Occorre qui tenere presente alcuni dati di fatto.

a) Anzitutto, la consecuzione che crea la "linea degli Evangeli" intornoalla grande celebrazione dell'Esaltazione della S. Croce, quindi allaDomenica che la precede e a quella che la segue, come mostrato sopra,poiché la proclamazione di Luca si inserisce in tale contesto;

b) in secondo luogo, proprio perché "linea degli Evangeli" di Lucaadesso forma il "continuo celebrativo", va sempre osservato, avanzando, lo schema di Luca dato nella Parte I;

e) poi, si deve osservare bene la struttura della pericope di oggi, da cui emergono una serie di realtà determinanti.

Si è detto, e giova ripresentarlo, che il grande periodo liturgico che segue la santa Pentecoste mostra in "lettura continua" (o meglio: semi-continua), la Vita del Signore tra gli uomini, mentre battezzato dal Pa-dre con lo Spirito Santo attua la sua missione messianica. L'Unzione dello Spirito Santo (cf. Le 4,18-19 e Is 61,1-3; At 10,38, testo capitale) Lo consacra come Re e Popolo santo (il Nucleo originale, vitale del fu-turo popolo escatologico messianico), come Profeta grande, che in Luca sarà un tema centrale, come Sacerdote Sommo, come Sposo. A questi titoli, e a numerosi altri, sono connesse le rispettive funzioni ed ope-razioni messe in atto per la Potenza dello Spirito Santo.

Sicché, ad ogni episodio della Vita del Signore che le Letture evan-geliche presentano Domenica per Domenica e Festa per Festa e feria per feria, occorre sempre acquisire l'intelligenza nuova: tale opera del Signore deriva da uno dei suoi titoli e funzioni. Di questo si tratterà a proposito della Teofania del Giordano, a cui si rimanda in permanenza.

Qui il Signore provoca una pesca miracolosa e poi chiama alla voca-zione i primi discepoli. La pesca è opera "regale", la vocazione è opera "sacerdotale", ossia qui il Signore esplica le sue funzioni di Re Salvatore potente e di Sacerdote.

Quanto all'inserzione della pericope 5,1-11, si spiega facilmente: dopo il Battesimo (3,1-10, e 21-22), Gesù è individuato dalla sua Ge-nealogia regale (da Giuseppe risalendo per le figure regali fino ad Ada-mo, il re della creazione: vv. 23-38). Lo Spirito Santo lo spinge alla tentazione crudele, dove Gesù mostra la sua fedeltà di Figlio al Padre e ne esce vittorioso (4,1-13). Lo Spirito Santo lo spinge allora alla sua missione. Gesù anzitutto si manifesta come l'Unto divino, il Messia re-gale d'Israele, a Nazaret, la sua patria (4,14-30), poi comincia la sua

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COMMENTO - CORSO DELLE DOMENICHE

missione tra gli uomini con le prime guarigioni prodigiose (4,31-27 e 38-43) e con la predicazione dell'Evangelo (4,44).

Adesso procede alla vocazione dei primi discepoli, i quali quando si consuma la Vita del Signore con la Croce e la Resurrezione e si con-centra sugli uomini con la Pentecoste, dovranno proseguire tra gli uo-mini la sua medesima missione nella Potenza dello Spirito Santo.

Le 5,1-11 presenta un chiaro schema quadripartito:I) un prologo introduttorio (vv. 1-3), con Gesù al lago, che vede i pescatori, ed insegna alle folle raccoltesi;II) la pesca miracolosa (vv. 4-10a), con l'ordine di pescare, la fiducia diPietro, il prodigio della pesca, la professione di fedele di Pietro e lo stupore dei discepoli;III) la vocazione di Pietro (v. 10b), e con lui degli altri;IV) la sequela dei discepoli (v. 11).

Va qui fatto un richiamo allo schema secondario, semplificato di Marco (vedi sopra), il quale pone quale prima operazione del Signore battezzato dallo Spirito Santo l'annuncio dell'Evangelo del Regno (Me 1,9-11, e 14-15), e immediatamente la vocazione dei primi discepoli (1,16-20), e quindi i prodigi miracolosi operati a Cafarnao (1,21-39), secondo la realtà storica, che forma anche una stretta logica operativa. Luca invece, tiene presente lo schema originale, e preferisce appunto presentare il Signore a Nazaret, poi i fatti miracolosi di Cafarnao (Le 4,31-44), e quindi la pesca miracolosa, intorno alla quale narra la voca-zione dei primi discepoli. Luca perciò con la sua teologia accentua al-cuni lati della Vita del Signore.

Ma anche ne perde alcuni. In Marco (cf. 1,16-20) appare il "tridente vocazionale" del Signore, con i 3 verbi tecnici, che l'Evangelista ac-centua in modo ripetuto, accurato ed insistito: "passò - guardò -chiamò", con il gioco degli aoristi greci che indicano l'azione divina storica, puntuale, irreversibile: adesso, prima mai, dopo mai più. Il Si-gnore passa, guarda e chiama una volta per sempre, poi non passa più, non guarda più, non chiama più. "Io temo il Signore che passa e non ri-torna", dicono qui i Padri. In Luca, come è dato da vedere, restano solo i verbi "vide" (5,2) e "chiamò" (v. 10b).

L'inizio della pericope è comunque grandioso. Al v. 1 Gesù appare improvvisamente al lago, "ed Egli era stante", hestòs, ossia posto dritto in piedi, da dominatore della scena. Dopo la sua predicazione nelle si-nagoghe (4,44), in prevalenza, "come era suo costume", di sabato (4,16), aveva suscitato molto interesse, aveva avuto successo, che Luca suppone senza descriverlo. Le folle si erano perciò radunate, e "si po-nevano sopra di Lui", ossia Lo pressavano da vicino, al fine unico e di-sinteressato, almeno per ora (verrà il momento dell'urgenza richiesta di interventi miracolosi), di "ascoltare la Parola di Dio", poiché hanno in-

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DOMENICA 1"DI LUCA

tuito che solo Lui la possiede, la porta, la predica (v. 1). Hanno com-preso dalla profondità appassionante dei suoi discorsi, dall'autorità e dalla sapienza di Lui, dalla maestà del suo parlare, che Egli è finalmen-te il Profeta grande tanto atteso (cf. Dt 18,9-22), suscitato da Dio stesso (Dt 18,15), mediante il quale il Signore non solo farà conoscere la sua Volontà ultima, ma opererà anche segni prodigiosi.

In quel momento Gesù "sta" sulla riva del lago di Genesaret (v. lb). Qui "vede" — il secondo dei 3 verbi vocazionali, il primo è assente— due navi, meglio, barche da pesca all'attracco; si noti che il vedere così narrato non si dirige anzitutto sulle persone (v. 2a); Luca annota che "poi" alcuni pescatori discesi lavavano le reti (v. 2b). È la scena tanto familiare sulle coste del mare, dei laghi, dei fiumi, anche immortalata da grandi pittori, e che ha un che di malinconico. La pesca è finita bene o male, resta da preparare la pesca successiva, ed è faticoso nettare le reti da alghe, pesci scadenti e crostacei inutili, oltre che ripararle e risi-stemarle dovutamente sulla barca per la pesca di domani.

Il Signore sa che la pesca andò a vuoto. Si presenta come un estra-neo, benché preceduto dalla sua fama (4,14), ignaro del duro mestiere antico del pescare, almeno lo credono; sale su una barca, e sceglie non a caso quella di Simone, e fa porre la medesima poco distante dalla ri-va, così che la folla non lo opprima (v. 3a). Inaspettatamente, "seduto sulla barca insegnava" (v. 3b), dove il verbo kathizó si può e si deve in-tendere, in teologia simbolica, "in trono sulla barca sua", Profeta e Maestro che insegna, in quanto è la Sapienza divina discesa tra gli uo-mini. "Insegnare", didàskò, denota il Profeta e Maestro divino. È azio-ne frequente del Signore, in specie in momenti decisivi come per le pa-rabole (cf. Me 4,1) e per la moltiplicazione dei pani e dei pesci (Me 6,34, par. Le 9,11). I destinatali del didàskò sono le folle, e in particola-re, "in privato", i discepoli.

Le folle così lo ascoltano con attenzione, fino alla fine. E adesso Gesù vuole dimostrare con un esempio prodigioso due fatti connessi: a) che la pesca, svoltasi senza di lui, di necessità doveva essere a vuoto; b) che con lui, i futuri discepoli opereranno "catture" di uomini nella stessa quantità prodigiosa, anzi molto di più (cf. Gv 14,12: "farete opere più grandi delle mie...") che questa pesca nel lago. Perciò Gesù subito ordina a Simone di spingere la barca al largo, dove il lago è profondo, e ordina ai discepoli di gettare le reti (v. 4). Il medesimo ordine tassativo, carico di conseguenze, viene in un testo considerato parallelo, Gv 21,6, alla "terza manifestazione" del Risorto.

La reazione di Simone è docile, vuole solo giustificare la nottata ca-rica di fatica e senza risultati. Perciò si è di mattina. Simone non sa an-cora il destino che lo attende, ma ha piena fiducia: "Sulla parola tua ca-lerò le reti", dove il sostantivo rhèma significa per sé parola-fatto ope-

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rato. L'appellativo con cui si rivolge Simone a Gesù è epistàtés, "sovra-stante", sovrintendente. Egli spontaneamente si pone sotto le direttive che gli impartisce Gesù, riconoscendo in lui le qualità del capo. Senza lui avevano "faticato tutta la notte" (cf. ancora Gv 21,1-14). Da lui ascolteranno, poi, la spiegazione: "Chi non raccoglie insieme a me, di-sperde" (Le l l,23b). La pesca è eseguita, è enormemente copiosa, le re-ti, pur robuste come sempre, si rompevano (v. 6), mentre nella pesca dopo la Resurrezione non si rompevano, nonostante l'abbondanza della cattura (Gv 21,11). Così viene in soccorso, invocata, anche l'altra barca, e le due barche quasi affondavano dal peso (Le 5,7).

Il "segno" voluto dal Signore è compiuto, e va ad effetto. Simone, che Luca adesso chiama anche Pietro, riconosce in Gesù il Kyrios, il Signore, e la sua onnipotenza divina. E tutti erano presi da stupore per il fatto avvenuto (v. 9), e così anche Simone e la sua "paranza", e poi Giacomo e Giovanni di Zebedeo, soci di Simone (v. 10a). Simone Pie-tro allora si prostra davanti a Gesù e lo prega di allontanarsi da lui, il peccatore (v. 8; cf. Mt 8,34; At 10,26).

Il sigillo è adesso apposto da Gesù al suo "segno", con le parole fon-danti di vocazione: "Non temere". È avvenuta una teofania, che com-porta quasi sempre la divina rassicurazione. "Da adesso sarai il pesca-tore di uomini (v. 10b). "Pescatore" per sé è haliéus (da hàls, sale, ac-qua, salsa, mare), ma qui è scelto un termine singolare, zógrón, da zós, vivente, e agréó, catturare. Pietro e gli Undici faranno "prede viventi" per il Signore, pescate dalle "acque di morte" e tratte alla Vita eterna. È istintivo pensare alla tomba battesimale da dove "si con-muore con Cristo" per "con-vivere con Lui". Profezia lapidaria e facile. Da allora Pietro e gli Undici l'hanno realizzata. Il 28 Giugno si prepara sulla porta della Basilica di S. Pietro a Roma una rete intrecciata di fronde di bosso, come memoria simbolica eterna.

La vocazione è lanciata.Come avverrà sempre, da adesso, negli Evangeli, a ondate successi-

ve i "vocati", lasciatisi fare discepoli dal Signore che "passa guarda e chiama", abbandonano tutto ed immediatamente. E lì per lì, subito e senza ripensamenti, Lo seguono (v. 11; cf. v. 28; 18, 28; e il parallelo, Me 1,18 e 20).

Il "lasciare tutto" e tutti, la situazione attuale, la famiglia, il lavoro, le proprietà varie (la pesca suppone sempre una piccola azienda a con-duzione familiare), anche le speranze di una vita più agiata, resta la condizione primaria ed essenziale per rispondere totalmente alla klèsis, la vocazione, e porsi ali'akolouthia, la sequela del Signore. Così, sgombri dai pesi creati dall'esistenza umana ancora non qualificata, si deve "seguire il Signore dovunque Egli vada". Così esorta anche Ebr 12,1-3, lo sguardo fìsso solo a Lui.

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DOMENICA VDI LUCA

14 Evangeli mostrano che la mèta da raggiungere è la Croce. Il Si-gnore dovrà a lungo, pazientemente, talvolta dolorosamente istruire i discepoli sulla santa Croce. Gli Evangeli denunciano impietosamente che i discepoli davanti alla Croce "fuggirono tutti e lo abbandonarono" (cf. Me 14,50). La Pentecoste del Fuoco dello Spirito Santo verrà a si-gillare i discepoli con il "segno" battesimale della Croce, e per la Croce.

6. Megalinario Della Domenica.

7.Koinònikón Della Domenica.

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DOMENICA 19a DOPO PENTECOSTE

2a di Luca

"Sul Discorso della pianura"

1. AntifoneDella Domenica, o i Typikd e i Makarismói.

2. EisodikónDella Domenica.

3. Tropari

1) Apolytikion anastàsimon, del Tono occorrente.

2) Apolytikion del Santo titolare della chiesa.

3) Kontàkion: Prostasia tòn christianòn.

4. Apóstolos

a) Sai 117,14.18, "Azione di grazie comunitaria".Vedi la Domenica 3a di Pasqua; 1la

b) 2 Cor 11,31 - 12,9I cap. 10-13 dell' Epistola (l'"Epistola delle lagrime", anno 56) sono

dedicati da Paolo a presentare la propria apologia ai Corinzi, stante la si-tuazione di malessere venutasi a creare per l'incomprensione di quelli sul comportamento dell'Apostolo, che invece è del tutto irreprensibile. Paolo ama molto i suoi fedeli, ed anche contro avversità insorte da per-sone e da eventi, ha sempre operato per il loro bene, per il loro arricchi-mento spirituale. Nella Comunità tuttavia esistono tensioni e lacerazioni, denunciate già nella prima Epistola; si sono creati dei "partiti"; alcuni fe-deli si credono "perfetti" ed arrivati e sazi spiritualmente; altri avrebbero voluto interventi più decisi di Paolo, non contentandosi dell'invio di di-scepoli fedeli, e non accettando che "chi riceve l'inviato riceve l'invian-te". Paolo rivendica sempre la sua azione disinteressata, il suo presentar-si umile e dimesso, quasi da umanamente stolto, da debole e innocuo. Ma di fronte a tante incomprensioni deve finalmente rivendicare la sua illimitata autorità, non umana, bensì di Apóstolos del Signore.

E lo fa perfino gloriandosi della sua debolezza apparente (11,30), la quale invece è il "segno" della sua forza irresistibile.

E così qui chiama anzitutto a divino Testimone il Signore Veridico, con il suo Nome plenario: "il Dio e Padre del Signore Gesù", e gli tri-buta l'omaggio adorante dossologico: "il quale è il Sussistente {ho Òn)

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DOMENICA 2" DI LUCA

come benedetto per i secoli". La formula ho Òn rimanda a Es 3,14, alla rivelazione dal Roveto ardente, quando Mosè ascolta quasi annichililo la pronuncia del Nome indicibile, "Colui che sussiste", che dall'ebraico si trascrive con le sole consonanti: IHVH. Nome misterioso e terribile, pronunciato unicamente dal sommo sacerdote ed una sola volta l'anno (secondo la tradizione, il Giorno dell'Espiazione, Kippùr, per la grande liturgia nazionale del 10 di Tisri; cf. Lev 16). Gli Ebrei invocavano que-sto Nome come 'Adònaj, e i LXX lo traducono invariabilmente con ho Kyrios, "il Signore", e così le antiche versioni (la Vulgata, assumendo l'uso già delle Veteres Latinae del sec. 2°, usa anch'essa invariabilmente Dominus). Come si disse, scorrettamente le versioni moderne voca-lizzano Yahweh, con un errore filologico marchiano, a cui nessuno osa porre rimedio.

Il Dio e Padre del Signore Gesù Cristo è così chiamato a Testimone divino inconfutabile da Paolo sulla sua veridicità (v. 31). Egli traccia su questa base la sua storia, dall'inizio della sua conversione, quando era stato accolto e battezzato dalla Comunità di Damasco, e si era posto "subito" ad annunciare nelle sinagoghe: "Gesù è il Figlio di Dio" (cf. At 9,20). Le reazioni minacciose degli antichi correligionari avevano indotto il reuccio locale, Areta, che i Romani avevano preposto come etnarca alla nazione ebraica ivi residente, a dargli la caccia, rastrellando Damasco e ponendo picchetti armati alle porte della città (v. 32). Ma i fratelli cristiani, certo di notte, per una "porticella", ossia una postierla delle fortificazioni, o un'apertura in alto, calarono Paolo con una cesta dalle mura, dimostrazione plastica dell'esigua corporatura dell'Aposto-lo; egli poco prima aveva affermato, con un umorismo simpatico, che davanti ai Corinzi era "di volto (prósópon; anche 'persona') certo tra voi umile (tapeinós), ma poi quando assente ardito verso voi" (2 Cor 10,1), almeno così si credevano alcuni tra loro. La piccola statura, non avere il "fisico del ruolo", non era stato mai per Paolo un impedimento nella sua missione (v. 33). Secondo il parallelo di At 9,26, fuggendo da Damasco Paolo si rese a Gerusalemme; presso gli Apostoli, in specie da Pietro, aveva detto in Gai 1,15-18.

Ora, si chiede con una domanda che contiene già la sua risposta, oc-corre davanti ai Corinzi "vantarsi"? Il che non è utile alle questioni gra-vi che si agitano. E tuttavia Paolo vuole "venire a visioni e rivelazioni del Kyrios" (12,1). Egli infatti ebbe queste grazie direttamente dal "Si-gnore, ho Kyrios", titolo principale di Cristo Risorto. Il Disegno del Pa-dre aveva "segregato 1'"Apostolo" per la missione (Rom 1,1-2), fin dal seno della madre (Gai 1,15-16), segno della vocazione profetica, che richiama la tipologia di Geremia (Ger 1,4-5). Allora il Padre volle rive-lare a Paolo il Figlio Risorto (Gai 1,16), e questi gli si era manifestato, anzitutto come Luce increata, ma come "Gesù", a Damasco (At 9,3-5),

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poi con altre indicibili comunicazioni. L'Apostolo ha sperimentato que-sto realmente, anche se avviene che sia gli manchino le parole adatte, sia soprattutto quelle sono realtà che non debbono diventare mito e leg-genda, e creare così un alone di meraviglioso intorno a lui, quando tut-to deve convergere verso Cristo Risorto.

Perciò adesso parla in terza persona: un ànthrópos, "un uomo". Però premette il verbo óida: "so per certo". Si tratta di "un uomo in Cristo", che ricevuta la vita da Cristo aveva riposto tutta la sua esistenza in Lui — "la vita in Cristo vita nello Spirito Santo": Rom 8,9 —, e fu "rapito" (harpàzo) fino al "terzo cielo", ossia al di là dei cieli, nella trascendenza vertiginosa; se in corpo, ossia per così dire materialmente, oppure "fuori del corpo", ossia spiritualmente, Paolo nega di sapere. È un'estasi corporale, o una visione spirituale simbolica, non conta, vale solo la realtà del fatto. E così Paolo annota che, essendo l'anno 57 mentre scri-ve, tutto avvenne 14 anni prima, ossia, verso il 43, ponendo l'evento di Damasco verso il 35 d.C. Tale la realtà dei fatti (v. 2). I quali si comple-tano. Corporalmente o spiritualmente — e come per il "ratto"al terzo cielo, così anche adesso Paolo rimanda alla formula: "io non lo so, lo sa Dio" che tali eventi causò — (v. 3), quell'uomo "fu rapito" (harpàzó) fino nel "paradiso" (v. 4a). I grandi autori spirituali parlano, lungo la storia della Chiesa, di esperienze spirituali, "mistiche" ossia relative al Mistero; parlano di "ratto" totale, della persona e delle fa-coltà di essa, fino a perdersi totalmente nell'incomprensibilità del Mi-stero divino, nella "tenebra" impenetrabile di esso: "io non lo so", indica bene questo esito. I medesimi spirituali parlano anche di "paradiso", che non è tanto, o solo, il "luogo" dei Beati e Santi e della felicità, quanto il "luogo dello Spirito Santo", la condizione dove avviene il terrificante incontro-scontro tra il Divino e l'uomo, dove l'umano è frantumato, distrutto, per essere meravigliosamente rigenerato nel dolore mortale e perenne della tensione ancora insoddisfatta di perdersi nel Divino, di "morire perché ancora non si muore". In trafila, i santi mistici non fanno altro che dare figura e termini all'esperienza lancinante di Paolo, quale si può vedere nell'Apóstolos dell'Esaltazione della S. Croce, nella Domenica precedente ed in quella seguente a tanto grande Festa della Chiesa (vedi infra).

Il "paradiso", greco paràdeisos, viene dall'antico persiano zendave-stico pairidaeza, luogo recintato (cf. l'armeno partez, orto, giardino), e indica sia un parco da caccia, sia un giardino di delizie, sia un orto irri-guo e coltivato, sia tutto questo insieme. Tale era l'Eden della creazio-ne antica (Gen 2,8-17). E tale la teologia simbolica indica che sarà il "luogo" dei beati per l'eternità, in quanto essi "tornano" alle origini, a come il Disegno divino aveva disposto dall'inizio. Benché infinitamente di più. È ovvio che qui non si tratta di nostalgia, poiché il Paradiso

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DOMENICA 2" DI LUCA

ultimo è la condizione della visione trasformante, dell'amore consu-mante e divinizzante nelle Nozze eterne.

Ora, quell'"uomo", Paolo, per la fluenza della sua esistenza ancora temporale e terrena, "storica", è gratificato della prima e sostanziale manifestazione divina, la fonte di ogni altro esito aperto sull'infinito di Dio: "ascoltare àrrhèta rhèmata, indicibili parole", dove il termine greco rhèma, interscambiabile con lògos, significa precisamente "parola-fatto", dunque realtà fattuale. Come quando Maria, dopo la Nascita del Figlio di Dio, "custodiva tutti questi rhèmata, fatti", considerandoli nel suo cuore verginale {Le 2,19). Come già i pastori, chiamati dall'Angelo di Dio alla medesima Nascita, parlavano tra essi: "Traversiamo fino-a Betlemme, e vediamo questa parola, rhèma-t'atto, che il Signore noti-ficò a noi" (Le 2,15).

Paolo ebbe conoscenza delle Realtà indicibili, di cui "all'uomo non è lecito parlare" (v. 4); qui sta il raro exón, da éxeimi, un participio'che indica quanto si può secondo la legge divina e le leggi umane, indican-dosi così quanto non è lecito in sé e per sé, poiché nessun uomo è reso idoneo a trattare di Realtà tanto trascendenti.

La reazione dell'Apostolo è quasi di indifferenza davanti al fenome-no. Egli di tutto questo potrebbe anche menare vanto, gloriarsi (kàucho-mai), poiché è un dono divino concesso all'umiltà umana. Tuttavia quan-to a se stesso, il suo menare vanto e gloriarsi (kàuchomai) è solo della sua debolezza, non tanto quella congenita e propria della sua struttura umana, quanto quella che da lui chiede il Signore, gliela impone, la esige da lui. Tante volte Paolo ha ripetuto che Dio stesso vuole apparire stolto e debole perché è Sapienza e Potenza divine che vuole confondere le pic-cole saggezze e prepotenze degli uomini, questi sì stolti e vuoti di ogni realtà. Così nel "discorso della Croce", 1 Cor 1,10 - 2,16 (o 1,17 etc.). Adesso deve ancora farlo risuonare per convincere i Corinzi (v. 5).

E così riafferma che se volesse gloriarsi, tuttavia non si comporterebbe da insipiente sul piano umano, e quindi vuole pronunciare tutta la verità secondo il Disegno divino. Perciò resta cauto, parla il meno possibile di quanto sarebbe sua legittima gloria, "risparmia (phéidomai)" gli ascol-tatori, consapevole che chi lo ascolta potrebbe considerarlo al di sopra di quanto umanamente nell'Apostolo vede di persona, o ascolta di persona (v. 6). In sostanza, Paolo vuole concentrare l'attenzione anzitutto sulle Realtà divine, e poi sulla sua missione, mai sulla sua persona.

Poiché questo potrebbe perfino creare in lui la vanagloria. E qui Paolo rivela la metodologia divina secondo la Sapienza eterna, che agi-sce così sempre: Dio imperscrutabilmente, contro ogni logica umana, quanti ama riprende di continuo e punisce, ossia purifica come vero Pa-dre Buono. Già lo affermava Prov 3,12, lo riprende Ebr 12,6, e lo riba-disce Ap 3,19. Ecco allora: le rivelazioni comunicate all'Apostolo sono

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"esagerazione". Sono spropositate per la struttura umana (così il termine hyperbole), e pure sono necessarie al ministero apostolico. Esse non debbono "portare in orbita" (circa questo il senso di hyperàiromai), far esaltare Paolo, non debbono produrre in lui l'autostima e l'autoesalta-zione. Dio con una mano benefica dona "esagerati" benefici, necessari, tuttavia con l'altra mano non meno benefica equilibra la reazione uma-na. E così nell'Apostolo pone "nella carne uno stiletto (skólops)", un terrificante strumento di perenne tortura, chiamato qui addirittura "un angelo di satana", un perenne, ripetuto "colpo di pugno" doloroso e stordente (v. 7).

Già in antico, e poi nell'esegesi moderna, questo "angelo di satana" fu interpretato come un male fisico che affliggeva Paolo; alcuni parlano di tentazioni contro la castità (ma Paolo tratta con tutt'altro linguaggio tale argomento), altri di una malattia (la malaria e simili), altri ancora di forme di epilessia che impedivano gravemente le fatiche apostoliche. In realtà, qui si tratta di fatti ben più gravi. Lo stiletto nell'anima di Paolo, 1'"ange-lo-annuncio di satana", i gravissimi "colpi di pugno" che riceve di conti-nuò, sono gli impedimenti al suo annuncio dell'Evangelo che di continuo i "falsi fratelli" gli frappongono presso le Comunità, confondendo la loro stabilità nella fede. Certo, si tratta di realtà di gravita suprema, che incido-no sulle anime. Tuttavia, da una parte il Signore sa trarre il bene dal male, dall'altra a Paolo fa comprendere che l'Evangelo non dipende da lui, ma dall'azione divina, e perciò l'Apostolo in quanto Apostolo deve essere convinto della sua collaborazione in fin dei conti non necessitante, all'o-pera della salvezza. Egli deve restare umile e rassegnato.

Per comprendere questo però gli è stata necessaria una lunga lotta con se stesso e con Dio. "Tre volte", ossia sempre, fino a qualche tem-po prima, ha invocato "il Signore", ossia Cristo Risorto, affinchè fosse liberato dal flagello che lo affliggeva e prostrava, fino quasi ad impe-dirgli il lavoro apostolico (v. 8). Come sempre, il Signore esaudisce per "linee trasverse". Noi chiediamo questo, e Lui ci concede quello. Os-sia, ci fa chiedere comunque, ma ci dona gratuitamente solo quanto ci è realmente necessario ai suoi fini. Dio agisce così perfino con il Figlio, il quale nel momento più catastrofico della sua esistenza tra gli uomini, al Getsemani, quando deve decidere tra la salvezza di tutti gli uomini e la sua integrità personale, chiede al Padre di "essere salvato" dalla mor-te, poiché il Padre di fatto può salvarlo della morte, e salvare gli uomini per altre vie ancora più misteriose. Il Figlio lo implora "con forte grido e lagrime" — ma si abbandona alla Volontà paterna —. Il Padre che fa? Lo ascolta in quanto il Figlio è religiosamente, poiché filialmente, ob-bediente in tutto. Perfino Lo esaudisce, bensì "sotto la specie contra-ria", proprio facendolo morire per gli uomini. Anzi, dall'obbedienza fi-liale stessa insegna al Figlio con la scuola della Passione, e così Lo

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consacra Sacerdote Sommo, e Lo pone quale unico Principio dell'eter-na salvezza (Ebr 5,7-10).

Così per Paolo. Così, se si comprende, per tutti e per ciascuno dei fedeli. Invariabilmente. All'Apostolo, il Signore addirittura si rivolge familiarmente, personalmente, ed in modo duro, impietoso, spietato: "Basta a te la Grazia mia! — poiché la forza si perfeziona (e consuma) nella debolezza" (v. 9a). Parole umanamente insensate. Non lavoriamo, noi, affinchè tutta la nostra azione buona, pastorale, avvenga con ogni facilitazione, con i mezzi procurati, con opportunità varie e conoscenze e combinazioni...? Come faremmo oggi se non avessimo a disposizione totale telefono e fax e ordinatori (detti "computers") e stampa e stazioni radio-televisive e viaggi e convegni e relazioni e...?

Serve tutto questo a Paolo? No. E a noi? No. Che serve? La Grazia dello Spirito Santo. È la Potenza divina che "consuma" (teléó) ogni umana debolezza. Allora anche tutti i mezzi sopra elencati possono avere qualche utilità. Paolo ha avuto collaboratori attivi, intelligenti, animosi. E lettere da inviare, e navi, e viaggi. Ma a lui era necessaria la Grazia. Lo ha compreso dopo l'esperienza dello "stiletto nella carne", che gli toglieva la vita, la speranza, ogni forza. Solo dopo di esso, non prima. E non che Paolo fosse così illuso da immaginarsi, chissà poi perché, che il Signore ai suoi collaboratori renda la vita e l'opera del tutto facili, come in discesa. Il Signore, in un certo senso, avverte Paolo con un "alto là!" che vale per tutti gli apostoli di tutti i tempi, per tutti i pastori, per tutti gli uomini della Luce e dello Spirito Santo (v. 9a).

E l'Apostolo, uomo totalmente di Dio, ha ben compreso. Perciò pro-segue davanti ai suoi diletti Corinzi: ma io allora molto più volentieri, quasi "giocondamente (hèdista)", ormai voglio menare vanto, gloriarmi (kduchomai) delle mie, costitutivamente e additivamente mie, debolez-ze. Solo così potrà inabitare, anzi, "porre le tende (episkènóó)" su lui la Potenza di Cristo (v. 9c). Ossia, lo Spirito Santo, che ama inabitare nei suoi strumenti preziosi, gli Apostoli, "intronizzandosi" su essi (cf. At 2,1-4), e guidandoli alla predicazione di Cristo Risorto.

La conclusione di Paolo se fosse esaminata da uno psicanalista (ma la legge ferrea stabilita dal fondatore della psicoanalisi era che l'analisi deve essere fatta sulla persona, non sugli scritti...), direbbe: è un sog-getto animato dal "sottile piacere di soffrire". Ma non è così. Paolo non si va cercando eventi e modi e mezzi di soffrire. Egli da soggetto infini-tamente reso capace, si rende conto della necessità della sofferenza ai fini della predicazione, perciò afferma che ormai "si compiace (eu-dokéóydi tutte le avversità che il Signore, scongiurato di non farlo, gli invia: debolezze umane, violenze subite e non restituite, necessità che investono la sua povera esistenza umana, persecuzioni che siano: dalle autorità civili romane, da quelle dei suoi confratelli ebrei, da quelle dei

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suoi confratelli cristiani, i "falsi fratelli", le "ristrettezze" in favore di Cri-sto, ossia le situazioni in cui la via sembra chiusa e lo sfocio non appare probabile. Con la grandiosa, inimmaginabile affermazione finale, program-ma cristiano per tutte le generazioni, in specie per quelle piagnucolose del nostro tempo: "Infatti, quando sono debole, allora sono potente" (v. 10).

Che vuole dire, questo? È semplice. Quando Paolo ha rimosso tutti gli ostacoli umani alla Potenza di Cristo che è lo Spirito Santo, allora questa Potenza in lui si può scatenare per traguardi impensabili, ma di fatto raggiunti, da Antiochia all'Asia Minore, alla Grecia, all'Illirico, alla Spagna, e, quando sarà, a Roma, il "cuore di Paolo". Allora il Si-gnore gli significherà che la sua corsa è terminata. Nella gloria dell'i-scrizione che trionfa sulla sua tomba nella Basilica della Via Ostiense: "a Paolo Apostolo Testimone-Martire".

La S. Croce estende irresistibilmente la sua ombra vivificante, qui come dappertutto.

5. EVANGELO

a) Alleluia: Sai 19,1.10, "Salmo regale".Vedi la Domenica 3a di Pasqua.

b) Le 6,31-36Cristo Signore nostro, battezzato dal Padre con lo Spirito Santo,

"unto" di consacrazione per la sua missione messianica (cf. sempre At 10,38), passa annunciando ed insegnando l'Evangelo quale Profeta grande, operando come Re le opere del Regno del Padre, nella Potenza dello Spirito Santo. Come Sacerdote Sommo del Padre chiama alla vo-cazione i futuri confratelli nel sacerdozio, i discepoli, li elegge nomina-tivamente (cf. Le 6,12-15), e quindi passa a dare l'istruzione ad essi ed alle folle. Il grandioso testo di Le 6,17-49 è chiamato il "discorso della pianura", ed ha come celebre parallelo il più esteso "discorso della montagna" di Mt 5,1 - 7,29.

Con il "discorso della pianura" il Signore vuole adesso presentare il culmine della vita redenta, la mèta di chi vuole seguirlo dovunque va-da, la perfetta assimilazione al Padre, il Signore Dio infinitamente e contagiosamente Misericordioso. Questo è "il più", il massimo perva-dente della Vita divina comunicata agli uomini. Poiché purtroppo "mi-sericordiosi" non si nasce, ma si diventa se ci si lascia fare misericor-diosi dalla Grazia increata dello Spirito Santo del Padre e del Figlio.

H "discorso della pianura" si estende, denso e pressato, in Le 6,17-49. Ai vv. 20b-23 vengono i makarismói, le beatitudini per i poveri e miti. Ai vv. 24-26 sono scanditi in ripetizione i "guai a voi!" ai ricchi scemi e sazi e prepotenti.

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II Signore poi cambia bruscamente motivo con un "Tuttavia io parlo a voi che ascoltate" (v. 27a). Si notino i due presenti durativi, che vo-gliono raggiungere tutti gli uomini, fino a noi. Il contenuto che vuole comunicare è il perfetto rovesciamento di ogni prospettiva e normalità della vita umana: "Amate i nemici vostri". È uno dei fatti più ripugnanti che porti la fede cristiana. Poiché dal nemico, la tendenza "naturale", detta anche "istintiva", è proprio fuggire, o combattere, o comunque avversare e odiare e vendicarsi se possibile. E così, "rimuovere" lonta-no. La quaterna dei precetti ripugnanti si completa con il beneficare chi ci odia, benedire chi ci maledice e pregare per chi ci calunnia (v. 28bc). Questo è ancora di più abbandonare il fedele che attua questi precetti alla mercé del mondo e della malvagità imperante. Da duemila anni se ne discute; anche buoni credenti affermano apertamente che si tratta di pura utopia, non si vede come si applicherebbe una morale così tenera, inconsistente, che rischia di dare ancora più spazio alla cattiveria, alla prepotenza, alla violenza. Sono entrati in campo a discuterne validi teo-logi nei secoli. Uno dei maggiori problemi, non risolti, è quello della "società". Come si reggerebbe la società se avesse tali leggi dell'amo-re, del perdono, del beneficare i peggiori suoi membri, e che soprav-vento questi prenderebbero per sempre, spegnendo anche per sempre questa morale?

Quando Cristo parlava, quando Luca redigeva le sue parole, non si ponevano problemi di una morale dualistica, dividere il mondo in buo-ni e cattivi, e poi cercare il compromesso possibile, non ledendo la mo-rale, ma cercando il proprio non-danno. E poi, Dio può veramente ordi-nare "cose così impossibili alla natura umana"?, è la domanda più fre-quente e più intelligente, a cui si risponde non osservando i precetti duri del Signore, vivendo da fedeli solo a parole. L'annuncio di Cristo tale è e tale resta, con l'avvertenza ancora più dura del "cercate la porta stretta". La domanda vera è tutt'altra: se il mondo cristiano nei secoli avesse invece applicato alla lettera la Parola del Signore? Lo ha mai fatto come "società cristiana"? La risposta ovvia è no, e gli storici si in-caricheranno di portare a corredo infiniti documenti.

Viene la spiegazione della quaterna dei precetti duri appena enun-ciati (vv. 29-35). Ci colpiscono. Lasciamoci colpire, "volta l'altra guan-cia". Ci rapinano. Lasciamoci rapinare (v. 29). Dare a chiunque chiede, e non chiedere la restituzione. È l'applicazione del Giubileo biblico (cf. 4,19!) (v. 30). Segue la "regola d'oro": fa agli altri come vuoi che sia fatto a te, al positivo (al negativo, sarebbe: non fare agli altri...) (v. 31).

È ovvia la spiegazione della spiegazione: noi siamo abituati ad ama-re solo chi ci ama, ed a beneficare solo chi ci benefica (vv. 32-33), ed a prestare solo a chi ci restituirà (v. 34). Ad ogni affermazione si oppone il merito inesistente, in quanto fedeli del Signore, poiché tutto questo

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COMMENTO - CORSO DELLE DOMENICHE

già lo fanno anche i pagani. I fedeli al contrario ameranno, benefiche-ranno e presteranno anche ai nemici (v. 35a), così riceveranno la ricom-pensa grande di figli di Dio, Buono per i buoni come per i malvagi (v. 35b).

E adesso viene quasi inaspettata la klimax, la sommità della "scala", il culmine del discorso, al v. 36, che pone il termine ultimo della perfe-zione, in apparenza mostruosamente irraggiungibile dai poveri sforzi umani: "Diventate (ginesthe, anche "siate") quindi, alla fine, misericor-diosi, oiktirmones, come il Padre vostro è Misericordioso (oiktirmòn)".

Per comprendere questo comando imperioso e soavissimo — in fon-do il Signore non dice altro che: Diventate, lasciatevi trasformare da Me in misericordiosi, come Io lo sono poiché tale è il Padre mio", dun-que vostro —, occorre rifarsi al parallelo che sta nel "discorso della montagna" di Matteo (Mt5,48):

Siate quindi voi perfetti (téleioi)come il Padre vostro Celeste è Perfetto (téleios).

Ora, sia Mt 5,48, sia Le 6,36 derivano in linea diretta, con accentua-zioni, da Lev 19,2:

Santi (hàgioi) siate,poiché Io (sono) Santo (hdgios),il Signore Dio vostro!

A nessuno sfugge anzitutto la "formula dell'alleanza" il "Signore Dio vostro"; "il Padre vostro", che suppone "noi figli suoi" per la com-pletezza. Ma la "santità" che è uno dei titoli maggiori del Signore, il Dio Vivente, "l'Unico, il Santo", acclamato dai Serafini con il "Santo Santo Santo!" (Is 6,3; Sal, 98,3.5.9, Salmo deWÓrthros; Ap 4,8), indica una serie di realtà poco avvertite. Infatti nella divina Rivelazione, di-versamente che nelle religioni dell'ambiente biblico, la "santità" non è "sacralità", ossia quella specie di flusso o di ambiente che incombe sul-l'uomo con il peso di una divinità impersonale, che in genere si mani-festa rovinosamente per gli uomini c^he ne sono raggiunti.

La santità biblica è anzitutto trascendenza inarrivabile ed intangibi-le, incomprensibile ed incircoscrivibile, incomunicabile e indescrivibile, indicibile per definizione. Essa sta fuori di ogni miseria umana, di ogni deficienza creaturale, di ogni caducità, di ogni contingenza. Ha la motivazione in se stessa. È però una realtà sommamente personale: la Santità è Dio, Dio è la sua stessa Santità.

Per il misterioso movimento senza spazio e senza tempo che anima l'Infinito della Santità, il Dio Santo non resta per così dire solitario ed

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TAVOLA 17 - La santa Éisadps della Theotókos al tempio - Collezione Papàs Elefteri Schiadà, Piana degli Albanesi; di Alfonso Caccese, a. 1985.

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TAVOLA 18 - La santa Syllepsis della Theotókos - S. Gioacchino e S. Anna - Mosaico di S. Maria dell'Ammiraglio alla Martorana, Palermo, sec. 12°.

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DOMENICA 2» DI LUCA

isolato, com'è il Dio degli ariani che si ritrova presso i musulmani. Egli è anche Manifestazione santa, Comunicazione santa, Presenza operante santa. Egli parla Parole di santità, opera opere di santità (cf. qui Sai 144,13bc.l7). Lo fa in modo gratuito, mai meritabile e di fatto da nes-suna creatura, fosse pure angelica, mai meritato. In modo gratificante, divinizzante. Dunque per pura intatta mai diminuibile Misericordia, che è la Bontà "nonostante-tuttavia", nonostante i non meriti angelici ed umani, e tuttavia egualmente donantesi. In specie verso gli uomini.

Occorre risalire molto in antico, per comprendere questo. Apparso ad Abramo sotto la triplice figura mediatoria angelica, il Signore si fa ospitare da lui e da Sara, promette un figlio a questa, ed assicura che tornerà (cf. Gen 18,1-15; e la celeberrima icona della "xenitéia di Abra-mo", 1'"ospitalità" del Padre nostro nella fede, che va sotto il nome del tutto errato di "icona della Trinità", dovuto al santo monaco Andreij Rubliev). Poi il Signore, che ha deciso l'irrevocabile punizione di So-doma e Gomorra, si trattiene un attimo, e decide di consultare Abramo, che gli presenterà la famosa, eventuale intercessione dei giusti, la mi-noranza che — se si trova! — salva tutti gli altri (Gen 18,22-33). Ma la motivazione della resipiscenza divina è il Disegno dall'eternità su Abramo (vedi anche E vangelo della Domenica 12" ™ Matteo):

10 infatti lo scelsi,affinchè ordini ai figli suoi ed alla casa sua dopo di luidi custodire la via del Signore,e di agire con diritto e giustizia,affinchè il Signore compia in favore di Abramotutto quello che a lui promise (Gen 18,19).

Qui l'espressione tecnica del "diritto e giustizia", in greco dikaiosynè kài krisis, traduce l'ebraico sèdeq u-mispàt, e sédeq, da cuisèdàqàh, è anche eleèmosynè, della semantica àeffléleos, la misericordia. Il Signo-re vuole un popolo di "retti e giusti", che nelle nostre lingue si deve tra-durre "soccorritori benevoli e misericordiosi". Questo è lo statuto per i figli d'Abramo, che siamo anche noi.

Ma non basta. La semantica di dikaiosynè kài krisis, tenuto conto di quanto detto adesso, sfocia in quella che si deve attribuire alla Rivela-zione del Signore nella sua teofania sul Monte Horeb, a Mosè, per la seconda alleanza e le seconde Tavole della Legge (Es 34,5-9, e vv. 1-4, e 10-35, nell'ordine). Qui Egli stesso proclama i suoi titoli:

11 Signore scese con la Nube (della Gloria),e ristette con lui (Mosè) lì, e gridò:"Nel Nome del Signore!"

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COMMENTO - CORSO DELLE DOMENICHE

E passò il Signore davanti a lui, e gridò:"II Signore! Il Signore!Dio Tenero e Gratificante,Tardo all'ira e Grande in Misericordia e Fedeltà!Custodente Misericordia per le migliaia (di generazioni),Perdonante iniquità e perversione e peccato,che nulla lascia impunito,che ricerca l'iniquità dei padri nei figlie nei figli dei figlifino alla terza e fino alla quarta (generazione)! (Es 34,5-7).

L'espressione "Tenero e Gratificante", ebraico ràhum vé-hannùn è resa dal greco precisamente Oiktirmón hai Eleèmón. Si tratta di due si-nonimi: oiktirmòn è chi è pronto alla misericordia, eleèmón è chi è pronto all'intervento soccorritore misericordioso. Ma questo è proprio solo del Signore. In una parola, è la Santità del Signore in atto nell'E-conomia, è la Santità del Signore mentre investe gli uomini. Questi, mai meritevoli, va ancora sottolineato.

Da Abramo il Signore esige che sorga un popolo, il popolo "suo", il popolo santo, il popolo della lode, che sia di giusti e dunque misericor-diosi. Egli sintetizzerà questo con l'imperativo netto: "Siate santi — poiché Io sono Santo!" (Lev 19,2), dove la santità è "perfezione", dove la "santità" è misericordia.

Ecco Gesù che in Mt 5,48 prescrive: "Siate perfetti-santi, come Per-fetto-Santo è il Padre vostro celeste".

Ed ecco il medesimo Signore che in Le 6,38 ripete il medesimo mandato, semplicemente esplicitato: "Siate misericordiosi-santi, come Misericordioso-Santo è il Padre vostro".

In sostanza, la Santità divina è Bontà amorevole misericordiosa infi-nita. Il peccato massimo degli uomini consiste precisamente nella "non bontà", nel "non amore di carità", nella "non misericordia": verso se stessi, verso il prossimo, verso il mondo, verso il Signore stesso. Essen-do l'uomo "icona di Dio" creata per significare in qualche modo Dio davanti a Lui e davanti agli altri uomini, il peccato è di questa icona che non vuole rispecchiare, riflettere, per così dire, il suo Prototipo di-vino, rifiutando di lasciarsi assimilare solo a Lui, il Santo, il Perfetto, il Misericordioso, il Tenero, il Gratificante.

Sì, nel Signore Buono sta l'unica soluzione degli infiniti, gravi, av-volgenti e praticamente insolubili problemi degli uomini, che li portano alla rovina. Degli uomini come persone, e però anche degli uomini co-me "società degli uomini".

Una società che da secoli si è avviata a vivere cupamente da "laica", termine per sé ecclesiale, che maschera quello di "atea" ed anzi, antitei-

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DOMENICA 2' DI LUCA

sta o irreligiosa e combattente contro ogni forma di religiosità, si sa che risolve via via moltissimi problemi, ma solo aprendone con stillicidio insensato ed ottuso molti altri, più grandi, e così all'infinito, in specie quello ultimo: comparire davanti al Giudice divino che chiama a rendere conto degli innumerevoli talenti donati a buoni ed a malvagi.

Ma nel mondo antico, non meno e non più di oggi, la misericordia è stata sempre di pochi. L'appello drammatico: "Siate misericordiosi", è per la salvezza dei molti nei pochi, come allora Abramo che tentava di salvare Sodoma e Gomorra. Oggi però nel mondo lo Spirito Santo, divina Misericordia sussistente, tiene in vita più di 50, 45, 40, 30, 20, 10 "misericordiosi come il Padre" nostro (cf. Gen 18,23-32, e di nuovo Le 6,36). La salvezza del mondo riposa sui misericordiosi, che insieme con Cristo Signore intercedono nello Spirito Santo presso il Trono della Grazia.

I Padri qui non hanno mancato di approfondire in modo appassionato questo tratto determinante della Rivelazione divina e della vita cristiana. Infatti sulla base della Scrittura, la costituzione dell'uomo è "adimmagine e somiglianzà di Dio". Ora, la somiglianzà, che è la partedell'uomo che si chiama anchepnéuma, lo spirito, capace di ricevere ilPnéuma divino, con il peccato si è perduta, mentre l'immagine resta,anche se orribilmente deturpata. La Redenzione divina, donata in attodai Misteri, opera perciò sull'immagine al fine che recuperi la somiglianzà. La perfetta "immagine e somiglianzà", che è solo di CristoIcona del Dio Invisibile, è riprodotta dal divino Iconografo, lo SpiritoSanto, negli uomini battezzati.* La spiegazione si fa più particolare. La vita battesimale è il dono della fede, della speranza e della carità, operate nei fedeli dallo Spirito Santo. Ora, se si può parlare così, la fede e la speranza son doni ancora "per gli uomini", divini ma destinati a consumarsi negli uomini. Non sono modi di vivere della Divinità adorabile.

II modo di sussistere della Divinità è la Carità. La Carità è il donodivino per eccellenza (Rom 5,5). La fede è apertura di conversioneumana, la speranza è tensione umana all'adempimento, ambedue sempre come doni divini. Fede e speranza sono la base per vivere la carità.Ora, solo la carità "rende simili" a Dio che è Agape (1 Gv 4,8.16).L'immagine che finalmente abbia e sia anche la somiglianzà, è assimilata a Dio, ed in questa similitudine è resa capace dalla Grazia di "contemplare Dio": "saremo simili a Lui, Lo vedremo come è" (1 Gv 3,2).Solo il simile vede il Simile.

Essere simili a Dio significa essere stati assunti per salire a vivere la sua stessa Vita divina che è Agape, Essere simili a Dio possedendo e vivendo per intero la carità come dono della divina Grazia dello Spirito

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COMMENTO - CORSO DELLE DOMENICHE

Santo, significa già su questa terra l'inizio della divinizzazione. L'Agape divina è divinizzante per sua natura.

In un certo senso, "siate misericordiosi come il Padre vostro è Mise-ricordioso", può essere letto anche così: "lasciatevi rendere simili al Padre nella sua Carità, lasciatevi divinizzare".

La Tradizione della Chiesa, ferma tenendo questa teologia, determi-na poi accuratamente i "modi" con cui la Grazia si comunica; come un'essenza creata quale è l'uomo sia assunto a partecipare alla Visione restando uomo; come sia divinizzato diventando "dio per Grazia" ma senza panteismo; come possa "vedere Dio", e così via. Questioni tra le più difficili e dibattute nei secoli. Qui la divaricazione culturale, teolo-gica, filosofica, spirituale, attitudinale tra l'Oriente e l'Occidente mo-stra la sua radicale non ricomponibilità. È certo che l'Oriente ha con-servato meglio la fedeltà alla Scrittura, alla Tradizione, ai Padri, alla Liturgia, ai grandi Santi spirituali, non avendo accettato l'inquinamento neoplatonico del razionalismo, del nominalismo, dell'iconoclasmo per-manente.

6. Megalinario Della Domenica.

1 .Koinónikón Della Domenica.

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DOMENICA 20a DOPO PENTECOSTE

oa di Luca

"Sul figlio della Vedova"

1. AntifoneDella Domenica, o i Typikà e i Makarismói.

2. EisodikónDella Domenica.

3. Tropari

1) Apolytikion anastàsimon, del Tono occorrente.

2) Apolytikion del Santo titolare della chiesa.

3) Kontdkion: Prostasia tòn christianòn.

4. Apóstolos

a) Prokéimenon: Sai 46,7.2, "Salmo dellaRegalità divina". Vedi la Domenica 4a di Pasqua; 12a

b)Gal 1,11-19Prosegue la lettura dell'epistolario paolino secondo l'ordine ricevuto

nei codici della Tradizione.Verso l'anno 56, da Efeso, Paolo invia "alle Chiese della Galazia"

(1,2) un'Epistola dove esprime la sua preoccupazione apostolica in toni insieme duri e affettuosi. Già dall'inizio egli riafferma la sua singolare dignità apostolica, dichiarandosi "Apostolo non derivatamente da uo-mini, né mediante uomo", poiché molti missionari in effetti erano a lo-ro volta inviati dagli Apostoli di Gerusalemme. E così rivendica il suo titolo unico: "Apostolo... mediante Gesù Cristo e Dio Padre che Lo ri-svegliò dai morti" (v. 1). Questo perché, come il corpo dello scritto ab-bondantemente tratta, i Galati avevano accolto "un altro evangelo", da missionari itineranti di determinate correnti, sconvolgendo così non so-lo la Dottrina divina unica dell'Evangelo di Paolo, ma anche l'assetto di quelle Comunità, spinte verso idee e pratiche al limite della fede apostolica. Così, l'Epistola presente è l'unica che dopo l'indirizzo e l'augurio della "grazia e pace" (vv. l-3a), e una lunga dossologia (vv. 3b-5), entra subito in argomento, ma con un verbo violento ed una frase di reprimenda terribile: "Io mi meraviglio che così in fretta voi vi tra-sferite da quello (Evangelo) che chiamò voi nella grazia di Cristo ad un altro evangelo!" (v. 6). In genere, quasi tutte le Epistole paoline dopo

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COMMENTO - CORSO DELLE DOMENICHE

l'inizio riportano un pensiero affettuoso dell'Apostolo, le lodi dei suoi fedeli, gli auguri per il futuro. Qui invece è subito aspra polemica, ama-ri rimproveri. E scomuniche per chi accetta "un altro evangelo", fosse pure portato da Paolo stesso, perfino da rivelazione divina "altra", di un "Angelo dal cielo" (vv. 6-9).

L'Apostolo non teme i Galati. Né di presentarsi ad essi in modo vo-lutamente sgradevole. Poiché non vuole affatto piacere e compiacere gli uomini. Vuole essere nel solo gradimento divino, quale vero "schia-vo di Cristo", titolo che rivendicherà anche davanti ai Romani (cf. Rom 1,1). Schiavo d'amore, quello che opera solo in vista del suo Signore, senza guardare più alle prospettive umane {Gai 1,10).

E passa a presentare l'argomento, per meglio dire, a ripresentarlo, poi-ché aveva già predicato alle Comunità della Galazia, tra le più antiche della sua fondazione, avendole visitate nel 1° viaggio missionario (anno 45), come poi ancora ed ancora passerà a confortarle, confermarle, esor-tarle anche nel 2° e 3° viaggio missionario (anni 50 e 53). E l'argomento è uno e decisivo: Paolo fu chiamato alla vocazione direttamente da Dio, e l'Evangelo che ha portato gli è stato consegnato direttamente da Cristo, per speciale, privilegiata rivelazione. La quale per nulla contrasta con la rivelazione del Signore stesso ai Dodici Apostoli ed ai loro discepoli. Il "suo Evangelo" non si pone in concorrenza con quello dei Dodici. Ma per così dire, essendo sostanzialmente il medesimo — lo dirà a lungo nel cap. 2 —, è destinato ad investire specialmente le nazioni pagane.

La formula del v. 11 è grave, e costituisce in giudizio gli ascoltatori: "Io rendo noto a voi, fratelli" (v. Ila). Ossia: da questo momento non potete più dire: "ma noi non lo sapevamo"; da questo momento la responsabilità delle conseguenze di un eventuale comportamento errato ricade tutto sugli ascoltatori, l'"atto di notifica" solenne essendo stato trasmesso, e servendo anche da diffida, da messa in guardia. Il contenuto del "notificare" (gnórizó) è: l'Evangelo che evangelizzò Paolo non è secondo l'uomo. Il termine euaggélion, che nel N.T. ha assunto subito il senso dell'attuazione finale dell'Annuncio divino, viene dall'A.T., specificatamente dal testo base di Is 52,7 (già presentato). H Profeta rincuora il suo popolo in esilio, poiché verrà scavalcando i monti V euaggelizómenos (ebraico mebassér) per portare V euaggélion (ebraico besóràh, ma non nel testo d'Isaia), il cui con-tenuto è: "Regnò il Dio tuo". E questo è coestensivamente proclamare Yeirénè, la Pace, è annunciare i Beni messianici, tà agathd, ed è predicare la seteria, la Salvezza. Trasposto in termini del N.T., l'Evangelo è il Regno divino ormai venuto tra gli uomini con Cristo e con lo Spirito Santo {Mt 12,28; Le 11,20). Questo è la Pace e i Beni e la Salvezza messianici.

Ottenuti però dalla Croce del Signore, su cui ciascuno deve lasciarsi concrocifiggere {Gai 2,19-20), dalla sua Resurrezione, a cui siamo tutti destinati, e dal Dono dello Spirito Santo, che è la Benedizione e la Pro-

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DOMENICA 3" DI LUCA

messa elargite ad Abramo, e che è ottenuto da Cristo Crocifisso (Gai 3,13-14).

Come può essere "secondo uomo" l'Evangelo di Dio che si presenta ed investe gli uomini "sotto specie contraria", con la Croce? Paolo non compiacque gli uomini, ma Cristo, e perciò il suo Evangelo (v. 11).

Di fatto Paolo non può averlo "ricevuto" (paralambdnó, verbo che conparadidómi, consegnare, indica la "tradizione"), da uomini, e nep-pure da questi gli è stato insegnato. L'Evangelo divino infatti è inaudito, inconcepibile da mente umana. Paolo ricevette bensì l'Evangelo e ne fu insegnato in forza di una diretta "rivelazione" personale (apokdlypsis), che per sola grazia Gesù Cristo gli comunicò (v. 12). Tale rivelazione ovviamente comincia sulla via di Damasco (cf. At 9,1-20), e poi prose-gue in altri modi. Tra i quali misterioso tra tutti fu la rivelazione che av-venne per "ratto" dell'Apostolo al "terzo cielo", al "paradiso" (cf. 2 Cor 12,1-4; e YApóstolos della Domenica precedente) (v. 12).

Tali fatti, ma in specie quelli seguiti dopo gli eventi a Damasco, so-no noti ai Galati. I quali conoscono anche la vita anteatta di Paolo, il quale quindi nulla nascose di sé, neppure che fu persecutore dei "San-ti". L'Apostolo aveva narrato di essere stato un fervente Ebreo fedele (cf. At 8,3; 26,4-20), che aveva perseguitato "all'eccesso", con vero fu-rore distruttivo, la Chiesa di Dio, di fatto quella degli Apostoli di Geru-salemme, e poi le altre Comunità dove capitava, arrecando devastazioni (porthéó) (v. 13). Non solo, così agendo egli credeva di vivere nella perfezione la sua fede antica più di molti suoi correligionari, essendo un ardente zelatore delle tradizioni dei padri. Qui lepatrikàiparadóseis alludono a tutto quel mondo religioso di tipo farisaico, ossia di più ac-curata osservanza della Legge santa; questa era come circondata da una "siepe" protettiva di norme di adempimento, che tendeva a tranciare di netto il mondo sacro da quello profano, o almeno poco sacro, del popo-lo comune, e degli estranei. Oggi questo si chiama osservanza tuziori-stica, ossia fare molto di più del richiesto per essere certi di compiere l'essenziale. Per un uomo animato da tale religiosità zelante, la fede nuova, dei seguaci di Cristo, suonava come il pericolo più vicino e più minacciante. L'allora Saulo si pose sul piede della lotta (v. 14).

Fino però a quando venne il tempo di Dio, deciso su Saulo. Esso è fissato dal divino Compiacersi (eudokéó), che è sempre in favore degli uomini. Al momento stabilito, Dio tira le fila della storia. Per Paolo que-sto avviene da molto prima, dal sempre della sua esistenza umana, poi-ché, come fu per Geremia (Ger 1,5), e per il Servo del Signore (Is 49,1), il Signore Onnipotente lo "segregò", lo pose da parte (aphorizó) fin dal seno della madre sua, e poi lo chiamò alla vocazione (kaléò) per pura Grazia divina, non meritata e perciò stesso tanto più gratificante (v. 15). Il fine era unico: Paolo doveva ricevere la rivelazione (apokalyptò) del

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COMMENTO - CORSO DELLE DOMENICHE

Padre sul Figlio suo, e doveva "evangelizzare" (qui di nuovo euaggeli-zomai, nel senso visto sopra) questo Figlio, ma tra le "nazioni" (éthnè, che indica i pagani di allora). Sta sullo sfondo l'episodio di Damasco, dove il Signore Risorto parla ad Anania, che dovrà battezzare Saulo, e gli comunica il fine: Saulo è lo "strumento dell'elezione" (eklogé, scelta) per portare il Nome di Gesù davanti alle nazioni, ai re, ed anche ai figli d'Israele (cf. A? 9,15). Trovatosi improvvisamente davanti allo scontro con Dio, Paolo non si pone a consultare, a chiedere lumi e consigli agli uomini, "alla carne ed al sangue" (per l'espressione, cf. Gv 1,13) (v. 16), come tutti avrebbero agito, soprattutto visitando uomini pii e sapienti.

Al contrario. Neppure si reca dagli Apostoli "precedenti", quelli della Chiesa Madre di Gerusalemme, la sede e la fonte della fede di Cristo. In-vece si reca in Arabia, in regioni remote e desertiche, a raccogliersi nella macerazione e nella penitenza e nella contemplazione, monaco prima di ogni altro, e poi torna alla Comunità che lo aveva battezzato, a Damasco (v. 17). Finalmente, dopo ben tre anni, si reca a Gerusalemme, per il fati-dico incontro con il Primo e Corifeo degli Apostoli, Kéfa, nome imposto dal Signore a Shimon bar-Ionà (cf. Mt 16,16-19; Gv 1,42). Non possiamo immaginare i colloqui straordinari, struggenti, dei due Principi degli Apostoli, che per la prima volta si incontrano a Gerusalemme, e per l'ul-tima a Roma, dove dettero la loro testimonianza della vita al Signore. Paolo resta con Pietro 15 giorni. Possiamo però qui immaginare che cele-brarono almeno 2 volte i Misteri del Signore in 2 Domeniche: indicibile concelebrazione di due "scelti", amati, inviati per sempre (v. 18).

Paolo chiude questo episodio con la narrazione di un altro incontro importante. Non vide, non volle incontrarsi, con nessun altro Apostolo di Gerusalemme. Però ebbe interesse di colloquiare con Giacomo "il fratello del Signore" (v. 19). È Giacomo detto "il minore" per distin-guerlo da Giacomo il maggiore, fratello di Giovanni, i figli di Zebedeo, due fratelli dal carattere impetuoso, che il Signore aveva soprannomi-nato in aramaico bnai-reges, "figli del tuono", greco boanèrgés (cf. Me 3,17). Ora, Giacomo era stretto parente di Gesù, dove "fratello", come anche in altre lingue, significa "cugino", ma non fu uno dei "Dodici". Secondo le fonti, era il capo della Comunità di Gerusalemme come Chiesa Madre, "Chiesa locale". Alla quale per altri due secoli presiede-ranno Vescovi sempre della parentela carnale del Signore. Personaggio maggiore, Giacomo era stato anche privilegiato dall'apparizione del Risorto, come Paolo annota in un testo preso dalla stessa comunità ara-maica ed inserito nella sua "tradizione" ricevuta dal Signore: 1 Cor 15,7 (il testo fa parte del nucleo antico, i vv. 3-7).

Si vede, l'interesse di Paolo è di confrontarsi con due capi: quello del Collegio apostolico, Cefa, e quello della Chiesa Madre, Giacomo. Due attraverso i quali si risaliva direttamente alla Persona del Signore,

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DOMENICA 3' DI LUCA

proprio come Paolo che era stato "segregato" da Lui. La Tradizione divi-na di Paolo dunque adesso risulta che se da una parte non è "da un uo-mo", ma da Cristo, dall'altra è identica a quella che Pietro e Giacomo avevano avuto come indicibile dono dal medesimo Signore. La corsa apostolica di Paolo può proseguire, resa certa che non fu né sarà "vana".

5. EVANGELO

a) Alleluia: Sai 30,2.3, "Supplica individuale". , „ _^ . , e

Vedi l'Alleluia della Domenica 4a di Pasqua, delle Domeniche 4

b) Le 7,11-16II Signore battezzato dal Padre con lo Spirito Santo seguita a passare

per la sua missione divina tra gli uomini, ai quali annuncia ed insegna l'Evangelo, per i quali opera le opere della carità del Regno, i quali ri-porta all'adorazione del Dio Unico, il Padre comune. Noi insieme con Lui passiamo, e dobbiamo imitarlo in tutto, avendo ricevuto per questo il medesimo Spirito Santo che abilita alla missione.

Le "opere del Regno", come si è detto tante volte, ma giova sempre ri-peterlo, sono operate dalla medesima Persona divina di Gesù. Insieme, se-condo le antiche profezie e la grande attesa d'Israele, esse sono proprie del Re Messia, l'Unto d'Israele, il Promesso dei secoli. Vedi qui solo Gen 49,8-12; Sai 71; Is 11,1-10; 61,1-3, per lo Spirito di Dio che "riposa" sta-bilmente su Lui. La mano del Re è la stessa Mano benefica e generosa di Dio, che agisce nella sua Bontà mediante il "suo" Re, il "suo" Unto.

Ora, però, il fine del Re è unico: conquistare il Regno a Dio e ripor-tarlo a Lui, l'unico che ne abbia diritto. In conseguenza, occorre sgom-brare ogni ostacolo al Regno divino. Gli ostacoli sono numerosi, dopo il peccato di Adamo. Sono il "male" in ogni sua forma: la malattia, la fa-me, la miseria, l'iniquità, l'ingiustizia, la morte, questa atroce realtà che è 1'"ultima Nemica (personificazione) di Dio" (cf. qui 1 Cor 15,26; Ap 20,14; 21,4). Ma non solo. Tutto questo "male" in fondo è usato in mo-do strumentale, spietato, puntuale, come terrificante arma contro Dio, e quindi contro gli uomini, dal "Male" personificato, "il Maligno", ho Ponèrós, "il Nemico", "il Tentatore", "il diàbolos Divisore" di tutto e di tutti, "il Serpente antico", "il Padre della menzogna", satana, il demonio. La conquista del Regno messianico è dunque anzitutto la guerra senza tregua contro il Nemico. Ogni malattia guarita, la fame saziata, la mise-ria superata dall'abbondanza, la carità, la giustizia, e, culmine impensa-bile, la vittoria sulla morte, sono pezzi del Regno, strappati a satana e re-stituiti a Dio, e perciò agli uomini. Fino alla fine dei tempi. Quando Cri-sto Risorto con lo Spirito Santo "riconsegnerà il Regno" al Padre, al fine

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COMMENTO - CORSO DELLE DOMENICHE

che con lo Spirito Santo il Padre "sia del tutto in tutti": 1 Cor 15,24 e 28. Tale riconsegna, che Paolo chiama paràdosis, Tradizione divina da Dio a Dio, avviene solo dopo la distruzione, l'annientamento finale tota-le del "regno di satana", questa disumana e disumanizzante prigione in cui esso deteneva tutte le realtà create sotto il cielo: gli uomini e la stes-sa creazione, che non sta più in armonia e collaborazione e soggezione all'uomo, come era nel Disegno primitivo (cf. Gen 1,26-31).

Gesù battezzato è il Re che viene per il regno nella Potenza dello Spirito Santo. L'Evangelo di Luca narra i segni prodigiosi operati dal Signore a cominciare dall'indemoniato di Cafarnao (4,31-37), poi la guarigione della suocera di Pietro (4,38-39) e di molti altri (4,40-43); il Signore opera anche il miracolodella pesca miracolosa (5,1-11; vedi Evangelo della Domenica la di Luca), guarisce fl ™roso (5,12-16), quindi il paralitico (5,17-26), ed il servo del centurione (7,1-10).

Nell'Evangelo di oggi però e in specie rispetto alla serie di guarigio-ni, si assiste ad un irresistibile crescendo. Gesù affronta e via via, con pazienza ma con sicurezza, cerca deliberatamente lo scontro diretto, frontale, deciso e sempre e del tutto spietato con l'intero "male" che impedisce il Regno di Dio, sottraendogli i poveri uomini. Insegnare agli ignoranti, perdonare i peccatori, sovvenire alla fame, guarire le malattie, sono alcune delle "opere del Regno", che Gesù battezzato nel-lo Spirito Santo passa ed esegue nella Potenza del medesimo Spirito. Tuttavia, delle opere nessuna eguaglia lo scontro del Signore con la morte. Vincere l'ignoranza, il peccato, la fame, le malattie, è ancora po-co, di fronte alla vittoria ultima, quella sulla morte. "La morte è l'ulti-ma nemica di Dio", afferma giustamente Paolo, e con termini identici Giovanni (vedi qui sopra). La morte è tale, che in un certo senso sem-bra che Dio stesso tremi davanti ad essa. Si pensi al triplice tremare e piangere di Gesù alla morte dell'amico che amava (Gv 11,5), Lazzaro (cf. qui Gv 11,33 con 2 verbi del tremare, 11,35, il pianto; 11,38, ancora il tremito). E si pensi al Getsemani. Trema evidentemente non per se stesso, ma per la creatura più amata, il capolavoro della mirabile sua creazione, gli uomini, che si vede rapinati dal Predatore insaziabile, mentre secondo il suo inamovibile Disegno li ha destinati ad essere in-nalzati a vivere la sua stessa Vita eterna. Questo "tremore" di amore sarà presente, ed in modo centrale, nell'episodio di resurrezione che adesso Luca narra, senza paralleli evangelici.

Gesù guarisce il servo del centurione (7,1-10), e si avvia verso Nain con i discepoli e molta folla (v. 11). H villaggio si trova al meridione del Monte Tabor. Il primo incontro, all'ingresso dell'abitato, è con un trasporto funebre; si porta alla sepoltura un defunto. Luca annota accu-ratamente, per dare più risalto al seguito, che è l'unico figlio della ma-dre, e questa era vedova, accompagnata per ciò da una folla copiosa,

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che mostra la sua partecipazione (v. 12). È figlia unica anche la bambina di Giairo, capo della sinagoga, altra creatura che muore (8,42); come è figlio unico il ragazzo lunatico incontrato dopo la Trasfigurazione (9,38). Anche Lazzaro è fratello unico di Marta e di Maria. L'"unicità" sta in analogia con il Figlio Unico di/Dio, che dal Battesimo va verso il suo destino di una morte accettata, a cui il Padre l'abbandona per amore trascendente di tanti altri "figli unici", tutti destinati allamorte.

Il "tremito" divino davanti alla morte è descritto da Luca in forma insuperabile. "Il Signore", il Kyrios, il titolo divino rivelato per Gesù dopo la Resurrezione, è qui anticipato: // Risorto affronta e vince la Ne-mica. Egli vede la madre, ed il moto del suo Cuore è questo: "furono sconvolte le sue viscere" (alla lettera, splagchnizomai, avere viscere di misericordia). Questo verbo è usato solo dai Sinottici, 5 volte in Matteo, 4 in Marco, 3 in Luca, e sempre riferito a Cristo, salvo 1 volta in cui è riferito al Padre del figlio dissoluto. È un verbo dunque riservato, come movimento di amore, alla Divinità. Nell'A.T. è usato solo 2 volte. Tut-tavia l'A.T. ci rivela che dietro il verbo sta il sostantivo splàgchna, le viscere materne, che traducono solo 2 sostantivi ebraici: raham, l'utero materno, oppure beten, il ventre della madre. Il significato è avere tene-rezza come il seno materno lo ha per il frutto delle proprie viscere. Un movimento totale, che investe la persona, la sconvolge. Il paragone vuole insegnarci che il Signore nel suo moto di amore non può essere descritto meglio che prestandogli l'amore "materno". Così si rivolge alla madre disperata, e le dice solo: Non piangere (v. 13). Come dirà anche per la figlia di Giairo, un altro caso di resurrezione (8,58). L'esortazione è tipica di una teofania: Non temete, non piangete. Qui adesso sta il "Con-noi-Dio". Egli che asciugherà le lagrime dagli occhi dei dolenti, ed annullerà la morte per sempre (cf. Is 25,8, la promessa; e Ap 7,17; 21,24; Mt 5,5; Le 6,21, la realizzazione).

Il Signore opera solo due gesti. Anzitutto si avvicina e tocca la bara. Come prescritto dalla Legge, chi tocca un cadavere, o un oggetto che tocca un cadavere, come la bara (scoperta, uso orientale inveterato), di-venta impuro gravemente, e tutto quello che tocca diventa contaminato (cf. Lev 21,1-2.10-11, per il sacerdote; Num 6,6, per il nazireo; 19,11-19, per i fedeli). Gesù dunque consapevolmente si contamina con il grado più alto di contaminazione "levitica". Attrae su di sé, per così di-re, la contaminazione della morte, per restituire il giovane, ormai puri-ficato — poiché biblicamente, se la morte è contaminazione, la Vita è la massima purità —, all'assemblea liturgica dei viventi del popolo di Dio, a pieno titolo. Ed assunta su di sé, quale Servo sofferente, ogni impurità umana, portando il "peccato del mondo", distrugge l'una e l'altro. Lo ricorda Mt 8,16-17, che cita sul Servo Is 53,4. Vi insiste Pie-tro (1 P1 2,22-25), che cita sul Servo Is 53,9.

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II secondo gesto è la parola di resurrezione: Ragazzo, a te Io parlo: risvegliati! È Parola di creazione e di vita. Il verbo egéìró per sé vuoi dire risvegliarsi; qui, dal sonno mortale. È il medesimo verbo che il N.T., con l'altro, anistèmi o anistàno, usa per Cristo Risorto. Il giovane è ammesso a partecipare dunque alla sorte del Risorto. E anche se per adesso solo per un altro segmento di tempo, dopo però in eterno ed in-sieme al Risorto (v. 14). H giovane si pone seduto in quel luogo così scomodo, e parla. E Gesù "lo donò alla madre sua", il dono più prezio-so per lei (v. 15).

La reazione della duplice folla, quella che segue Gesù e quella che segue il morto, è tipica della teofania, dapprima il timore, poi la glorifi-cazione di Dio che opera la misericordia. Con il motivo duplice, del Profeta grande che sta adesso tra loro, e di Dio che "visita" il popolo suo con la vita (v. 16), come aveva cantato il sacerdote Zaccaria (Le 1,68).

L'amore di Dio per gli orfani e le vedove è proverbiale nella Scrittu-ra, che precisamente chiama Dio "Padre degli orfani e Giudice delle vedove" (Sal 67,6a; 9,35; 145,9), Egli che su questo ha emanato norme di bontà, severe verso gli oppressori (Es 22,22; Dt 10,18; 24,17, etc.). Nel N.T. esiste poi un aspetto quasi sconosciuto sulle vedove, che nella Comunità sono considerate come stato consacrato al Signore (1 Tim 5,1-16). Gesù viene adesso a manifestarlo in forme teofaniche, donan-do alle vedove la loro stessa vita, i figli.

L'episodio di Nain ha precedenti tipologici nell'A.T. Elia resuscita il figlio della vedova di Sarepta di Sidone (3 Re (=1 Re) 17,17-24); Eliseo il figlio della donna di Sunem (4 Re (=2 Re) 4,18-37). Sono due "profe-ti", i mediatori di Dio e del popolo. Mosè aveva promesso "il Profeta", operatore di segni grandi (Dt 18,15-19), dalle cui opere sarebbe stato riconosciuto. La folla precisamente "riconosce" adesso che "il Profeta grande" promesso è venuto. Ma uno senza paragoni più grande di Elia e di Eliseo, ed anche di Mosè. Con Lui, viene anche la Visita divina per il popolo che attende. Il Profeta grande poi non resterà preda della morte, ma la vincerà per sempre con la sua Resurrezione nello Spirito Santo, donando a tutti la speranza della resurrezione finale.

Luca riporta la resurrezione della figlia di Giairo in comune con Matteo e Marco. Giovanni narra quella di Lazzaro. Solo Luca riporta anche quella di Nain, Evangelista attento ad annunciare la massima opera di Dio, dare la vita ai morti.

6.MegalinarioDella Domenica.

7.KoinónikónDella Domenica.

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DOMENICA 21a DOPO PENTECOSTEAd di Luca

"Sulla Parabola della semina"

1. AntifoneDella Domenica, o Typikà e i Makarismói.

2. EisodikónDella Domenica.

3. Tropari

1) Apolytikion anastàsimon, del Tono occorrente.

2)Apolytikion del Santo titolare della Chiesa.

3)Kontdkion: Prostasia tón christianón.

4. Apóstolos

a) Prokéimenon: Sai 103,24.1 "Inno d&qfàuteo Vedi Domenica 5a di Pasqua, e l y

b)Gal 2,16-21Prosegue la lettura di Galati. La Domenica precedente si è vista la

difficile situazione di Paolo di fronte alle sue Comunità di Galazia, le quali "così presto" dall'Evangelo di Dio erano passate a forme dubbie e spurie di evangelizzazione, non conformi all'unica predicazione del-la Chiesa. Sembra che zelanti predicatori, di derivazione giudeo-cri-stiana, avessero indotto i Galati, che provenivano da "nazioni" pagane, ad accettare teorie e pratiche "giudaizzanti", ossia che privilegiavano l'osservanza della Legge santa, dalla circoncisione al rispetto del saba-to, dal calendario ai digiuni. Il pericolo non stava in tali precetti, in sé buoni e santi, ma nel ritenere che con essi si conseguisse la salvezza, e non anzitutto con la fede in Cristo Risorto.

Paolo con pena aveva investito i Galati, contestando ad essi, e dura-mente, che l'Evangelo da lui portato deriva direttamente dal Padre e dal Signore Risorto; tanto che dopo la sua conversione per i fatti di Damasco, egli non aveva ritenuto di consultare gli Apostoli. Lo fece solo dopo anni di ritiro in solitudine e di ministero apostolico, e confe-rendo solo con Pietro e Giacomo, ossia con il Corifero degli Apostoli e con il Capo della Chiesa Madre di Gerusalemme (tutto questo, in 1,1-24; vedi Domenica precedente).

Paolo prosegue con i Galati. Vi fu a Gerusalemme la sinodo aposto-lica (2,1-10), verso l'anno 49 o 50, dove Paolo potè finalmente con-

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COMMENTO - CORSO DELLE DOMENICHE

frontarsi con l'evangelizzazione e con la metodologia missionaria degli Apostoli, "per non correre o avere corso invano" (2,1 -2), ossia per assi-curarsi della bontà della sua opera missionaria quanto a dottrina e quanto a metodo. Quella sinodo (detta "concilio apostolico") decise an-che di diverse questioni missionarie che arrecavano pregiudizio all'E-vangelo, e tra esse anzitutto l'ammissione a pieno titolo nella Comunità del Signore dei battezzati che provenivano dal paganesimo, in specie dalla regioni di Cipro, Antiochia e Asia minore; a questi nessun peso è imposto dell'antica Legge, ma solo i precetti di fondo contro idolola-tria, omicidio e adulterio, oltre qualche precetto minore. AH 5 è dedica-to a questo grande, decisivo episodio.

Qui Paolo vuole rievocare, e gli sta molto a cuore, l'intesa con gli Apostoli di Gerusalemme, da cui fu ratificato il suo campo apostolico, le nazioni pagane (Gai 2,3-9). Gli Apostoli gli raccomandarono anche i loro poveri (v. 10), e Paolo in seguito organizzò le "collette"; vedi qui VApóstolos della Domenica la di Luca.

Restava però in tutta la sua determinante gravita, la questione teo-logica della fede, che dona la "giustificazione", ossia la grazia della redenzione e dell'amicizia con Dio, prima e oltre le opere della Leg-ge. Le quali poi dovranno essere la risposta grata, la collaborazione con il Disegno di Dio. "La fede si attiva mediante la carità", dirà Paolo poco dopo (Gai 5,6). Ora, il nucleo della Comunità proveniva dagli Ebrei, ed univa alla fede nel Signore la pratica costante della Legge antica. Per sé, a rigore, le due realtà non si escludono necessa-riamente, e l'Apostolo Giacomo il minore ne aveva dato l'esempio vivendole fino alla morte. Quel nucleo tuttavia, con una metodologia che si era rivelata fallimentare, costringeva anche alla Legge i cri-stiani del paganesimo, creando insormontabili ostacoli. Tra questi in specie la circoncisione, aborrita dalla cultura prevalente ellenistico-romana (esiste qui una celebre frase denigratoria di Orazio che infie-rendo irride i curti Iudaei). Pietro lo sapeva, e così per eccessiva prudenza si regolava in due modi: con i cristiani ebrei viveva all'e -braica, con quelli pagani al modo della cultura ambientale. Ad An-tiochia avviene lo scontro tra Paolo e Pietro, il primo duramente rim-proverando al Corifeo degli Apostoli la sua pratica equivoca (Gai 2,11-15).

Era necessario questo ambientamento per comprendere l'argomenta-zione paolina, il cui nucleo sta al v. 16, e la motivazione straordinaria per complessità e decisivita teologica ai vv. 17-21.

Paolo quindi contesta Pietro, e giunge al centro della sua argomen-tazione: l'uomo, non in genere, ma quello battezzato; non è giustifica-to dalle "opere della Legge", ossia solo dall'esatto adempimento dei precetti divini da cui, illudendosi, si potrebbe ritenere di acquisire

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p , pp q ,qim,comeLui.Sirimandaqui ali'Evangelo della Domenica 2a di Luca, e aì &m& testo ivi pre-sentato di Gen 18,19, l'aspettativa divina sui saddiqim a partire da Abramo, il "padre nella fede".

"Essere giustificati", è perciò lasciarsi giustificare, lasciarsi fare saddiqim, ossia "giusti" nel senso di buoni e misericordiosi, e, in altro linguaggio, "santi", privi dunque degli ostacoli dell'"ingiustizia" o im-misericordia, che separano l'uomo peccatore da Dio, da se stesso, dal suo prossimo. Ora, è chiaro che l'uomo da se stesso non può trovare la Grazia divina, nonostante ogni sforzo. E tanto meno la trova in se stes -so, "per natura, figlio dell'ira" divina a causa della condizione totale di peccaminosità (cf. Efes 2,3; e 5,6).

La giustificazione quindi viene solo dal Padre, per la Croce e la Re -surrezione del Figlio, ed è opera esclusiva dello Spirito Santo. Ma lo Spirito Santo si consegue quale Ospite divino permanente (cf. Rom 5,5, come Carità), solo se si "aderisce a Cristo" onde formare con Lui "uni -co Spirito" (1 Cor 6,17). Questa è la fede divina salvifica, il cui indici-bile Sigillo è l'iniziazione battesimale "nel Nome del Signore Gesù" (cf. 1 Cor 12,3).

Paolo qui è duro, senza attenuanti. Le "opere della Legge" credute meritorie precedono, anche se in buona fede, l'adesione a Cristo, post-ponendola e relativizzandola, e i cristiani si illudono qui che la giustizia intanto acquistata dai propri meriti sia causa del dono della Grazia che è la fede. Paolo cita a supporto la stessa consapevolezza dell'A.T., co-me riportata ad esempio nel Sai 142,2, una "Supplica individuale", che canta così:

DOMENICA 4' DI LUCA

"meriti" inesistenti davanti a Dio. La "giustificazione" proviene dalla "fede di Gesù Cristo".

Qui occorre definire "giustificazione" e "fede". Come si è detto altre volte, il vocabolario biblico della fede, della carità e della "giustizia" sono intercambiabili. La fede è l'adesione totale (syn-taxis, cf. la terminologia del rito battesimale) di vita e d'amore a Cristo Signore che chiama per sé e per i fratelli. Essa implica an -che l'adeguamento delle facoltà santificate, dunque la fedeltà al Si -gnore ed al suo Evangelo, l'adesione del "cuore", ossia dell'intel -letto, e il vissuto conseguente. In una parola, la carità, che "cono -sce già solo per amore".

La "giustizia", dikaiosynè, e il "giustificare", "essere giustificato", dikaióò, dikaioùmai, provenienti dal vocabolario greco, spostano sensi-bilmente la loro semantica in direzione del vocabolario ebraico che tra -ducono, almeno per l'A.T., e dove per lo più si trova la semantica di sédeq, sedàqàh. Quando è detto di Dio, sedeq implica la "giustizia" che è somma Bontà, intervento soccorritore, per cui il Signore è "il Saddiq" per eccellenza, ma vuole un popolo di saddiqim, come Lui. Si rimanda qim,comeLui.Sirimandaqui ali'Evangelo della Domenica 2a di Luca, e aì &m& testo ivi pre-

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COMMENTO - CORSO DELLE DOMENICHE

1. Signore, ascolta il pregare mio,tendi l'orecchio al supplicare mioper la fedeltà tua,

2. non scendere in giudizio con il servo tuo,poiché nessuna carne può giustificarsi davanti a Te.

Il testo sottolineato sta in Gai 2,16, che conclude. "Carne" qui è l'e-sistenza umana, e indica la fragilità di questa, la sua inanità, la sua con-tingenza, la sua dipendenza totale dal Signore Dio Creatore e Buono. E Paolo nel v. 16 ribadisce: "e noi (l'Apostolo) in Cristo Gesù avemmo fede (epistéusamen, all'aoristo storico puntuale irreversibile), affinchè siamo giustificati (dikaiòthómen) dalla fede di Cristo, e non dalle (pre-cedenti) opere della Legge".

E viene la motivazione, grave e profonda, con una domanda retori-ca: noi cerchiamo di essere giustificati "in Cristo" (cf. sempre "la vita in Cristo vita nello Spirito", Rom 8,9), ma possiamo essere trovati an-che noi da Dio quali peccatori. E questo non costituisce Cristo quale "ministro, diàkonos, di peccato, hamartia"! "Non sia!", esclama Paolo (v. 17). È il paradosso. Infatti perfino chi cerca nella fede di essere giu-stificato in Cristo, è trovato (da Dio) essenzialmente peccatore, e non ad opera (diakonia) di Cristo Signore. L'affermazione è spietata. Essa scontra ed infrange l'atteggiamento di Pietro, fedele al Signore ma on-deggiante tra la fede e la pratica della Legge, con grave danno sia per i cristiani provenienti dall'ebraismo, sia per quelli provenienti dal paga-nesimo: e dunque "peccatore", come lo sono i pagani. Perciò non Cri-sto è "ministro" (diàkonos) del peccato, ma noi torniamo al peccato.

In realtà, "se io" (ossia qui, Pietro, a cui Paolo si rivolge con questo mezzo letterario, volendo dire: "se tu, Pietro") torno a ricostruire il mu-ro della Legge che separa gli uomini (cf. poi Efes 2,13-16), ma che Cri-sto Signore con il suo Sangue prezioso abbattè una volta per tutte, e io (Pietro) abbattei con Lui, ecco la mia prevaricazione, sono io il pa-rabàtès, il trasgressore (v. 18). Invece "io" (sempre però, "tu, Pietro") mediante la Legge che ne da la consapevolezza, morii per sempre alla Legge, al fine di vivere "a Dio", per Lui, con Lui, da Lui, verso Lui senza più limite (v. 19a).

Viene adesso uno dei culmini della "mistica di Paolo", che è anche la "mistica della Chiesa": "Con Cristo io fui con-crocifisso" (v. 19b). Questo rivela, come a lungo poi spiegherà l'Autore dell'Epistola agli Ebrei (certo un discepolo di Paolo), che l'offerta sacrificale del Figlio al Padre, che ha come oggetto anzitutto l'intera esistenza del Figlio, ac-comuna come unico gesto anche l'offerta di tutti i fedeli di tutti i tempi, "una volta per sempre", e "con un"unica offerta", rendendoli "santifi-cati" (cf. qui Ebr 10,10-14). Il che ha conseguenze enormi, ad esempio

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DOMENICA 4* DI LUCA

peril senso vero dell'Offerta santa-che avviene nella Divina Liturgia, la quale non è affatto "ripresentazione", "riattuazione", "prosecuzione" dell'unico e finale Sacrificio di Cristo. Ma invece è "accettare di essere già stati accettati dal Padre nel Figlio", e dunque è significare questo con i "santi Segni", che permettono di entrare di continuo, per così di-re, nell'efficacia eterna dell'unico Sacrificio di Cristo, efficacia perciò perenne nella storia, perché posta a disposizione di tutti i fedeli. È l'u-nico Sacrificio, in realtà, avvenuto "nello Spirito eterno", per la cui Po-tenza consacrante e santificante Cristo offrì se stesso quale Vittima im-macolata al Padre: Ebr 9,14.

Paolo significa queste realtà con un vocabolario in parte derivato da quello greco corrente, in parte creato da lui stesso, e che si caratterizza dal gioco della particella syn, "insieme con", riferita al Signore Gesù e ai fedeli. Tali semantiche sono decine. Esse possono essere ordinate se-condo 3 realtà: la morte, la resurrezione, la vita perenne.

I) La morte "con Cristo"- con-soffrire, synpàschó, con Lui: Rom 8,17;- essere con-crocifissi synstauróó: Gai 2,19; Rom 6,6;- con-morire, synapothnèskomai, con Lui: 2 Cor7,3; 2 Tim 2,11;- con-piantati, con-nati, con-cresciuti, symphytoi, nella morte con Lui:Rom 6,5;

- con-formati, symmorphizò, alla morte di Lui: FU 3,10;- con-sepolti, synthdptó, con Lui: Rom 6,4; Col 2,12;

II) la resurrezione "con Cristo"- con-resuscitati, synegéirò, con Lui: Col 2,12; 3,1; Efes 2,6;- con-vivificati, synzóopoiéó, con Lui: Col 2,13; Efes 2,5;- con-formati, symmorphizò, al suo corpo di gloria: FU 3,21 ;- con-glorificati, syndoxàzó, con Lui: Rom 8,17;- con-regnare, symbasiléuò, con Lui: 2 Tim 2,12;- con-intronizzati, synkathizò, con Lui: Efes 2,6;

III) la vita perenne "con Cristo"- con-formati, symmorphoi, all'Icona di Lui: Rom 8,29;- con-costruiti, synoikodoméò, con Lui: Efes 2,22;- con-vivere, syzdó, con Lui: 2 Cor 7,3; Rom 6,8;-con-eredi, sygkléronómoi, con Lui unico Erede divino: Rom 8,17;

Efes 3,6.

Il quadro è impressionante. E tanto più, se si considera che gran par-te di questi syn, che colorano dovutamente verbi, sono usati per lo più in rapporto all'evento massimo della vita dei fedeli, l'iniziazione batte-simale al Mistero di Morte e Resurrezione e Vita del Signore.

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COMMENTO - CORSO DELLE DOMENICHE

Quando Paolo afferma: "io fui concrocifisso con, syn, Cristo", affer-ma la pienezza della sua vita nuova e vera, "il più" del Gratuito divino, la sua caratterizzazione ultima (v. 19b).

E prosegue nell'annotazione mistica. Qui va tenuto presente l'elenco dei syn tracciato sopra. L'affermazione che segue implica una metafisica del tutto nuova: "Vivo perciò (de) non più io — vive dunque (de) in me Cristo" (v. 20a). Paolo però è "lui", non un altro. La vita di Paolo adesso non esiste più come "sua". Paolo, occorre insistere, qui, adesso, mentre scrive ai Galati, "esiste" come Paolo, e tuttavia "vive in lui" ormai Cri-sto. Ora, Cristo è vivo, esiste. Vive la sua Vita divina come Ipostasi divi-na, e la sua Umanità vive la medesima Vita divina poiché è stata "assunta e composta (synthetos)" per 1'"indicibile hénósis", a livello dell'Ipostasi divina. Ma adesso Cristo Signore vive in modo molteplice, per così dire, la sua Vita divina, ossia la vive anche "in" Paolo, e questo suo modo di vivere diventa la stessa "vita di Paolo" attuale — Paolo ormai non può vivere un'"altra" vita, un'altra forma di vita.

È chiaro, l'Apostolo si preoccupa di rimuovere subito ogni tentazione di panteismo, che era diffusa come illusione rovinosa al suo tempo, come tutti gli errori provenienti dal platonismo: l'uomo sarebbe una "scintilla del divino" capitata non si sa quando come perché a cadere "dentro" la struttura carnale dell'uomo; ma basterà che l'uomo si liberi da questo soma-sèma, "corpo-tomba", e quella scintilla, ormai il "lui" li-bero, quasi attratto da una legge di gravitazione universale irresistibile, rifluirà verso il divino totale, impersonale, insomma verso 1'"indistinto nulla", come ancora oggi professano alcune religioni orientali. È questo anche il grande schema generale di quella che poi sarà la "gnosi falsa".

Paolo invece parla questo linguaggio: "Vivo non più io, vive in me Cristo — la realtà però che (ho) io vivo nella carne, vivo nella fede" (v. 20b). La carne, sàrx, è la realtà creaturale attuale, che non è squalificata da alcuna nota negativa. È un dato di fatto: Dio creò l'uomo "di carne", e quindi gli ispirò il suo Alito divino (Gen 2,7). La "carne" è l'esistenza storica, attuale, qui, ora, individuata come persona, Paolo. In questa sua esistenza, Paolo vive "una realtà (ho)", ossia che vive in lui Cristo, nella fede, nella totale adesione d'amore al Signore che vive in lui, unendo dunque, senza confusione rovinosa, la sua esistenza attuale con quella del Signore stesso (v. 20b).

E il Signore è identificato accuratamente: il Figlio di Dio, e perciò Dio Egli stesso. Colui che amò (agapèsantos, participio aoristo, per in-dicare l'amore una volta per sempre donato a fondo perduto) Paolo, do-ve il "me" di Paolo è quello di tutti i fedeli; e amò "consegnando se stesso" in favore di Paolo. Tre avanzamenti: il Figlio, Vagape, la "con-segna di sé", in modo che non vi siano equivoci (v. 20c). Il verbo "con-segnarsi", paradidómi (qui in participio aoristo puntuale), nel N.T.

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quando è riferito a Cristo indica la sua spontanea accettazione della morte redentrice. Se ne ha ancora il grandioso segno nella santa Anafo-ra, quando il celebrante narra la Cena del Signore con i discepoli: "nella notte in cui Egli fu consegnato {paredidoto), ma piuttosto, (in cui) se stesso consegnò (paredidou) per la vita del mondo" (Anafora di S. Gio-vanni Crisostomo; quella di S. Basilio riporta solo questa seconda espressione). Con questo si indica ilparadidómi di cui fu oggetto il Si-gnore. E l'episodio richiamato è il Getsemani: il Padre lo consegnò (paradidómi), Giuda Lo tradì e perciò Lo consegnò (paradidómi), ma Egli stesso volontariamente si consegnò (heautón paredidou). La vita del mondo valeva per Lui più che la sua stessa Vita. La vita di Paolo anche lo valeva.

Adesso l'Apostolo conclude la sua motivazione: egli proclama che non rigetta, o sconfessa la Grazia divina donata una volta per sempre. Questo avverrebbe se ancora ritenesse che la "giustizia" (come visto sopra) viene dalla pratica previa delle opere della Legge. Ma allora Cri-sto sarebbe morto dóreàn, "gratis", ossia senza nessun acquisto. Morto invano (v. 21). Ma Cristo doreàn, gratis, dona invece la sua Vita ai suoi fedeli nella fede.

5. EVANGELO

a) Alleluia: Sai 44,5.8, "Salmo regale" diMatteo.Vedi Domenica 5a di Pasqua; 5a 13a

b)Le 8,5-15Nello schema dell'Evangelo lucano, il cosiddetto "discorso di para-

bole" (Le 8,4-18) si pone verso la fine del ministero di Gesù in Galilea (Le 3,1 - 9,17), dove il blocco 9,18-50 sono i fatti "intorno alla Trasfi-gurazione" che formano la cerniera con la successiva "salita a Gerusa-lemme (9,51 - 19,27). Si rimanda sempre alla visione globale, molto utile per lo scorrere della "lettura" del testo, presentata sopra, nello schema generale di Luca.

Quanto alle "parabole", daparabàlló, giustapporre, comparare, da cui coniare una similitudine, un esempio, un "tipo", in genere sono la resa in greco dell'ebraico dell'A.T. màsàl, con il medesimo significato di un tratto più o meno esteso che contenga un insegnamento figurato.

Nel N.T. i 3 Sinottici, come notarono già i Padri, le parabole sono enumerabili secondo l'appartenenza triplice: a) 3 comuni ai 3 Evangeli; b) 2 comuni a Matteo ed a Luca; e) poi quelle proprie di ciascun Evan-gelista, ossia 1 solo di Marco, 10 solo di Matteo, 18 solo di Luca. Co-me appartenenza di ogni singolo Evangelo, si ha che Marco ne ha 4; Matteo ne ha 15; Luca ne ha 23.

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Quanto poi ai contenuti, si conviene raggnippare le parabole secon-do due grandi categorie, suddivise in argomenti (gli autori moderni pre-sentano anche altre classificazioni). Qui si propone questo schema:

A) parabole dottrinali:1) parabole del Regno;2) parabole sugli appartenenti al Regno;3) parabole sulla venuta del Regno;

B) parabole di contenuto morale:1) il compoitamentq e i doveri verso Dio;2) idem verso il prossimo;3) il buon uso dei beni terreni, finalizzati alla vita eterna.

Luca da solo riporta un imponente numero di parabole del Signore, circa 23, che formano, ovviamente con altro materiale, una singolare ric-chezza dell'Evangelo lucano. Così, guardando lo schema che corre dal Battesimo del Giordano alla Trasfigurazione, si vede a colpo d'occhio che l'annuncio dell'Evangelo, con i discorsi e le parabole, si alterna con gli episodi delle "opere del Regno", ossia guarigioni, resurrezioni, la moltiplicazione dei pani e dei pesci, e così via. Già l'antichità aveva no-tato che l'Evangelo di Luca, scritto in un greco di buon livello, è anche una piacevole lettura per l'abilità letteraria e descrittiva dell'autore.

Il testo di oggi è la prima e principale parabola, sul Seminatore e sul seme della Parola, quella che apre su tutte le altre. Essa è comune a Mt 13,1-9.18-23; Le 8,4-15; Me 4,1-20. La sua importanza eccezionale è dichiarata da Gesù stesso nel parallelo di Me 4, quando dopo l'esposi-zione, alla domanda meravigliata rivolta ai discepoli: "Non comprende-te voi questa parabola?" {Me 4,13a), aggiunge:

E come tutte le parabole conoscerete? (v. 13b).

Sicché la presente parabola è la chiave per accedere al tesoro delle altre parabole.

Come all'inizio dei paralleli Mr 13,1-3 e Me 4,1-2, Gesù attende che si formi la folla di quanti accorrevano a Lui da ogni parte {Le 8,4).

Si è detto ormai molte volte, ed ogni volta occorrerà insistervi, che il Signore battezzato dal Padre con lo Spirito Santo è consacrato per la sua missione divina come Re e Popolo di Dio (il Nucleo di tutto il po-polo), come Profeta, come Sacerdote e come Sposo. In base a ciascun titolo si riconoscono le funzioni espletate intorno ai 3 capisaldi del mi-nistero messianico del Signore: l'annuncio dell'Evangelo con l'inse-gnamento che di necessità ne consegue, le opere della carità del Regno,

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il culto al Padre. Ora, l'annuncio dell'Evangelo e la spiegazione di esso in una dottrina, è compito principale — benché non esclusivo, esiste qui anche la dinamica sacerdotale — del Profeta grande sorto in Israe-le, Gesù Cristo Figlio di Dio. E la parabola del Seminatore è da classi-ficare tra la categoria A), quelle dottrinali, nel gruppo 1), le parabole del Regno.

Ed ecco l'insegnamento. Al tempo che la sua intelligenza sa che è quello adatto, il Seminatore finalmente una mattina, all'alba, comincia il suo probo, necessario, primario lavoro: seminare il seme. Si deve notare qui che il Seminatore non si preoccupa anzitutto di arare e rivoltare pa-zientemente e faticosamente la terra. Egli è un Agricoltore molto specia-le, e sa bene quello che sta facendo. Come si può osservare se si consi-dera la semina sia manuale, sia meccanica, il seme è indirizzato ad una striscia di terra mentre il seminatore si avanza generosamente lanciando con ritmo sapiente il getto di grano buono. Ora, è inevitabile che una parte del seme cada sulla strada, dove appena il Seminatore si allontana, planano gli uccelli che avidamente lo beccano, facendolo sparire (v. 5). La domanda che qui sorge da una mente moderna, quindi razionale (si fa per dire), è: ma perché il Seminatore non stava attento a non sprecare il suo seme buono sulla strada? La risposta dell'uomo di Palestina coe-taneo di Gesù, mostra quanto poco si conosca l'ambiente dell'epoca. In effetti, il campo è un appezzamento compatto, dove dopo la mietitura per comodo si traversa anche con animali, ossia asini, pecore, e nel campo si formano così viottoli artificiali, provvisori, che sono sempre e comunque terreno seminabile. Il Seminatore sa bene anche questo.

Altro seme cade "sulla pietra", che può essere sia una zona del terreno senza terriccio buono, dove ormai la roccia è venuta allo scoperto per le intemperie, per la siccità, per l'incuria dell'uomo, sia una parte del terreno più sassoso, dove la medesima incuria dell'uomo, la sua pi-grizia, non ha operato una bonifica, ad esempio radunando le pietre e costruendo muriccioli a secco per proteggere il campo. Sulla pietra il seme germoglia nel minimo di spessore di terra che si trova anche sulle rocce, ma subito si dissecca, mancando Vhumus buono, la sostanza nu-tritiva (v. 6).

Ancora una parte del seme cade tra le spine, che sono cresciute rigo-gliose e selvagge dopo la mietitura che avviene all'inizio dell'estate. Anche qui il povero seme germoglia, e però le spine sono essenze erba-cee molto più tenaci, che gli tolgono il nutrimento, "lo soffocano", e così le giovani piantine muoiono (v. 7).

Finalmente, però, il seme cade nella "terra buona", il terreno pronto a riceverlo, profondo, non calpestato, senza pietra, senza spine. Qui germoglia, e produce il suo frutto, da 1 a 100. Tale rendita agraria an-che oggi, con i sistemi avanzati dell'industria agricola, sarebbe un

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enorme primato produttivo. È l'abbondanza. È la gioia del Seminatore. Come quella del mietitore, del raccoglitore, immagazzinatore, del mu-gnaio, del fornaio. È il guadagno sicuro per tutti (v. 8a).

Si noti che il v. 8b nella pericope di oggi è spostato dopo il v. 15, co-me chiusura e conclusione. Però va analizzato sia qui, sia lì: "Chi ha orecchi da ascoltare, ascolti!". È il richiamo sapienziale, che risuona con insistenza nella Scrittura dei Due Testamenti, da quello iniziale: "Ascolta, Israele!" (Dt 6,4), a quello ripetuto tante volte dal Signore Gesù. H verbo akoùó, ascoltare, è carico di senso. Non si tratta di pre-stare una semplice attenzione ad una qualsiasi parola. Si tratta al con-trario dell'ascolto qualificato, di conversione e di fede. È insieme ac-cettare quanto si ascolta, farlo proprio, obbedirvi, metterlo in pratica sempre. Non per caso 1'"ascolto" è il verbo primo e primario della fe-de, quello che condiziona tutta l'esistenza del fedele, e che fa da neces-sario supporto al secondo verbo della fede, "vedere".

H Signore è il Verbo Dio, che va dunque ascoltato, anzitutto, poiché è il Verbo-Parola espresso totalmente dal Padre nello Spirito Santo, e fedel-mente comunica la Volontà del Padre. Va accettato come tale, va obbedi-to, e quanto parla e comunica va fatto proprio, va messo in pratica.

Il primo segno della "crisi" di fede è precisamente il "non ascoltare" più, dunque non praticare più, e questo si manifesta con il non pregare più, non interessarsi più, non amare più.

La parabola vuole riportare i discepoli a tutto questo. Essa è per tut-to ciò la "prima" di tutte le parabole (vedi sopra, Me 4,13): comprende-re il Seminatore, il seme, la semina, il raccolto, è la condizione essen-ziale per la promessa del Regno da conseguire.

Ora, il "discorso per parabole" è insieme disarmantemente facile, al li-vello e alla portata degli stessi bambini. E disperatamente difficile per chi è ancora complicato, non si è ancora lasciato fare bambino del Regno. I discepoli del Signore sono di questa seconda categoria, come la grande maggioranza degli uomini. E perciò interrogano il Maestro sul senso del discorso: "che è questa parabola" (v. 9). Gesù aveva già dato ampio ma-teriale dottrinale: nella sinagoga di Nazaret (4,14-30), alla pesca miraco-losa, quando chiama i primi discepoli (5,1-11), quando guarisce il parali-tico (5,17-26), alla vocazione di Levi-Matteo (5,27-33), sul digiuno per lo Sposo (5,33-39), sul sabato (6,1-11). Quindi aveva dato come la "cartafondamentale" del Regno, il "discorso della pianura" (6,17-49; cf. la Do-

d dì Luca). Pòi aveva proseguito presentando il più grande dei

nati da donna, Giovanni il Battista (7,18-35), ed infine aveva spiegato la fede della peccatrice (7,36-50). Che cosa ancora manca alla comprensio-ne dei discepoli? Che si considerino, ciascuno di essi e tutti insieme, sia come "il campo" da seminare, sia come i futuri seminatori della Parola nel mondo. Occorre qui, perciò, la spiegazione del Signore.

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II quale con molta calma comincia ad annunciare un dato di fatto in contrasto con la domanda dei discepoli che ancora non avevano com-preso la parabola: "A voi è stato donato dal Padre (il verbo sta al "pas-sivo della Divinità" per non nominare il Nome divino) di conoscere i Misteri del Regno di Dio" (v. 10a). Ossia, i discepoli sono stati scelti dal Disegno eterno del Padre, e il primo dono che ricevono, Grazia gra-tuita dello Spirito Santo, è "conoscere" in modo immediato, puntuale (sta qui un infinito aoristo, gnónai, avere e vivere l'esperienza vitale, che investirà la loro esistenza). È la conoscenza sapienziale, profonda, è la contemplazione trasformante.

L'oggetto della conoscenza per ora non è il Padre, e non è il Figlio. Sono invece td mystèrìa tès basiléias toù Theoù, i Misteri del Regno di Dio. Ora, non si tratta di elementi di approccio al Regno, come se fosse-ro "notizie sul Regno". I Misteri sono il Regno. Nel N.T. infatti il con-cetto di "misteri" o di "mistero" va spiegato secondo la semantica greca. Mystèrion in realtà è un sostantivo strumentale, e indica circa il "mezzo" per ottenere una condizione vitale, il myéó, dove la radice my- indica un'"iniziazione", un'entrata a qualche realtà ancora ignota. Così mystè-rion non significa più affatto una realtà "segreta", "misteriosa", al con-trario, indica rivelazione e introduzione fattiva a quella realtà. Tale senso regna sovrano nelle opere dei Padri, e soprattutto nella santa Liturgia, dove ad esempio "i divini vivificanti trasformanti Misteri" non sono "se-greti" nascosti, bensì il Dono indicibile, rivelato e mistagogizzato, di partecipare alla Morte e Resurrezione e Glorificazione del Signore Gesù ad opera dello Spirito Santo epicleticamente invocato qui oggi per noi.

Un testo che chiarifica splendidamente tutto questo viene da Paolo, nella grande e meravigliosa dossologia che chiude il cap. 14 dell'Epi-stola ai Romani:

A Colui che ha la potenza di rendervi saldisecondo l'Evangelo mio e la predicazione di Gesù Cristo,secondo la rivelazione del Mistero,nei secoli eterni taciuto,però manifestato adesso mediante le Scritture profetichesecondo il Decreto dell'eterno Dioin vista dell'ascolto di fede notificato tra tutte le nazioni,all'Unico Sapiente Dio,mediante Gesù Cristo,a Lui la gloria per i secoli dei secoli. Amen! (Rom 14,24-26).

Il testo è collocato dai papiri e grandi codici onciali, e perciò nelle edizioni moderne, in Rom 16,25-27.

In sostanza, l'Evangelo e il kèrygma portati da Paolo con l'unico contenuto, Gesù Cristo, sono la rivelazione finale del Mistero, che il

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Decreto preeterno di Dio ha tenuto nascosto fino al nyn, 1'"adesso" del-l'adempimento. Il quale comincia con la proclamazione delle Sante Scritture "profetiche", ossia dell'A.T., in cui si legge l'annuncio di Cri-sto — Paolo lo aveva già detto in Rom 1,1-4, dove la Resurrezione è il centro della Rivelazione divina —. Il fine è la conversione dei pagani affidati a Paolo, le "nazioni" che debbono "ascoltare" e venire alla "fe-de". Egli stesso {Rom 15,16) aveva spiegato che queste nazioni per l'E-vangelo accettato debbono diventare la prosphorà, l'offerta gradita, il sacrificio spirituale che il Padre accoglie perché "santificato dallo Spi-rito Santo".

Ecco squaternato il senso del Mistero rivelato. Donato però anzitutto ai discepoli del Signore.

Ma Gesù presenta "il Mistero" come "del Regno di Dio". Ora, la ba-siléia, nell'A.T. malkùt o anche memsàlàh, implica diverse realtà:

a) è il cosmo, dove si dispiega nella continua teofania la Regalità delSignore Dio Creatore; cf. qui una tipica manifestazione letteraria, i"Salmi della Regalità divina" (nell'elenco alla fine di questo volume);

b) in specie, Israele, e più particolarmente Sion, dove il medesimo Signore Sovrano si fa presente al popolo della sua alleanza regale, e lì èlargo di grazie;

e) in modo inattingibile e indicibile, è la sfera del divino, che si chiama simbolicamente "i deli", "i cieli dei deli". Così però "i Cieli" indicano con una perifrasi il Signore stesso: il "Regno dei cieli può essere co-smico, ma soprattutto è il "Regno di Dio", le due espressioni si inter-scambiano.

Nel N.T. però la Rivelazione si avanza verso l'inimmaginabile, poi-ché nei Sinottici "il Regno di Dio", quello che ormai "sta qui, si avvi-cinò" (cf. Me 1,14), indica direttamente Cristo con lo Spirito Santo. Si rilegga quiMt 12,28; Le 11,20 (che allude anche aEs 8,15).

Ai discepoli insomma "è donato di 'conoscere'", sperimentare vital-mente, "Cristo con lo Spirito Santo", e in modo diretto.

E agli altri? Il v. 10b è un testo tra i più duri di tutto il N.T. L'espres-sione è anche difficile: "agli altri però con parabole", senza verbo; si deve qui supplire con "agli altri sarà parlato con parabole", oppure "agli altri sarà donato di conoscere i Misteri del Regno di Dio con para-bole"? Dal contesto, sembra che la prima interpretazione sia circa quella giusta. Ma allora leparabolài, discorsi di rivelazione, diventano proprio il contrario, la "pietra di inciampo" che fa precipitare nella rovina. Infatti il v. 10 prosegue: "...in parabole, affinchè vedendo non vedano e ascoltando non comprendano". Orribile. Il testo viene daIs 6,9-10.

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Isaia, giovane spensierato, di famiglia regale, entra a curiosare nel tempio durante il sacrifìcio (delle 9 della mattina, o delle 15 del pome-riggio). H Signore si manifesta in una teofania terribile, nella gloria dei Serafini che Lo adorano con l'eterno "Santo Santo Santo!" (Is 6,1-4). Isaia comprende di essere un "contaminato" indegno di fronte alla Maestà divina "Tre-volte-santa", "Tuttasanta", che sovrasta ogni realtà. Si dichiara perduto. Un Serafino lo purifica con la santa brace del sacri-ficio dell'altare (6,5-7), e Isaia sente la richiesta del Signore, che cerca uno da inviare. Il profeta si offre di andare, incautamente (v. 8). Poiché il Signore gli consegna un messaggio di rovina: Rendi ottuso il cuore d'Israele, dure le sue orecchie, acceca i suoi occhi — per timore che i suoi occhi vedano, le sue orecchie ascoltino, e il suo cuore comprenda, ed esso si converta e sia guarito! (vv. 9-10).

Dio non vuole la morte del peccatore, bensì che si converta e viva (cf. Ez 18,23.32; 3,18; Sap 1,13; 11,24; 12,19; Eccli 11,14; 1 Tim 2,4.6; 2 Pt 3,9...). Ha dunque decretato la morte spirituale dell'intero popolo "suo"? Invia un "profeta" che diventa annunciatore di rovina finale? Il Misericordioso non concede lo "spazio fruttuoso di conversione", at-tendendo anche i "frutti degni", come pure richiede imperiosamente per bocca di un altro Profeta, Giovanni? (Le 3,8; Mt 3,8).

E qui addirittura il Figlio di Dio, il Profeta grande d'Israele, come e più d'Isaia viene con "le parabole" della salvezza a "non far vedere né comprendere", pur vedendo Lui ed ascoltando Lui i presenti.

Il testo anzitutto non va attenuato, né spiegato con giri contorti di idee pietose, né tanto meno ignorato. Esso va letto a fondo. Si hanno così due situazioni, quella dei discepoli, ormai in possesso dei Misteri — ma dovranno attendere la Pentecoste...—; quella degli "altri", i quali dovranno ascoltare le parabole. Tale ascolto per sé è salvifico. Però se esso viene a mancare per volontà di non vedere la realtà, né ascoltarne la spiegazione, ossia non vedere il Figlio di Dio né ascoltarlo, la para-bola sarà allora il terribile strumento "affinchè (hina)" venga la rovina. Ma qui ci si deve chiedere: la rovina è portata direttamente ed intesa e voluta da Dio? Non sembra. Come non sembra in Isaia, che invece salvò la nazione in più occasioni. La rovina viene dalla volontà umana, la quale all'occasione propizia dell'insegnamento del Regno mediante parabole, volta il dorso alla visione e si chiude le orecchie all'ascolto. Insomma, la parabola è sempre positiva se accolta, è rovinosa se non è accolta.

Quante "parabole" i cristiani hanno ascoltato in duemila anni? La loro "visione" ed il loro "ascolto" furono corrispondenti sempre? Il giudizio non spetta a noi.

Gesù adesso precede all'ordinata spiegazione: "È questa la parabo-la" (v. Ila). Delle circa 42 parabole del N.T., quante richiedono la "spiegazione"? Solo 2, ed ambe in rapporto con il Seminatore: quella

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presente, nei 3 Sinottici, e quella propria del solo Matteo, della zizania (cf. MtJ3,24-30,l'enunciazione; vv. 36-43, la spiegazione, che termina egualmente con la formula "chi ha orecchie per comprendere, com -prenda"). Sono proprio le parabole del Seme buono e del seme mali -gno, della Parola e della menzogna satanica, dell 'unico campo e dei due raccolti. Quando è in gioco la Parola, dunque, il discorso si fa drammatico.

Ed infatti la spiegazione comincia dal Seme buono, che è "la Pa -rola di Dio". Sulla realtà immane che è la Parola di Dio, lògos toù Theoù, anche rhèma Christoù (cf. Rom 10,17), è stato parlato a lungo nella Parte I di questo lavoro (vedi Parte I, Cap. 2, "La Parola di-vinizzante").

Qui si può solo richiamare il testo di 1 Pt 1,23: Dio ci generò con la Parola sua vivente vera eterna. Ora, si comprende che il Seme della Paro la può venire solo da Dio, ed il Seminatore di esso solo da Dio. Anzi, il Seminatore è Dio stesso mediante il Figlio suo, il Figlio dell'uomo (cf. Mt 13,37). E se si spinge a fondo la visuale, anche il Seme è il Figlio di Dio, che cade in terra e muore per dare molto frutto (cf. Gv 12,24). In un certo senso, il Verbo di Dio, la Parola di Dio deve cadere nella terra per morire, poiché solo così fa sorgere la Vita negli uomini (v. 11).

Le complicazioni vengono dalle zone del terreno seminato. Gesù qui traccia una specie di tabella di riscontri sulla germinazione e la fruttifica -zione e resa del Seme buono egualmente sparso in ognuna delle 4 zone:

- v. 5: sulla via - v. 12: il diavolo toglie la Parola dal cuore- v. 6: sulla pietra - v. 13: le tentazioni- v. 7: tra le spine - v. 14: beni materiali

soffocamento soffocamento

- v. 8: terra buona - v. 15: cuore "bello e buono"

recettiva accettazione e frutto.

A colpo d'occhio si ha che il termine di raffronto generale è posto alla fine del v. 15: "en hypomonè, con pazienza". Quale "pazienza" ha il "cuore bello e buono", ossia la profondità ultima dell'uomo, il suo centro della sensibilità, intelligenza, decisionalità, volontà? "La pazien -za" proba di dissodare il campo. La terra che così diventa "buona", pronta a ricevere il Seme buono, sempre buono, terra erpicata e conci -mata. "Pazienza" della conversione, della fede, delle opere buone, della disposizione a "cuore aperto" verso la Parola-Volontà divina.

Ancora a colpo d'occhio risalta la situazione delle altre 3 zone del campo:

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- vv. 7 e 12: questa zona si fa calpestare e sottrarre il Seme dagli uccelli affamati. Non si è voluta coltivare, arare, erpicare, concimare.Non si è voluta preparare. Né custodirsi. Passa il Tiranno calpestatoreviolento, disperde la semina: "toglie la Parola dal cuore", dall'anima,che pure aveva ascoltato (akoùó), la medesima Parola. Senza la Parolanon esiste base e contenuto della fede {pistéuó), e così non esiste "la loro salvezza" (sózó);

- vv. 6 e 13: questa zona in apparenza sembra pronta, addirittura sitratta di quelli che ascoltano (akoùó) la Parola, la "accettano con gioia"(déchomai, e charà). Ma essi non hanno "radice" (rhiza), ossia credonocon fede "per un certo tempo" (kairós), ma nel "tempo (kairós) dellatentazione", si ritraggono, si ritirano dalla fede, se ne allontanano. Ossia, neppure questi, nonostante le apparenze, hanno preparato il terrenocon il lavoro faticoso, "nella pazienza", sì che il Seme potesse affondare le radici nella "terra buona". E sono perduti per sempre;

- vv. 7 e 14: questa zona è "spinosa". Si tratta di quelli che perascoltare, ascoltano (akoùó). Tuttavia a causa delle preoccupazioni della vita materiale, e della ricerca affannata della ricchezza, e del procurarsi "i piaceri della vita" materiale (bios, non zóè), vanno vagolandoper il mondo, si fanno soffocare da questioni esteriori, non produconofrutto, alla lettera telesphoroùsi, non portano il fine, il compimento. Essi dunque non avendo lavorato, non essendosi coltivati, restano pieni di"spine", di erbe infestanti, che prendono il sopravvento. La vita materiale si configura come "spine" inutili e dannose. È anche qui la rovina;

- vv. 8 e 15: la "terra buona", dovutamente coltivata e preparata perla semina, resta la figura di quelli che "ascoltano (akoùó) la Parola", laaccettano e la comprendono in se stessi, e, avendo esercitato "la pazienza" (hypomonè) del lavoro faticoso ma esaltante, finalmente portano quei frutti 100 per 1, che sono la consolazione per il Seminatore eper tutti quelli che ne traggono abbondanza e gioia e prosperità.

Si nota adesso che in tutte e 4 le zone del campo, che è l'umanità considerata a titolo unitario, gli uomini "ascoltano" (akoùó). Non esiste qui un rifiuto frontale della Parola. Ma esiste una serie orribile di situa-zioni: alcuni si fanno "togliere la Parola dal cuore", facendosela sosti-tuire dall'anti-parola del demonio; non resistono alla tentazione; so-vrappongono alle esigenze dure e totalizzanti della Parola divina la ri-cerca del proprio comodo e vantaggio.

Si nota ancora, infine, che sulle prime 3 zone del campo aleggia sa-tana, il Tentatore, che selvaggiamente agisce sui superficiali, sui pigri, sugli scialacquatori della loro esistenza. La tentazione è permanente. L'arma è la Grazia divina della Parola, che esige severamente la virtù suprema tra le virtù del N.T., la santa hypomonè, che finalmente è esal-tata dall'Apocalisse come la forza ultima, escatologica:

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Qui sta la fede (pistis)e la pazienza (hypdmoné) dei Santi (Ap 13,15).

La pericope, come si è anticipato, pone dopo il v. 15 il v. 8b: "L'a-vente orecchie per ascoltare (akoùó), ascolti (akoùó)" dunque!

Il verbo akoùó, che risuona insistentemente, e naturalmente, in cor-relazione della Parola quale Seme buono del Seminatore buono, è per-ciò il verbo che risolve la parabola in positivo. Allora "chi vede non ve-de, e chi ascolta non comprende" diventa: "Chi vede, ci vede molto be-ne, e chi ascolta, comprende perfettamente".

Questa infatti è la prima ed essenziale di tutte le "parabole dottrina-li" del Regno di Dio, venuto con potenza in Cristo con lo Spirito Santo.

Occorre accogliere la parabola, la Parola, il Regno con il "cuore bel-lo e buono", che finalmente sappiamo come si deve tradurre e spiegare: con il cuore ottimo, aperto, fidente, fiducioso, grato, amante, glorifi-cante.

E qui Marco avverte che Gesù in un'altra parabola del Regno (Mt 4,26-29), sempre a proposito della Semina, ammonisce: "Da sola, auto-mate, la terra produce frutto" (Me 4,28a). Tutto è Grazia. Gli uomini debbono prestarsi come terra buona alla Grazia che viene sempre.

Che cosa di terribile avviene per chi rigetta la Grazia della Parola di-vina, sarà narrato la Domenica che segue con la parabola "sul ricco e sul povero Lazzaro", che forma stretta unità conseguenziale con quella della semina.

6. Megalinario Della Domenica.

7 Koinònikón Della Domenica.

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DOMENICA 22a DOPO PENTECOSTE ca

di Luca

"Sul ricco e il povero Lazzaro"

1. AntifoneDella Domenica, o i Typikd e i Makarismói.

2. EisodikónDella Domenica.

3. Tropari

1) Apolytikion anastàsimon, del Tono occorrente.

2)Apolytikion del Santo titolare della chiesa.

3)Kontàkion: Prostasia tòn christianón.

4. Apóstolos

a) Prokéimenon: Sai 11,8.2, "Supplica comunitaria". Vedi Domenica 6" di Pasqua; 6ae 14a

b)Gal 6,11-18La pericope costituisce l'epilogo dell'Epistola, e ne è anche un ma-

gnifico coronamento, al modo paolino.Anzitutto viene la commovente affermazione dell'Apostolo: "Guar-

date con quali grafie io scrissi di mia mano!" (v. 11). Egli infatti è un operaio, meglio, un artigiano, fabbricante di tende con materiale grezzo (spesso, con lana caprina, assai ruvida), si mantiene con le sue mani per non gravare sulle sue Comunità, ed ha dunque la pelle callosa, poco adatta alle esercitazioni letterarie. Pur con la sua molteplice cultura, ebraica e greca, con il suo inarrivabile genio. Perciò usava dettare i suoi scritti a discepoli segretari fedeli. Tuttavia quando può vuole porre un segno della sua autografia, di certo con caratteri grossolani, come quando si assiste alla firma di documenti da parte di contadini ed ope-rai, per i quali è una specie di fatica ("è meglio la zappa della penna", spesso si sente dire da loro). Paolo con questo non cerca l'ammirazio-ne. Egli ha già rinviato tutti i fedeli a "lavorare con le loro mani" (1 Tess 4,11, la prima Epistola scritta da lui), a "non mangiare se non si vuole lavorare" (2 Tess 3,10), a non restare in ozio ma a guadagnarsi il pane lavorando in pace (2 Tess 3,11-12), senza mai cessare (Efes 4,28). Mentre egli stesso opera proprio così (2 Tess 3,8), notte e giorno (ivi; e 1 Tess 2,9-10). Con la sola eccezione della fedelissima e diletta Comu-

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nità dei Filippesi, ai quali riconosce che sono gli unici su cui ha contato dagli inizi della sua missione in territorio europeo, per le necessità ma-teriali del suo apostolato (FU 4,10-16, in occasione di un ennesimo aiu-to pecuniario), benché Paolo mai cerchi "il dono", ma il frutto della Grazia che ridondi a beneficio dei suoi (FU 4,17). Per l'anno e mezzo in cui Paolo a Corinto fabbricava tende insieme ad Aquila e Priscilla, cf. At ì8,1-3.

Per i saluti autografi di Paolo, vedi ancora 1 Cor 16,21; in 2 Tess 3,17 vi aggiunge: "questo è il segno in ogni epistola, così io scrivo"; in Rom 16,22 si inserisce l'amanuense: "Vi saluto io, Terzio, che scrissi l'epistola nel Signore"; finalmente, in Col 4,18, "il saluto di mia mano, di me Paolo". Si può appena immaginare l'emozione delle Comunità nel ricevere simili attestati di affetto.

In Gai 6,12 poi Paolo riprende l'argomentazione di 5,11. Quelli che hanno portato lo sconcerto presso i Galati, inducendoli a passare ad un "altro evangelo" (cf. Gai 1,6-12; e YApóstolos della Domenica 3a 1

Luca), sono dunque i "giudaizzanti", ossia cristiani provenienti dall'e-braismo, i quali ritenevano che occorresse anche per i pagani la pratica puntuale della Legge antica nella sua totalità; in primo luogo, la circon-cisione, che nel mondo ellenistico romano era un motivo di repulsione. Ora, questi fratelli troppo zelanti, ma poco illuminati sulla metodologia dell'apostolato "alle nazioni" pagane, desiderano assecondare, compia-cere una pratica carnale, e così costringono i Galati alla circoncisione. E questo, secondo la grave accusa di Paolo, solo al fine poco nobile di non subire la persecuzione (diókó) per la Croce di Cristo (v. 13a). L'ac-cusa torna per altri fratelli in FU 3,18, dove Paolo li chiama "nemici della Croce di Cristo", la quale va assunta con tutte le conseguenze, fosse anche la persecuzione. Ma, e questo è altrettanto grave, quei falsi fratelli benché circoncisi neppure essi "custodiscono", ossia praticano per intero, la santa Legge; vogliono che i Galati si sottopongano alla circoncisione per spirito proselitistico e ristretto, per "gloriarsi nella carne" dei Galati, non per il loro progresso nell'Evangelo (v. 13b).

E qui l'Apostolo riprende il motivo del cap. 2 (cf. YApóstolos della Domenica precedente), dove al v. 19-21 aveva manifestato con forza la sua morte alla Legge, la sua con-crocifissione con Cristo, la vita di Cri-sto in lui. Qui prosegue questo motivo: a lui non resta se non di menare vanto, di gloriarsi (kauchdomai) "nella Croce del Signore nostro Gesù Cristo", presentando così il Signore come il Dio dell'alleanza ("no-stro") e con i titoli plenari della sua Divinità e della sua Umanità (v. 14a). E come aveva affermato in Gai 2,19 e 21, benché in altri termini, mediante Cristo crocifisso fu "crocifìsso il mondo", ossia morì una vol-ta per sempre il mondo per quanto riguarda Paolo, e reciprocamente anche la con-crocifissione di lui con Cristo lo fece morire per sempre al

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DOMENICA 5" DI LUCA

mondo (v. 14b). Qui kósmos, il mondo, è compreso nella sua accezione negativa, di tutta la realtà di peccato che si oppone a Dio, che è "nemi-ca della Croce di Cristo", circa nel senso che il termine ha nella teolo-gia giovannea, almeno di frequente.

La conseguenza della "crocifissione del mondo e al mondo" è che ormai tutte le realtà sono come relativizzate, in specie le osservanze esterne che non siano accompagnate dal senso che ormai, dopo la Cro-ce, stanno qui presenti i "tempi ultimi". Dunque sia chi è circonciso, sia chi non lo è, nella loro condizione non possono trovare un vero valore. L'unico valore è la "nuova creazione" (v. 15). L'accenno fuggevole a questo immenso tema salvifico sarà esplicitato l'anno 57, quando da Fi-lippi l'Apostolo scrive ai Corinzi per la seconda volta, e spiega:

La carità di Cristo stringe noi,avendo giudicato questo, che Uno morì in favore di tutti,e allora tutti morirono,e in favore di tutti morì,affinchè i viventi non più per se stessi vivano,bensì per Colui che in favore di essimorì e fu risvegliato...Così che se uno (sussiste) in Cristo,(è) nuova creazione:le realtà antiche passarono,ecco, vennero le nuove (2 Cor 5,14-15.17).

Il testo è enorme. La "nuova creazione", td kainà, le realtà nuove, sono promesse dall'antico: Is 43,18; 65,17, e sono ripresentate da Paolo più volte, oltre che qui, in Rom 8,1.10; 6,4; Col 3,9-10; Efes 2,10.15. Esse sono rilanciate dalla tradizione giovannea, in Ap 21,5, nella Parola finale di Dio al mondo dei redenti.

Anche la spiegazione dell'espressione chiede una certa cura. Se esi-ste una ktisis antica, la creazione primordiale, questa è destinata dal Di-segno divino a subire una trasformazione radicale. Infatti, anche se qui non si deve affatto generalizzare, il N.T. esprime la "novità" con due termini, néos e kainós. Con néos si direbbe circa questo: la prosecuzio-ne di una realtà, sempre la medesima, però adesso "rinnovata". Con kainós invece si direbbe una realtà sostituita da un'altra. Così si dice kainè diathèkè, alleanza nuova, che risuona già in Ger 31,31 -34, testo base di ogni esplorazione teologica per il N.T. Però non si dice mai nel N.T. laós néos, tanto meno laós kainós, popolo "rinnovato", o "nuovo-altro", come se il Signore nella sua divina Disposizione avesse prima creato "il popolo sud", poi lo avesse rigettato sostituendolo con un "po-polo nuovo-altro", quello del N.T. Fa sconforto che autori moderni pur

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celebrati parlino questo linguaggio che non ha base nel N.T. In realtà, il popolo di Dio è unico, come si disse già, in due poli vitali, uno che osserva la Legge antica, ed uno che aderisce al Figlio di Dio — l'unico popolo, l'unica Sposa. Anche 1'"alleanza nuova" in fondo non è to-talmente "altra", poiché essa fa parte anzitutto della categoria "allean-za", e non di un'altra categoria. Poi perché il Signore dispone di un vero e proprio sistema di alleanze: con Abramo, con Noè, con Abramo Isacco Giacobbe Giuda, con Pinhas il sacerdote fedele (cf. Num 25,1-17, ai vv. 10-13 l'"alleanza di pace" tra Dio e Pinhas e la discendenza di questo), con David e la sua discendenza regale, con il Servo soffe-rente. L'Alleanza del Padre con il Figlio, sancita dalla Croce e dalla Resurrezione, riassume e rende nella loro pienezza del tutto esplicitate le antiche alleanze.

La creazione antica dunque era destinata alla sostituzione, poiché dal peccato d'Adamo fu resa "vuota, inutile, senza senso" (cf. qui Rom 8,17-25). Essa comincia ad essere kainè, nuova, altra, con l'Incarnazione storica, quella che culmina nella Resurrezione. Per i fedeli del Risorto comincia con il battesimo. Essa è opera della Potenza dello Spirito Creatore e Ri-Creatore. In senso cosmico, "deli e terra nuova" (cf. Ap 21,1, che rimanda a Is 65,17; 66,22, e che ha il precedente di 2 Pt 3,13) è un tema decisivo, sul quale resta, e forse resterà fino alla realizzazione, il segreto divino più totale.

Paolo perciò prosegue al v. 16 avvertendo che occorre "mettersi in linea ordinata (stoichéó) con questo kanórì\ misura o regola di fede. Chi procede così, avrà su di sé "pace e misericordia", e così si avrà an-che per l'"Israele di Dio" (v. 16). L'ultima espressione può intendersi in due modi: sia quella parte scelta d'Israele che aveva accettato il suo Messia divino, Cristo Gesù, il "Diacono della circoncisione" per sua scelta volontaria (Rom 15,8), dunque la Chiesa Madre dei giudeo-cri-stiani, di Gerusalemme; oppure l'Israele storico.

Nella finale di ogni epistola Paolo ha continui movimenti di pensie-ri, che si intervallano, si ripetono, si sovrappongono. Al v. 17 infatti ri-lancia una raccomandazione, che è come il compendio della sua auto-biografia come la presentò ai Galati: "del resto", finalmente, insomma, chiede che nessuno gli procuri "fatiche" moleste (kópoi) in più di quel-le così gravose del suo apostolato tanto tribolato. Infatti egli è caricato e "trasporta" (bastàzó) i "segni" terribili, indelebili, gli stigmata che erano impressi a fuoco dai Greci e Romani agli schiavi fuggitivi, in modo che fossero riconosciuti da tutti; dagli orientali in genere, erano impressi a tutti gli schiavi. Paolo è "lo schiavo di Cristo", come dirà al-l'inizio dell'Epistola ai Romani (Rom 1,1). Per sempre. Porta i "segni" di Lui sulla carne. Gli esegeti parlano qui sia di stigmate di tipo misti-co, come la "transverberazione" alle mani, al costato; sia più probabil-

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TAVOLA 19 - Sinassi della Soprasanta Theotókos - La Theotókos e S. Giuseppe -Museo delle Suore Collegine presso il Santuario urbano di Maria SS.ma Odighitria, Piana degli Albanesi, sec. 17°.

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TAVOLA 20 - 2 Luglio, Maria Vergine la Platytera e Trono della Sapienza - Iconostasi della chiesa di S. Nicola, Piana degli Albanesi; scuola cretese, sec. 17°.

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mente delle cicatrici che l'Apostolo aveva riportato dalle flagellazioni a cui era stato sottoposto. Nella sua profonda umiltà, consapevole del dono terribile ricevuto, si vanterà in 2 Cor ll,23b-25a così: "(più che altri apostoli non amici suoi) molto di più sotto le battiture... Cinque volte dai Giudei ricevetti 40 colpi meno 1, tre volte fui colpito da ba-stoni..." Tutto per il suo Signore e Sovrano.

E finalmente il v. 18 contiene la solita clausola che sigilla, in forme diverse ma nel medesimo spirito, ogni Epistola paolina: la Grazia del Signore nostro Gesù Cristo sta ormai per sempre con lo spirito dei Ga-lati, suoi amati fedeli, chiamati qui "fratelli", dolcissimo nome di piena riconciliazione con una Comunità che aveva dato tanto dolore al loro meraviglioso Fondatore. È la Grazia del Kyrios, il Signore Risorto, Grazia della Resurrezione, lo Spirito Santo. E Paolo non può che pro-nunciare la formula asseverativa: Amen, ossia "con fedeltà e verità e stabilità". Tale clausola sarà poi ampliata alle Persone divine in 2 Cor 13,13, e diventerà la straordinaria, struggente invocazione del celebrante che da inizio alla santa Anafora dei Divini Misteri.

5. EVANGELO

a) Alleluia: Sai 88,2.3, "Salmo regale" . MatteoVedi l'Alleluia della Domenica 6a di Pasqua; 14a

b) Le 16,19-31Nello schema di Luca (vedi nella Parte I), la pericope si colloca ver-

so la fine della "salita a Gerusalemme" (Le 9,51 - 19,28), dove si dove-va "compiere il suo esodo", come si parla nel colloquio con Mosè ed Elia al momento della divina Trasfigurazione {Le 9,31). È la salita ver-so la Croce.

Gesù sta moltiplicando in modo inesauribile il suo insegnamento. Che è fondamentalmente la spiegazione dell'Evangelo per il quale, in-sieme con le opere del Regno, è stato consacrato dal Padre con il Batte-simo dello Spirito Santo. Nella "salita a Gerusalemme" Egli in specie intensifica il suo insegnamento tipico, quello in parabole, e ne espone una serie impressionante, non meno di 20.

Adesso viene la volta di una delle parabole più intense di significa-to, e più suggestive per le risonanze, quella del Lazzaro povero e dell'"epulone" ricco. La scena anzi è aperta proprio con la descrizione dell'operato del ricco, come è chiusa dalla sorte del medesimo, mentre Lazzaro occupa il centro sia nella singolare maestà della sua miseria terrena, sia nello splendore della vita beata.

Così, la condizione del ricco è annotata subito con pochi tratti, suffi-cienti a denotare la sua miseria morale. Non va dimenticato che Luca

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raccoglie le parole tra le più severe del Signore contro i ricchi, tra le quali quella che il vocabolario cristiano non conosce da troppi secolk "ricco scemo, ploùsios àphrón" (Le 12,20). Inoltre, Luca organizza molte parole del Signore sotto forma di insistente "catechesi sulla po-vertà", che è sempre anche contro la ricchezza (vedi schema di Luca, nella Parte I). La ricchezza è uno dei massimi impedimenti contro la di-vina Misericordia, come la parabola di Lazzaro mostra.

Il ricco vive una condizione spensierata, di vacuità, nelle sue vesti di lusso estremo, costosissime, di porpora, sempre così rara che era prati-camente accessibile solo ai regnanti e magnati, e di bisso. Perciò il ricco potrebbe essere proprio uno di quei personaggi inaccessibili, come i monarchi che in Oriente si facevano adorare come dèi, e che si mostra-vano solo da lontano per accrescere intorno a se stessi un alone di sa-cralità (cf. qui ad esempio Est 8,15; 1 Macc 10,20; Prov 31,22). Una parvenza di porpora fu imposta a Gesù per schernirlo precisamente co-me un finto monarca (cf. Gv 19,2.4).

Come adornava il suo corpo in modo lussureggiante, nei dettami de-gli stilisti di moda, così il ricco nutriva il suo corpo in modo raffinato. Il testo dice: "rallegrantesi (euphrdinó) ogni giorno in modo splendido (lamprós)" (v. 19b), espressione che già era usata proprio per il "ricco scemo" di 12,19. Con ciò si indica sia i lussuosi banchetti dati per gli amici altrettanto facoltosi, o a cui si è invitati per contraccambio; sia le feste che terminano con banchetti ma sono "allietate" da danze e giochi e mimi; sia altri svaghi il cui sugo gusta solo chi ha ridotto la sua vita al continuo e sempre più estenuato godimento. Non per nulla l'apostolo Giacomo fulmina con espressioni rabbiose — la "rabbia profetica" — simile genere di viziosi, oggi sempre più diffuso perfino tra chi non può permetterselo, terminando così la rampogna terribile: E perfino avete ecceduto, uccideste il giusto! Egli non oppose resistenza a voi (Gc 5,5-6); ma il testo aveva cominciato: "Su, adesso, o ricchi, piangete urlando sulle miserie vostre che sopravvengono!" (Gc 5,1, e cf. i vv. 1-6). In un banchetto simile fu decisa la morte del Battista (Me 6,17-29).

Insomma, la succinta descrizione del ricco mostra come egli si sfor-zasse di riempire di fatuità (le vesti) e di eccessi dannosi (i banchetti e il resto) la sua vuota esistenza, collaborando in questo a riempirla an-che per gli altrettanto inutili suoi anfitrioni. Si ha come un tempo so-speso, senza mèta diretta, nella spensieratezza dei crapuloni che si illu-dono di una loro esistenza illimite.

Per la severa, quasi implacabile esigenza morale che deriva dall'al-leanza, e che astringe i fedeli del Signore Santo e Misericordioso alla sua imitazione per quanto possano le forze umane aiutate dalla Grazia dell'alleanza stessa, che è sempre molto larga ed effluente, il comporta-mento dell'innominato "epulone" è bollato a morte.

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Esso infatti è il "peccato di Sodoma".In una pagina orrida, per bocca del profeta Ezechiele il Signore ir-

rompe sopra il residuo del suo popolo, il regno meridionale, Giuda, e gli contesta l'abisso del suo peccato, la sua esistenza che è peccato. Tale processo senza possibilità di difesa, perché non esiste difesa né atte-nuante alcuna, si estende per i cap. 16; 20; 23 di Ezechiele. Non si esa-gera se si afferma che sono i testi più urlanti dell'A.T. In essi il Signore fa risuonare quasi il suo pianto sconsolato, per l'amore infinito donato al suo popolo, visto come "la Sposa" diletta. Amore calpestato, disprez-zato, rigettato. La Sposa ha voluto farsi prostituta delle nazioni pagane, "fornicando" insaziabilmente con esse. "Fornicare" è linguaggio nuziale e religioso: significa rigettare lo Sposo Santo e divino, per darsi agli idoli, la cui adorazione comportava pratiche di prostituzione sacra, ma-schile oltre che femminile; si praticavano riti che mimavano e propizia-vano la fecondità delle divinità per la terra, gli animali e gli uomini.

Qui Sodoma si pone come esemplare di ogni vizio.Ma la "rabbia divina profetica" non bolla il vizio, la corruzione, la

vita facile in sé e per sé. Il Signore ha creato tutto buono (Gen 1,31), e tutto per l'uomo (ivi), anzi lo ha benedetto (ivi). In sé allora il cibo, le feste, la gioia, il sesso, sono realtà sane. Lo è anche la vita che gode quel poco che può nel segmento di tempo riservatogli.

Però, in che veramente Sodoma è "il peccato" come esemplarità nel-la sua terrificante ripugnanza?

Nella mancanza totale di carità.Ezechiele parla così a Giuda, il popolo dell'alleanza:

Vivo Io! — parla il Signore —, se ha agito Sodoma, la sorella tua, essa e le sorelle di lei (le città dipendenti) nel modo onde agisti tu e le sorelle tue! Ben oltre, l'iniquità di Sodoma, la sorella tua, (fu) la superbia!Nell'abbondanza dei pani e in abbondanza di vino, vivevano nella mollezza essa e le sorelle sue, questo vigeva per essa e per le sorelle sue, e la mono al povero e all'indigente non afferrarono. E si glorificarono, ed operarono iniquità davanti a Me, e Io le tolsi via, come ebbi a vederlo. E Samaria non peccò la metà dei peccati tuoi! (Ez 16,48-51; LXX).

A partire dalla fine, Giuda peccò il doppio di Sodoma e di Samaria (con i suoi due vitelli idololatrici). A Sodoma la contestazione porta sul

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fatto che non volle soccorrere i poveri. Ma fu condotta a questo dall'in-durimento del cuore causato dalla vita dissoluta. La non carità è pro-dotta dalla vita dissoluta, la vita dissoluta è causata dalla perdita della carità. Il circuito si chiude: la vita dissoluta è causata originariamente dall'avere rigettato il Signore dalla propria esistenza, vivendo "come se Dio non esistesse". Chi vive così, a sua volta è abbandonato da Lui alla vita ignominiosa, e la spirale si avvita verso il basso, nella mancanza di carità (cf. anche Rom 1,18-32; Sap 13).

In Ez 16,49 il verbo che causa l'irrimediabile condanna divina è "non afferrare la mano" del povero; qui si ha antilambànomai, un medio che significa: attaccarsi a qualcuno, prendere parte in favore di qualcuno, aiu-tare, soccorrere, sostenere, prendere su di sé. È far propria la causa del povero. Nel N.T. antilambànetai è usato solo 3 volte, significative tutte:1) nel Megalynei hepsyche mou della Vergine: il Signore, Misericordiososempre, disperse i superbi, rovesciò i potenti, respinse i ricchi, ma esaltògli umili, saziò gli affamati, e "prese parte in favore (antilambànomai)d'Israele suo servo" (Le 1,54), il povero tra i poveri nei popoli della terra;2) Paolo congedandosi dai Presbiteri (Vescovi) di Efeso, a Mileto, parla alungo (At 20,18-34), e conclude così: "Io tutto mostrai a voi, che così affaticandosi si deve (dèi, secondo il Disegno divino!) soccorrere (antilambànomai) i deboli, e fare memoria delle Parole del Signore Gesù, poiché Egli disse: 'È beato più donare che ricevere'" (v. 35); 3) in 1 Tim 6,2Paolo prescrive agli stessi schiavi cristiani di continuare a servire i loropadroni credenti, perché sono diletti di Dio, benché ricchi, quelli ai qualigli schiavi sovvengono (antilambànomai) con i loro servigi.

Anche se la condanna sembrerà esagerata ed inaccettabile, per la Ri-velazione biblica Sodoma, superbia, corruzione morale, mancanza di carità formano l'ambiente alienato da Dio e dal prossimo, che Dio non può tollerare a lungo, che farà sparire con la violenza delfuoco. Fuoco a Sodoma, fuoco per il "ricco epulone".

Un de, invece, contrappone adesso la descrizione "di un certo pove-ro", ptòchós, termine greco che in genere nei LXX traduce l'ebraico 'ani, o 'ànav, plurale 'ànàvtm. Con questa semantica si vuole indicare prevalentemente quello che esprime il verbo di partenza, ptóssò: uno intimorito dalle sofferenze, dalle privazioni, uno che va a testa bassa, timidamente mendicando. Ora, questo "povero di Dio", che si attende tutto dal suo Signore — come i 'ànavim dell'A.T. —, rassegnato solo davanti a Lui, è identificato dal nome, al contrario del ricco lasciato anonimo. Si chiama Làzaros. Qui la facile etimologia ebraica è la radi-ce 'àzar, "aiutare", con il nome teoforico 'El- 'àzar, "Dio aiutò" (nome simile 'Azar-Jàh, "Aiutò il Signore"). Così si indica già la prospettiva finale: dove nessun uomo fratello interviene, certamente il Signore in-terverrà a tempo ed a luogo.

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Lazzaro "stava gettato", prostrato (un più che perfetto da ballo) da tempo fuori della porta "di quello", del ricco, dunque escluso da qua-lunque piccola porzione di cibo (v. 20), reso oltre tutto repellente dalla malattia, era "piagato" e quindi anche escluso dalla partecipazione al-l'assemblea liturgica del popolo. Egli era invano desideroso di saziarsi da quanto cadeva dalla tavola imbandita del ricco (v. 2la), le briciole e gli avanzi che poi si gettano all'immondizia o ai cani, piuttosto che ai poveri. È lo spreco immondo che si vede ancora nei banchetti dispen-diosi che ancora oggi si danno per feste e ricorrenze anche sacre, come i matrimoni; basterà visitare i saloni poco dopo che sono stati abbando-nati dagli invitati sazi al di là del lecito, per vedere piatti, cibi, frutta, dolci, vini che saranno gettati all'immondizia. I ricchi o chi si sente ta-le, sono sempre avari e scostanti. Non a caso, antichi manoscritti del sec. 2° aggiungono qui, appunto, che "nessuno gliene dava alcunché".

Non solo, venivano a leccargli le ulcere i cani pietosi, gli unici esseri creati che avessero tenerezza (v. 21b). Il tratto delle briciole ed avanzi, e dei cani, richiama da lontano l'episodio della Donna cananea (cf. Domenica 17a di Matted), che reclamaa tltol° & cagnolini" , in cui siriconosce insieme con la figlia straziata, di saziarsi delle briciole che cadono dalla mensa "dei figli" del Regno (cf. Mt 15,21-28).

L'episodio della parabola adesso riguarda ancora Lazzaro e il suo destino. Avviene secondo la sorte di tutti, che il povero muore. Allora gli "Angeli del servizio" divino (cf. qui Le 15,10; Mt 18,10; At 12,15; Ebr 1,13-14) lo trasportano in corteo (apophéró) verso l'alto, fino nel "Seno d'Abramo" (v. 22a). È questa la splendida metafora per indicare anzitutto la paternità d'Abramo, che raccoglie alla fine tutti i figli suoi, figli dell'alleanza divina, della Promessa e della Benedizione ottenuta da Cristo con la sua Croce, e che è il Dono dello Spirito Santo (cf. Gai 3,13-14). In quel Seno tutti i santi e giusti e buoni godono la gioia in eterno. Il Seno del Padre Abramo richiama ovviamente, per simboli, anche il Seno del Padre, verso cui sta in rapporto il Dio Monogenito (cf. Gv l,18).

Una secca nota aggiunge che ovviamente morì anche il ricco inno-minato, e che fu sepolto (v. 22b).

Qui si consuma la tragedia finale del ricco. La sua sepoltura di fatto è l'Ade, gli inferi, nell'abisso senza uscita e senza speranza. Qui il ric-co ha il sussulto della sopravvivenza, pur stando nella situazione eguale e contraria a quella di Lazzaro: a ciascuno, come visse sulla terra, nel bene se nel bene, nel male se nel male. Il ricco sta nei tormenti infiniti, bensì meritati, e nella sua disperazione alza i suoi occhi verso l'alto, ma troppo tardi. Troppo da lontano vede l'irraggiungibile Abramo, che stringe amorevolmente Lazzaro nel suo Seno paterno (v. 23), l'unico Seno per sé capace di contenere tutti i figli di Dio. Il ricco, come si ve-

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COMMENTO - CORSO DELLE DOMENICHE

drà, conosceva la Scrittura, e di certo vi aveva letto che la Sapienza aveva annunciato e minacciato i tormenti mortali per gli iniqui, ma quello non se ne era curato. Crede che adesso sia ancora possibile un'eccezione.

Perciò grida l'urlo dell'aiuto, quell'aiuto contenuto nel nome di Lazzaro (vedi sopra), ma nel quale quando era ora non aveva posto mente: "Padre Abramo, sii misericordioso verso me!" Anche se per la prima volta chiama Abramo "padre", tuttavia è ancora capace di in-dovinare la direzione e il verbo della supplica, eleéò, avere misericor-dia, agire secondo Yéleos, l'impegno di bontà che il Signore ha preso quando ha contratto l'alleanza con il suo popolo. Forse qui si ha l'u-nica supplica mai formulata dal ricco. La richiesta è che invii la vec-chia e volutamente ignorata conoscenza, Lazzaro, figlio d'Abramo, dunque suo fratello, con un minimo di soccorso: che intinga l'estre-mità del dito suo in acqua, chiede una minima stilla con cui Lazzaro dia refrigerio (katapsychò) alla sua lingua. Questo verbo è passato poi in tutte le lingue liturgiche per indicare il "refrigerio" che i fedeli vi-venti implorano dal Signore per i loro defunti. Ora, il ricco motiva: soffre dolori orribili (odynómai) "in questa fiamma", il fuoco inestin-guibile che distrugge qualsiasi elemento creaturale (cf. Vapolésai, an-nullare, nel testo terrificante di Mt 10,28); egli non si ricorda che i Profeti hanno parlato e messo in guardia contro la "fiamma inestin-guibile" e divorante i malvagi (cf. Is 66,24; Zacc 14,12; e anche Mt 25,41, vedi la Domenica àe\YApókreos o di Carnevale). Il ricco crede forse ancora di trovare qualche scampo (v. 24).

Abramo è il Padre sempre pieno di pazienza, e perciò si degna an-che di rispondere. Anzitutto in ricambio interpella con il nome di "fi-glio" il ricco ormai sopraffatto dalla sofferenza. Poi lo esorta a fare me-moria dei troppi beni goduti (cf. Le 6,4; Giob 21,13; Sai 16,14): "tu ri-cevesti i beni tuoi nella vita tua" (v. 25a). Egli visse la vita "sua", incu-rante della vita degli "altri", e si ebbe i beni mondani "suoi", egoistica-mente non spartiti con altri, e perciò ormai la sua vicenda è conclusa ed esaurita per sempre, si è talmente concentrata in se stessa da essere "implosa". Invece avviene per Lazzaro il fatto eguale (homóiós) ma contrario, poiché ebbe solo mali (v. 25b). Questo, "allora". E però fi-nalmente è venuto il nyn, adesso: la situazione è compensata perfetta-mente, poiché Lazzaro "qui", nel Seno d'Abramo, riceve la consolazio-ne promessa dal Signore per i suoi fedeli (parakaléó), il ricco invece semplicemente sta nella più crudele sofferenza (odynómai) (v. 25c).

La risposta qui sarebbe terminata. Ma Abramo è in eterno il Padre, che si rivolge pur sempre ad un suo "figlio", che non cessa di essere tale benché adesso sia perduto. E spiega che un chàsma méga, il caos in-gente, il "vuoto" impenetrabile si pone quale diaframma inesorabile "in

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tutto questo", ossia tra la consolazione eterna e la pena del fuoco, "tra noi e voi". E tale caos fu reso stabile (stérizó) dalla divina Disposizio-ne, al fine che perfino se lo volesse uno non può discendere dalla beati-tudine verso la rovina finale. Tanto meno un dannato può risalire verso la Comunione stabilita tra i beati (v. 26). In realtà, il defluire della Gra-zia divina dall'alto verso gli uomini avvenne sempre, nell'esistenza de-gli uomini, e tra questi avrebbe dovuto stabilirsi lo scambio fraterno che avrebbe avuto conseguenze salvifiche (v. 26). Abramo, che è la fi-gura del Signore Sovrano, il Padre, qui vuole insegnarci proprio que-sto: che ilptóchós, il 'ani, si attende come "povero di Dio" tutto e solo da Dio, ma Dio precisamente dona il "povero" al "ricco" affinchè que-sti veda in quello il "figlio d'Abramo", e si senta egli stesso "figlio d'Abramo", e comunichi nella carità (vedi Mt 25,31-46, Domenica della Apókreos).

Il ricco soffre troppo, però. E non si rassegna al suo destino segnato per sempre. Ha ancora un ultimo moto umano, è ancora animato dal-l'amore fraterno. Di nuovo invoca Abramo come "Padre", e gli rivol-ge un'invocazione suprema: "ti chiedo allora", comprendendo che per lui è finita. E l'oggetto è in fondo molto bello: che Lazzaro sia inviato alla "casa del padre suo", espressione semitica, che vuoi dire la casata estesa, ai parenti (v. 27). In questa casa stanno cinque fratelli, tutti ric-chi come lo fu lui, tutti dissipati come lo fu lui, tutti inconsapevoli co-me lo fu lui. Lazzaro dovrebbe rendere testimonianza a questi "cin-que", il numero simbolico che indica pienezza e totalità (alludendo dunque a tutti gli uomini, figli di un "padre" altro, che non si ricono-scono nel Padre Abramo fino in fondo). E quelli, vedendo uno spirito, un fantasma, un risorto come Lazzaro, il povero che forse avevano vi-sto affamato e piagato anche presso le porte delle loro case ma igno-randolo, smettano la loro vita perduta, si spaventino, "non vengano in questo luogo di tortura" (v. 28).

La risposta del Padre Abramo è il centro di tutta YOikonomia divina della salvezza:

Essi possiedono Mosè ed i Profeti, ascoltino loro! (v. 29).

Noi possediamo le Sante Scritture, Mosè (il Pentateuco, la Tóràh-Leg-ge), i "Profeti" (tutto il resto dell'A.T.). Vedi qui Le 24,27.44. Dobbia-mo "ascoltare, akoùó", ossia, secondo il senso biblico, obbedire, mette-re in pratica. Ora, proprio in Mosè sta il precetto: "Amerai il prossimo tuo come te stesso", di Lev 19,18. E proprio nei Profeti infinite volte si riproclama e si rilancia e si esplicita questo precetto d'oro, perché sal-vifico, e qui basterà citare un grande testo, emblematico:

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Rompete le catene della malvagità,sciogliete le corde del giogo,rimandate liberi gli oppressie frantumate ogni giogo!Spezza il pane tuo all'affamato,e i poveri raminghi conduci a casa tua,quando vedi uno nudo, rivestilo,e non ritrarti da chi è la carne tua!Allora eromperà quale alba la luce tua,e la tua guarigione verrà all'istante,ti precederà la tua giustizia/caritàe la Gloria del Signore ti investirà!Allora tu chiamerai, ed il Signore ti risponderà:tu griderai, ed Egli parlerà:Eccomi!Prodiga te stesso all'affamato e sazia chi ha fame...e tu sarai come un giardino irrigato,come una fonte d'acqua perenne! (Is 58,6b-9a.l0a.llb).

Ma il ricco non ha fiducia nella potenza della Parola divina, né nella fede che sorge dall'ascolto, dunque non si fida di Dio né degli uomini, e torna a chiedere per la terza volta, insistendo: "No, Padre Abramo!" Gli resta la speranza nella paternità divina, quella che non volle cono-scere nella vita terrena. La richiesta bissa quella di prima: i viventi certo "si convertiranno", faranno penitenza, si pentiranno, vorranno riparare (metanoéó ha questi significati, ed altri simili), se avranno la visita concreta, visibile e palpabile, di "uno (proveniente) dai morti". Uno che non sia "dei morti", né dei mortali, ma sia un vivente ormai immor-tale, del mondo dei salvati e beati (v. 30).

La risposta ultima d'Abramo va strettamente unita a quella del v. 29, e così il v. 31, che conclude la parabola, deve essere prospettato insie-me con quello:

Essi possiedono Mosè ed i Profeti.Ascoltino loro! (v. 29).Se Mosè ed i Profeti non ascoltano,neppure se uno risorge dai morti saranno convinti! (v. 31).

Nessun prodigio, nessun miracolo, nessun'"altra" rivelazione, nes-suna apparizione, nessun messaggio. Invece l'età moderna sembra piena solo di questo cascame di vita spirituale del tutto aliena dalla Tradi-zione. Nessun fatto come questi mai, sulla via della metànoia, della conversione del cuore a se stessi, al prossimo, al mondo creato, a Dio,

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potrà sostituire la Santa Scrittura di Mosè e dei Profeti. Occorre anzi-tutto e soprattutto, e forse solo, ascoltare e mettere in pratica la Volontà divina. E qui, in questa parabola, quello che la Volontà del Padre nostro vuole da noi per i "Lazzari fratelli nostri". Chi sono questi Lazzari? Forse, chi meno crediamo, forse proprio i "ricchi scemi" di ogni gior-no, a cui non arrivano Mosè ed i Profeti, dunque i "poverissimi tra i po-veri", come aveva ben compreso la Chiesa degli Apostoli che andò con l'Evangelo, il Pane che cura ogni ulcera, dai più poveri, i pagani. E così la Chiesa missionaria nei secoli. Oggi la missione apostolica sta anche dentro casa, presso i "fratelli" atei ed ateisti militanti, proprio mentre ancora esistono le "nazioni" a cui l'Evangelo non giunge.

Se si ascoltano Mosè ed i Profeti, non occorre scomodare Lazzaro, poiché tra breve tempo tutti staremo con lui nel Seno del Padre.

Non occorre invocare che "venga uno dai morti".Non occorre, Dio ne salvi!, invocare che addirittura ci appaia Cristo

Signore Risorto per convincerci ad "ascoltare le Sante Scritture". Noi Lo vogliamo, ma intanto ascoltiamo le sue Scritture. E Lo invochiamo: "Vieni, Signore!" spinti dallo Spirito Santo (cf. Ap 22,17). Ed Egli ri-sponde: "Sì! Vengo presto!" (Ap 22,20) per stare con noi, non per con-vincerci a leggere le Scritture, che già dobbiamo conoscere. E gli Apo-stoli stessi che Lo videro risorto, ebbero subito fede in Lui, e si conver-tirono? Non sembra. Dovette prima venire lo Spirito di Pentecoste, e così compresero le Scritture.

Ecco perché il Signore Risorto invitò una volta per sempre a leggere Mosè e i Profeti: Le 24,25-27 e 44-49. Ed a pregare i Salmi: Le 24,44c. Lì si svolge la Grazia della conversione, di lì parte l'amore verso i fra-telli, i figli dell'Unico Padre nostro che noi amiamo più di noi stessi.

È folgorante, qui, il nesso indissolubile con la "Parola della semina" della Domenica precedente.

6. MegalinarioDella Domenica.

7. KoindnikónDella Domenica.

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DOMENICA 23a DOPO PENTECOSTE 6a di Luca

"Su colui che conteneva la legione"

Le rubriche avvertono che l'Evangelo di questa Domenica si procla-ma solo se essa cade tra il 30 ottobre ed il 5 novembre. Se cade tra il 23 e il 26 ottobre, è sostituito dall'Evangelo della Domenica 7\ e la Do-menica che segue questa, dunque tra il 30 ottobre e il 2 novembre, si legge quello di questa Domenica 6a.

Se questa Domenica cade trail 20 e il 22 ottobre, silegge l'Evange-lo della Domenica 7a> domenica seguente, tra il 21-29 dtfobre, si legge l'Evangelo della Domenica 8a, e la Domenica ancora seguente tra il 3 e il 5 novembre si legge l'Evangelo di questa 6a Domenica.

1. AntifoneDella Domenica, o i Typikd e i Makarismói.

2. EisodikónDella Domenica.

3. Tropari

1) Apolytikion anastdsimon, del Tono occorrente.

2)Apolytikion del Santo titolare della chiesa.

3)Kontàkion: Prostasia tón christianón.

4. Apóstolos

a) Prokéimenon: Sai 27,9.1, "Supplicaindividuale". Vedi Domenica T di Pasqua e 1T

b)Efes 2,4-10In questo cap. 2 Paolo espone il grande argomento della salvezza di-

vina gratuita, tracciando la "teologia della storia" che comincia la sua attuazione positiva a partire dall'iniziazione battesimale. Il suo schema è di una semplicità sconcertante, basandosi su due particelle temporali: potè, una volta, nyn, adesso. Nei vv. 1-3 infatti l'Apostolo espone anzi-tutto come "una volta" erano gli Efesini, ossia i pagani, che nella ripresa dei vv. 11-12, con note molto negative, definisce "senza Cristo", senza speranza, "atei in questo mondo", unica volta che la Scrittura ri-porta il terribile termine àtheoi.

La pericope segue il v. 3 che terminava con l'altra celebre definizio-ne dei pagani, delle "nazioni": "voi eravate per natura figli dell'ira" di-

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vina. La terminologia viene dall'A.T., e non indica affatto un Dio irrita-bile e dunque furiosamente adirato, tanto da creare i figli suoi, la sua "immagine e somiglianzà", come "figli dell'ira" distruttiva. In realtà, Dio è l'immensamente sconfinatamente perdutamente Misericordioso. Ma gli uomini con il loro atteggiamento indurito dal peccato antico ed attuale, si pongono in situazione tale da meritarsi la punizione. E que-sta, va insistito, non viene affatto dal Dio Buono, bensì se la procurano con ogni mezzo gli uomini stessi. Essi quindi fattisi punizione a se stes-si, essi, rovina a se stessi.

Ma proprio qui Paolo interviene, ribadendo quello che proclama dal-l'A.T. al N.T., dalla Genesi ali'Apocalisse, la Santa Scrittura: in realtà Dio è proprio Colui che sussiste (ho Òri) come il Ricco di éleos, la Mi-sericordia, che è ormai il comportamento costante di Lui dopo l'allean-za; torna il motivo al v. 7; già in Rom 2,4; di nuovo in Tit 3,5. Anzi, Egli si mostra come Colui che "amò" (agapàó, in aoristo, che indica l'avvenuto una volta per sempre, in modo fedele ed irreversibile) gli uomini con amore, agape, molto, eccessivo, e non per i meriti di essi (v. 4). Anzi, proprio quando erano morti per le loro prevaricazioni. Questo è l'"allora", il tempo perduto per gli uomini, ma non per Dio. Perché Egli "adesso", e senza possibilità di merito o acquisto o guada-gno umano, per pura Grazia di salvezza, li "con-vivificò" (synzóopoiéó) con Cristo (v. 5), e li "con-resuscitò (synegéiró)", e li "co-intronizzò (synkathizó)" nei cieli altissimi "nel Cristo Gesù" (v. 6).

Sopra, per Y Apóstolos della Domenica 4a di Luca, si è mostrato il si-gnificato straordinario dei verbi paolini composti con la particella syn, "insieme con", e se ne è dato un quadro operativo e teologico. È straordinario il senso di tutti questi verbi, e qui tutti e tre quelli usati indicano la vita e la gloria donate dal Padre agli uomini "con, in" e perciò mediante il Figlio: dal Figlio infatti tutta l'opera così difficile, dolorosa, sempre drammatica per colpa degli uomini, avviene a partire dalla Carità divina del Padre, che esiste non "adesso", ma dall'eternità del suo Disegno. Essa opera in atto continuo nel Figlio, e si conclude con il Dono inconsumabile dello Spirito Santo. Il quale vivificò e resuscitò Cristo, Lo glorificò, Lo intronizzò alla Destra del Padre. Così Paolo esplicita anche da questa parte la grande legge della salvezza, che aveva enunciato più volte: "quanto il Padre operò per il Figlio, il medesimo con il medesimo Spirito opera anche per gli uomini": Rom 8,11; e già 1 Cor 6,14; 2 Cor 4,14, e di nuovo in Rom 6,5.8. Da quest'ultima citazione, che vale come interpretazione del tema, si evince che tale opera "per noi uomini e per la nostra salvezza" avviene sempre a partire dal fatto dell'iniziazione battesimale.

Al v. 7 Paolo ne da la motivazione ed il fine. Tutta 1'"eccessiva ca-rità" divina vuole infatti mostrare (endéiknymi, qui in congiuntivo aori-

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sto medio) per le età sopravvenienti 1'"eccessiva ricchezza" (hyperbdl-lon ploùtos, dove il verbo hyperbdlló, come in 1,19, indica la trascen-denza, l'eminenza, l'eccellenza al di là di ogni considerazione umana) della Grazia sua, la chdris. Questo termine nell'A.T. traduce per lo più il sostantivo hén, che viene dalla radice hànan, "favorire secondo cle-menza", avere tenera compassione, donare largamente la clemenza, "graziare" qualcuno non meritevole o colpevole. Nel N.T. il hen-chdris si colora di una sfumatura decisiva: chdris è il dono della clemenza, che resta in colui che l'esperimenta da Dio, e ne riceve un'"impronta", una forma, un'esistenza nuova. A guardare da vicino, è una comunica-zione divina, in un certo senso Dio imprime la sua propria forma nel-l'uomo "graziato", lo trasfigura arricchendolo all'infinito. E questo co-municarsi divino è lo Spirito Santo, che come Grazia increata procede dal Padre ma è acquisita per gli uomini dal Figlio morto e risorto. Si pensi qui alla nuova "forma" assunta dalla Theotókos, che neìVaspa-smós di Gabriele Arcangelo invitto, è "la kecharitoménè". Questo per-fetto passivo è un participio "permansivo", che indica una qualità che non passa più, da charitóò. È imbarazzante tradurlo con un unico ter-mine, poiché significa insieme: Colei che conseguì da adesso e per sempre (da adesso come notificazione, ma dall'eternità secondo il Di-segno divino) la "Grazia", il tenero amore divino; Colei ormai ornata di Grazia cumulata su Lei dall'Amore speciale e singolare del Padre; Co-lei che è contrassegnata dalla bellezza e dalla gioia — Chdire, Gioisci!, è precisamente Yaspasmós (Le 1,28) — della divina Grazia trasforman-te; Colei che è la diletta adornata di ogni Dono divino. In una parola: Colei che (il perfetto greco) dal primo istante della sua nascita santa è già stata riempita di Spirito Santo.

Il filo del discorso paolino corre così: l'esagerata Ricchezza della Grazia dello Spirito sui fedeli si configura come la "Bontà su noi". Es-sa dal Padre mediante Cristo, ma perennemente "in Cristo Gesù", sta su noi. Anche il termine chrestótès raggiunge il suo senso vero, lo Spirito Santo, Spirito Tuttosanto e Buono e Vivificante, Spirito del Padre e del Figlio, ma finalmente, adesso, "Spirito anche tutto nostro" (v. 7).

Il v. 8 ripete e ribadisce l'assoluto Gratuito divino già annunciato al v. 5: per sola Grazia i fedeli già sono stati salvati (sózó, al participio perfetto), ma con lo strumento indispensabile, la fede. Questa è l'ade-sione a Cristo, la quale apre al Dono. Il che non può mai avvenire "ex hymón", da voi, con le vostre sole forze. Il Dono di Dio non viene da "opere" che possano meritare, opere che non esistono. E qui Paolo è duro: così che nessuno possa vantarsi di salvarsi da solo (v. 9). Le ope-re, come già si è detto, dovranno doverosamente seguire la fede, per renderla effettiva, "operante in forza della carità" ricevuta (cf. già Gai 5,6, diverse volte richiamato).

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Ed ecco la conseguenza: noi siamo "la fattura (póièma)", la creazio-ne del Padre, il Creatore Buono, che ci creò (ktizó) "nel Cristo Gesù" (cf. 1 Cor 1,29) in vista precisamente delle "opere buòne". Per esse noi siamo stati "pre-preparati (proetoimazó, si noti che hetoimàzò già da solo indica "preparare", e qui si aggiunge la particellapro- che rende il verbo più pregnante) da Dio stesso, al fine che Egli rivelò: in esse noi dobbiamo "procedere" (peripatéó), comportarci, da adesso e per sem-pre (v. 10).

La "teologia della storia" è completa: una volta gli uomini erano ro-vinati e perduti; adesso hanno ricevuto la Grazia dello Spirito Santo, e nella fede debbono svolgere l'intera loro esistenza redenta e santificata nella carità verso se stessi, verso il prossimo, verso Dio.

5. EVANGELO

a) Alleluia: Sai 90,1.2, "Salmo didattico sapienziale".Vedi l'Alleluia della Domenica T e 15"diMatteo.

b) Le 8,26-39La pericope narra nella redazione lucana la guarigione dell'indemo-

niato di Gerasa, che la sinossi evangelica presenta così: Mt 8,28-34; Le 8,26-39; Me 5,1-20. Il testo matteano fu commentato nella Domenica 5a

di Matteo, al quale si rimanda. Della redazione lucana si evidenziano qui alcuni elementi assenti in Matteo.

L'episodio sta tra due "segni" potenti del Signore, due grandi "opere del Regno", ossia la tempesta sedata {Le 8,22-25), e la resurrezione della figlia di Giairo, il capo della sinagoga: in ciò si intervalla la guari-gione della donna emorroissa {Le 8,40-56).

Battezzato dallo Spirito Santo al Giordano, il Signore sta dunque sempre attuando il suo divino Programma per gli uomini, annunciando l'Evangelo con la sua dottrina, e operando le "opere del Regno", che strappa al "regno del Male" personificato, del Maligno, guarendo i ma-lati, liberando dai demoni, resuscitando i morti, moltiplicando il cibo (cf. Le 9,12-17), placando la creazione che si presenta spesso ostile agli uomini (la tempesta sedata). Ma qui proprio uno dei "segni" miracolosi del Signore Battezzato è la liberazione degli uomini dalla tirannia di sa-tana, che è anche la restituzione dei guariti al consorzio umano, e so-prattutto all'assemblea liturgica del popolo di Dio.Il Signore (vedi lo schema di Luca, Parte I) approda sulla riva orientale

del lago di Gennesaret, nella regione dei Geraseni (vedi nella Do-■ o di Matteo la discussione per questo nome); la precisazione e

Geraseni (vedi nella Do-n e l la regioned e

"che sta di fronte alla Galilea" (v. 26). Nello sbarcare a terra, si fa in-contro un uomo "della città", non precisata. Egli "possiede i demoni".

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Da tempo vive nudo. E non in una casa, bensì nei sepolcri vuoti (v. 27). Tre note terribili, di cui la prima, la possessione diabolica, è la peggiore; ma le altre due che la precisano danno un colore sinistro alla situazione. Infatti la nudità per un Ebreo è la massima vergogna. E si pensi qui che Gesù sulla Croce santa fu posto nella completa nudità dei condannati, privi di ogni diritto e di ogni dignità umana. Nell'A.T. "scoprire le vergogne" di un'altra persona, uomo o donna, è una delle massime abiezioni, condannate drasticamente (cf. qui solo Lev 18,6-19). E il Si-gnore quando preannuncia la condanna di un popolo, fosse pure il "suo" popolo, simbolicamente minaccia che "scoprirà le sue vergogne" in faccia a tutto il mondo; basterà qui qualche esempio; la minaccia per Ninive, il terribile nemico assiro (Nah 3,5); per il più terribile tra tutti i nemici, Babilonia (Is 47,2); per la stessa Sposa diletta che fu adultera, il popolo di Dio (Ez 16,37). Quanto al vivere tra i sepolcri, a contatto con la corruzione della morte, con le ossa dei morti che sono causa di mas-sima impurità levitica, significa addirittura escludersi dal popolo santo, anticipare la propria morte; la legislazione era severa, come si vede in Lev 21,1, la proibizione generale di toccare un cadavere; 22,4, in specie per un sacerdote; Num 5,2 e 31,19 comminano che l'impuro stia fuori dell'accampamento; 19,3 prescrive la recisione dal popolo; 9,6, l'impuro non può celebrare la pasqua; 19,11, l'impuro resterà 7 giorni fuori dal consorzio umano, poi dovrà purificarsi.

Si rilegga in tale contesto il Tropario della Resurrezione, che canta: "Cristo resuscitò dai morti, con la Morte diede morte alla morte, e a quanti stavano nei sepolcri (en tóis mnèmasi, espressione tratta proprio da Le 8,2) donò la Vita". Dunque la Vita divina investe i peccatori, che giacciono nel massimo grado di impurità, quella della morte meritata.

Va appena richiamato che ogni genere di impurità è il fatale dia-framma che separa dal Dio Vita, il Santo, e che tale diaframma è di-strutto solo dall'operazione divina.

L'indemoniato scorge Gesù, grida disperatamente, si getta ai suoi piedi e con urla potenti lo mette in guardia: "Che tra me e Te, Gesù, Fi-glio di Dio l'Altissimo?" L'espressione significa circa questo: tra me e Te non esiste, o ancora non esiste materia di contesa. E prosegue: "Ti prego, non mi tormentare!" (v. 28). Chi parla mediante la povera bocca dell'uomo posseduto è la potenza maligna. La quale è intelligente, sa che Gesù, il Figlio di Dio, l'Altissimo, è venuto proprio a combatterlo ed a depredarlo di ogni suo potere, quindi cerca di conciliarselo, in fon-do con un inganno ingenuo, poiché Gesù aveva già lanciato il suo esor-cismo infallibile: Esci via da quest'uomo! (v. 29a).

Segue la descrizione della terrificante situazione del povero ossesso. I parenti avevano cercato di aiutarlo e tutelarlo, anche però di proteg-gersi con catene alle mani ed ai piedi di lui, ma questo infrangeva ogni

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vincolo, e spinto dal demonio fuggiva per luoghi deserti (v. 29b). E si sa che i demoni amano spesso perseguitare chi abita o passa per il de-serto. Gesù ne fu la vittima più illustre (cf. Le 4,1-13), ma anche l'Uni-co Vittorioso. La vita dei Padri monastici qui è istruttiva.

Viene una scena che non è priva di umorismo. Gesù conosce tutto. E naturalmente i demoni, con cui si era incontrato sia nel deserto, sia per liberarne gli uomini. E fa fìnta di chiedergli il nome. La risposta singo-lare è "legione", ossia un numero alto in sé, ma quadrato, potente, ag-gressivo e spregiudicato, proprio come erano le legioni romane. Tutta questa legione ha invaso quel povero uomo tormentato (v. 30).

Adesso i demoni smentiscono quel "Che tra me e Te?", e terrorizzati10implorano "invocandolo" (parakaléo) di non essere costretti dal suocomando potente a risprofondarsi nell'abisso. È questo il luogo dellamassima lontananza dall'"Altissimo". È il luogo della tenebra impenetrabile, quando al contrario Dio è "la Luce". Il luogo della morte, mentre Dio è "la Vita" (v. 31).

Gesù gioca con essi, che gli chiedono di invadere una mandra nume-rosa di porci che pascolavano sulla montagna. La zona dunque, benché parte della Palestina, non è abitata da Ebrei osservanti, per i quali il porco è uno degli animali impuri, e quindi proibiti (cf. Lev 11,7). I de-moni sono impuri per definizione. Essi amano l'impurità. È il loro re-gno. Se ne pascono, e la usano per portare gli uomini alla rovina. Gesù11accontenta (v. 32).

Il gioco è che Gesù contestualmente libera il povero indemoniato, e fa sì che la mandra dei porci, assalita da quella folla di demoni terroriz-zati, precipiti proprio dove questi non volevano, nel "mare", simbolo dell'abisso di morte, anche per i poveri animali innocenti (v. 33).

I porcari assistono impotenti alla scena, senza comprenderla, e non possono che scappare a riferire il fatto "alla città e nelle campagne" (v. 34). Di qui accorrono le folle. Vedono Gesù e il malato ormai recupera-to, ossia "vestito e rinsavito", non solo, ma che ai piedi di Gesù Lo ascoltava. Le folle ne hanno paura (v. 35), perché altri testimoni aveva-no riferito i fatti: la salvezza dell'indemoniato (v. 36). Perciò i buoni cit-tadini e i villici dell'intera zona dei Geraseni, invasi dal terrore, pregano Gesù di andare via da loro. Gesù non replica, risale sulla nave e torna alla riva occidentale del lago, per continuare la sua missione (v. 37).

La conclusione dell'episodio è significativa. Il guarito chiede di re-stare con Gesù, di seguirlo, di farsi suo discepolo, affascinato sia dal fatto accadutogli, sia dalla sua parola. Ma Gesù lo rinvia (v. 38), incari-candolo di una missione importante: tornare a casa, dai suoi, e larga-mente narrare (diègéomai) l'operato di Dio. E quello docilmente obbe-disce, non solo verso la casa sua, ma.per tutta la città, "predicando" (kèryssó, verbo tecnico dell'E vangelo) l'operato di Gesù (v. 39). Egli

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dunque ha compreso che il Regno di Dio, che si avanza via via che i demoni sono espulsi, è opera di Gesù. E infatti non molto dopo Gesù stesso spiegherà a gente tenacemente inconvincibile:

Ma se Io espello i demoni con // Dito di Dio,dunque giunse ormai tra voi il Regno di Dio (Le 11,20).

Ora, il parallelo di Mt 12,20 dice:

Ma se nello Spirito di Dio Io espello i demoni, allora giunse su voi il Regno di Dio.

La grazia della guarigione aveva aperto gli occhi del cuore al povero indemoniato sanato. Così questo percorre la regione procurando che chi ascolta le opere di Gesù glorifichi Dio nel suo Regno.

La Chiesa dona la medesima grazia con il santo e trasformante rito dell'iniziazione battesimale. I fedeli "illuminati" (phótizómenoi, phóti-sténtes) debbono tenere gli occhi aperti sulla loro condizione di libera-zione dai demoni, e quindi sulla gloria del Regno.

L'episodio deve aiutarci anche a riconsiderare oggi la gravissima esplosione (improvvisa, o preparata da molto tempo?) del satanismo, dei culti terrificanti resi al Maligno, nella sola curiosità relativa, folclo-ristica, dell'opinione pubblica, che non si rende conto del danno imma-ne prodotto nelle anime.

7.MegalinarioDella Domenica.

8.KoinónikónDella Domenica.

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DOMENICA 24a DOPO PENTECOSTE

Tdi Luca "Sulla figlia del capo della

sinagoga"

1. AntifoneDella Domenica, o i Typikà e i Makarismói.

2. EisodikónDella Domenica.

3. Tropari

1) Apolytikion anastdsimon, del Tono occorrente.

2) Apolytikion del Santo titolare della Chiesa.

3) Kontàkion: Prostasia tòn christianòn.

4. Apóstolos

a) Prokéimenon: Sai 28,11.1 "Inno di lode" di .È il Prokéimenon della Domenica 8a e 16a

b)Efes 2,14-22In stretta sequela e connessione con VApóstolos della Domenica

precedente, Paolo prosegue tracciando ancora la "teologia della storia", con il potè, "una volta", allora, un tempo che non esiste più, e con il nyni, "adesso", il tempo attuale che scorre sicuro e pieno di doni. Infatti i suoi fedeli "allora" erano lontani da Cristo Signore, "nazioni secondo la carne" nel senso peccaminoso di un'esistenza bassa, fuori del popolo di Dio, Israele, con la sua santa alleanza, estranei a questa alleanza con le sue promesse, "non aventi speranza" e dunque fuori di ogni prospet-tiva di vivere, e finalmente "atei", senza il Dio Vivente e Vero (vv. 11-12; cf. anche 1 Tess 1,9-10). I medesimi fedeli "adesso" sono diventati vicini a Dio in forza del Sangue di Cristo (v. 13).

Si richiama qui quanto detto a proposito del valore e della funzio-ne del tutto singolare che il "sangue" della vittima occupa nella vi -suale teologica biblica. Infatti globalmente si può schematizzare il materiale almeno secondo i dinamismi che seguono: a) funzione ca-tartica, o purificatrice (peccati, colpe, etc.); b) funzione apotropaica, o protettiva dal male o dai nemici; e) funzione zoopoietica, o vitaliz-zante; d) funzione ilastica, o propiziante il favore; e) funzione katal-lagmatica, o riconciliatrice; f) funzione koinopoietica, o di porre in comunione con Dio.

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COMMENTO - CORSO DELLE DOMENICHE

Al v. 13 la frase di chiusura dice: "adesso, nyni, in Cristo Gesù voi quelli che allora, potè, sussistevate lontano diveniste vicino nel/con il Sangue di Cristo".

Adesso può procedere l'argomentazione, con la prima affermazione: "Egli — Cristo — è la pace nostra". La realtà portata dal termine eìrènè, pace, è molto più ampia del concetto negativo di "assenza di guerra", poiché risale grosso modo allo sàlóm biblico dell'A.T. La definizione di quest'ultimo termine deve partire dal generale e scendere al particolare: è la condizione gratuitamente donata dal Signore, per cui "a tutti è donato tutto, tutti hanno tutto, a nessuno alcunché manca". Di passaggio, si può applicare questo al Regno, alla vita eterna e beata. Nel particolare, la "pa-ce" così indica anche l'aspetto terreno. Dove nella quiete e nel riposo il fedele vive nel suo gruppo naturale, anzitutto la famiglia, poi la "grande famiglia", che è la parentela più estesa, poi il gruppo delle "grandi fami-glie", poi i gruppi di queste che formano la sotto-tribù, quindi nella pro-pria tribù, e finalmente come complesso delle 12 tribù, il popolo santo. In tale contesto, ciascuno e tutti sviluppano le loro doti, e si realizzano nella pienezza, nella prosperità, nella bontà. Qui interviene però il Disegno di-vino, che pone il popolo santo come propagatore di "questa" pace tra i popoli. È la "missione permanente" tra le nazioni.

In termini di attuazione del N.T., Cristo "Pace nostra" si mostra in opera la sera stessa della Resurrezione, quando viene ai suoi e procla-ma su essi il "Pace a voi", soffiando contestualmente su essi lo Spirito Santo, ed inviandoli in missione a portare la "remissione dei peccati", che è la Pace ed è lo Spirito Santo (cf. Gv 20,19-23; e la Domenica del-VAntipàscha, o di S. Tommaso). Si ha qui la realizzazione messianica della promessa di pace, che il Signore dispone sia portata dal suo Re consacrato: Sai 71,1. Da un'altra direzione concorda la Profezia, quan-do il Dominatore d'Israele, nato a Betlemme, atteso dai secoli eterni, radunerà il popolo del suo Signore, lo pascerà nella Potenza divina e nel Nome divino, "e sarà Egli la Pace" (Mich 5,5, ma cf. vv. 1-5).

E però il testo principale, emblematico tra tanti dell'A.T., è qui l'im-mensa profezia, che determinerà perfino il linguaggio del N.T. in quel-lo che è il significato ultimo di Euaggélion, Is 52,7, che vale la pena di riportare ancora una volta, in una traduzione molto letterale prima dal-l'ebraico e poi dal greco:

Come belli sui monti i passi dell'evangelizzatore (mèbassèr),che fa udire (santa ') lo sàlóm,evangelizzante (mèbassèr) il bene (tpb),che fa udire (sàma ') la salvezza (jésù 'ah),parlando:"Regnò il Dio tuo!",

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DOMENICA 7" DI LUCA

Quale bellezza sui monti!Come i passi dell'evangelizzante (euaggelizómenos) l'ascolto (akoè)

di Pace (eirèné),come l'evangelizzante (euaggelizómenos) i Beni (agathà), poiché Io renderò ascoltatale (akoustè) la Salvezza (seteria) tua, parlando a Sion: "Regnerà il Dio tuo ! "

Isaia pone per sempre il vocabolario meraviglioso: l'ascolto (akoùò), l'evangelizzatore (euaggelizómenos) la Pace (eirènè), i Beni messianici (td agathà), la Salvezza (sótèria). Il N.T. userà solo questo linguaggio.

La Pace, eirènè, che è Cristo, è insieme i Beni, la Salvezza, è "l'E-vangelo" che si dovrà ascoltare, termine che riassume tutto nella realtà divina che è il Regno. Cristo è il Regno con lo Spirito Santo (Mt 12,28; Le 11,20). Egli è l'"Inizio dell'Evangelo" (Me 1,1). Egli dunque è la Pace del Regno, che porta i Beni e la Salvezza, Opera e Tesoro dello Spirito Santo.

Era necessario ripresentare questo lungo preambolo per far com-prendere, ai fini della pericope da commentare, che è straordinaria l'in-serzione dell'eirènè, "la pace", tra le realtà salvifiche già riccamente e generosamente promesse nell'A.T., e finalmente attuate in Cristo Si-gnore nostro. La "pace" è anche "riconciliazione", termine che verrà in seguito, e proviene in via diretta dalla potenza operante del Sangue di Cristo (cf. ancora il v. 13).

Di qui, Paolo prosegue la sua argomentazione nei vv. 14-16. È un periodo prettamente paolino, ossia "denso e pressato", al modo semiti-co, con un inseguirsi di frasi che sollecitano l'una l'altra, quasi senza respirare, si richiamano, si riprendono e si esplicitano; qui il gioco dei verbi è singolare, con soli 3 verbi "finiti" e ben 5 verbi "infiniti" (parti-cipi, di cui 4 all'aoristo puntuale storico). Si deve dunque avere qui sot-to gli occhi una traduzione letterale:

14. Egli infatti è la pace (eirènè) nostra,Egli avendo fatto di ambe le realtà l'unicae il muro mediano dell'ostruzione avendo sciolto,l'inimicizia, nella carne sua,

15. la legge dei precetti nei decreti avendo reso inoperante,affinchè i due fondasse in se stesso,nell'unico Nuovo Uomo, facendo la pace (eirènè),

16. e riconciliasse ambedue nell'unico corpo con Diomediante la Croce,avendo ucciso l'inimicizia in se stesso.

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COMMENTO - CORSO DELLE DOMENICHE

La "pace" nel Sangue della Croce va letta dunque nella visuale della purificazione, della protezione, della vitalizzazione, della funzione pro-piziatrice, della riconciliazione, del porre in comunione sia con Dio, sia tra gli uomini, come si vide sopra. In questo senso Cristo Signore "no-stro" è "la Pace nostra", ed anche questo si vide sopra. L'opera con cui si pone ormai solo Lui come "la Pace", è mostrata da quanto segue.

La situazione degli uomini alla Venuta del Figlio di Dio era tragica, essendo quelli divisi in due frazioni, hoi ampliatemi, alienati, separati, ostili, viventi Yéchthra, l'inimicizia mortale. Si pensi alla lotta delle nazioni: Egiziani, Cananei, Filistei, Assiri, Babilonesi, Persiani, Siro-ellenisti, Romani ed altri contro il popolo di Dio, sempre tentato di re-stituire la medesima inimicizia. Il segno di questo era la parete di sepa-razione che nel tempio di Gerusalemme divideva, sotto pena di morte per i violatori, 1'"atrio dei pagani" dall'interno del santuario, misura ri-conosciuta perfino dai pesanti dominatori che erano i Romani. Tale muro è stato ormai "sciolto", lyó (al participio aoristo puntuale), ossia distrutto sul piano che conta, quello spirituale. I commentatori in genere qui pensano al "velo del tempio" squarciato alla morte del Signore (cf. Mt 27,51, e par.), per cui la divina Presenza ormai può estendersi anche fuori del santuario. Tra Israele e le nazioni pagane in Cristo deve regnare "la pace". Le due "parti", tà amphótera, diventano "unica realtà", neutro hén. Paolo torna su questo motivo molte volte, come già in Gai 5,6; 6,15; Col 1,21 con il tipico "una volta... adesso"; e vi unisce l'effetto della Croce {Gai 3,28; Col 2,14).

Egli però riconduce tutto all'inizio della vita di fede, che è il battesi-mo, in testi come quelli che seguono, nella loro successione cronologica:

Tutti infatti siete figli di Diomediante la fede in Cristo Gesù:quanti infatti in Cristo foste battezzati,di Cristo vi rivestiste.Non esiste Ebreo né Greco,non esiste schiavo né libero,non esiste maschio né femmina:tutti infatti voi "unico (uomo)" siete in Cristo Gesù.Se poi voi di Cristo (siete),allora seme d'Abramo siete,secondo la Promessa eredi (siete) {Gai 3,26-29);

Parla infatti la Scrittura:"Ognuno credente in Lui, non sarà confuso" {Is 28,16). Non esiste perciò distinzione di Ebreo e di Greco, infatti il Medesimo è il Signore di tutti,

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DOMENICA 7" DI LUCA

ricco in tutti quelli che Lo invocano:"Ognuno perciò che invocherà il Nome del Signore,sarà salvato" (Gioel 3,5) (Rom 10,11-13);

Non mentitevi reciprocamente,essendovi spogliati del vecchio uomo con le sue operazioni,ed essendovi rivestiti di quello nuovo, quello rinnovatoper la cognizione secondo l'icona del Creatore di lui (l'uomo),dove non esiste Greco né Ebreo,circoncisione né prepuzio,barbaro, Scita,schiavo, libero,ma (ormai esiste) il tutto,ed in tutti Cristo (Col 3,9-11).

H malefico muro divisorio e discriminatorio è abbattuto in ogni dire-zione: religiosa (Ebreo, Greco; circoncisione, prepuzio), sociale (schia-vo, libero), di sessi (maschio, femmina), culturale (barbaro, Scita). Esi-ste ormai la realtà nuova: l'eredità d'Abramo che è la Promessa, lo Spi-rito Santo (Gai 3,13-14); l'"unico uomo", quello nuovo, rinnovato dal battesimo; l'unico culto nell'invocazione salvifica del Nome che acco-glie tutti; l'unico battesimo senza più segni esterni; l'unico "popolo di popoli". Ecco il quadro: "l'accoglienza reciproca nella carità, lo zelo di conservare l'unità dello Spirito nel vincolo della pace: l'unico corpo e l'Unico Spirito, come chiamati nell'unica speranza della vocazione, l'Unico Signore, l'unica fede, l'unico battesimo, l'Unico Dio e Padre di tutti, il quale sta sopra tutto e attraverso tutti ed in tutti" (cf. Efes 4,3-6).

Al fine di ottenere questo, il Signore distrusse Yéchthra, l'inimici-zia, "nella carne sua", e questo è il denso nucleo dell'Incarnazione indi-cibile. Poiché il Figlio di Dio, "nato dal seme di David secondo la car-ne" (cf. Rom 1,3-4), secondo la medesima carne si assunse "il peccato del mondo" quale autentico Servo sofferente per distruggerlo. E quindi non rifiutò, stante la "debolezza della carne" che rendeva la Legge im-potente, di accettare dal Padre suo di venire "nella somiglianzà della carne di peccato" (Rom 8,3), in condizione di Adamo schiavo della morte. Egli che non conobbe affatto il peccato accettò di essere "fatto peccato" dal Padre a favore nostro (2 Cor 5,21), di "farsi maledizione (katàra) in favore nostro" per acquisirci lo Spirito Santo, che è la Bene-dizioine e la Promessa d'Abramo, e questo con la Croce (Gai 3,13-14).

Così Efes 2,14 è carico di senso.Il v. 15 è esplicitante. Cristo Signore con il suo Sangue, avendo por-

tato la Pace sua, ha anche esautorato le minute osservanze della Legge, non in quanto tale che è divina ed è santa, ma in quanto "credute e de-

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COMMENTO - CORSO DELLE DOMENICHE

cretate" dalle tradizioni particolari come capaci di acquistare i meriti della salvezza. La fede salva, le opere sono doverose, ma debbono at-tivare la fede, come si è già visto tante volte (cf. Gai 5,6). Solo nell'u-nificazione dell'unica fede (vedi qui sopra), il Signore in se stesso, l'Adamo Ultimo e Nuovo (cf. Rom 5,12-21, dove è articolata questa teologia), dunque l'Adam-Uomo nuovo, "unico", ossia nucleo intorno a cui si raduna ormai l'intera specie dell'umanità redenta, poteva "fon-dare (kti'zó, ancora participio aoristo) i due", gli alienati, i divisi ed ostili, Israele e le nazioni, ma anche le altre contrapposizioni sopra de-scritte. Fondare vuoi dire dare nuova esistenza, redenta e santificata, riconciliata e pacificata, della Pace "che fa Lui", ossia che perenne-mente "fa" per noi.

Il v. 16 verte principalmente sul sòma, il corpo. È la principale dot-trina ecclesiologica di Paolo, fondata su una salda e determinata cristo-logia. Il rapporto qui è di Testa-Kephalè che cerca e trova il suo soma-corpo, così che la Testa sia la Vita divina che discende nel corpo (cf. Efes 1,10, il "ri-capitolare, ana-kephalaióó, in Cristo").

La creazione di questo corpo per la sua Testa avviene dalla Croce. Paolo ne aveva già trattato in Col 1,19. La dottrina di questo corpo in-vece era stata da lui trattata in specie nella 1 Corinzi:

La Coppa della benedizione che benediciamo,non è comunione del Sangue di Cristo?Il Pane che spezziamo,non è comunione del Corpo di Cristo?Poiché unico pane, unico corpo, i molti siamo.Infatti tutti dell'unico Pane partecipiamo (1 Cor 11,16-17),

dove la lettera di "unico pane... siamo" deve essere strettamente mante-nuta, da spiegare così: Noi benché molti, tuttavia siamo l'unico pane, l'unico corpo;

Come infatti il corpo unico è,e membra molte possiede,ma tutte le membra del corpo,pur essendo molte, sono l'unico corpo,così anche Cristo:infatti nell'Unico Spirito noi tuttinell'unico corpo fummo battezzati...e tutti dell'Unico Spirito fummo dissetati (1 Cor 12,12-13),

dove si adombra l'integrità dell'iniziazione battesimale dovuta allo Spirito Santo, il Formatore dell'unico corpo, Cristo Testa e la Chiesa (Col 1,19), Corpo nuziale, l'unica Icona secondo il Disegno originario.

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DOMENICA TDI LUCA

La katallagè (da katallàssó) è la riconciliazione. Essa suppone che prima esista un'inimicizia contro Dio, dovuta alla lontananza da Lui (cf.Efes 2,1-3.11-13), alla "dispersione", come quella tipologica della Torre di Babele (cf. Gen 11,1-9). E Cristo secondo la tradizione gio-vannea doveva morire proprio per raccogliere i dispersi figli di Dio (cf. Gv 11,52). I Padri lo avevano ben compreso, come quando Origene plasticamente spiega: Ivi sta il peccato, dove sta la moltitudine, la disu-nione, l'opposizione. La Croce è l'istanza finale dell'unità dei redenti, della riconciliazione con Dio e tra essi che ormai formano l'unico "cor-po" santificato dallo Spirito Santo. Sulla Croce, con l'Offerta unica e indicibile del Figlio al Padre, tutti furono offerti (cf. Ebr 10,10-14), ve-ro corpo di sacrificio spirituale perenne (cf. Ebr 10,5-14; Rom 12,1; FU 3,3; Giud 20; 1 Pt 2,1-10). Aderendo a Cristo, ogni inimicizia cessa.

Il v. 17 riprende la prospettiva profetica, da Isaia, che preannuncia la Venuta del Figlio di Dio per "evangelizzare la pace" (Is 52,7, cf. sopra; testo fondamentale), ma non solo ad Israele, bensì anche "a voi", gli Efesini, i vecchi pagani immeritevoli, poiché il Signore parla queste realtà:

10 che creai la lode delle labbra sue (d'Israele):"Pace, pace a chi è lontano (pagani),ed a chi è vicino (Israele) !— parlò il Signore!Ed Io lo guarirò! (Is 57,19).

La pace divina dunque è guarigione sia per Israele, sia per i "lontani", non rigettati mai.

"Io lo guarirò", è detto di Israele, ma anche da Israele al genere umano nuovo. Così questo ormai è disposto da Cristo Signore all'ulti-ma operazione della salvezza trasformante. Il v. 18 è un formidabile te-sto trinitario:

Poiché mediante Lui (Cristo)possediamo l'accesso (prosagógè) ambedue (Israele e i pagani)nell'Unico Spiritoal Padre.

11 Padre è il Termine eterno, come è il Principio eterno, ed è il Centro eterno: tutto da Lui, tutto in Lui, tutto verso Lui. E tutto "medianteil Figlio nello Spirito Santo".

Ora, Israele già possedeva mediante i sacerdoti laprosagógè terrena, l'accesso alla divina Presenza nel santuario del deserto, poi nel tempio in Sion. I pagani restavano del tutto "lontano", senza speranza.

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COMMENTO - CORSO DELLE DOMENICHE

La Croce di Cristo ed il Sangue prezioso hanno aperto sia per Israele, sia per le nazioni, questa entrata, prosagógè, definitiva a Dio, dove alla lettera occorre intendere: "prós, verso, e ago, condurre". È il "grande ingresso" guidato da Cristo Sommo Sacerdote, come spiegherà a lungo l'Epistola agli Ebrei, verso l'Aula celeste. Ingresso triplice: liturgico, di adoratori; giudiziario, di chi si attende l'assoluzione dal Giudice Buono; regale, per rendere omaggio al Sovrano divino in etemo. Ap 7,1-17 lo descrive sotto la forma fastosa e festale dei Tabernacoli etemi, festa guidata dall'Agnello che così conduce le 12 tribù, il popolo di popoli verso il Padre.

Lo Spirito Santo è Colui "nel quale" solo avviene tutto questo.Paolo adesso comincia con una solenne assicurazione: "E dunque,

ara oùnV Per tutto questo, gli Efesini non sono più "ospiti e pellegrini" errabondi nel mondo e senza meta. Al contrario, essi sono ormai sym-politai, concittadini dei Santi, e familiari di Dio (v. 19). È un altro gran-de tema che tratterà anche l'Epistola agli Ebrei (cf. Ebr 12,22-26). I "Santi" sono i redenti santificati divinizzati, dell'A.T. e del N.T. I nuovi fedeli appartengono alla medesima Città, con i medesimi diritti e la medesima partecipazione alla Festa etema che vi si celebra nella gioia nuziale. Essi hanno libera confidenza con il Padre, la vicinanza di oikéioi, familiari, ossia figli e devoti servitori. La Famiglia di Dio è quell'"unica realtà, hén" che Cristo ha creato.

La figura che segue, al v. 20, viene dall'edilizia. L'Edificio divino, il Tempio di Dio e dello Spirito Santo (cf. 1 Cor 3,16; 6,19), è mirabile per armonia: fondamenta irremovibili, eteme, Apostoli e Profeti (que-sti, del N.T., chi spiega le Scritture durante la celebrazione del Signo-re). L'edificio come tale, sono i fedeli. Ma coronamento unico, e gloria universale dell'Edificio, Pietra ultima-prima, la "chiave di volta" che regge tutto, è Cristo Gesù. Solo "in Lui" la costruzione cresce articolata mirabilmente (synarmologéomai) come Tempio santo nel Signore-Ri-sorto, dove si offrono nello Spirito Santo i sacrifici spirituali perenni al Padre mediante Cristo Sommo Sacerdote. "In Lui" tutti sono "con-edi-ficati" come struttura compatta, unitaria, la quale ormai è l'Abitazione di Dio nello Spirito Santo con gli uomini (v. 21).

La Promessa antica, secondo cui Dio avrebbe posto la sua abitazio-ne perenne in mezzo al suo popolo, è realizzata. Vedi qui testi come Lev 26,11-12; 1 Pt 2,5; Ap 21,22, dove Dio stesso è "il Tempio" per il suo popolo, la Casa divina fedele.

6. EVANGELO

a) Alleluia: Sai 91,1.2, "Azione di grazie c Vedi l'Alleluia della Domenica 6a e 16a

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DOMENICA 7' DI LUCA

b) Le 8,41-56Luca narra di seguito 4 miracoli del Signore, "segni" potenti della

sua missione messianica tra gli uomini, e conseguenza della sua consa-crazione battesimale da parte del Padre e ad opera dello Spirito Santo. Così dopo la tempesta sedata (Le 8,22-25), la liberazione dell'indemo-niato di Gerasa (8,26-39), guarisce la donna emorroissa e resuscita la figlia di Giairo (8,40-56), quindi invia in missione i discepoli (9,1-6). Ora, questa missione non è altro che prosecuzione di quella del Signo-re: annunciare l'Evangelo, operare le opere potenti del Regno; è un pri-mo saggio, poiché la missione degli Apostoli può avvenire finalmente solo dopo il loro battesimo con il Fuoco di Pentecoste.

Gesù dopo il fatto dell'indemoniato di Gerasa aveva traversato il la-go verso la sponda occidentale. È accolto dalla folla festante, nella gioia di averlo ritrovato, poiché l'aspettativa di tutti ha come unico oggetto quell'Uomo soave e forte, sapiente e misericordioso. La folla sa bene che Egli non rifiuta il soccorso solo se è invitato (v. 40). Si stacca dalla folla uno, di nome Giairo, in ebraico Jà 'ir(-Jàh), "il Signore illumina", uno stupendo nome teoforico, circa come proclama il Salmista, quando acclama: "II Signore è Luce mia e Salvezza mia!" (Sai 26,1).

Egli è il capo della sinagoga locale, a Cafarnao. Quest'ufficio, quando al ritorno dall'esilio si riorganizzarono le assise civili e religiose dei reduci, sotto la guida assennata di grandi fedeli come Esra e Nehemia, era affidato in genere a laici preparati. Le sinagoghe, in ebraico il ter-mine era bet ha-midras, "casa della ricerca", dello studio, avevano di-versi compiti. Anzitutto il dews, la "ricerca", o studio della Tóràh, la Legge, ed il resto delle Sante Scritture dell'A.T., per i volenterosi; quindi la formazione dei giovani a questo lavoro, considerato dai rabbini successivi come la prima di tutte le opere della Legge; il culto sabatico era così assicurato dal personale pronto, e dunque le letture della Tòràh e dei Profeti, con il canto dei Salmi e di altre preghiere; la sinagoga poteva anche ospitare i pellegrini sia in visita, sia di passaggio verso Gerusalemme. A tutto questo sovrintendeva Y archisynagògós, ebraico hazzàn, che era molto rispettato per la carica prestigiosa che ricopriva, in specie nei piccoli centri.

Anche Giairo era tra i prosdokóntes, quelli che attendevano Gesù. Non a caso Giovanni il Battista per convincere i suoi li invia da Gesù con la precisa domanda: "Tu sei 'il Veniente', o un altro attendiamo (prosdokòmenfC (Le 7,19-20). 'Il Veniente', 'Colui-che-viene', greco ho Erchómenos, ebraico Ha-Bà\è l'Inviato dal Signore, come cantava da secoli il Sal 117,26a: "È benedetto dal Nome del Signore Colui-che-viene!", e come ancora tutte le Chiese della Tradizione cantano con il Trisàgion. Perciò Giairo sa che Colui-che-viene è venuto. Gli si getta ai piedi, come si usa con un sovrano o con una persona venerata, e lo "in-

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COMMENTO - CORSO DELLE DOMENICHE

voca" (parakaleó) acche entri in casa sua (v. 41). È implorare così la Grazia della Venuta divina, di ottenere la Presenza divina mediata da Gesù e ormai sentita come una possibile "familiarità". La motivazione è straziante: Giairo ha un'unica (monogenés) figlia, di dodici anni e perciò ancora bambina, "ed ella moriva", stava morendo. Si deve sem-pre immaginare la sofferenza mortale di quei padri e di quelle madri che hanno implorato Gesù come la Salvezza che viene, e mai per loro, bensì sempre per i loro figli. Anche il figlio della vedova di Nairn era unico, e la madre come vedova e sola, era orbata dunque di tutta lavita che le restava (cf. Le 7,11-17; vedi Domenica 3a^ ^ca'; così la figlia della Siro-fenicia (Mt 15,21-28; e Domenica 17a di Matteo).

Qui Luca è costretto da Gesù a spezzare la narrazione, con l'intru-sione inaspettata di un episodio diverso, l'incontro con una malata gra-ve, la donna emorroissa. Costretto, in quanto nella narrazione sinottica unanime sembra qui come se Gesù volesse perdere qualche tempo, co-me avvenne per Lazzaro "malato" (cf. Gv 11,1-11). Ma allora, come per Lazzaro, Gesù vuole che la bambina che "stava morendo", muoia davvero, per esibire ai genitori e alle folle, come a Marta e Maria e a quelle altre folle, un miracolo "più grande" di una guarigione, una re-surrezione? Non sembra. Tra la notizia di Lazzaro malato e la sua morte, corsero pochi momenti, così che quando Gesù arriva, lo trova nel terrificante fetore della corruzione di morte, avvenuta 4 giorni prima (Gv 11,39). Così Giairo si reca da Gesù sulla riva del lago, mentre ap-proda, e così Lo interpella. Gesù si incammina, forse per qualche chilo-metro, e la bambina moribonda intanto sta spirando. E allora, non solo Gesù non si esibisce in imprese mirabolanti davanti agli occhi dei pre-senti, degli uomini di ogni tempo, ma, come si è avuto occasione di di-re, davanti alla morte addirittura trema e piange (vedi ancora Evangelo della Domenica T Luc<*>- ^S1* ama Ta ^^ Polcne e la Vita. H motivoè che Gesù si cura di tutti, ed a tutti dona se stesso.

L'incontro dei vv. 42b-48, è con una povera donna anonima. La Chiesa antica ne aveva molta venerazione, poiché sembra che ancora al tempo di Eusebio di Cesarea (prima metà del sec. 4°) si conservasse a Bania una statua di Gesù fatta eseguire da lei guarita. Perciò Gesù pro-cede, circondato e pressato dalla folla (v. 42b), tra la quale si era inseri-ta la donna senza nome. Il v. 43 descrive sobriamente il male da cui era afflitta senza rimedio: "en rhysei hàimatos", viveva con perdite di san-gue che le rovinavano l'esistenza; non sono dati altri particolari di identificazione patologica, e dunque è inutile ipotizzare, anche a partire dal fatto che era donna. Invece dobbiamo pensare alla sua realtà attua-le: da dodici anni era afflitta dal male, aveva speso "tutta la sua vita, bios", ossia ogni sua sostanza per parcelle mediche, ma senza alcuna vera "cura" (therapéuó), tanto meno dunque guarigione (v. 43). Il qua-

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dro clinico sobrio, e con una punta di umorismo, per mostrare che tal-volta i medici sono inefficaci, e talvolta sono "senza forza, ouk ischyò", impotenti davanti al male, è già grave. Però la donna è ebrea, ed il suo male è tra quelli che una casistica minuziosa condannano come causa di esclusione dall'assemblea liturgica (Lev 15,25-33). Per un Ebreo, stare al margine del culto significa insieme la morte civile e religiosa, e il dolore più irrimediabile. Il Salmista, un levita lontano dal santuario per ben altre cause, si lamenta con il suo Signore: "Come cerva anela ai rivi d'acqua... L'anima mia ha sete del Dio Vivente — quando potrò comparire alla presenza di Dio?" (Sai 41,2a.3).

Si può leggere dentro l'anima esulcerata della donna malata, dal suo atteggiamento verso Gesù, mentre assume forse la fede e la fiducia del medesimo Salmista: "Spera in Dio, poiché ancora potrò lodarlo, Egli salvezza del mio volto, e Dio mio", della mia alleanza (Sai41,12cd).

Dunque si fa ardita, benché vergognosa, e da dietro tocca l'orlo del-la veste del Signore. L'annotazione dell'Evangelista è istantanea: "e immediatamente ristette il flusso del sangue di lei" (v. 44). Quando so-pra si è parlato della funzione plurima del "sangue", si intendeva sem-pre "della vittima sacrificale offerta" sull'altare, mentre era versato in-torno all'altare, e con esso si ungevano i corni dell'altare stesso. Ma esisteva la proibizione severa di fare altro uso del sangue, sia in forme idololatriche di culti vari (come era ampiamente costume nelle religioni antiche), sia come cibo (Lev 17). Del sangue esisteva un orrore ben giustificato, in specie di quello del fratello che qualcuno versava imi-tando Caino (Gen 9,1-6). Perciò il sangue umano non doveva essere af-fatto materia di qualsiasi uso, pena l'esclusione dalla comunità o la morte in caso d'omicidio. Quando la donna che ha versamenti di san-gue è guarita, rientra nella pienezza della vita, nella purità di essa, nelle norme di partecipazione al culto del suo popolo (Lev 25,28-30). H pa-rallelo di Me 5, che è molto più lungo e completo, annota che la donna "conobbe con il corpo che era guarita dalla piaga" (Me 5,29). Il prodi-gio, insomma, è istantaneo (v. 44).

La reazione di Gesù è complessa, se vista in Me 5,30-32: Gesù sente che quando la donna tocca l'orlo della sua veste, una dynamis, ossia una forza potente, esce da lui, e mentre interroga i discepoli si guarda intorno "per vedere quella che questo aveva fatto" (Me 5,32), ossia aveva compreso che si trattava non di uno nella folla, ma di una donna. In Le 8,45, che è rapido, Gesù domanda solo: "Chi è il toccante Me?". Tutti negano tale azione, ed il solito Pietro cerca di spiegare: le folle lo stringono, e lui cerca uno solo? Ma Gesù lo sa bene, poiché quella forza guaritrice è uscita da Lui, e perciò qualcuno deve averla sollecitata toccandolo (v. 46). La donna guarita — qui si comprende da Marco: Gesù cercava tra le donne "quella" — vede che non si può nascondere.

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Prima si era posta dietro Gesù, adesso tremando bensì, si prostra a Lui e gli spiega per quale causa abbia sporto la mano verso la sua veste, mentre tutto il popolo ascolta e così apprende della guarigione imme-diata (v. 47).

Gesù attendeva proprio questo, e dunque le dice: Figlia, la tua fede ti ha salvata, procedi in pace. Tre parole importanti (v. 48) che termina-no l'episodio. La donna anzitutto è "figlia" amata, il Padre mostra la sua carità inviandole insieme la fede ed il Figlio suo, e con ciò la sal-vezza nell'apertura della fede. E finalmente, la donna ha il dono della pace, eirènè, quella che viene dall'Alto e che ricrea l'esistenza.

Ancora una volta, come ci si deve aspettare, il miracolo segue la fe-de preesistente, non produce la fede se non in chi vi assiste. Il benefi-ciato deve porre il Signore in grado di intervenire, e questo può avveni-re solo con la pistis, la fede che salva. Il dono principale è la fede divi-na, inizio certo della salvezza. Il "miracolo" che Gesù opera è in vista di strappare al Male nelle sue pompai, le sue intromissioni contro gli uomini innocenti, l'impero tirannico che immobilizza l'uomo in tante forme. Qui sta la vera malattia. Qui opera il Male.

Riprende adesso l'episodio della figlia di Giairo. Come si è potuto vedere, sembra che la donna emorroissa ora guarita abbia fatto perdere tempo prezioso a Gesù, che se fosse corso dalla bambina morente, for-se l'avrebbe fatta sopravvivere. Infatti viene qualcuno da Giairo, che di certo fremendo sta ancora con Gesù e forse lo sollecita con lo sguardo; il messo è impietoso, come lo furono allora i cortigiani con David, quando interroga: "Morì il bambino?" avuto dalla relazione con Betsa-bea, e quelli che rispondono: "Morì" (2 Re (= 2 Sani) 12,19). L'uomo dunque dice: "Morì la figlia tua", e le crude parole sono quasi inchio-date dalla sentenza successiva: "Non dare fastidio al Maestro" (v. 49). Non serve più. Il Maestro può curare una donna malata, non può resu-scitare una bambina morta.

Il Maestro è meraviglioso. Non si offende, non si turba, non si in-quieta per l'offesa di essere considerato ormai inutile. Invece si rivolge al padre disperato, e mentre gli chiede due fatti, gliene assicura un altro: la bambina sarà salvata. Però il padre deve non avere terrore di essere abbandonato da Gesù, e deve "solo credere" (v. 50). Rimosso il terrore, ecco la fiducia; rimosso ogni altro sentimento, ecco "solo la fede". In un certo senso, la bambina è salvata dalla fede del padre, il quale così si trova ad averla generata due volte, quando fu concepita, e adesso.

Finalmente Gesù entra nella casa in lutto, e prende con sé solo Pie-tro e Giovanni e Giacomo suo fratello.Sono i primi chiamati dal Si-gnore (cf. Le 5,1-11; e Domenica la di Luca), in certo modo il suo gruppo dirigente; li prenderà con sé ancora alla Trasfigurazione, nel

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medesimo ordine (Le 9,28), e finalmente al Getsemani (qui, vedi Me 14,33). Sono i futuri principali testimoni della Vita del Signore, e la loro testimonianza sarà depositata nella predicazione di Pietro a Roma (Evangelo di Marco) e Giovanni ad Efeso (Evangelo di Giovanni). Ma così il Signore mostra che essi da soli non sono sufficienti, la testimo-nianza viene dall'intero Collegio apostolico, ossia anche da un apostolo come Matteo, da un discepolo di Apostoli (di Paolo) come Luca; da un altro Apostolo chiamato in modo folgorante, Paolo, e dallo stesso Pie-tro (Epistole) e da un discepolo non dei Dodici, Giacomo fratello del Signore, e dall'altro fratello, Giuda. Insomma, dall'intera Chiesa degli Apostoli (cf. di nuovo 1 Cor 15,3-8).

Gesù fa entrare con i tre discepoli solo i genitori della bambina (v. 51). Il gesto che sta per compiere non è da mago e ciarlatano da fiera, che con l'imbonitore chiama la folla. È lo scontro con la Morte, l'ulti-ma Nemica, manovrata dal Maligno, l'ultimo Nemico. Davanti alla Morte, sembra che lo stesso Dio Vivente ed Onnipotente se non paura, almeno mostri pensierosa considerazione, una specie di perplessità, vi-sibile in tanti testi. Nei quali Egli riafferma la vita, ma per ciò stesso in-vita gli uomini a riflettere sulla morte, sulla pochezza della vita se vista come una serie di fatti quotidiani privi di scopo, sull'immensa dignità deH"'anima", dell'esistenza creata, dell'icona di Dio.

Gesù entra allora verso la morte, dove "tutti piangevano" e gemeva-no per la fanciulla morta (v. 52a). In Oriente, ma anche in molti paesi mediterranei, esisteva l'usanza stupenda di stringersi intorno a chi aveva un lutto, per portare consolazione, intanto partecipando al dolore della famiglia; si sa che la commozione afferra tutto il gruppo, ed il pianto è facile. Ma la religiosità grande degli antichi portava anche a pregare, e poi a cantare mestamente le lodi del defunto ed a "commise-rare" il dolore dei superstiti, in specie quando il defunto era primogeni-to, o addirittura unico figlio. Come qui. Gesù trova questa scena, dove le amiche della famiglia avevano un ruolo speciale. Si sa anche che le famiglie facoltose della grecita e della romanità pagavano alcune donne specializzate non tanto "a piangere", quanto a "compiangere", ossia alla "lamentazione" cantata (vedi i termini thrènos, lamento funebre; epikèdion, canto sul caduto, e così via). Che poteva essere seguita da giochi sempre a spese dei familiari. Una "liturgia" dunque.

Gesù sa che questo, qui, non serve affatto, e parla con molta benevo-lenza: "Non piangete — non morì, bensì dorme" (v. 52b). È un gioco di parole importanti: la morte è un "dormire" (koimdó), i morti sono "dor-mienti" (kekoimèménoi), per cui non possono più svegliarsi (egéiró). Qui però Gesù usa il verbo kathéudó, dormire, poiché sa che questa morte reale (apothnéskomai, all'aoristo) sarà un vero risveglio. Invece i presenti lo deridono, poiché sono quasi "cartesiani", hanno constatato

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scientificamente, perciò possono "dimostrare" che la fanciulla morì del tutto, sul serio, indubitatamente, per sempre (v. 53). Ma questo, non rende forse il miracolo di Gesù "dimostrato"?

Egli non si cura della derisione. Anche Paolo fu deriso sull'Areopa-go quando parlò di Resurrezione (At 17,32). E non ne ride certa cultura moderna, tutta ragione e scienza e solidi principi evidenti, visibili e di-mostrabili? Gesù prende la mano della fanciulla, e con voce chiara iphónàó) le parla: "Bambina, svegliati!" (v. 54). Luca qui traduce l'ori-ginale aramaico di Me 5,42: "Talithà, qùmfi)!"; tàlithà' èil femminile di tàljà ', che indica sia il ragazzo piccolo, sia il servitore fedele. Luca pone pdis, precisamente in questo significato, di una fanciulla. L'impe-rativo di égeirò è il termine tecnico principale, con anistànó, per indi-care lo "svegliarsi" dal "sonno della morte". In un'occasione simile, l'apostolo Pietro ripete le medesime parole del Signore, a Lidda, sulla giovane fedele morta improvvisamente nel rimpianto della Comunità: "Tabita (=gazzella, gentile nome orientale), rimettiti in piedi (anàsthè-ti)\", in aramaico, Tùbttà, qùm(i)!, perfetta assonanza con l'indirizzo alla bambina di Cafarnao (At 9,40).

La Parola onnipotente del Signore, come sempre, va spiegata. Essa è rivolta alla materia morta. Come al principio, quando il Signore plasmò dall'argilla della terra "un uomo", un'icona ancora senza vita, e su quella forma vuota soffia in direzione del volto "il Soffio della Vita": "e diventò l'uomo anima vivente, psyche zoscT (Gen 2,7). La Parola di Cristo porta lo Spirito della Vita, così che la bambina morta riceve di nuovo (epistréphó) lo spirito vitale "suo", ed immediatamente "risorse" (onèste). I due verbi, egéirò e anistànó, si congiungono nell'unico ef-fetto: la resurrezione dalla morte.

Qui la Scrittura Santa ci insegna l'incalcolabile grandezza dell'amo-re di Gesù per i suoi fratelli, in specie i più piccoli. Con un tratto tene-ro, di Fratello che ama i fratelli, di Dio che ama le sue creature a sua immagine e somiglianzà, Gesù per primo fatto ordina "a quelli", anzi-tutto dunque ai genitori, di "dare da mangiare" alla bambina ormai vi-vissima (v. 55). Tra la malattia, forse lunga, con l'ingresso nella morte, la piccola resuscitata di certo è senza nutrimento. Il pensiero costante di Gesù Signore nostro è il bene dell'uomo nella sua integrità, spirito e corpo. Se la bambina mangia, starà bene anche il suo spirito, e se il suo spirito è "tornato" nel suo corpo, questo starà bene due volte: per la vi-ta, e per il cibo buono.

Si deve qui, di rigore, pensare ai fedeli cristiani. Essi prima del bat-tesimo erano morti. Hanno dovuto "con-morire" di nuovo con Cristo per "con-risorgere" finalmente con Lui, opera continua dello Spirito del Padre e del Figlio. Ma dopo la conresurrezione battesimale, lo Spirito Santo inabita nei loro cuori come Unzione divina, abilitante al séguito

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DOMENICA TDI LUCA

della vita nuova. E questo séguito comincia dalla santa Mensa, nel Ci-bo nuovo, nella Bevanda nuova. Anzi, la santa Mensa della Parola e di questi trasformanti Misteri scandirà da adesso in poi la loro esistenza. Ne saggerà la sanità con la sua frequenza. O la malattia nella sua inap-petenza, che viene dalla sordità alla divina Parola.

La reazione dei presenti non è narrata. Solo i genitori comprendono di trovarsi davanti al terribile Divino, e "uscirono fuori" di sé, alla let-tera (existèmi, la stessa radice di ékstasis). È la meraviglia che apre alle opere potenti del Signore, che investe il cuore laudante e rendente gra-zie (v. 56a).

Gesù ordina ad essi di non parlare affatto dell'accaduto (v. 5b). Verrà poi il tempo, quando l'Evangelo lo farà risuonare sotto il cielo in tutta la terra.

7. Megalinario Della Domenica.

8.Koinònikon Della Domenica.

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DOMENICA 25a DOPO PENTECOSTE oa di Luca

"Sul dottore della Legge interrogante Gesù"

1. AntifoneDella Domenica, o i Typikà e i Makarismói.

2. EisodikónDella Domenica.

3. Tropari

1) Apolytikion anastàsimon, del Tono occorrente.

2) Apolytikion del Santo titolare della chiesa.

3) Kontàkion: Prostasia tòn christianòn.

4. Apóstolos

a) Prokéimenon: Sai 75,12.2,"Cantico di Sion". Vedi Domenica T e 16a

b)Efes 4,1-8La lettura di Efesini prosegue. Secondo lo schema generale dell'epi-

stola, il cap. 1 canta (cf. l'"inno" di 1,3-14) ed espone il Disegno del Padre nella benedizione salvifica dello Spirito Santo conseguita dai fe-deli ad opera di Cristo Signore, che occupa il centro ed il primato in tutta quest'opera, riempiendo i cieli con la gloria della sua Umanità ri-sorto. Il cap. 2 passa a spiegare questa salvezza "per sola Grazia" divi-na, nella riconciliazione di Ebrei e pagani con Dio e tra essi. Il cap. 3 afferma che Paolo è l'apostolo del Mistero di Cristo tra i pagani, mini-stro umile di tale Mistero. Finalmente, il cap. 4 traccia il programma severo che i redenti debbono attuare secondo la loro vocazione super-na, nella vita nuova in Cristo; ciò si prolunga fino a 5,20. Poi da 5,21 a6.9 il programma è specificato nelle tre principali condizioni dell'esistenza cristiana: gli sposi, i figli ed i padri, gli schiavi ed i padroni. Da6.10 a 20 Paolo riassume tutto: prepararsi sempre al terribile combattimento "nello Spirito Santo". I saluti vengono a 6,21-24.

Con il cap. 4 si raggiunge dunque il centro "pratico", per così dire, della vita fedele. Esso raggiunge punte di grande intensità, poiché Pao-lo si rivolge solo per scritto, non di persona, ai suoi amati Efesini, una Comunità che fondò, anzi, su cui provocò la Pentecoste, la 5 a dagli Atti (cf. At 19,1-7). Egli è prigioniero a Cesarea, per la prima vol-

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DOMENICA 8a DILUCA

ta (a. 59-60?), in attesa del processo, che per quella volta portò alla sua assoluzione.

Dalle sue catene perciò l'apostolo Paolo invia la sua esortazione (verbo parakaléó), fondandosi sul titolo di "legato nel Signore", che è Cristo Risorto, dove il termine désmìos (da déò, legare, incatenare, ammanetta-re), indica non solo la prigionia materiale, ma anche l'impedimento alla missione, ed infine anche l'accettazione della sua condizione secondo quanto il Signore dispone. L'esortazione è simile a quella che dalla stessa condizione, alla stessa epoca, Paolo aveva rivolto ai Colossesi {Col 1,10): procedere in avanti sulle vie di Dio, in modo degno della vocazione a cui i fedeli furono chiamati (kaléó, all'aoristo passivo v. 1). Il che implica una serie di "munizioni da strada", come si dice in gergo milita-re. A sorpresa, Paolo non pone la forza o il coraggio, bensì l'umiltà (ta-peinophrosynè), poi la mansuetudine (prautès) e la magnanimità (ma-krothymia), poiché queste furono le visibili ed efficaci doti di Cristo sotto la persecuzione degli uomini. Non solo, ma sono le qualità con cui Egli cerca di attirare a sé gli "affaticati e stanchi", poiché Egli è "mite (praus) e umile (tapeinós) di cuore" (cf. Mt 11,28, nel "giubilo messianico" dei vv. 25-30, termini omessi dal parallelo Le 10,21-24).

Con questi sentimenti, l'esortazione è ad accogliersi reciprocamente nella carità (v. 2), il fatto più difficile nella vita comunitaria, come è evidente fino ad oggi. E questo avviene se si tende con zelo e tensione a "custodire l'unità dello Spirito", la comunione che opera lo Spirito Santo, accettando "il vincolo (syndesmos) della pace" (v. 3). È chiaro il riferimento: Paolo nei vincoli della prigionia materiale (désmios), fa comprendere che essere nei vincoli spirituali della pace operatrice di bene, è una condizione di essere "legati" per la causa del Signore.

Il testo che segue è enorme per il contenuto e per la portata. Esso segna anche come avvenga l'approccio delle Ipostasi divine della Triade beata con gli uomini fedeli. È la "via d&Y Oikonomia", che i Padri, che l'approfondirono sempre, formularono così: lo Spirito Santo viene per primo per rivelare Cristo, il quale in se stesso come Icona rivela il Padre, e nello Spirito Santo riporta al Padre (S. Basilio). Così nei vv. 4.5.6, con le conseguenze al v. 7, e il sigillo dell'Evento di Cristo al v. 8.

Ed anzitutto è considerata l'opera dello Spirito Santo, che crea "l'u-nico corpo" di Cristo nell'unità richiamata (henòtès) e goduta, essendo "l'Unico Spirito". Questa è la misura generale primaria: all'unico corpo dall'Unico Spirito i fedeli furono chiamati all'unica speranza (elpis) che sia donata e sia possibile agli uomini, che ha la base irremovibile nella klèsis, la vocazione divina. Chi è chiamato riceve lo Spirito Santo nel-l'iniziazione battesimale, ma chi accetta l'iniziazione battesimale ha il "segno" della vocazione divina operata dallo Spirito Santo (v. 4).

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Lo Spirito Santo concorpora con Cristo nell'unico "corpo" che è la Chiesa (cf. Col 1,19). Ma questo, perché esiste ed opera l'Unico Signo-re, Cristo Risorto, l'unico adorato, non come i kyrioi, i signori terreni che sono sempre tiranni violenti e superbi autodivinizzatori (lo aveva affermato in 1 Cor 8,5-6). Il Signore rivela che esiste l'unica fede, pi-stis, che è l'unica adesione a Lui per formare con lui "l'unico Spirito" (1 Cor 6,17, anche questo, testo battesimale), e l'unica adesione e con-corporazione è anche 1'"unico battesimo" (v. 5). Con l'espressione bàp-tisma sia il N.T., sia poi i Padri, vogliono sempre significare l'iniziazione ai Misteri nella sua completezza, che giunge attraverso l'abilitazione sacerdotale della confermazione a partecipare alla santa Mensa. Ma il "battesimo" è anche e soprattutto adesione nuziale del "corpo della Sposa" a Cristo Signore e Sposo.

La salita, cominciata dallo Spirito Santo, mediata da Cristo, giunge al suo unico Termine naturale. Al culmine, ed in attesa di tutti i suoi fi-gli santificati, introdotti dal Figlio con lo Spirito Santo, sussiste "l'Unico Dio", quello al quale il Figlio vuole riportare l'universalità degli uomini e l'intero universo redento. Egli è anche "l'Unico Padre", di Cristo e degli uomini, sia pure a due titoli radicalmente diversi. È il Padre di tutti, che ama tutti i figli suoi nel Figlio (cf. Rom 8, 28-30). Egli sussiste dall'eternità e poi dalla creazione "sopra tutti", sopra tutte le realtà create dalla sua Bontà divina, e vuole stare "mediante tutti", ed ancora "in tutti voi", i redenti, santificati e sulla via della divinizzazione per pura Grazia (v. 6; e 1 Cor 15,28).

Il Dio Unico adorato con un unico atto d'amore nelle Ipostasi del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, non è un Ente impersonale per una massa impersonale di uomini creati. Egli è il Dio Ipostatico nella realtà massima dell'espressione, e come tale è Colui che "fa" le ipo-stasi o persone create, le "personalizza" ad una ad una. Perciò il Padre nel suo mirabile Disegno per tutte le sue creature, dona a ciascuno la Grazia, che è lo Spirito Santo. Distribuisce la Grazia indivisibile e in-quantificabile. Che non è dunque una "cosa", come si vede nelle scene dei soccorsi prestati in un disastro naturale, dove i tempestivi soccorri-tori gettano dai loro carri viveri e vestiti e coperte ai primi che vengo-no e così di seguito. Al contrario. Ciascun fedele è individuato dal "tu" che il Padre rivolge a questo figlio suo. La Grazia è donata "se-condo la misura (métros) del Dono di Cristo" (v. 7). LaDóreà, il Dono divino, è anche da questa parte lo Spirito Santo (cf. At 2,38), distribuito ma non diviso, ed accettato secondo il grado dell'adesione a Cristo. La parabola dei talenti, che qui si può richiamare, parla di distribuzione "secondo la forza (dynamis) di ciascuno" (cf. Mt 25,15). Tale misura deve essere però incommensurabile, poiché dipende dall'infinita generosità di Cristo.

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Non si tratta semplicemente di Cristo nella sua vita terrena. Ma di Cristo Signore glorificato, visto secondo quanto cantava il Salmista (Sai 67,19, un'"Azione di grazie comunitaria"): "Ascese verso l'alto, e fece prigioniera (=rese inoffensiva) la prigionia, donò doni agli uomi-ni". Dunque nella sua glorificazione il Signore schiantò la potenza della Morte e dell'Avarizia diabolica, che privava gli uomini dei doni del Regno, e così potè distribuire largamente i Doni divini, i Beni messia-nici, lo Spirito Santo (v. 8).

Gli Efesini, e i fedeli nei secoli, hanno qui materia abbondante per comprendere quale sia "il procedere degnamente secondo la vocazione a cui furono vocati".

6. EVANGELO

a) Alleluia: Sai 94,1.2, "Esortazione profetica". Vedi l'Alleluia della Domenica 9a e 17a

b)Le 10,25-37Da Le 9,51, da dopo la Trasfigurazione (9,28-36), la quale a sua volta

sta tra il 1 ° ed il 2° annuncio della Passione e Resurrezione (Le 9,22, e 9,43b-45), il Signore comincia la sua "salita a Gerusalemme", dove si deve consumare il "suo esodo" (Le 9,31) al Padre attraverso la Croce.

Nel Battesimo dello Spirito Santo ha ricevuto la consacrazione mes-sianica per la sua missione, che svolge annunciando l'Evangelo e ope-rando le opere del Regno. Questo è stato insistito finora, e lo dovrà es-sere fino alla fine, poiché è materia di storia della salvezza, e dunque è contenuto pregnante e strettamente obbligatorio, doveroso, di predica-zione. Come si spiegherà per la divina Trasfigurazione (cf. il 6 Ago-sto), la missione di Gesù umanamente è fallita. Resta solo con Dodici discepoli. Israele, che sperava di trascinare nella missione, si è arrestato, dopo promettenti inizi. Sulla fede dei Dodici però, poiché ne ha bi-sogno per il futuro, può proseguire. Nella Trasfigurazione riceve dal Padre la sua "confermazione" (bebàiósis, dicono i Padri), che è la Nube della Gloria divina, lo Spirito Santo. Ma prima è il folgorare della Luce increata divina, che emana dalla profondità della sua Umanità che la contiene. La Nube Lo "adombra" e, come quella dell'esodo antico, Lo porta verso Gerusalemme.

La lunga "salita" (Le 9,51 - 19,28) ha molto materiale originale di Luca, non comune quindi con gli altri Evangelisti. In esso sta il presente episodio, per il quale si può rimandare a testi indiretti come Mt 22,35-40 e Me 12,28-34, però limitatamente all'interrogazione sul da farsi in vista della Vita eterna. Anche qui occorre rifarsi allo schema di Luca, nella Parte I.

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Gesù aveva "giubilato" di gioia dello Spirito ed aveva celebrato il Padre suo (il "giubilo messianico", 10,21-24), manifestando di essere l'unico Rivelatore del Padre. Adesso è visitato da un uomo ed interro-gato sul centro della vita fedele che conduce a Dio.

Un nomikós, da Nómos, la Legge, ossia un conoscitore, esperto e forse maestro, si alza per mettere alla prova la conoscenza che della Legge ha Gesù. L'interroga sull'azione prima ed ultima della vita del credente, consapevole che la sua sorte deve essere la Vita eterna, ben-ché questa vada "ereditata" (klèronoméó), ossia conseguita. L'uomo usa questo verbo che per sé indica il trovarsi un'eredità, che è sempre gratuita, e d'altra parte dice: "che cosa avendo io fatto, posso eredita-re?", e così sa che occorre anche attivarsi (v. 25).

Per Gesù, come per ogni buon Ebreo fino ad oggi, occorre sempre rifarsi alla storia della salvezza narrata nella "Legge", la Tóràh di Mo-sè, il Pentateuco. È probabile che troppi cristiani ignorano questa nor-ma, e sottovalutino queste Sante Scritture, a cui Cristo stesso, dopo la Resurrezione, costringe i suoi discepoli di allora e di sempre a fare co-stante ricorso, poiché parlano di Lui; cf. Le 24,25-27: "cominciando da Mosè e da tutti i Profeti" (v. 27a); Le 24,44: "si deve adempiere tut-to quello che fu scritto di Me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi". Anche Paolo sta su questa linea: l'A.T. è il Preevangelo che parla del Figlio di Dio (Rom 1,1-4). Perciò la risposta di Gesù è il pre-ciso rinvio: "Nella Legge (la Tóràh) che è stato scritto" da Dio? E ag-giunge: "Tu, come leggi?", dove anaginóskó ancora oggi nella Litur-gia è il verbo tecnico per indicare la "lettura" della Parola divina, let-tura celebrativa, che deve essere preceduta e seguita dalla "lettura" di studio e di preghiera. Lo studioso della Legge lo sa, anzi lo fa da una vita (v. 26). La sua risposta è sicura. Poiché di certo tale fede e conce-zione religiosa dovevano essere la convinzione della stragrande mag-gioranza d'Israele, se non la sua unanimità, al tempo di Gesù. Il centro della vita d'Israele infatti erano due comandamenti, il primo e princi-pale, ed il secondo anche principale, nel senso che l'uno supponeva l'altro, e nessuno dei due era valido in assoluto senza l'altro (vedi l'E-vangelo della Domenica 15a 1 Matted).

Il primo comandamento dunque viene dal celebre testo di Dt 6,4-5, la cui traduzione letterale dal testo greco dei LXX è:

Ascolta, Israele!Il Signore Dio nostro il Signore Unico è!E amerai il Signore Dio tuo con l'intero il cuore tuoe con l'intera anima tuae con l'intera la forza (dynamis) tua (vv. 4b-5),

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mentre Luca riporta così:

Amerai il Signore Dio tuo con l'intero cuore tuoe con l'intera anima tuae con l'intera forza (ischys) tuae con l'intera mente (dianoia) tua.

Il testo ebraico di Dt 6,4-9; 11,13-21; Num 15,37-41, forma la pre-ghiera dello Sema', "Ascolta!", che l'Ebreo fedele recita almeno due volte al giorno ancora oggi. È un testo che permea la sua esistenza pia, giorno dopo giorno. Il grande Rabbi Aqibah morì straziato dai pettini di ferro dei torturatori romani, che avevano soffocato la ribellione ebraica sotto Adriano (a. 132 d.C), mentre pronunciava l'ultima delle parole supreme dello Sema ': "II Signore Dio tuo è Signore Unico", e su questa rese lo spirito al suo Signore.

La professione di fede nel Dio Unico è centrale anche nella vita di Gesù, che a sua volta si trova interrogato Lui stesso sul "primo di tutti i comandamenti", e risponde con il precetto dello Sèma', e con l'altro sull'amore verso il prossimo (cf. Mt 22,34-40). Il Dio Unico a cui tutto riporta con lo Spirito Santo, è il Padre suo, e nel Padre Egli e lo Spirito sono la Monade triadica, la Triade monadica. Ma il Figlio nel suo infi-nito amore filiale, preserva in ogni modo la Monarchia del Padre.

L'A.T. insegna al mondo intero ad amare il Signore Unico, e anche come si ama il Signore Dio Unico. Sia la Tóràh, sia i Profeti, sia i libri sapienziali, riletti liturgicamente dai Salmi, insistono ad ogni passo che il Signore vuole certo essere amato, ma nell'unico modo che giovi al-l'uomo fedele. Dunque non un amore a parole, ma un amore molto fat-tivo: attuando la sua santa Volontà per il suo popolo, e tale attuazione è osservare con tutto il cuore e l'anima e le forze i precetti in cui quella Volontà si manifesta. È stato detto sopra che se si osservano le prescri-zioni bibliche a partire dalle Due Tavole della santa Legge, la I con 3 precetti che riguardano il Signore, la II con i 7 precetti che riguardano il prossimo, salta subito agli occhi che quasi invariabilmente il Signore mediante i suoi Profeti avverte che si deve osservare anzitutto, se non esclusivamente, la Tavola II, non la I, come pure sarebbe suo inaliena-bile, indiscutibile diritto. Il che significa che la via d'accesso alla Pre-senza del Signore, come fanno intendere i Salmi del genere letterario "Liturgie", ossia i Sai 14 e 23, "salire al Monte santo", "restare davanti al suo Volto", è avere osservato i comandamenti verso il prossimo.

Quanto fosse radicata questa convinzione e questa pratica dei pre-cetti verso il prossimo, che aprono l'accesso al Signore, aiuta a com-prenderlo un testo profetico del sec. 6° a.C;, che vide la luce nel mede-simo ambiente in cui fu redatto il Levitico, e dunque in specie i due te-

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COMMENTO - CORSO DELLE DOMENICHE

sti qui a lungo richiamati, Lev 19,18, sul precetto della carità verso il prossimo, e Lev 18,5, sul "faquesto e vivrai", che sarà visto tra poco. Il grande testo profetico è Ez 18,5-9, che vale sempre la pena riportare per una lettura comparativa:

E se un uomo sarà stato giusto,ed avrà operato diritto e giustizia,sulle alture (idololatriche) non avrà mangiatoe gli occhi suoi non avrà alzato agli idoli della casa d'Israele,e la sposa del prossimo suo non avrà violato,e alla donna nel suo tempo non si sarà accostato,ed un uomo non avrà contristato,il pegno al debitore avrà restituito,con violenza nulla avrà rapinato,il pane suo all'affamato avrà donato,e il nudo avrà ricoperto di vesti,ad usura non avrà prestato,e il di più non avrà preso,dall'iniquità avrà allontanato la mano sua,e giudizio equo avrà dato tra uomo ed uomo,nei precetti miei avrà camminato,e i giudizi miei avrà custodito per fare la verità:questi è giusto, di vita vivrà— parla il Signore Dio!

È una specie di "somma" di comportamento, che in fondo è la "mo-rale dell'alleanza" alla quale il Signore astringe tutti suoi fedeli. A que-sta i fedeli del Signore si debbono sempre rifare per "fare la verità", os-sia vivere nella fedeltà divina. Se la morale dell'alleanza divina sarà esattamente adempiuta con il cuore e con la mano, ogni fedele del Si-gnore sarà dichiarato "giusto", ossia misericordioso, e da questo rice-verà il dono supremo: "di vita vivrà", espressione semitica che signifi-ca "realmente vivrà", secondo la Parola del Signore che mai esce invano dalla sua bocca divina (cf. qui Is 55,10-11).

Non è facile per un cristiano moderno affondare la sua sensibilità, derivata in genere dal solo N.T., in tanta ricchezza, la quale non è solo preparatoria, programmatica, ma è anche una vita in atto. Certo, non da tutti i fedeli d'Israele, se Ezechiele stesso ai vv. 10-13 dirà parole di fuoco sul contrario che avveniva normalmente nel quotidiano.

Si è anche detto che il N.T. segue esattamente questa linea, e si può vedere questo con evidenza sbalorditiva in Mt 25,31-46, quando nel Giudizio finale tutti gli uomini saranno chiamati a rispondere sulle opere di carità esercitate, o no, verso il prossimo (vedi Domenica del-VApókreos).

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DOMENICA 8» DI LUCA

La questione che sta dietro è chiara: il Signore Dio Unico nell'A.T., e Cristo Signore nel N.T., rivendicano come operata ad essi la carità verso il prossimo, o la non-carità verso il prossimo.

E qui noi cristiani dobbiamo essere più giusti. Il legisperito conosce bene la santa Legge, la Tòrah di Mosè. Da bambino l'ha ascoltata in si-nagoga in braccio alla madre. A 12 anni, con una tipica cerimonia è stato ammesso al minjan, il numero legale di 10 per aversi un'assemblea valida. Poi sarà stato notato da un anziano legisperito per la sua vivacità intellettuale, e chiamato a formarsi al déros, la "ricerca", lo studio assiduo e minuzioso della lettera della Tóràh, dei suoi innumerevoli significati. Davanti a Gesù, se omettiamo per un istante queWek-peiràzón autóri, "tentando Lui", sta un competente, un buon fedele, che conosce la Parola divina. Dunque in perfetta naturalezza termina la sua risposta a Gesù con "e amerai il prossimo tuo come te stesso" (v. 27). E questa frase breve è alla lettera Lev 19,18. Altro non sarebbe possibile aggiungere di più perfetto. San Paolo lo sa bene, e rilancia la prescri-zione del Signore, quando afferma ai suoi fedeli: "L'amore (carità, agape) non nuoce al prossimo, l'adempimento della Legge dunque è l'amore" (Rom 13,10). È la clausola asseverativa di quanto aveva affer-mato poco prima: "I comandamenti (e li enumera) si compendiano in queste parole: "Amerai il prossimo tuo come te stesso"" (Rom 13,9).

H Signore, si può credere, è contento di poter rispondere davanti a tanta ricchezza spirituale, con due parole, una sua, di approvazione, e una della Santa Scrittura, di esortazione: "Rettamente rispondesti", dove l'avverbio orthós, "rettamente", richiama al nostro orecchio l'ortodossia dottrinale e pratica. E poi: "Questo fa, e vivrai", ossia: fa quanto hai enunciato, al fine che tu abbia la vita (v. 28). Ora quest'ultima frase è la citazione in rilettura di Lev 18,5:

E voi custodirete tutti i miei decreti,e tutti i giudizi mieie li praticherete (=affmché li pratichiate):quanto avrà praticato,l'uomo vivrà in esso —Io, il Signore Dio vostro!

Come si vede, il dialogo è a colpi di citazione di Scrittura, un fatto meraviglioso. Gesù così ha vinto anche le terrificanti tentazioni di sata-na nel deserto, cf. Le 4,1-13. E così, pregando per intero diversi Salmi, vincerà anche le tre tentazioni che gli si rivolgono sotto la Croce (cf. Le 23,33-43). Ma la citazione di Lev 18,5 è come un rimando a riconside-rare il precetto della vita, che risuona lungo tutto l'A.T., nei libri storici (ad esempio, Neh 9,29), nei libri sapienziali (ad esempio, Eccli 45,6), nei libri profetici (ad esempio, Is 48,18; Ez 20,11.13.21).

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COMMENTO - CORSO DELLE DOMENICHE

II N.T. ne terrà conto, se Giovanni riporta una parola simile di Gesù (ad esempio, in Gv 5,24), con una severa ammonizione proprio sullo studio della Scrittura per avere la vita (Gv 5,39-40). Anche Paolo riporta dal canto suo il testo di Lev 18,5, richiamando però alla giustificazione prodotta dalla fede (Rom 10,5-6). Già aveva riportato Lev 18,5 in Gai 3,12, richiamando però che la Benedizione e la Promessa consegnate ad Abramo, e che sono lo Spirito Santo, è l'acquisizione suprema della Croce del Signore (Gai 3,13-14).

Qui il "biblista" di allora si sente chiamato in colpa. Era andato per tentare, aveva trovato piena rispondenza alla santa Legge. Vuole uscir-ne con una parola dubitativa: "Chi è il prossimo mio?" (v. 29). Real-mente, il termine greco plèsion, un neutro invariabile, usabile al ma-schile o al femminile, può tradurre l'ebraico rèa' di Lev 19,18. Ora, l'e-braico direbbe questo fatto: la Legge è dono del Signore al suo popolo, nel deserto, a fedeli che vivono nelle tende accampate in ordine; esistono i vicini di tenda, i più vicini, con cui occorre stabilire leggi di buon vicinato, altrimenti liti e querele si sprecano. Allora occorre cominciare intanto con l'amare i "più vicini", con cui si è vincolati anche dalla pa-rentela (le famiglie parenti si accampavano insieme). L'esperto della Legge pone una domanda che può essere insidiosa, ma così da modo a Gesù di dare una straordinaria spiegazione.

Ed anzitutto "comincia" col non rispondere direttamente, bensì conuna parabola, comeèuso orientale. La parabola (vedi sopra, Domenica 4a di Luca, Evangelo) è pericolosa, poiché il suo linguaggio semplicepuò trarre in inganno i complicati. Ma chi "ha orecchie da comprende-re, ascolti, dunque!", frase che qui nella conclusione assume questa for-ma: "Va, e anche tu fa similmente" (v. 37).

La parabola detta del "buon Samaritano" comincia con "un uomo", che può essere uno qualsiasi, ma qui si suppone che sia un Ebreo. Egli "discende" da Gerusalemme verso la ricca pianura di Gerico, la città del-le palme, dei giardini e delle fonti termali. Come nella cronaca nera, forse è il tramonto, la regione è accidentata, semidesertica, frequentata solo da viaggiatori frettolosi, e dai fuorilegge. Così l'uomo cade nell'agguato dei ladroni di strada, i quali lo spogliano di tutto, e forse per intimorirlo in modo che non ricorra alle autorità, lo ricoprono di colpi. Poi come succede a tutti i delinquenti, che non sono mai coraggiosi e "uomini d'o-nore" come invece si professano, scappano via (v. 30). L'uomo resta "tramortito", mezzo morto, ferito grave, abbandonato alla sua sorte.

A questa prima scena segue un'altra per certi versi molto simile. Non si tratta di una polemica "anticlericale", poiché il Signore lungo tutto il suo ministero ha mostrato irreprensibile rispetto verso le auto-rità politiche, quelle religiose e quelle spirituali, così che riguardo a

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DOMENICA 8' DI LUCA

scribi e farisei dice il celebre "Fate quanto insegnano, non quanto prati-cano, e custoditelo" (Mt 23,3). Il Signore sceglie qui come esempi un sacerdote ed un levita per diversi motivi. Il sacerdote passa "per caso" lungo quella via, discendendo, certo proveniente da Gerusalemme, ve-de il ferito "semi-morto", procede via (v. 31). Viene sul luogo anche un levita, vede e passa via (v. 32).

Qual'è la colpa dei due, poiché sono revocati come colpevoli dal Si-gnore? Di certo, niente affatto per la loro semplice condizione eredita-ria, che li fa sacerdote e levita secondo la Legge. Ma come sacerdote, il primo è custode, proclamatore, spiegatore, applicante la Legge santa nella sua letteralità. E però la Legge santa precisamente, se si vuole riassumere e condensare, proclama l'amore verso il Signore Dio Unico, il Dio dell'alleanza, e l'amore verso il prossimo. E i due massimi pre-cetti formano tale unità, da non aversi la pratica di uno senza la pratica dell'altro. Il secondo, quale levita, era il dirigente delle sante liturgie nel tempio, dove la Legge divina era proclamata, predicata, ed in spe-cie era compito esclusivo dei leviti dirigere i canti dei Salmi durante i sacrifici come acclamazione del Signore lodato ed a cui si rendono gra-zie. Essi perciò più e meglio e prima di tutti sanno che si può amare il Signore solo se si passa attraverso l'amore più difficile, quello verso il prossimo. E proprio qui sta la colpa: per troppo amore, — il più facile — verso il Signore, non vogliono contaminarsi con il sangue dell'uo-mo ferito, creduto morto, poiché vogliono restare nella condizione di purità legale, e non perdere la loro intattezza.

"Un Samaritano però, de" sta in viaggio (hodéuòri), capita vicino al ferito, lo vede, ed ha "viscere di misericordia" (splagchnizomai, verbo della divina Misericordia; cf. l'ebraico ràham), verbo in genere dal N.T. riservato a Gesù stesso (v. 34). Egli è un Samaritano, un estraneo ad Israele, poiché "non si trattano (sygchràomai) Ebrei e Samaritani" (Gv 4,9), dunque un nemico latente. Durante l'esilio, gli Ebrei restati in patria si erano frammischiati con diverse popolazioni pagane deportate in Samaria dagli Assiri (dopo il 721 a.C), e ne avevano assunto usi e costumi anche religiosi; avrebbero voluto confluire con i reduci dell'e-silio e riformare di nuovo il popolo di Dio, secondo l'alleanza dei Pa-dri. I reduci vi si rifiutarono drasticamente, e le ostilità tra i due popoli da allora furono frequenti. I Samaritani erano considerati semi-eretici, e di condizione impura, perciò non ammissibili nell'assemblea liturgica d'Israele secondo la fede e le norme di purità dei Padri.

Eppure il Samaritano ha il moto di misericordia divina verso l'Ebreo nemico. La grazia della carità lo ha visitato. Questo tratto in genere, è riconosciuto anche dai gelosi rabbini lungo i secoli, i quali, riflettendo sui celebri versetti, abbastanza misteriosi, che sono Sai 117,19-20:

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COMMENTO - CORSO DELLE DOMENICHE

Aprite a me le porte della giustizia/carità,

10 voglio entrare e rendere grazie al Signore! (v. 19),

così il fedele, a cui risponde il sacerdote:

Questa è la porta del Signore,i giusti/caritatevoli entreranno per essa! (v. 20), affermano che la

giustizia/carità si trova dappertuttto, anche fuori d'Israele. E poiché il Signore è Sovrano di quella porta che immette alla sua Presenza, vi farà entrare da ogni parte del mondo chi vi avrà trovato "giusto". Il Samaritano della parabola avrebbe perciò il diritto d'accesso a quella porta.

Ed eccolo intervenire. Anzitutto si accosta, guarda, tocca, ed inter-viene subito con il "pronto soccorso" del tempo: tampona le piaghe del povero ferito, vi versa olio e vino, il primo come lenimento, il secondo come disinfettante, procede ad una fasciatura sommaria, e senza attar-darsi carica l'uomo "sul proprio giumento" (ktènos, per sé, indica una proprietà, poi la proprietà per eccellenza, le pecore, e per traslato anche una giumenta, asino in specie, ma anche mulo e cavallo), e così fa la strada a piedi per portarlo fino alla più vicina locanda, e qui lo cura me-glio (v. 34). Si tratta di azioni che si vedono spesso al cinema, in televi-sione, e purtroppo anche per strada. Ma nell'A.T. il Signore stesso verrà a fasciare le ferite dei dolenti del suo popolo benché ribelle (cf. Is 1,6; Ger 8,22; Ez 34,16). Ed Israele lo sa, e lo canta nei Salmi: Sai 146,3. Resta la domanda: si tratta di fatti "spirituali" solo? Non sembra. Israele sa che il Signore Trascendente, l'Invisibile per definizione, opera così di continuo e di fatto. Come? È molto chiaro: solo servendosi delle mani pietose dei fratelli, quei "giusti/caritatevoli" che farà entrare a sé per la "sua porta".

11 Samaritano è probabile che non sappia bene tutto questo. Comunque la notte veglia il ferito, e la mattina dopo, dovendo proseguire peril suo viaggio d'affari, tira fuori 2 denari — non è molto, è tutto quelloche gli resta —, li versa all'oste e gli si raccomanda: "Curati di lui" alposto suo, "e quanto spenderai in più, nel mio ritornare ti restituirò" (v.35). Egli così impegna un altro "fratello" nella sempre complessa operazione che è la carità. La quale per il Samaritano è disinteressata, anzia remissione. Ma è anche delicata, da una parte non volendo egli privare l'oste del legittimo guadagno, e dall'altra operando sempre "da dentro" la carità, l'oste potendo non assumersi il carico di assistere un malato.

La parabola nella sua schematicità termina qui. Occorre trame la lezione.

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DOMENICA 8" DI LUCA

Gesù conosce la rettitudine del legisperito. Perciò sa che rispon-derà bene, quando gli domanda: chi dei tre, il sacerdote, il levita, il Samaritano, sembra a lui che sia "diventato il pròssimo" di quello che cadde tra i ladroni (v. 36). Se carità fa "diventare prossimo", allora è vincolante.

La risposta è più che ovvia: il legisperito non fa che affermare quan-to la Legge ed i Profeti proclamano. Dunque: "chi esercitò 'Véleos, la misericordia' divina verso quello" (v. 37a). Il Signore promette in eter-no Yéleos per i suoi fedeli, e però esige che essi esercitino il medesimo éleos verso i fratelli, e così YEleèmòn per eccellenza si acquista il po-polo di eleèmones. Chi non è eleèmon, sta di diritto automaticamente fuori di questo popolo santo, benché non di fatto.

Così quando Gesù propone al legisperito: "Va, e anche tu agisci si-milmente" (v. 37b), offre al suo interlocutore "tentatore" di entrare più lucidamente, più consapevolmente nella sfera così illimitata, e purtrop-po anche così spopolata, della divina misericordia per i fratelli, per tutti e per ciascuno dei fratelli. E riconosce anche la bontà di fondo, che lo renderà con la Grazia anche capace di essere eleèmon, misericordioso.

La "parabola del buon Samaritano" è tra le più famose. Nei secoli è stata anche tra le più amate, approfondite e predicate. È stata oggetto di infinite riflessioni ed applicazioni. Si sono anche moltiplicate a dismi-sura le allegorie, ossia le ricerche minuziose dei singoli particolari iso-lati, dimenticando il complesso, e così sono venute le applicazioni cre-dute teologiche e morali senza base. Gesù stesso sarebbe il buon Sama-ritano, che avrebbe rigettato sacerdozio e levitismo; i ladroni sarebbero i peccati; i due denari la grazia, come l'olio e il vino; il ferito sarebbe l'umanità, e così via.

La parabola del Signore è un insegnamento integrale, un tutto, nella sua eventuale crudezza. Cristo Signore si è "fatto prossimo" agli uomini con l'Incarnazione e la Croce e la Resurrezione e la Pentecoste dello Spirito Santo. Si è "fatto prossimo" soprattutto di tutti quelli, di ogni tempo e regione, che siano stati feriti dalla vita. Ma così, anche ciascun uomo può essere il ferito, o il sacerdote e il levita, o il Samaritano. Spetta a ciascuno dunque accettare nella sua coscienza di "andare ed agire similmente" al buon Samaritano, non curandosi d'altro, che di proseguire verso il "prossimo" individuato e perciò amato, l'opera del Grande Prossimo, VImmanuel, il "Con-noi-Dio".

7.Megalinario.Della Domenica.

7. KoinònikónDella Domenica.

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DOMENICA 26a DOPO PENTECOSTE na di Luca

"Sul ricco a cui la terra prosperò"

1. AntifoneDella Domenica, o i Typikà e i Makarìsmói.

2. EisodikónDella Domenica.

3. Tropari

1)Apolytikion anastàsimon, del Tono occorrente.

2) Apolytikion del Santo titolare della Chiesa.

3) Kontdkion: Prostasia tòn christianòn.

4. Apóstolos

a) Prokéimenon: Sai 38,22.1 "Inn odi lode".Vedi Domenica 2a e IO ' 2a

b) Efes 5,8b-19Prosegue la lettura dell'importante e difficile Epistola paolina, che

giunge ad uno dei suoi punti più densi di dottrina. Nella Domenica pre-cedente è stato esposto il dinamismo dello scritto, attraverso uno sche-ma, e si era detto che il lungo tratto che occupa il testo da 4,1 a 5,20 è l'esposizione del programma di vita fedele, che i redenti e benedetti debbono attuare per corrispondere al Padre, che è anche, alla loro voca-zione superna, vivendo la vita nuova in Cristo.

Il primo imperativo indirizzato ai fedeli è di "procedere quali figli della Luce" (v. 8b). La "luce" dominerà l'intera pericope. Al v. 8a già Paolo aveva tracciato una lapidaria "teologia della storia": "eravate in-fatti una volta (potè) tenebra, adesso (nyn) luce in Cristo". L'allusione, che tornerà come citazione diretta, è aH'"illuminazione" battesimale, il phótismós che resterà come uno dei nomi prestigiosi dell'iniziazione ai divini Misteri. Ora, la teologia simbolica insegna che dove si dice "te-nebra" si dice morte, e dove "luce" si dice vita. Gli Efesini, una volta pagani, erano immersi nella morte senza scampo, mentre adesso sono immersi nella Vita divina, con la sconfinata speranza della loro esisten-za, ormai redenta e santificata. Così da "adesso" essi debbono procedere, ossia debbono comportarsi nella situazione totalmente nuova. L'e-sortazione era già profetica. Presentando il raduno messianico escatolo-gico delle nazioni a Sion, nella pace universale procurata dal Signore, il

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DOMENICA 9" DI LUCA

Profeta proclama: "Casa di Giacobbe, su, procediamo nella Luce del Signore" (Is 2,5), che è la Gloria che viene. Paolo ripete il tema, quando ai Filippesi invia l'esortazione: "Fate tutto senza mormorare, e senza discutere, affinchè siate irreprensibili e mondi, figli di Dio immacolati, in mezzo ad una generazione ribelle e perversa, nella quale voi ri-splendete come astri nel mondo, possedendo là Parola di Vita" (FU 2,14-16a). Per questo non ci si deve illudere, occorre attivarsi. Gesù stesso nella parabola del servo infedele aveva avvertito: il fattore ini-quo fu lodato dal padrone truffato ed ammirato, poiché aveva agito con astuzia, "i figli di questo secolo (di tenebra) sono infatti più sapienti dei figli della luce" (Le 16,8).

"Adesso, luce nel Signore" Risorto (v. 8a) indica una serie di fatti. I fedeli sono luce essi stessi. E non solo la luce in qualche modo è la loro origine, la loro appartenenza, la loro situazione vitale, il luogo ed am-biente in cui si muovono, procedono ed operano. La loro caratteristica essenziale è Tessere "luce nel Signore", come canta il Salmista:

Poiché presso Te sta la Fonte della Luce,e nella Luce tua noi vediamo la Luce (Sai 35,10),

testo magnifico che appartiene anche alla Doxologia megàlè che unisce le Lodi alla Divina Liturgia della Domenica e delle Feste.

Ora, "nel Signore" si diventa in qualche modo della sostanza del Si-gnore, qui, la Luce. È uno dei grandi temi della divinizzazione. La qua-le comincia già qui, a partire dalla fede e dall'"illuminazione battesi-male": si diventa figli veri di Dio, "figli della Luce", "figli della Luce e del Giorno" che è Cristo Signore:

Gesù Cristo — (nostro) Ieri e (nostro) Oggi, il Medesimo per il secolo! (Ebr 13,8).

"Nella Luce" si vede la Luce, si diventa Luce. L'espressione "figli della luce" è semitica, e indica l'essenza ricevuta dall'Operazione su-perna della filiazione divina. In altro contesto, Gesù dice: "Voi siete sale della terra e luce del mondo", assimilando così i discepoli a se stesso (cf. Mt 5,13-14), essendo Egli "la Luce del mondo" (Gv 8,12) in quanto Dio Verbo del Padre e Luce e Vita (cf. Gv 1,1-4), e senza Lui Luce non si può procedere verso la Vita eterna (cf. Gv 12,35.46). Nel fedele la Luce produce l'effetto dell'investitura totale, poiché l'occhio è la luce del corpo, e quando esso è luce, anche il corpo è luce e dunque vita (cf. Le 11,33-34). Ed occorre guardarsi che la Luce ricevuta divinamente sia sostituita in noi dalla tenebra. Occorre farsi completamente travol-gere e trasformare dalla Luce (Le 11,35-36).

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COMMENTO - CORSO DELLE DOMENICHE

La Luce divina negli uomini che accettano di farsi fare luce, produ-ce "il frutto". Un testo parallelo parla del "Frutto dello Spirito" Santo:

carità gioia pace,magnanimità benignità bontà {agathósynè),fede mitezza continenza (Gai 5,22-23a).

dunque 3 triplette analoghe. Anche in Efes 5,9 viene "il frutto della Lu-ce", con una tripletta: bontà {agathósynè) e giustizia e verità. Il nesso Spirito Santo - Luce è evidente. È la Grazia che deve produrre il suo frutto secondo il suo scopo.

In questa condizione, i fedeli dovranno sempre provare (cf. Rom 2,2; 1 Tess 4,3), attraverso giudiziosa esperienza, che cosa sia gradito (euàreston) al Signore, ossia che si deve operare per adempiere la sua Volontà per noi (v. 10). Paolo già lo ha indicato in un testo celebre di Rom 12,1, che è un'esortazione "per la Misericordia di Dio", ossia se-condo la Bontà divina per noi:

Io vi esorto (parakalò), perciò, fratelli per le Misericordie (oiktirmói) di Dio, a presentare i corpi vostri quale vittima vivente santa gradita a Dio, lo spirituale culto vostro,

dove "spirituale" traduce rigorosamente logikè (latréia), sapendo che tra logikós epneumatikós esiste identità, ed interscambio: quanto opera il Lògos, èpneumatikós, e quanto il Pnéuma, è logikós. Vedi anche FU 3,3.

In Rom 12,2 Paolo si raccomanda di non "conformarsi a questo seco-lo" che è malvagio. In Efes 5,11, testo analogo, egli esorta a non "avere con-comunione" (alla lettera, synkoinónéó) alle opere della tenebra che sono dannosamente sterili, "senza frutto" di vita. Tali opere vanno confu-tate sempre (elégchein) (v. 11). Ora, "la tenebra" (skótos), non è una realtà impersonale, si tratta purtroppo di uomini, e spesso di con-fratelli. Questi operano nascostamente, tanto più insidiosamente e rovinosamente, ma an-che inquinando le coscienze e lo stesso linguaggio, così che quelle azioni sono vergognose, ed è vergognoso perfino parlarne tra i fedeli (v. 12). Questi a loro volta debbono operare una chiusura radicale, talvolta imba-razzante, ma necessaria. Debbono esercitare una netta confutazione (di nuovo elégchó) proprio in quanto sono "luce", e così debbono far sì che quelle opere si manifestino: in tutto il loro orrore, per essere respinte. Che se poi si trattasse di opere buone, si manifesteranno come "luce" (v. 13).

Paolo conferma la sua argomentazione citando la Scrittura, con la formula poco frequente: "Perciò parla (la Scrittura)" (cf. Efes 4,8). Il

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DOMENICA 9" DI LUCA

testo ha la forma poetica di un inizio o di una parte di un inno, e alla lettera dice:

Svegliati, o dormiente,e risorgi dai morti,e splenderà su te Cristo! (v. 14).

Si è cercato nei secoli patristici il luogo biblico da dove sarebbe tratto questo passo. I Padri stessi convenivano che nessun libro bi-blico dell'A.T. lo contiene, e alcuni di essi molto acutamente riten-nero che si trattasse di una parte di un "inno battesimale". Tra i mo-derni si è cercato almeno il luogo d'ispirazione, avendo Paolo ap-portato eventuali adattamenti, e così si rimandava aIs 26,19, il cele-bre testo della resurrezione; 60,1; 51,17 in varia combinazione; altri pensavano ad un apocrifo. È prevalsa adesso l'opinione dei Padri sull'"inno battesimale", e Clemente Alessandrino, che in Protrep-tikós 9,84,2 (ed. Stàhlin, p. 63, 17ss) lo cita, vi aggiunge anche la continuazione.

Il v. 8 già allude al battesimo. Il v. 14 ne offre una parte del rituale antichissimo. Il catecumeno era esortato a risvegliarsi dal sonno della morte, a tornare alla vita dal soggiorno dei morti, che è la tenebra "di allora", di quando era pagano. Così, se si pone in una disposizione po-sitiva, verrà a sfolgorare su lui la Luce divina increata e creante, Cristo Signore. Egli farà di lui un "figlio della Luce" a partire daH'"illumina-zione" battesimale operata dallo Spirito Santo.

Presentata questa situazione radiosa, Paolo fa seguire una serie di esortazioni per la risposta degna a tanta Grazia. Anzitutto mette in guardia, rimanda a "guardare esattamente" il modo di procedere dei fi-gli della luce. Non come stolti, avvolti ancora nelle brume del secolo così ingrato e nemico, bensì come sapienti, sophói, quelli che sono stati visitati dalla divina Sapienza incarnata, Cristo, e dalla Sapienza increa-ta, lo Spirito Santo (v. 15). Come prima operazione, occorre allora "ri-scattare", redimere il tempo presente (kairós), domarlo, ridurlo ad esse-re utile, a sfruttarlo fino in fondo senza timore, ma anche consapevol-mente: "poiché i giorni sono malvagi" (v. 16). I giorni significa i tempi totalmente occupati dalla malvagità umana. Se non si opera attivamen-te ed accortamente, essi lavorano contro la fede e la carità. Qui i fedeli non debbono tornare alla luce incerta, all'insipienza (àphrones, poco intelligenti).

Perciò debbono sempre più, sempre meglio, sempre più volenterosa-mente comprendere la Volontà del Signore (v. 17). Ai Filippesi Paolo in modo lucido, e come sempre lapidario, aveva mostrato il fatto asso-lutamente fondante:

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COMMENTO - CORSO DELLE DOMENICHE

Dio infatti è l'Operante (energórì) in voi sia il volere (théleirì) sia l'operare (energéin) per VEudokia (Fil2,13),

e VEudokia è il divino Compiacimento, che si abbassa fino ad aiutare sostanzialmente l'intelletto, la volontà, l'opera dei fedeli. Per questo, è ovvio, occorre molto pregare.

Nella situazione di Efeso, un ambiente colto e raffinato, ma anche immerso nel più crasso paganesimo, Paolo si raccomanda adesso che i suoi fedeli si comportino con assoluta drasticità rispetto al culto idolo-latrico. L'imperativo netto è a "non ubriacarsi di vino" (v. 18a). Il tratto viene da Prov 23,30-31; cf. 9,1-6.13-18. È il vino delle libazioni sacri-ficali, che nel convito che seguiva scorreva a fiumi, e preparava pro-grammaticamente ad orge senza nome. Paolo avverte: nel vino sta Va-sòtia, termine che indica un fatto, una persona "senza possibilità di sal-vezza", per traslato l'incontinenza lussuriosa e spendacciona, la dispo-sizione al turpe ed al vizio; il Figlio prodigo viveva asòtòs, in modo dissipato, dissoluto (Le 15,13). Altri dati sul vino, infra, Appendice I.

L'esortazione eguale e contraria è invece a "farsi riempire dallo Spi-rito". L'esegesi dei Padri, e la migliore esegesi moderna, vedono bene qui l'opposizione inconciliabile che esiste tra vino-ebrietà-idololatria-lussuria da una parte, e "pienezza dello Spirito" Santo che proviene dal Vino della Coppa eucaristica. Da qui i Padri parlano della "sobria ebrietà dello Spirito" a proposito della santa Coppa, e come effusione nella vita di fede; formule che richiamano Efes 5,18b si trovano nelle epiclesi delle Liturgie orientali, oltre che nelle opere spirituali dei Padri.

La conseguenza di questo è una densa ma ordinata vita liturgica. I fedeli in santa assemblea "si parlano reciprocamente" con le Scritture, e perciò si edificano reciprocamente all'unisono, nel canto di Salmi ed inni e cantici dello Spirito Santo. È conosciuta la tendenza della Chiesa apostolica, che anche in questo seguiva la norma sinagogale, di usare i Salmi come canto che accoglie e saluta le Sante Scritture, ed inoltre di "rispondere" alle medesime Scritture con "inni" e "cantici" a cui spinge lo Spirito Santo, se non direttamente li ispira. Quest'ultimo uso, in sé meraviglioso, resta per fortuna nella Chiesa dei sec. 2° e 3°, nei quali, come è dimostrato, nella Liturgia non si usarono più i Salmi ma solo l'innodia; l'uso dei Salmi riprese con il 4° secolo. Il N.T. è letteralmente costellato di tali "inni" e "cantici", e qui basterà citare il Megalynei he psyche mou tón Kyrion della Madre di Dio (Le 1,46-55), e YEu-logètós Kyrios ho Theós toù Israel di Zaccaria (Le 1,68-79); gli "inni" diFU 2,6-11; Col 1,15-20; Efes 1,3-14; inoltre, 1 Tim 3,16; e i numero-si "cantici" delVApocalisse. Paolo vuole che i fedeli cantino e salmo-diino "con il cuore", ossia con tutta la loro persona, intelletto e volontà,

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DOMENICA 9" DI LUCA

al Signore (v. 19). È questa la fonte della vita spirituale: la santa Litur-gia, come conferma il v. 20 (fuori della presente pericope), dove Paolo vuole che gli Efesini "rendano grazie, eucharistoùntes" a Dio e Padre, sempre e per tutto, nel Nome del Signore nostro Gesù Cristo. Il termine tecnico eucharistéò qui indica la celebrazione della Cena del Signore.

6. EVANGELO

a) Alleluia: Sai 17,48.51, "Salmo regale". di di Luca-Vedi l'Alleluia della Domenica 2a e 10adi Matteo; la

b)Le 12,16-21II contesto della presente parabola è la "salita a Gerusalemme" (cf.

Le 9,51 - 19,28; e lo schema di Luca, nella Parte I). Il Signore battezza-to dallo Spirito Santo, trasfigurato dalla Luce increata nella sua Uma-nità, preso sotto la protezione della Nube della Gloria che è lo Spirito Santo, si appresta a terminare il "suo esodo che doveva avvenire in Ge-rusalemme" {Le 9,31), verso il Padre, e che si consuma sulla Croce. Egli prosegue il suo Programma messianico battesimale e trasfigura-zionale, che sono l'Evangelo, le opere del Regno, il culto al Padre.

La parabola si pone come esplicitazione dell'Evangelo del Regno, come enunciato e sua dottrina. In 12,13-34 il Signore propone una vera "catechesi sulla rinuncia e sulla povertà", e così ai vv. 13-15 contro l'a-vidità o avarizia, radice di ogni male; ai vv. 16-21 narra la "parabola del ricco scemo", alla lettera; ai vv. 22-31 rimanda alla fiducia solo in Dio, che provvede sempre a tutti; il v. 32 è l'esortazione al "piccolo gregge" che mai deve temere; i vv. 33-34 infine presentano il "Tesoro nei deli". Una catechesi impressionante, di cui i cristiani nei secoli non sempre sono stati fedeli ascoltatori ed applicatoli, con conseguenze gravissime anche per la vita sociale e politica, in cui il "lievito" spesso è venuto a mancare.

Egli narra "ad essi", alla folla del v. 13, una parabola, insegnamento privilegiato del Regno e sul Regno. L'inizio è come una conclusione: la "regione, chórà", ossia le tenute di un certo uomo ricco, ebbero un'an-nata che "portò molto" frutto {euphoréó). Non solo, quella stagione fortunata promette altrettanto anche per un lungo periodo (cf. v. 16; e Sai 48,17-20; Eccli 11,18.19-24.27; 31,38). L'uomo già è facoltoso, adesso lo è di più. Può confidare nel futuro. E può cominciare a pro-grammare la sua economia su altra base, in modo più razionale. Di tali progetti sono piene le pagine finanziarie dei giornali, e ricevono pre-sentazioni sempre lusinghiere nei giornali specializzati in operazioni fi-nanziarie, ma se ne occupa anche la stampa politica. Così il ricco co-mincia a rimuginare dentro di sé {dialogizomai) su come procedere,

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COMMENTO - CORSO DELLE DOMENICHE

perché al momento ha scarsi magazzini di deposito. Il prodotto è ingen-te, si deve provvedere subito alle infrastnitture del secondario, ed anzi-tutto ai provvidi silos (v. 17).

Ed allora decide per un progetto razionale e costruttivo: abbattere i silos vecchi e soprattutto angusti, operazione, come si sa, oggi molto incidente sulla progettazione e finanziamento, più costosa della stessa costruzione. Egli vuole costruire magazzini più capaci, con locali ampi e funzionali. Lì ammasserà tutto, incurante dell'altra operazione costo-sa, il trasporto (v. 18). Vi ammasserà sia i nuovi prodotti granali, sia il resto dei suoi beni. Dietro il progetto però sta una finalizzazione ulti-ma, uno scopo unico, ossia il consumismo egoistico e sfrenato, ma so-prattutto egoistico solitario. Il ricco adesso si scatena, e parla con se stesso, l'interlocutore segreto, nascondendo le sue intenzioni a chiun-que altro: "Anima mia!", ormai tu possiedi "molti beni" depositati per molti anni. Si tratta di prodotto, di capitale, di frutto corrente, e di una previsione lusinghiera. Adesso puoi riposarti, in tranquillo godimento, puoi "mangiare, bere, dare festini" (v. 19). È proprio questo uno dei te-mi più aborriti dalla Santa Scrittura, la sazietà torpida, oggetto di rifles-sioni sapienziali (cf. qui Eccli 2,24; 11,9; Tob 7,9). E di amare riflessioni di Paolo, che lo vedeva in atto in tutto il mondo del suo tempo (1 Cor 15,32, citazione del resto di Is 22,13). Egli in altro contesto parla di gente per cui "il proprio dio è il ventre" (FU 3,19). Proprio come oggi, sembra come sempre. In antico il tema era diventato proverbiale per i Cretesi (cf. Tit 1,12), che in fondo non erano affatto peggiori di altre popolazioni dell'impero.

Paolo avverte severamente che il cibo è per il ventre, ossia per la nu-trizione normale, ed il ventre per il cibo. Questo non è se non organo della nutrizione normale, benché in fondo sia per gli uomini solo un aspetto infimo, destinato alla distruzione finale (cf. 1 Cor 6,13). Oggi, sarà sufficiente vedere nel cinema e alla televisione, come i gesti più comuni e purtroppo sottilmente (o anche scopertamente) suadenti sono il mangiare, il bere, il fumare, la tensione al denaro, il vizio in tutte le sue pieghe perverse, e tutto sempre in monotona continuazione.

Fin qui ha parlato solo il ricco. Come quelli che detengono un mo-nopolio, reti finanziarie, catene di mercati, catene di giornali e di reti televisive. Essi non hanno veri interlocutori, anche se così, ottusamen-te, se lo credono.

Adesso interviene Dio, e parla come sempre la Parola del giudizio primo ed ultimo, senza contraddittorio e senza appello. Una sentenza di condanna.

E l'interpello è: "Scemo, àphrón\" Possiamo addolcire, sfumare quanto si vuole, e sempre indebitamente, come si fa nelle traduzioni correnti, con il poco usato e molto meno pregnante "stolto". Ma il ter-

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DOMENICA 9' DI LUCA

mine àphròn, che viene dalla letteratura sapienziale dell'A.T., indica proprio la mancanza congenita di qualsiasi intelligenza della vita. Il Si-gnore chiama questo, "ricco scemo". Ma così, tutti quelli come lui, ieri come oggi, e purtroppo come domani, sono per il Signore "ricchi scemi". E così debbono essere anche per tutti noi, nella reazione della coscienza cristiana, resa vigile dalla divina Parola. E se tutti i ricchi so-no scemi, tutti gli scemi di regola non sono ricchi.

Gesù quando usa questa parola forte e giusta, può richiamarsi ad una serie enorme di testi sui "ricchi scemi", come all'invettiva dettata dalla "rabbia profetica":

Guai a quelli che aggiungono casa a casae avvicinano campo a campo,finché non ci sia più posto per il prossimo!Non abiterete soli sulla terra!Fu ascoltato infatti dalle orecchie del Signore Sebaot questo:se anche esistano case numerose (dei ricchi),saranno un deserto le grandi e belle,e non vi saranno gli abitanti di esse! (Is 5,8-9; LXX).

Con eguale "rabbia profetica", e con altrettanta meditazione sulla stupida malvagità dei ricchi, il Salmista dice:

Passa l'uomo, come un fantasma,apparenza è il suo agitarsi,ammassa, e non sa chi raccolga (Sai 38,7),

e poi:

Perché debbo temere nei giorni di sventura,quando mi circonda l'iniquità dei miei insidiatori?Essi che confidano nella loro potenza,e si gloriano nell'abbondanza delle loro ricchezze?L'uomo, mai potrà redimere se stesso,né pagare a Dio il suo riscatto,anche se è alto il prezzo della vita sua,sarà sempre insufficientea farlo vivere per sempree a non vedere il suo sepolcro.Vedrà che muoiono i sapienti,come l'insensato e lo stolto vengono meno,e lasciano ad altri la loro ricchezza.La loro tomba è la loro casa per sempre,

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COMMENTO - CORSO DELLE DOMENICHE

la loro abitazione di generazione in generazione. Perfino pongono i propri nomi alla loro proprietà! L'uomo nel suo splendore non dura, è simile agli animali che periscono (Sai 48,6-13).

E si potrebbe continuare a lungo.Il Signore perciò investe il "ricco scemo": Questa notte stessa richie-

deranno da te la tua anima. Il plurale apaitoùsin, richiedere, indica la di-retta azione divina (un plurale anonimo per non nominare il Nome divi-no). È la condanna. Poi viene la domanda senza risposta, ossia che con-tiene la risposta in se stessa: "I beni che preparasti, di chi saranno?" (v. 20). È chiaro, di "altri" che verranno. Che forse, il ricco non avrebbe mai designato come destinatali per testamento. I quali si troveranno a godere quanto non lavorarono. All'eternità però il ricco "senza mente" si presenta solo con la sua scemenza di ricco. Il suo destino a causa e per colpa delle sue ricchezze male accumulate, è segnato. Esse furono il diaframma impenetrabile, fatale, frapposto maleficamente tra lui ed il resto dell'umanità, e quindi con Dio. Egli viveva e parlava solo con se stesso. Dove stavano, nella sua "non mente", i fratelli ai quali malefica-mente ha sottratto da vivere? Si rilegga qui la parabola di Lazzaro e del ricco epulone, molto analoga (Domenica 5adi uca>- a n quih anno scritto pagine straordinarie. Una frase per tutti: la grande proprietà è un furto (S. Basilio il Grande). Non il motto: "la proprietà è un furto", grossolana imitazione ideologica marxista di una frase di uno dei più grandi uomini dell'antichità cristiana.

Che tutti i pedissequi imitatori del "ricco scemo" siano tutti "ricchi scemi", e che come a quello avverrà a questi, è avvertito e sanzionato dalla parola che chiude la parabola, che alla lettera statuisce: "Così (avviene per) il tesaurizzante in proprio favore, e non arricchentesi in Dio" (v. 21).

Gesù ha detto: "Tesaurizzate per voi, in favore vostro, tesori nel eie-Io" (Mt 6,20a). In sostanza, occorre far precedere nel cielo la "dote", e non lasciare la medesima sulla terra. In realtà i beni terreni per ogni uo-mo sono una trappola quasi fatale, poiché essi sono trasformanti: "Infat-ti, dove sta il tesoro vostro, ivi sta anche il cuore vostro" (Le 12,34; Mt 6,21, qui al singolare: tuo), dove cuore significa l'integralità della per-sona. Se il tesoro sta nel cielo, si è attratti verso le Realtà superne, e così si è indotti ad operare il bene ai fratelli sulla terra; dove il tesoro sta in basso, ci si perde l'anima, l'esistenza, la vita eterna.

Gesù, poiché era povero, e con la sua povertà da ricco che era volle arricchire gli uomini (cf. 2 Cor 8,9, nel contesto delle "collette" per i "santi", i poveri di Gerusalemme), era troppo severo verso i ricchi? E se così, era anche ingiusto? Il ricco moderno oggi si giustifica dicendo

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DOMENICA 9" DI LUCA

che in fondo da lavoro a migliaia di operai, che, "senza di lui" (! Ossia si crede provvidenziale ed insostituibile), "resterebbero a spasso". Ma, in dipendenza dei suoi capricci, resi di fatto "schiavi moderni". Così per tanti fatti. Come per la tendenza ormai a far lavorare anche nel "Giorno del Signore" per pura fame di "produzione", che è solo "gua-dagno", abolendo il "segno" della civiltà biblica e cristiana, il "segno" sacramentale del riposo, destinato anche al culto divino.

Non sembra che Gesù sia troppo severo e ingiusto. Anzi, sembra vero proprio il contrario. Poiché Egli venne per tutti indistintamente, per "salvare il mondo", che sono i buoni ed i cattivi, i poveri ed i ric-chi. Il ricco scemo della parabola di Lazzaro non aveva ricevuto come salvaguardia Mosè ed i Profeti? (cf. Le 16, 29-31). Perché non li "ascoltò"? La dottrina tagliente della Scrittura e di Cristo Signore tende solo a scuotere i ricchi dalla loro scemenza. Da scemi tende a farli sapienti e ragionanti, in grado di comprendere che la via della salvezza non passa affatto per "il solo io e nessun altro", bensì per il prossimo in vista di Dio.

Ma d'altra parte, anche i poveri qui sono investiti. Essi sono coin-volti nell'opera della comune salvezza, affinchè la loro innocenza e la loro mitezza disarmata e disarmante, attraverso l'esempio della vita e molta preghiera, possa raggiungere e toccare il cuore dei sazi e sempre insensibili, e coinvolgerli a loro volta nell'opera della propria ed altrui salvezza. Avviene questo? Non universalmente né sempre. L'esempio dei grandi Santi dell' A.T. e del N.T. sta a dimostrare però che è possibi-le, e che perciò molti altri fedeli debbono seguire questa via regale.

"Dove sta il Tesoro vostro, sta il vostro cuore" per i Padri, è una delle formule splendide della divinizzazione: il Tesoro divino è divi-nizzante.

7. Megalinario Della Domenica.

8.Koinónikón Della Domenica.

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DOMENICA 2T DOPO PENTECOSTE 10a di Luca

"Sulla donna con lo spirito di debolezza"

L'Evangelo di questa Domenica IO dl Luca {Le 13,10-17) si procla-ma solo se la detta Domenica cade tra il 4 e il 10 dicembre.

Se invece cade tra il 24 ed il 26 novembre, in questa Domenica si proclama l'Evangelo della Domenica 13* dlW Mora' ^bonieni-ca che segue, tra il 1° e il 3 dicembre, si proclama l' Evangelo della do-menica 14a Luca, e la Domenica successiva, tra 18 e il10 dicembre,si proclama quello della Domenica 10a di Luca ^ nella settimana, gli Evangeli della 13asettimana).

Se questa Domenica 10a di Luca cade *a d 27 ed il30 novembre, a

proclama l'Evangelo della Domenica 13a di Luca. Ma la Domenica chesegue tra il 4 ed il 7 dicembre, si proclama I 0a di Luca (e nella settimana, gli Evangeli della

1. AntifoneDella Domenica, o i Typikà e i Makarismói.

2. EisodikónDella Domenica.

3. Tropari

1 )Apolytikion anastàsimon, del Tono occorrente.

2) Apolytikion del Santo titolare della Chiesa.

3) Kontàkion: Prostasia tòn christianòn.

4. Apóstolos

a) Prokéimenon: Sai 117,14.18 "Azio® $f<g^eVedi la Domenica 3a di Fasclua' 11« '

b)Efes 6,10-17L'epistola secondo il suo schema si avvia alla sua conclusione. Co-

me si ebbe a dire, da 5,21, testo che regge il seguito e che perciò va sempre tenuto presente, Paolo invia esortazioni di vita cristiana piena alle tre principali categorie sociologiche, gli sposi, i figli ed i padri, i servi e padroni (vv. 5,22-23; 6,1-4; 6,5-9). Segue in 6,10-20 le istruzio-ni di tipo militare per il "combattimento spirituale"; i vv. 21-24 sono i saluti e gli auguri finali.

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Tutti i fedeli, di ogni categoria, sono impegnati nella lotta terribi -le, incessante, insidiosa e pericolosa che il cristiano deve sostenere. Da essa non può essere esentato nessuno, e per qualsiasi motivo. Paolo stesso è un campione di questa lotta, e qui parla molto chiara-mente come riflesso della sua propria esperienza ormai lunga di Apostolo dell'Evangelo, contro cui si appuntano i colpi peggiori del Nemico comune.

Paolo da inizio alle istruzioni ed esortazioni per questo combatti-mento con un imperativo e altri due sostantivi, la cui semantica indica "forza", resistenza, tenacia: "Siate forti" (endynamóó, dove dynamis indica potenza, robustezza), però "nel Signore", che nel contesto indica Dio Padre (cf. vv. 7.8.9), in quanto solo Lui è in Pantodynamos, l'On-nipotente. E da Lui discendono ai fedeli le manifestazioni della sua po-tenza irresistibile: "Siate forti nel Signore e nella potestà (krdtos), della sua forza (ischys)" (v. 10). Il krdtos (da kratéó), indica circa questo concetto: quanto al verbo, avere potestà su qualche cosa o persona, es-sere padrone o dominatore, dominare, superare tutto e tutti, possedere come dominio tutto, prendere possesso. Da questo punto di vista, Cri-sto Signore appare nelle sante icone: mosaici delle absidi, affreschi, ta-vole, con V epigraphè necessaria: Ièsoùs Christós ho Pantokràtór, ho Ón, ossia: "Gesù Cristo l'Onnitenente, il Sussistente (come Dio)" (cf. sempre Es 3,14). Quanto al sostantivo, krdtos indica forza, impeto, po-tenza, veemenza, da cui il potere dominante esercitato su tutto, il domi-nio e l'imperio, la vittoria conseguita e sottomettitrice di tutto e tutti. A sua volta, ischys (da ischyó), indica: come verbo, avere salute e robu-stezza, sanità corporale, godere di molta forza ed efficacia, dunque va-lere, poter fare, avere possibilità fisica mentale materiale, valere in campo giuridico, avere importanza; come sostantivo, forza, potenza, facoltà valida.

L'accumulo di omonimi, tutti retti dall"'en Kyrió, nel Signore", è ti-pico di Paolo, che con ridondanze simili porta l'espressione alla sua massima efficacia: la forza ricevuta dall'Alto deve essere ben posseduta dai fedeli, e posta in azione. Essi allora saranno invincibili nella lotta. Dietro questo, però sta il fatto che lo Spirito Santo è l'autentica Dynamis toù Theoù, la Potenza invincibile di Dio, che si fa Presenza agli uomini fedeli a partire dalla loro iniziazione battesimale.

Costituiti così come militi perfettamente idonei, i fedeli ricevono dal loro capo militare, l'Apostolo, le istruzioni per il combattimento. Ed anzitutto, l'uso dell'equipaggiamento, che comincia l'elenco di molti termini "bellici", in realtà del solo "riarmo morale". Occorre dunque ri-vestirsi deH'"armatura", panoplia di Dio, ossia l'intero apparato che ciascun soldato nel suo ordine e nella sua missione deve possedere sempre e al completo. Il "rivestirsi" non è un indossare per una volta,

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COMMENTO - CORSO DELLE DOMENICHE

per depositare dopo le operazioni belliche. Si tratta della veste abituale, che non si può mai depositare come inutile dopo un periodo di lotta. La lotta è perenne, fino all'ultimo respiro. Infatti Paolo indica anche il fi-ne: "per resistere con forza davanti le dolose insidie del diavolo" (v. 11). Sta qui il sostantivo methodéiai, dal verbo methodéuó, che signifi-ca in origine "seguire, fare strada presso", per traslato trattare, fare, agi-re con ordine, con "metodo", e perfino esigere e rastrellare le tasse; quindi, usare astuzie, tranelli, insidie, ingannare, sedurre, sempre "da presso, meta". Aiuta a comprendere la preoccupazione militare di Pao-lo un testo quasi parallelo dell'Apostolo fratello, Pietro, il quale da parte sua pone le sue Comunità all'erta:

Siate sobrii, vigilate,l'Avversario vostro, il diavolo, come leone ruggente,circola cercando chi ingoiare!Al quale voi resistete saldi nella fede! (1 Pt5,8-9a).

dove il "resistete, antistite", corrisponde al paolino stènai di Efes 5,11, e antistènai di Efes 5,13.

Ora, il diavolo ha la tattica della guerriglia asfissiante, quella che mette a terra anche eserciti agguerriti (il dramma americano del Viet-nam insegni). H nemico è invisibile, ma si sente vicino. Incute timore. Colpisce senza preavviso, crea una tensione innaturale, piomba all'im-provviso e fugge. Se non vince mai la battaglia campale, però può vin-cere la scaramuccia. È la tattica del Tentatore con Gesù stesso, il quale nel deserto esce come "il Vittorioso" per sé e per noi, nella Potenza dello Spirito Santo battesimale, e tuttavia Luca annota un dato terrificante: "e consumata ogni tentazione, il diavolo si allontanò da Lui fino al kairós" (Le 4,13), ossia fino al tempo stabilito. Da chi? Da Dio? Sì, ma anche dal diavolo per permissione di Dio. Il kairós principale è la Cro-ce, con le 3 tentazioni escatologiche (cf. ancora Le 23,38-43). Ma frat-tanto il diavolo sceglie altri kairói. E si serve perfino dei parenti di Gesù (cf. Me 3,21: dicevano "Exéstè, è fuori di sé", per difenderlo dalle eventuali accuse). Dei principali discepoli, di Pietro (Me 8,33: "Va die-tro da me, satana, perché tu ragioni non secondo Dio, ma secondo gli uomini!"). Della folla che Lo vuole eleggere re messianico (cf. Gv 6,15). Ancora dei discepoli che vogliono il regno terreno (At 1,6). Dun-que Paolo e Pietro parlano dalla loro profonda, e dolorosa esperienza.

Le "insidie dolose" del diavolo fondano la lotta (pale) non contro "carne e sangue", ossia le strutture umane, le quali sono deboli e vinci-bili, bensì quella che deve essere condotta incessantemente contro po-tenze tanto più temibili in quanto sono invisibili: principati, potestà, "tenitori del mondo" avverso a Dio ed agli uomini; signori della tene-

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DOMENICA 10" DI LUCA

bra, di "questa" tenebra di morte che è il peccato; contro le "realtà spi-rituali", ossia incorporee, che si agitano "nei cieli alti", ossia tra il Cie-lo, che è il Signore Santo, e la terra degli uomini (v. 12). L'enumerazio-ne non fa parte del simbolico immaginario, della mitologia degli spiriti ultraterreni, del leggendario, del non visibile.

Si tratta invece di uno dei capitoli più importanti, ma anche più er-metici della teologia paolina e dell'intero N.T., se poi se ne trovano manifestazioni simboliche ed insieme reali nell'Apocalisse.

In realtà, la teologia di Paolo è come in salita. All'inizio la sua preoccupazione è l'Evangelo della Resurrezione e dell'ultima Venuta del Signore (1 e 2 Tessalonicesi), per passare a presentare i grandi temi della redenzione nel sangue della Croce e della vita cristiana che ne consegue, "vita in Cristo vita nello Spirito" (GalaA; 1 e 2 Corinzi; Ro-mani), nella grande costruzione che è YEkklèsia frutto del Mistero (Co-lossesi, Efesini), Mistero di Dio che "svuotò" se stesso (Filippesi), da cui la giusta conduzione pastorale delle Chiese di Dio (1 e 2 Timoteo; Tito). E la "lettura Omega", dall'escatologia provocata dalla Resurre-zione, alla pastorale nella Chiesa. Ma in Efesini si ha uno squarcio sul mistero della Chiesa, che resta molto problematico per l'interpretazione antica fino ad oggi. Paolo afferma in Efes 3 di essere stato scelto quale ministro del Mistero di Cristo tra le nazioni, in modo da fondare tra esse la Chiesa. La quale deve rivelare la Sapienza di Dio "ai principati ed alle potestà nei cieli", secondo il Disegno irrevocabile divino: Efes 3,1-13. Tale sarebbe anche il fine ultimo, grandioso, inimmaginabile e di fatto poco immaginato, dell'intera storia della salvezza.

Si darebbe così questa situazione. La redenzione decretata dal Dise-gno divino preeterno, questa "Liturgia - opera per il popolo" triadica, è adempiuta ormai in Cristo Risorto con il Dono dello Spirito Santo. Essa è annunciata con l'Evangelo della Grazia ad Israele ed alle nazioni pagane. Ad essa hanno cooperato volenterosamente e gioiosamente, adorando Dio con l'eterno "Santo Santo Santo", le potenze angeliche fedeli, guidate dal glorioso invincibile Michele Arcangelo, insieme con i Sinarcistrateghi Gabriele e Raffaele. Essa invece è stata avversata, e di fatto è ancora avversata fino all'ultimo dei tempi, dalle "potenze delle tenebre", e Paolo ne sta trattando qui. Ora, tali potenze sono definite in qualche modo come essenze che si agitano disperate "nei cieli", dei quali il cielo meteorologico (l'atmosfera terrestre) e quelli astronomici sono il simbolo, trattandosi in realtà di una sfera d'esistenza né divina né terrena, ma a metà distanza per così dire. Ora, qui si è data questa si-tuazione: gli Angeli fedeli hanno combattuto in favore di Dio e degli uomini, sono gli "Angeli liturghi" della divina Volontà. Gli angeli ri-belli hanno combattuto per odio contro Dio, e per invidia contro gli uo-mini, e sono stati sconfitti dalle milizie celesti sante. Però restano — se

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si comprende bene l'accenno oscuro di Efesini, ma, si deve qui confes-sare, senza esserne troppo sicuri — un numero probabilmente molto in-gente di angeli, i quali restano neutrali per un imprecisato motivo, dun-que né lealmente dalla parte di Dio e perciò anche degli uomini, né de-cisamente dalla parte degli angeli tenebrosi. Essi ancora restano sospe-si, come in attesa.

Ufficio finale della Chiesa sarebbe quindi evangelizzare quegli an-geli in attesa. E qui il Mistero avrebbe il suo compimento ultimo.

Con gli Angeli di Dio non c'è da scherzare, come pare si permetta di fare certa pessima teologia di moda. Occorre acquisirne conoscenza. Paolo invita severamente la sua generazione a questa conoscenza. E lo fa con le metafore terribili del combattimento.

E così al v. 13 prosegue: "Per questo", ossia per quanto esposto ap-pena sopra, esorta ancora a "sollevare" e indossare la "panoplia di Dio" citata al v. 11, per poter resistere (al v. 11 : per poter stare saldi in attesa dell'attacco; cf. di nuovo 1 Pt 5,9a, sopra) nel momento che vie-ne "il giorno malvagio", quello ultimo ed anonimo e sconosciuto, im-provviso, che decide del destino di tutte le creature. Allora occorre tanto più "avere superato tutto" (àpanta katergasàmenoi), e così prevalere stando saldamente (di nuovo il verbo stènai del v. 11).

Questo "stare a piede fermo", torna come imperativo aoristo puntua-le di histamai: "stète dunque!", che è come il riassunto degli ordini di battaglia e delle prescrizioni per l'equipaggiamento; la panoplia di Dio è descritta nelle singole armi, con i loro effetti splendidi, in crescendo, dalle armi diciamo così passive fino all'ultima, terribile arma efficace ed onnivittoriosa. Le armi allora sono 6.

Anzitutto la cintura che stringe la veste di combattimento: "cinti i lombi con la verità" (v. 14a). La citazione viene daIs 59,17, testo riletto dal grande squarcio di Sap 5, che guida qui tutto il testo che segue, e che è bene rileggere per avere la visione più piena, ma anche per mo-strare come Paolo rilegga di continuo la Santa Scrittura dell'A.T.:

I giusti per il secolo vivranno,e nel Signore la ricompensa loro,e la loro cura sta presso l'Altissimo.Per questo riceveranno il dominio della magnificenza,e il diadema della bellezza dalla Mano del Signore,poiché con la Destra (Egli) li proteggerà,e con il Braccio farà scudo di essi.Assumerà (il Signore) come panoplia la sua gelosia,ed armerà la creazione per respingere i nemici,indosserà la corazza della Giustiziae si cingerà l'elmo come Giudizio sincero,

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DOMENICA 10aDILUCA

prenderà come scudo invitto la Santità,affilerà la sua aspra Ira come spada,combatterà con Lui il cosmo contro gli insensati,partiranno aggiustate frecce di folgori,e come da ben teso arco di nubi scoccheranno verso il bersaglio,e dalla fionda piene dell'Ira saranno sparate grandini,si infurierà contro essi (gli iniqui) l'acqua del mare,i fiumi anche strariperanno erti:li scontrerà lo Spirito della Potenzae come tempesta li disperderà quale pula,e renderà deserta l'intera terra l'iniquità,e la malvagità abbatterà i troni dei potenti (Sap 5,15-23).

Inoltre, i fedeli indosseranno la "corazza della Giustizia", come il loro Alleato divino (v. 14b). E calzeranno i loro "piedi con la prepara-zione dell'Evangelo della pace" (v. 15), citazione di quel testo di Is 52,7 tante volte richiamato sopra.

I militi in tutto il combattimento saranno protetti dallo scudo della fede, la quale sola rende idonei a spegnere e rendere innocui tutti i proiettili incendiarii del Malvagio (v. 16; cf. anche 1 Pt 5,9; 1 Gv 5,4: la vittoria che vince il mondo, è la fede).

Finalmente, la super-arma duplice, l'elmetto della salvezza, di cui il Signore stesso si cinse per la vittoria del suo popolo (Is 59,17), e la Spada dello Spirito, la quale è "la Parola di Dio" (v. 17).

Si apre qui un immenso capitolo, che si può schematizzare in 4 punti.

a) La Parola-Spada è un grande tema profetico, assai frequente nel-l'A.T., per indicare la violenza immane, irresistibile, tagliente e mortale del Signore, che tutto compie con irrisoria facilità quando parla con la sua Bocca divina, dalla creazione alla fine della storia. Poiché se con la Parola, la Sapienza e lo Spirito crea l'universo a partire dalla luce crea-ta (cf. Gen 1,1-3), con la medesima Parola dirige il corso della storia, ed elimina tutti gli ostacoli, tutti i nemici, come con una spada (qui, màchaira, ma anche xifos, e rhomphàia) immane, il cui taglio è fatale per chiunque osi contrastare il Disegno divino. Così il Signore doterà di questa Spada il Re messianico su cui riposa lo Spirito di Dio (Is 11,4, ma cf. i vv. 1-10). E con essa armerà il suo Servo, rendendo la sua bocca come una Spada inesorabile (Is 49,2). Come si vide sopra, Egli stesso armato di tutto punto interverrà nella battaglia per il suo popolo (Is 59,16-20), e sulla bocca stessa di Sion, la sua Città diletta, porrà la sua Parola, e su essa effonderà il suo Spirito per sempre (59,21). Il Si-gnore poi, di fronte all'ostinazione del suo popolo, lo fece a pezzi con

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la Spada della Parola posta sulla bocca dei suoi profeti (Os 6,5), an-tifigura di quanto fece agli Egiziani nella notte dell'esodo, quando nel silenzio terribile della notte la sua Parola discese quale inflessi-bile guerriero, recando la spada affilata che è il Decreto eterno (Sap 18,14-16). Il tema è rievocato da Paolo già nella sua prima Epistola (1 Tess 5,S).

b) D'altra parte, esiste un nesso stretto e funzionale tra la Spada della Parola, e lo Spirito di Dio. Oltre Gen 1,1-3, si può vedere qui il classico Sai 32,6.3, dove il nesso sta in opera dalla creazione in poi; il testo fu molto approfondito dai Padri della Chiesa. Sopra si citò /s i i,4, a cui si può aggiungere Is 61,1-9, specialmente il v. 1: lo Spirito del Signore sta ormai sul suo Unto, inviato anzitutto "ad evangelizzare i poveri", testo proclamato dal Signore nella Sinagoga di Nazaret all'inizio della sua missione (cf. Le 4,18-19).

e) Nel N.T., lo Spirito e la Parola, con la Sapienza, sono l'Operazione divina in atto nell''Oikonomia dell'adempimento. Una "teologia" vera e propria, qui, si ha in Ebr 5,11 - 6,8, che è anche un grande testo triadi-co, dove in 6,4 è in funzione lo Spirito in nesso con la Parola, nell'irre-versibilità del Dono che se si disattende porta alla rovina.

d) Gesù stesso, che è il Verbo Dio, la Parola del Padre tutta pronunciata e tutta operante, è inviato con la pienezza dello Spirito Santo: Gv 3,34, e proclama che le Parole sue — in cui parla del Padre rivelandolo — "sono Spirito e sono Vita" eterna (Gv 6,63). Nella visione escatologica si manifesta come "il Lògos di Dio", "il Re dei re e Signore dei signo-ri", e "dalla Bocca di Lui esce la Spada acuta bifilare" con cui è "il Vit-torioso" (Ap 19,13.16.15, ma vedi ivv. 11-16).

Nella riflessione apostolica, la migliore presentazione di questo te-ma immane è la Pentecoste. Qui, ripetutamente, poiché come si disse Luca narra di 5 Pentecosti dello Spirito Santo (At 2,1-4; 4,31; 8,15-17; 10,44-46, con gli stessi fenomeni della prima Pentecoste; 19,5-7, idem, ed in più, si trattava di dodici persone!), il Dono inconsumabile dello Spirito del Risorto provoca come primo fatto l'annuncio della Parola della Resurrezione, il Kèrygma apostolico.

In Efes 6,17, "la Parola di Dio", connessa con lo Spirito, questa Spa-da inesorabile sempre posta sulla testa del popolo di Dio, è precisamen-te il Kèrygma, l'Evangelo che salva. Cf. qui Rom 10,8, e 1 Pt 1,25: "questo è la Parola (rhèma, come in Efes 6,17) evangelizzata a voi".

Realtà perenne nella Chiesa, che fonda di continuo la Chiesa di Dio nel suo esodo verso il Padre mediante Cristo nello Spirito Santo.

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DOMENICA 10" DI LUCA

6. EVANGELO

a) Alleluia: Sai 19,1.10, "Salmo regale" di LucaVedi l'Alleluia della Domenica 3a di Pasqua, 2a

b)Le 13,10-17II contesto è la "salita a Gerusalemme" (Le 9,51 - 19,28), più volte

rievocata, durante la quale il Signore, battezzato dallo Spirito Santo e trasfigurato dalla Luce increata e di nuovo assunto dalla Nube della Gloria dello Spirito, come "confermazione" del suo Battesimo, per salire alla Croce, passa annunciando l'Evangelo e la sua dottrina, operando i grandi "segni" che sono le opere del Regno, e riportando gli uomini all'adorazione del Dio Vivente.

Nel contesto immediato (sempre rifarsi allo schema generale di Lu-ca, vedi Parte I), il Signore aveva insegnato a lungo la vigilanza escato-logica, poiché il "momento" è in modo perenne una realtà imminente (Le 12,41-59), con ciò avvertendo che è necessario convertirsi (Le 13,1-5), altrimenti si fa la fine del fico sterile (parabola dei vv. 6-9). Adesso opera un altro grande "segno", un miracolo, un'opera del Re-gno, opera della divina Misericordia.

Il momento è un sabato, giorno sacro per eccellenza, la principale fe-sta e celebrazione dell'anno liturgico ebraico. Il luogo è una sinagoga, dove piamente si raccoglie l'assemblea liturgica per ascoltare la Tóràh santa, e la sua spiegazione edificante e normativa. La sinagoga per sua destinazione è la bet ha-midras, "casa dell'insegnamento". E uno spazio privilegiato, dove gli ascoltatori sono disposti ad accogliere nel cuore la divina Dottrina. Gesù proprio questo adesso sta insegnando (v. 10).

"Ed ecco", è l'espressione che comincia il v. 11. Tale espressione molte volte, per non dire quasi sempre, già esprime in via diretta un prodigio divino che si prepara. Come quando il Profeta annuncia: "Ec-co, la Vergine concepisce e partorisce il Figlio" (Is 7,14), con la divina Conferma dell'Angelo di Dio alla Vergine di Nazaret: "Ecco, tu conce-pirai nel seno e partorirai il Figlio, e chiamerai il Nome di Lui "Gesù" (Le 1,31). E ad Emmaus, "ecco due di essi", i disperati e fuggitivi rag-giunti mirabilmente dal Signore che li riconduce nella sua Casa per ospitarli (Le 24,13). Gli esempi sono una miriade.

"Ed ecco una donna", dunque ecco il prodigio divino che sta per mettersi all'opera. Dal contesto, questa donna stava all'esterno della si-nagoga, contentandosi di ascoltare da fuori le ricchezze che sentiva proclamare nell'assemblea dei pii confratelli. Ella era afflitta da "uno spirito di debolezza", di malattia, che le rovinava l'esistenza. Forse non era più tanto giovane, se da ben 18 anni era afflitta da questo flagello, per cui le sue ossa si erano contorte, e la sua persona si era incurvata al

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punto di non potere affatto guardare in alto; perciò parlava con le per-sone come obliquamente (v. 11). Gesù, che di certo, chiamato a parlare nell'aula della sinagoga, stava sul palco apposito, vedeva i presenti in faccia, ma vedeva anche la porta e chi vi faceva capannello. E così scorge la povera donna, una fedele del suo popolo amato Israele, e da lontano la chiama, la fa accostare. Si possono immaginare la timidezza e la ritrosia della donna, quando tutti i presenti si saranno voltati a guardare, tra la compassione, il ribrezzo e il disprezzo che i sani hanno verso i malati. Infatti lo spettacolo della malattia incute nei sani la cattiva coscienza del loro stato, li rende tristi, spesso li irrita. Quasi sempre essi in qualche modo debbono "rimuovere" la malattia e la morte. E qui il mezzo principale è non guardare, non sapere, non intervenire. Gesù guarda, poiché sa, e sta lì proprio e solo per intervenire. I presenti non se ne rendono conto.

Le parole di Gesù sono immediate, un ordine netto, dato con un verbo coniugato con un tempo strano: "Donna, sei stata già sciolta dalla tua in-fermità!" (v. 12). H vocativo gynai in bocca a Gesù è per lo più un titolo d'onore, come dire: "signora". Così, infatti, si rivolge alla Madre sua, ad esempio a Cana (Gv 2,4), quando con la strana espressione semitica "che sta tra me e te?" indica che nessun contrasto di fatto esiste; e così alla Croce: "Gynai, Signora-Regina, ecco il Figlio tuo!" (Gv 19,26), chia-mandola così ad essere la prima e perenne Testimone della Redenzione, "il Figlio" di Maria essendo solo Gesù. Il gynai rivolto alla donna incur-vata dal male, è dunque l'ennesima manifestazione della speciale soa-vità, tenerezza, cura e stima che il Signore ha per le donne, come in spe-cie da resoconto Luca. Le donne nell'antichità, nel medio evo, nell'età moderna, nel futuro, finché continua la durezza del cuore dei maschi, so-no oggetto insieme di desiderio e di noia, di utili servizi e di ingombran-te presenza. Di esaltazione, ad esempio dei poeti, degli artisti, dei musi-cisti, ma anche qui la donna è 1'"oggetto" o meglio il pretesto per alte imprese liriche. Infine, oggetto di disprezzo, per la supposta inferiorità misurata con il metro della condizione maschile. Gesù spazza via una volta per sempre tali malvagità, meschinità, stupidità, ubbie. Egli è "nato dalla Donna". Egli viene per conquistarsi "la Donna, la Sposa" con il suo sangue. Egli proclama che ogni discepolo deve "farsi donna-madre di Lui" per entrare nel Regno, e questo concependolo e partorendolo senza separarsene mai: "Madre mia, e fratelli miei, sono quelli che ascoltano la Parola-Lògos di Dio, e la praticano!" (Le 8,21).

Insomma, questa donna è privilegiata per essere incontrata dal Si-gnore, che la chiama a sé. La sua malattia "già è stata sciolta", dimessa, è sparita, non esiste più. Non solo, con un gesto del tutto clamoroso, e riprensibile per tutti, il Signore la tocca: le impone le Mani immacolate e sante (v. 13a). L'imposizione della mano, o delle mani, è un gesto sa-

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DOMENICA 10' DI LUCA

ero, sacerdotale, di complesso significato. Indica anzitutto che tra la mano e l'oggetto toccato esiste comunione ed appartenenza, e così il sacerdote nel sacrificio anzitutto deve imporre la mano sulla vittima, indicando ai presenti, ed al Signore che è il destinatario dell'offerta e che la deve accettare, che "questa" vittima in un certo modo raffigura se stesso, è se stesso con tutti quelli che rappresenta. L'imposizione delle mani però è sempre accompagnata da una formula di preghiera, e questa non può essere che un'epiclesi: invocazione al Signore che ac-cetti l'offerta, inviando sopra l'offerente con i suoi, e sulla vittima, la sua benedizione, che è anche il segno dell'accettazione.

Qui nostro Signore con il "segno" dell'imposizione della mani sta significando sacerdotalmente, regalmente, profeticamente, nuzialmente che la donna così malata, ormai guarita, appartiene in proprio a Lui quale Sacerdote e Re e Profeta e Sposo. Fa parte di nuovo dell'assem-blea liturgica del suo popolo. È membro del Regno che viene. È desti-nataria della Parola della salvezza. È investita dalla sua divina benedi-zione. Entra da adesso alle Nozze escatologiche, che saranno sancite dalla Croce, dalla Resurrezione e dalla Pentecoste, come Convito eter-no. Inoltre, il Signore contestualmente implora dal Padre la sua Benedi-zione divina su questa sua serva risanata, e tale Benedizione è lo Spiri-to Santo. Cristo Medico delle anime e dei corpi risana infatti per la Po-tenza dello Spirito battesimale.

Sobria è la descrizione delle conseguenze di questi fatti: la donna "subito si raddrizzò, e glorificò Dio" (v. 13a). L'immediatezza della guarigione è il segno incontestabile, sul piano medico, che qui è avve-nuto un miracolo. La creazione e la creatura sono state docili alla Parola divina del Sovrano del mondo. La malattia che turbava l'armonia intesa da Dio, mentre scompare, denuncia con ciò stesso che le potenze avverse all'uomo sono qui dominate, il "regno di satana" ha perduto un'altra posizione strategica, conquistata dal Regno di Dio. Poiché, co-me tante volte si è insistito, Cristo battezzato riconquista nello Spirito Santo il Regno al Padre, strappandolo al Male in tutte le sue manifesta-zioni che tiranneggiano e tengono prigionieri gli uomini.

La donna pubblicamente "glorificò Dio, edóxasen tón Theón". Ogni pio Ebreo davanti a qualsiasi fatto, qualsiasi evento, qualsiasi oggetto, dal risveglio del mattino fino all'addormentarsi, reagisce sempre con la béràkah, la eulogia, poiché sa che sta senza interruzione di fronte alla manifestazione della divina Misericordia. Questo, per lo stesso risve-glio mattutino, per un frutto, un cibo, un profumo, la visita di un amico, la nascita di un figlio, l'inaugurazione di una casa e di un campo, per il raccolto... Tanto più, di fronte alla manifestazione divina avvolgente che è la propria guarigione. La donna infatti sa che con le sue forze non può guarire; di certo avrà cercato la cura di medici; nessuno mai l'ha soccor-

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COMMENTO - CORSO DELLE DOMENICHE

sa. Ecco la Mano benedetta. Ed ecco la bocca del cuore riconoscente, adorante, di una figlia di Dio nel pieno possesso delle sue forze. Adesso può proseguire la sua pubblica glorificazione divina anche dentro l'as-semblea liturgica del suo popolo, fino alla fine della sua esistenza.

Allo scopo della celebrazione di Cristo Risorto nel suo Evangelo, per sé, il discorso sarebbe finito qui. I fedeli oggi sono, possono essere come quella donna; sanno che possono essere chiamati dal fondo della chiesa, e guariti istantaneamente. Di fatto il celebrante invia il suo dia-cono a proclamare: "Con timore, e fede, nella carità, avanzatevi" verso la santa Tavola, da cui i divini Misteri sono la guarigione totale.

Ma Luca ha ritenuto, seguito come quasi sempre da Marco, di pre-sentare un seguito fastidioso del meraviglioso episodio: la reazione di alcuni presenti.

Il capo della sinagoga si irrita perché Gesù guarisce di sabato, essen-do il sabato giorno del "riposo" da dedicare anzitutto al Signore. Nes-suna "opera" è permessa, in specie se da essa si trae qualche vantaggio, come cucinare e accendere la luce, tanto più lavorare e commerciare e così via. Però la stessa severa tradizione ebraica, che aveva minuta-mente emanato prescrizioni sul riposo sabbatico, ammetteva come se-conda istanza che questo giorno, il più solenne di tutti, più di ogni altra festa, fosse dedicato non solo a Dio, ma anche ai fratelli, agli amici, alla carità. Per sé, Gesù stava perfettamente nelle norme.

L'archisinagogo è forse un perfezionista. Oggi si direbbe un "tuzio-rista". Ossia, poneva il limite il più lontano possibile per concedere il meno possibile che si infrangessero le norme sabatiche. Così, "risponde alla folla" presente, di certo stupefatta di quanto avvenuto, e di certo ammirata e contenta, richiamando il fatto che per 6 giorni si può "lavo-rare" (ergàzomai), ed in questi chiunque può "venire" a Gesù e farsi curare e guarire, però mai di sabato (v. 14). Va annotato qui che una guarigione è assimilata ad un "lavoro" medico, il quale per sua defini-zione è un atto da cui qualcuno comunque trae vantaggio. Ora, la don-na senza dubbio ha tratto un vantaggio. Ma se la guarigione in genere è opera medica, la quale per sua natura è retribuita, la gratuità della gua-rigione, qui, è più che palese. Essa dunque non è un "lavoro".

Gesù risponde con un tono in apparenza altrettanto irritato, se non altro che per l'appellativo iniziale: "Ipocriti!". Si noti però che usa il plurale. Così non investe né offende in modo diretto lo sgarbato e non giusto archisinagogo. Conserva sempre la carità. Il termine hypokritès ha una storia strana. Per sé, viene da hypo-knnomai, che significa ri-spondere; poi per traslato, il declamare dell'attore in teatro, ossia il fin-gere di essere un altro "personaggio"; ed infine, per applicazione gene-rale, simulare, fingere, essere "ipocrita" nel senso moderno. Dunque l'accusa di Gesù è a quelli che all'esterno sono severi nel giudicare mo-

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DOMENICA 10JDILUCA

Talmente gli altri, ma se serve sono poi molto concessivi con se stessi senza mostrarlo. Per questo, di una povera donna la guarigione prodi-giosa non è riconosciuta, essa è un "lavoro" proibito, come di ambula-torio medico. Gesù mostra qui come certi abbiano un duplice piano mentale, il proprio, e quello che riguarda gli altri. Ora, tutti i sani di mente, se non vogliono danneggiare il bove o l'asino, anche di sabato va alla stalla, li scioglie e li conduce all'abbeveratoio (v. 15). Questo è detto come domanda: sì o no? La risposta senza eccezione è: sì.

Adesso Gesù procede al tipico ragionamento rabbinico, chiamato "dal minore al maggiore", ossia: se nel piccolo è così, nel grande quan-to deve essere di più. E porta la comparazione: se di sabato così con gli animali, per una donna allora tanto di più.

Ella era malata, ma non semplicemente. È una figlia d'Abramo, e pertanto è erede di diritto della Benedizione e della Promessa del Padre del suo popolo e di tanti popoli, e la Benedizione e la Promessa d'A-bramo, ottenute dalla Croce del Signore, è lo Spirito Santo (Gai 3,13-14). La donna è un membro d'Israele con tutti i diritti e doveri.

"Figlia d'Abramo" però ricorda anche un fatto da non dimenticare mai, la funzione delle donne in seno al popolo di Dio. Da quando esi-ste Israele, un suo membro sarà considerato "Ebreo" a titolo plenario solo se nasce da una donna ebrea. Gesù Signore è vero Ebreo perché nato da Madre Ebrea, la Semprevergine Maria. Le donne ebree sono le vere portatrici della genealogia del popolo di Dio, anche se quella le-gale corre per la linea maschile, che è piuttosto anagrafica. Come è per Gesù stesso, Figlio di Maria, e solo legalmente anche "Figlio di Giu-seppe". E quando in tempi calamitosi, dopo l'esilio, la misura dell'ap-partenenza al popolo santo ricostituito assumerà aspetti drastici, al li-mite del disumano — come ricostituire la genealogia materna, da una parte, e legale, dall'altra, dopo la catastrofe dell'esilio? —, e si ingiun-se di sciogliere nuclei familiari, di rinviare spose e figli, un Autore ispirato con Rut mostrerà che però un "figlio d'Abramo" vero, come David, discendeva da una Moabita pagana, pur convertita al Dio d'A-bramo, ed accolta quasi come "figlia d'Abramo". Era un appello a mi-tigare la durezza.

Gesù quando si trova davanti questa "figlia d'Abramo", conosce be-ne tali questioni. La dignità di questa sofferente e dolente, la sua ido-neità, la sua autenticità erano state sospese per ben 18 anni; 6 è il nu-mero dell'incompletezza, dell'attesa, dell'imperfezione, e così i suoi multipli, in specie 18 e 42. La tattica di satana è isolare un membro del popolo di Dio, rendendolo vulnerabile, e su questa donna si è accanito in modo insidioso, non uccidendola, ma peggio, tenendola "legata", impotente, non più donna attiva e dinamica.

H ragionamento di Gesù è conseguente. Si sciolgono gli animali dal-

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COMMENTO - CORSO DELLE DOMENICHE

la mangiatoia per nutrirli ed abbeverarli di sabato. Tanto più questa donna doveva essere sciolta dal tremendo vincolo, "questo", di satana, anche se fosse di sabato. La legge sugli animali nel giorno di sabato viene dalla normale ragione umana che interpreta saggiamente la Leg-ge così severa, ma non fino al punto di far morire un bene prezioso. La guarigione della donna viene dall'interpretazione dell'unica Norma di-vina che sta sopra la Legge e ne guida l'applicazione: la divina Miseri-cordia, quella che dice di amare il prossimo come se stessi {Lev 19,18). Gesù ha applicato rettamente e la Legge, e la Misericordia, Egli, il So-vrano del sabato, Egli, il Polyéleos, il Multimisericorde. Quando in al-tro contesto aveva detto: "II Figlio dell'uomo è sovrano anche del saba-to" (cf. Le 6,5; Mt 12,8; Me 2,28), aveva premesso: "il sabato a causa dell'uomo (in suo favore) fu fatto, non l'uomo a causa del sabato" {Me 2,27). Infatti il Signore prima creò l'uomo {Gen 1,26-27), poi dispose il sabato per il Riposo divino, a cui ammise anche l'uomo. Anzi benedis-se il sabato perché era la festa più gioiosa per l'uomo. Non solo, altresì per gli animali e per la terra, che insieme all'uomo debbono riposarsi anche essi {Gen 2,l-4a).

La conclusione dell'episodio ha due note: la vergogna "di tutti i suoi avversali", gli "ipocriti" non chiamati per nome; e la gioia di tutta la folla a causa di tutti i "fatti gloriosi che erano avvenuti ad opera di Lui" (v. 17). Fatti risplendenti di Misericordia, che è la principale Glo-ria divina. E fatti che portano a dare gloria al Signore di tutte le mise-ricordie.

7. Megalinario. Della Domenica.

8.Koinònikón Della Domenica.

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DOMENICA 28a DOPO PENTECOSTE t. adi Luca

"Sui convocati alla Cena"

L'Evangelo di oggi si proclama solo la Domenica che cade tra 1' 11 e il 17 dicembre, detta "Domenica degli Antenati". Esso va proclamato sempre e comunque dopo l'Evangelo della 10a Domenica di Luca.

1. AntifoneDella Domenica, o i Typikd e i Makarismói.

2. EisodikónDella Domenica.

3. Tropari

1)Apolytikion anastàsimon, del Tono occorrente.

2)Apolytikion del Santo titolare della chiesa.

3)Kontàkion: rifarsi al Typikón.

4.Apóstolos

a) Prokéimenon: Sai 46 J2 r>nmpnica di Matteo e e

Vedi Domenica 4a di Pasqua, Domenica ^ ^ M

Luca.

b) Col 1,12-19Colossi era stata distrutta dal terremoto nell'anno 60 d.C. Perciò la

data dell'Epistola a quella Comunità cristiana è il 58-59. Paolo la scrisse nella prigionia di Cesarea (a. 58-60), con una pesante preoccupazione teologica, spirituale e pastorale. La grave questione per cui l'Apostolo si mosse ad intervenire con decisione, era simile a quella che agitava i Galati, quella dell'infiltrazione tra i fedeli di elementi dottrinali spurii rispetto ali'Evangelo immacolato. A Colossi infatti, predicatori importuni avevano introdotto strane idee sincretistiche, analoghe a quelle che poi sfoceranno nella gnosi falsa, e centrate in una forma pe-ricolosa di religiosità. Il nucleo di questo era una speculazione cosmica sull'antropologia redentrice. Cristo era assimilato a 6 "angeli" creatori. A questi era tributato un culto, in cui era associato a pari titolo Cristo stesso. Semplificando molto, anche per le scarse fonti a disposizione, dietro tali ideologie stava una certa propaganda giudeo-cristiana non ortodossa. Gli autori parlano qui di "eresia di Colossi".

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II piano dell'Epistola che Paolo dalla prigionia si premura di inviare ai Colossesi è circa questo: dopo l'esordio, diviso in indirizzo (Col 1,1-2) e in rendimento di grazie (1,3-14), il testo passa subito a trattare della supe-reminente dignità e del primato di Cristo Signore (1,15-23); quindi Paolo espone la sua preoccupazione pastorale e dottrinale, e mette in guardia i suoi fedeli dai falsi dottori che vanno circolando (1,24 - 2,23); seguono le istruzioni della vita secondo Cristo, che è vita nuova (3,1-17), da cui con-seguono i doveri verso il prossimo, nelle categorie principali della vita as-sociata già visti in Efes 5-6 (vedi sopra; Efesini di fatto rielabora questo tratto dei Colossesi), ossia gli sposi (3,18-19), i figli e i genitori (3,20-21), i servi e i padroni (3,22 - 4,1); alcune esortazioni per la vita comunitaria terminano il trattato dell'Epistola (4,2-9), che è chiusa dai saluti (4,10-18).

La pericope 1,12-14 connette la fine del rendimento di grazie del-l'Apostolo a causa dei Colossesi, con l'immenso "inno" del primato universale di Cristo, che si estende ai vv. 15-20.

Paolo comincia con il "rendere grazie" (eucharistéó) al Padre; ben-ché il verbo possa esprimere una generica preghiera di azione di grazie, tuttavia esiste sempre in Paolo l'insistenza del rimando alla grande pre-ghiera che come Apostolo di continuo innalza al Padre, e questo avvie-ne nella celebrazione comune del Convito del Signore. H motivo è che il Padre si degnò nella sua Bontà di rendere idonei (ikanóò) sia Paolo, sia i suoi fedeli, di prendere parte all'eredità (klèros) propria dei "santi", eredità gratuita, che discende dalla Grazia divina. Tra i molti significati che riveste il termine hàgioi, santi, Paolo usa spesso quello di "Apostoli della Chiesa di Gerusalemme", la Chiesa Madre di lingua aramaica, con le loro Comunità; l'altro significato è quello comune, egualmente splendido, di fedeli "santi" perché tali sono resi dallo Spirito Santo a partire dall'iniziazione battesimale, come in 1 Cor 6,1; Rom 16,2; Efes 5,3, e naturalmente qui. Ma "santi nella luce, en tophótf(v. 12). La Luce è l'essenza divina che visita gli uomini dall'Alto, per restare con essi e trasformarli in "figli della Luce", ossia in qualche modo diventati essi stessi luce (cf. Apóstolos della Domenica 9a diLuca).

L'idoneità ad ereditare con i santi nella Luce è donata e perfezionata dal Padre, il quale scampò (rhyomai) gli uomini dalla terribile potestà (exousia) tirannica della tenebra. Si è visto come valga l'equazione Lu-ce-Vita, contrapposta violentemente a quella tenebra-morte. Ora, Paolo qui parla dei due Regni, quello della Luce, dell'eredità dei santi, e quel-lo orrido, pauroso della tenebra di morte, regno che si personifica nel Male, nella Morte, nell'Inferno, nel Nemico, nel Maligno. Esso dopo la Croce conosce la progressiva sconfitta, che ne segna anche la scompar-sa ontologica finale (cf. 1 Cor 15,26;Ap 20,14; 21,4).

Rhyomai significa scampare, sottrarre, portare via, liberare, sempre da un pericolo, da un male che minaccia. Simbolicamente, rinvia qui ad

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una "trasposizione", un trasferimento operato dal Padre (mettetemi), il cui termine stabile è precisamente "il Regno", basiléia. Biblicamente, già neh" A.T. il termine malkùt, basiléia, è riferito alla sfera divina della Sovranità eterna che discende ed irrompe nel tempo per annettersi gli uomini redenti e santificati. Esso indica una condizione stabile, inattac-cabile, di vita indivisa con Dio, con il quale si è chiamati a "con-regna-re"; è una delle semantiche della divinizzazione. Ora, questo Regno da una parte è il Figlio con lo Spirito Santo (cf. Mt 12,28; Le 11,20), "il Regno di Dio", il Regno del Padre, il Regno dei Cieli (= Dio); dall'al-tra, è anche il dominio sovrano che il Padre stabilisce dall'eternità per il Figlio anche in quanto Uomo — senza l'Incarnazione indicibile, sen-za l'Unione indicibile delle due nature nell'Ipostasi divina del Figlio, la sostanza del Regno divino in un certo senso per gli uomini sfumerebbe solo nella trascendenza.

Il Padre dunque trasferisce gli uomini che ha fatto eredi, nel "Regno del Figlio della sua agape", del suo Amore di carità infinito e paterno. La dichiarazione di questo Amore avviene in tutto il N.T. solo 3 volte, ma in 3 teofanie di inimmaginabile portata:

a) al Battesimo del Giordano: "Tu sei il Figlio mio — il Diletto, hoagapètós — in te Io già Mi compiacqui!" (Le 3,22). È il Figlio che nella sua Umanità ricevette l'Unzione dello Spirito Santo, per cui al Giordano si contempla la Teofania triadica;

b) alla Trasfigurazione sull'alto monte: "Questi è il Figlio mio - il Diletto, ho agapètós — Ascoltate Lui!" (Le 9,35). È il Figlio battezzato,che nella sua Umanità fu trasfigurato dalla sua Luce increata, e che riceve come protezione sovrana la Nube della Gloria, lo Spirito Santo.Anche la Trasfigurazione è una Teofania triadica;

e) alla Resurrezione gloriosa. Paolo nella sinagoga di Antiochia di Pisi-dia, di sabato, proclama il kèrygma apostolico, e come affermazione centrale predica così (testo già citato tante volte):

E noi a voi evangelizziamo la Promessa fatta ai Padri,poiché essa Dio ha adempiuto per i figli di quelli,noi (gli Ebrei),avendo risvegliato Gesù,come anche è stato scritto (da Dio) nel Salmo secondo:"Figlio mio sei tu,Io oggi ho generato te"! (At 13,32-33),

con la citazione di Sai 2,7.

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Sono le Tre Parole del Padre, per sé le uniche rivolte al Figlio nel N.T. (vi si potrebbe aggiungere Gv 12,28, sulla glorificazione del Figlio).

A questo Figlio Monogenito, come si può vedere dalla parabola evangelica di oggi, Le 14,16-24, riletta con il suo prezioso parallelo, Mt 22,1-14, il Padre Re preparò dall'eternità il Convito del Regno. È que-sto il "segno" dell'Amore paterno duplice, verso il Figlio esclusivo, e verso "i figli nel Figlio", i convitati, amati senza alcun loro merito, per Grazia, per il Gratuito divino gratificante, amati solo per 1'"eccessivo Amore" verso il Figlio. E questo è costituire il Regno paterno, che è coestensivamente filiale (Col 1,13).

Il v. 14 spiega come gli uomini siano ammessi al Regno dell'Amore paterno il cui oggetto è il Figlio: poiché solo nel Figlio essi ricevono e possiedono (échò) la "redenzione" (apolytrósis) (cf. Efes 1,7). La quale consiste in un riscatto mediante un "prezzo", che fu il Sangue del Fi-glio (cf. poi 1,20!), dunque "Sangue prezioso". Lo stato ottenuto è la fi-nale "àphesis ton hamartión, la remissione dei peccati", ossia l'abbono generale totale finale giubilare di ogni colpa. Paolo e Giovanni in altri contesti mostrano che questa è l'opera dello Spirito Santo in azione dalla Croce e dalla Resurrezione (cf. Gv 19,30.34; 20,19-23, con l'in-vio dei discepoli a portare la Pace, lo Spirito Santo, la remissione dei peccati; vedi la Domenica di S. Tommaso).

E qui Paolo, ai vv. 15-20, apre l'immane squarcio sul primato uni-versale del Figlio dell'Amore del Padre. È il celebre "inno dei Colosse-si", una composizione che la critica moderna con buone ragioni attri-buisce alla Comunità prepaolina; l'Apostolo, assumendolo come pro-prio per inserirlo nel dettato della sua epistola, probabilmente ha opera-to una piccola ma ingente modifica al v. 20, evidenziando con il "san-gue della Croce" la definitività del primato di Cristo Signore.

Qui si raggiunge uno dei culmini della teologia di Paolo. Occorre te-ner presente che la cristologia del N.T. in realtà è formata da una incre-dibilmente magnifica serie di cristologie. E più da vicino, Paolo stesso non ebbe una sola visuale statica del Signore suo, ma attraverso faticosi, e di certo dolorosi avanzamenti nella riflessione, perfeziona sempre più la contemplazione del Mistero con il suo centro, il Figlio di Dio. Da questo punto di vista, sempre molto semplificando e disponendo le Epi-stole in un presuntivo ordine cronologico, possiamo passare in rassegna i principali strati della cristologia, o anche delle cristologie di Paolo, che profluiscono impetuosamente a formare una straordinaria e stupen-da compattezza.

All'inizio, dunque dalla visione sulla via di Damasco, il pensiero di Paolo si fissa sul Signore Risorto, e sulla sua Venuta prossima. Più da vicino, egli comprende che Gesù Cristo, quest'Uomo che è il Messia

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divino d'Israele, il Signore-À/yrios-IHVH,il Dio preesistente (Rom 1,1-4), è anche la Potenza e Sapienza incarnata del Padre (1 Cor 1,24 e 30). Del Padre è l'unica rivelazione totale e finale, quindi è l'Icona del Dio Invisibile (Col 1,15). È Dio eterno, fattosi anche il Servo, che per lo svuotamento (kenóò) della sua divinità e per la sua obbedienza filiale nella morte, "ma morte di Croce!", è superesaltato dal Padre (FU 2,6-11). Egli perciò detiene il primato in ogni ordine delle realtà, divine co-me create (Col 1,15-20). Egli è il Ricapitolatore (anakephalaióó) di ogni realtà dispersa dal peccato (Efes 1,10), che Egli recupera per "ri-consegnare il Regno al Padre" (1 Cor 15,24), "al fine che Dio sia del tutto (tà pdnta,avverbio) in tutti" (1 Cor 15,28).

Il quadro delle cristologie va completato. Paolo non deve andare ol-tre, poiché è riservato ad altri autori di contemplare il Mistero, non più in alto, come la Tradizione con una certa esagerazione romantica ha cre-duto, ma per maggiore compiutezza dell'indicibile Rivelazione divina.

Perciò un discepolo (probabile) di Paolo giunge a comprendere che questo Figlio è Splendore della Gloria del Padre, Impronta della sua Sussistenza: l'Icona perfetta (Ebr 1,3, che cita Sap 7,26: "l'Icona della Bontà" del Padre!), e di tutto è il Reggente con la Parola (rhèmd) della sua Potenza (lo Spirito Santo) (ancora Ebr 1,3).

Finalmente, Giovanni ha l'accecante riflessione che il Figlio, il Dio Monogenito, l'unico Esegeta del Padre (Gv 1,18), è il Verbo-Principio (arche), Verbo Dio, Verbo presso Dio, Verbo Dio da Dio, Luce, Vita preesistente nel Seno del Padre (Gv 1,1-4 e 18). E manifestante tutto questo nel suo "diventare anche carne e porre le sue tende tra" gli uo-mini (1,14). Come dice ripetutamente S. Cirillo d'Alessandria, così il Verbo si fece la sua stessa carne, per cui la carne del Verbo è il Verbo, ed il Verbo è anche la sua carne.

È ovvio che per completezza occorre tenere presente la cristologia dei singoli Sinottici, degli Atti (è qui molto arcaica, presto dimenticata dalle Chiese), delle Epistole cattoliche (in specie di Pietro), dell'Apocalisse. H quadro, come mostra la storia della Tradizione, e la stessa teologia bibli-ca moderna, è praticamente inesauribile, di fatto mai esaurito. E la ripro-va è che la bibliografìa su Col 1,15-20 negli ultimi decenni è così estesa, che gli stessi specialisti difficilmente la padroneggiano.

Anche sugli aspetti letterali del testo esistono molti pareri discordi; la sola tripartizione fa un certo accordo, ma sul taglio delle tre strofe, e quindi sulla logica interna, vi sono esitazioni.

Qui interessa piuttosto l'aspetto teologico e spirituale, mistagogi-co ed omiletico, perciò si cercherà di cogliere almeno i maggiori punti tematici.

Il soggetto del v. 15, espresso grammaticamente dal relativo "hós, il quale", è "il Figlio dell'Amore" del Padre del v. 13. Ora, la connessio-

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ne "naturale", la comunanza della natura divina (l'homooùsios di Nicea I) tra il Padre che ama ed il Figlio che è il Diletto, porta quale conse-guenza che il Figlio sia YEikón, l'Icona, la manifestazione, la rivelazio-ne visibile del Padre, che è il Dio Invisibile per definizione. Qui il N.T. sta rigorosamente sulla linea dei Padri dell'A.T., per i quali il Signore Unico, Dio personale, è e resta in eterno trascendente, fuori della porta-ta della visione, dell'ascolto, della presa umani. E proprio come tale, invece interviene per gli uomini nella realtà sperimentabile delle sue molteplici manifestazioni per "segni" e simboli ed eventi ed istituzioni ed elementi creaturali, in specie però mediante le persone dei suoi servi come Mosè ed i Profeti.

Però, sempre nell'insuperabile differenza della natura divina rispetto alla natura creata. Certo, ogni uomo creato è "icona di Dio", ma non partecipa affatto alla Vita divina nascosta nel Signore.

Con il N.T. avviene una rottura in questa legge. Dio resta "l'Invisi-bile", Colui che nessuno vide mai (Gv 1,18), che nessuno vedrà mai in quanto Dio Trascendente. E tuttavia in qualche modo Dio stesso si ren-de finalmente visibile, nel Figlio Unico, che i Padri del sec. 2° definiro-no "il Visibile dell'Invisibile Dio". E così il Figlio, che è l'Icona eterna del Padre nel Padre e nello Spirito Santo — così che, in un certo senso, il Padre se vuole contemplare se stesso deve rivolgersi alla sua Icona, divino indicibile indescrivibile Specchio ipostatico vivente della sua Gloria —, adesso svolge questa funzione anche verso gli uomini, per sovrana Condiscendenza. Chi vuole contemplare il Padre, deve rivol-gersi al Figlio nello Spirito, e solo nello Spirito al Figlio. Al Figlio nella "visibilità, ascoltabilità, palpabilità" (cf. 1 Gv 1,1-4) della sua natura umana assunta "secondo l'Ipostasi" a vivere la stessa Vita divina. Con Paolo concorda qui Giovanni: "chi vede Me, vede il Padre" (Gv 14,9), dice il Signore ai discepoli (Filippo) che gli chiedono di portarli alla vi-sione divina. Perciò il Figlio è laperfetta Icona del Padre.

Paolo qui comincia la riflessione, che Giovanni perfezionerà: l'Icona del Padre non è solo "visione" concreta, bensì, essendo anche per essen-za il Verbo del Padre, è anche "ascolto" concreto, sicché, come bene i Pa-dri seppero esporre, e la Sinodo Ecumenica di Nicea II (a. 787) finalmen-te codificare e sanzionare contro gli iconoclasmi di ogni tempo, "quanto il Verbo parla, l'Icona manifesta". Questo deve essere applicato ali'Evan-gelo ed alla santa icona del Signore Risorto, il Pantokràtór.

L'Icona "è il Primogenito dell'intera creatura" (o creazione). L'af-fermazione potrebbe suonare: il primo delle creature. In realtà, va intesa al modo paolino: l'Icona è il Primogenito, come tale è Concreatore, insieme con il Padre e con lo Spirito Santo, dell'intero universo, e il ti-tolo indica la dignità divina trascendente del Primate su ogni ordine della creazione, visibile ed invisibile (v. 15). Egli è la Sapienza divina

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creatrice (allusione a Prov 8,22-30), tenendo conto che nella Santa Scrittura gli autori sacri usano il verbo "creare" (ebraico bara') solo in riferimento a Dio.

Inoltre, Primogenito è titolo complesso. In Sai 88,38 lo è il Re mes-sia atteso; in Giob 18,13 indica Colui che ha il dominio sulla morte: "Primogenito della morte "; inAp 1,5, "il Primogenito dei morti" indica Colui che per suo divino e sovrano potere è l'Unico ad avere vinto la potenza terrificante della Morte personalizzata; i riflessi vengono anche da Eccli 24,5, dove la divina Sapienza è la Primogenita che esiste dal-l'eternità. E dove Le 2,7 dice che la Vergine "partorì il Figlio suo, il Pri-mogenito", è chiaro che questo è immediatamente il Primo-Ultimo Fi-glio di Lei, ed è anche coestensivamente il Monogenito del Padre.

La spiegazione viene al v. 16: "Poiché", ossia come conseguenza delle affermazioni del v. 15, "in Lui", che è l'Immenso, tutto fu creato. Per significare questo si indicano diverse "estremità distali", ossia realtà radicalmente diverse che racchiudendo con due termini significa-no la totalità: cielo e terra, realtà visibili ed invisibili, e tra queste gli "ordini" degli "spiriti incorporei", in una terminologia che resterà clas-sica e che servirà per formare le gerarchie (in genere, 9), ossia troni, dominazioni, principati, potestà. La totalità è riassunta con il gioco delle particelle, importanti quanto mai: "in Lui", ma anche "mediante Lui", e "finalizzate a Lui". Qui si deve contemplare anche l'opera con-creante del Padre, che si serve del Figlio creatore quale mediatore uni-versale sommamente efficace, e indirizza e finalizza tutto a Lui.

Così che la descrizione prosegue riaffermando che rispetto alle crea-ture provenienti dalla sua onnipotenza, il Figlio sussiste "prima di tut-te" esse. Non solo, ma che è la ragione immediata (causale, formale, fi-nale) della sussistenza di tutte le realtà create; il verbo qui è synistèmi. Giovanni dirà circa il medesimo del Verbo, per cui "tutto mediante Lui (dal Padre) fu fatto, e senza Lui realtà fu fatta neppure una — quanto fu fatto, in Lui era vita" (Gv 1,3, secondo la retta punteggiatura).

Il Primato universale del Figlio è affermato solennemente così: "ed Egli è la Testa, kephalè, del corpo, sòma". Il corpo è definito così: è "la Chiesa". Ora, "testa" dice dell'organismo vivente l'organo principale, vitalizzante, poiché contiene l'intelletto, la volontà, la decisionalità, la sensibilità; inoltre, possiede la vista, l'udito, l'odorato, il tatto, il gusto e la nutrizione. E possiede la parola che in un certo senso è la vita espressiva, relazionale della testa e del corpo. Paolo evoca qui la legge creaturale per cui la testa senza il corpo è un non senso; non esiste un organismo "tuttotesta". Però anche il corpo senza testa è un tronco morto; non esiste un organismo "tuttocorpo" ed acefalo. La connessione testa-corpo è "la vita". Ma Cristo Signore è la Testa e il Capo che sussiste dall'eternità, e che è venuto precisamente nel tempo a cercarsi

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un "corpo". Egli, l'Autosufficiente, si rende quasi manchevole per po-ter comunicare la sua Vita di "Testa" divina ed umana a questo corpo. Il senso è che il "corpo" era formato di membra disperse ed alienate a causa del peccato. Egli le riunisce e compagina ed organizza e rende viventi. Il parallelo Efes 1,10 parla di Cristo quale "Ri-capitolatore", anakephalaióó, dove è chiaro il senso: and, di nuovo e dall'alto in bas-so, e kephalè, testa, ossia ricostituire la compagine dispersa in organi-smo vitale. Così, di questa mirabile ricapitolazione, il grande tema dei Padri del sec. 2° (S. Ireneo), il capolavoro è YEkklèsia. Ma qui il tema si amplia: Testa-corpo dicono Sposo-Sposa, poiché lo Sposo non può stare senza la Sposa, ma la Sposa neppure esiste senza lo Sposo.

Così, questa Testa-Capo è anche "il Principio", arche, come il Verbo in Gv 1,1. Il rimando diretto è a Prov 8, 22-27, sulla Sapienza divina eterna come Arche divina. È la dichiarazione del Primato assoluto del Figlio Icona, nella trascendenza divina. Per cui se è "il Principio", è an-che "il Fine", l'Alfa e l'Omega, come verrà poi ad essere esplicitato in Ap 1,17, ed in altri testi afferenti.

Il Primato nella trascendenza divina — nell'amore del Padre — è coniugato a quello sugli uomini. Il Figlio è il Primogenito dai morti, il che indica insieme sia il dominio sopra richiamato sulla Morte in ogni suo orrido aspetto, sia la Vittoria del medesimo Figlio Icona in quanto Uomo Resuscitato per primo. Questo suppone ed esige che vengano dopo Lui anche "altri" resuscitati. Tale Primato è finalizzato all'univer-salità: "affinchèEgli in tutto diventi Primeggiante" (v. 18). Il "tutto" è chiaro, ma deve essere spiegato ancora di più, e per questo occorre at-tendere la fine dell'"inno".

Come Primate, ed esercitante di fatto il Primato divino ed umano universale, il Figlio porta qui il titolo funzionale massimo: "in Lui si compiacque di inabitare l'intero Plèróma" (v. 19). Un'aggiunta preziosa ed esplicitante viene poi al v. 2,9: "poiché in Lui (Cristo, v. 8) abita per intero il Plèróma della Divinità corporalmente". Ora, in Dio il suo Plèróma, l'infinita "Pienezza" della Divinità, ossia della Vita, della Gloria, della Maestà, dell'Infinità, della Sapienza, della Potenza, del-l'Amore, della Bontà... è lo Spirito Santo.

UEudokia, che è sempre fontalmente del Padre, volle che abitasse nel Figlio, e per così dire, Lo permeasse integralmente, lo Spirito San-to, al duplice titolo di Dio da Dio che eternamente vive la Vita dello Spirito che è la stessa Vita del Padre; e di Uomo Risorto e glorioso, di-ventato unica Fonte dello Spirito Santo (cf. ancora At 2,32-33). Così, il senso di plèróma è chiaro nella sua duplicità: Cristo è "pieno" di Spirito Santo per essenza divina coeterna, ed è "riempito" di Spirito Santo in quanto Uomo Risorto. Se in 2,9 si dice che tale Pienezza è "corpo-ralmente" abitante in Lui, si indica la Chiesa "corpo di Cristo". Qui la

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divina Pienezza dello Spirito è recepita "passivamente", e tuttavia la Chiesa è "il luogo della Pienezza", da dove questa dovrà essere diffusa in supereffluenza infinita nel mondo, ad opera di Dio ma per umana cooperazione.

Occorre adesso leggere anche il v. 20, che è essenziale, ma è tagliato fuori della pericope di oggi.

Il Padre che si "compiacque" di far inabitare lo Spirito Santo nel Fi-glio Icona, si compiacque anche di riconciliare "mediante Lui" tutte le realtà esistenti. Riconciliazione dice raccostamento ed amicizia nuova tra due realtà prima lontane e nemiche. Qui, Dio, e gli uomini colpevo-li. Le due realtà trovano un "medio" che le riunisce e le rende amiche. Tuttavia il movimento parte dal Padre, che fa sì che tutte le realtà create accorrano "verso Lui", il Figlio. Ancora una volta Giovanni spiegherà che solo Dio mediante il Figlio raccoglierà tutti i figli dispersi, fi-nalmente riuniti in uno: Gv 11,52.

Questo avviene nella "pacificazione" attiva operata da Cristo con "il sangue della Croce" — inserzione paolina —, per cui la mediazione di Lui, di 'autoù, è universale, nel cielo e nella terra.

L'"inno" è mirabile. Solo per cogliere il grande tema del Primato di-vino ed umano, sempre universale, di Cristo, sarà bene qui dare uno schema. Tale Primato infatti si esercita in ogni ordine della realtà esi-stente in cielo ed in terra:

a) nell'ordine trascendente: Primato nell'Amore del Padre;

b) nell'ordine creato:- Primato nella creazione spirituale (angeli, etc.) e materiale;- Primato nell'ordine della redenzione: Croce, Vittoria sulla Morte;- Primato nell'ordine della Comunione: Testa e corpo della Chiesa;-Primato nell'ordine dell'escatologia: tutte le realtà riconciliate, riunite rappacificate con Dio;- Primato nell'ordine del Dono inconsumabile del Plèróma dello Spiri-

to Santo: Plèróma posseduto, Plèróma comunicato alla Chiesa. Dalla Chiesa, al mondo degli uomini.

5. EVANGELO

a) Alleluia: Sai 90,1.2, "Vedi Domenica 7a e 15a ' 6a

b) Le 14,16-24"La Cena grande" è la parabola straordinaria per significato, che

Gesù insegna lungo la sua "salita a Gerusalemme", dove, come Battez-

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zato e Trasfigurato, dovrà adempiere l'ultima parte della sua missione, la Croce. La parabola a sua volta fa parte della "dottrina" del Regno, che consegue alla proclamazione dell'Evangelo, e che è correlativa alle opere del Regno, i grandi "segni" prodigiosi.

Va qui anzitutto osservato il contesto immediato della parabola. In Le 14,7-14 Gesù insegna una grande catechesi di umiltà, assumendo come pretesto la voglia umana di prevalere che si nota ad esempio a proposito dei conviti festivi. Al v. 15 uno dei convitati, mentre Gesù stava presente, invitato anche Lui, ammirato, grida la sua emozione: "Beato chi mangia il pane nel Regno di Dio!" Il tratto viene dall'attesa ebraica del Messia e del suo Convito escatologico, quello promesso dagli antichi Profeti (cf. Is 25,6-12), che avrebbe segnato la vittoria del Regno di Dio atteso. Pur se molti Ebrei del tempo di Gesù attendevano un potente regno terreno, in realtà moltissimi altri attendevano invece un Regno spirituale, anche se non avrebbero saputo darne una descrizione precisa. "Mangiate il pane", inoltre, indica insieme un punto di partenza, il Convito a cui tutto Israele avrebbe preso parte, ed una condizione permanente. Poiché "mangiare il pane" significava anche condurre una vita indivisa nel Regno, nella beati-tudine della divina consolazione già sulla terra. In altri termini, uno stato permanente, gravido di conseguenze spirituali. L'intuizione dell'uomo è perciò stupenda, volendo dire circa così: Beato chi con Te, Gesù, starà sempre nel Convito del Regno. La parabola vuole essere anche un'espli-citazione di quest'attesa, ed una sua migliore interpretazione e correzione.

Ma occorre osservare, come si diceva, che 14,25-35 è un testo pro-grammatico: partecipare al Convito significa anche "seguire" Gesù, ed allora le condizioni poste da Gesù stesso sono severe: "accettare su di sé la propria croce" (v. 27). Il Convito passa per la Croce.

Le 14,16-24 deve essere letto tenendo conto del suo parallelo para-bolico, Mt 22,1-14; le due narrazioni si integrano opportunamente. Ve-di perciò la Domenica w*™atteo.

"Un uomo", "un Uomo Regale" (Mt 22,2), fece la "Grande Cena", il Déipnon, come resterà per sempre nella terminologia della Chiesa. Al-lora pone in atto per intero la sua volontà: anzitutto "chiamò", kaléó. Ma chiamò "molti". Non si può qui parlare di quantità limitata, benché ingente, poiché l'espressione "molti" vuoi dire in ebraico "tutti". In realtà, l'ebraico non ha l'aggettivo "tutti", né tale sostantivo. Se vuole dire "tutti", si esprime così: o con un collettivo, "tutto l'uomo", ossia l'intera umanità; oppure con un sostantivo generico, rabbìm, "i molti". La riprova inconfutabile di questo viene da due esempi straordinari, ol-tre tutto connessi in modo stretto e funzionale:

a) il "4° cantico del Servo sofferente", Is 52,13 - 53,12. Il Servo con le sue sofferenze, che lo resero irriconoscibile e disprezzato, "meravigliò i

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molti = tutti" (52,14), "la moltitudine delle nazioni = tutti i pagani". Però, posto da Dio come Vittima santa ed innocente, Egli assuntosi vo-lontariamente e mitemente questa missione, "giustificherà i molti = tut-ti" (53,11), il Signore "tra i molti = tra tutti, gli conferisce il possesso", ossia il Dominio salvifico (53,12a). Egli infatti "portò i peccati dei molti = tutti, intercedendo per i prevaricatori" (53,12e). È il vero Agnello di Dio immacolato e mansueto, perseguitato e muto (53,7), quello additato da Giovanni il Battista ai discepoli che debbono seguir-lo: Gv 1,29 e 36;b) Paolo nel suo greco flessibile, proclama che "tutti (pàntes) stanno sotto il peccato" (Rom 3,9), che "tutti peccarono e sono privi della giu-stizia di Dio testimoniata dalla Legge e dai Profeti" (Rom 3,20), che "tutti (pàntes) peccarono e sono privi della Gloria di Dio" (Rom 3,23). Poi passa a spiegare la tipologia di Adamo e di Cristo Adamo Ultimo. E qui, da buon Ebreo, lascia passare ogni tanto i suoi semitismi ricono-scibili, alternati al buon greco:- Adamo travolse nella morte "tutti" (pàntes), e quindi "tutti (pàntes)

peccarono" a partire sì dall'unico, ma agirono lo stesso volontariamente e colpevolmente: Rom 5,12;

- dalla caduta di uno solo, "molti (pollài) morirono": Rom 5,15a;- a maggior ragione, dall'Uno, Cristo, vennero Dono e Grazia divini in

abbondanza su "molti" (pollói). Ossia: tutti morirono, tutti però daCristo furono rivivificati: Rom 5,15b;

- così l'opera della Giustizia divina di Uno solo portò alla vita "tutti"(pàntes): Rom 5,18b;

- per la disobbedienza di uno solo, "molti (pollói)" — ossia: tutti! —furono costituiti peccatori: Rom 5,19a, e tuttavia

- dall'obbedienza filiale dell'Unico Gesù Cristo "molti" (pollói) saranno costituiti giusti: Rom 5,19b.

In una parola, sia la costanza di Isaia nell'usare "molti" per "tutti" -il Servo sofferente opera la redenzione di tutti! —, sia l'alternanza paolina dei "molti" e dei "tutti" — Adamo fece precipitare tutti, senza eccezione, e l'Adamo Ultimo Cristo redense tutti, senza eccezione! — indicano che si tratta dell'universalità del genere umano.

La vocazione alla Cena grande è dunque per tutti gli uomini (v. 16).L'Ospite magnanimo e generoso alla hóra, al tempo stabilito per la

Cena, invia (apostéllo, il verbo di "apostolo") il servo suo, per procla-mare ai "chiamati" (kaléó): "Venite, poiché tutto è pronto" (v. 17). H "venite" indica comunicazione, desiderio di comunione. È il medesimo appello del diacono che durante la Divina Liturgia chiama i fedeli alla comunione. La preparazione della Cena, a puntino, per tutti, è indicata con l'aggettivo hétoima. Ora, da una parte esiste la hetoimasia, la pre-

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parazione a cui tutti gli uomini sono tenuti davanti al Signore che chiama e che viene nella chiamata stessa. La hetoìmasia è raffigurata in genere nei catini delle absidi delle chiese antiche da un mosaico, dove sta un trono su cui riposa aperto l'Evangelo che annuncia la hó-ra, sul quale può aleggiare sotto il simbolo della colomba lo Spirito Santo. Dall'altra parte sta il fatto che i fedeli debbono essere hétoi-moi, pronti sempre, come le 5 vergini della parabola, che si fecero trovare dallo Sposo con le lampade accese, ed entrarono nel Convito nuziale: Mt 25,10. La "preparazione", in sé, deriva dall'imperativo: Vigilate, non dormite! (cf. Mt 25,13), poiché ignota è la hóra, ma vie-ne inevitabilmente.

Per comprendere sia l'importanza decisiva del Convito e della voca-zione ad esso, sia l'atteggiamento degli invitati nel seguito della para-bola, occorre rifarsi all'altro celebre fatto, il Convito della divina Sa-pienza, con il suo invito:

La Sapienza costruì a se stessa la casa,e innalzò sette colonne,uccise le proprie vittime,mischiò nel cratere il suo proprio vinoe preparò la sua propria tavola,inviò (apostéllò) i propri servi (doùloi),convocandoli (sygkaloùsa) con altissimo annuncio dal costone,parlando:Chi è stolto, si diriga a me!E a chi manca d'intelligenza, parlò:Venite, mangiate dei miei panie bevete il vino che mescei per voi.Cacciate la stoltezza e vivrete,e cercate l'intelligenza affinchè viviate,e raddrizzate con la conoscenza l'intelligenza! (Prov 9,1-6).

Vanno notati l'accuratezza premurosa della preparazione del convito: un'aula sacra posta su salde colonne; la carne e il vino, il pane, tutta mate-ria del sacrificio; la tavola ospitale, l'invito convocante dei servi (doùloi; nella parabola, uno solo, doùlos), "con annuncio ad alta voce". La premu-ra è per i poveri di intelligenza delle realtà divine della Sapienza.

Anche e soprattutto notevoli sono i verbi della convocazione: venite, elthàte (imperativo aoristo, che indica il tempo puntuale ed irreversibi-le); mangiate, phdgete; bevete, piete. Tutti verbi che si ritrovano nella celebrazione dei Divini Misteri.

Infine, il Convito ha lo scopo di donare il Cibo che negli uomini "stolti", ossia immeritevoli perché peccatori e oscurati dalle colpe,

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causa il dono dell'intelligenza: la Sapienza divina è Amore, Amore nuziale unitivo, e si sa bene che "la Sapienza diventa Amore" negli uomini a causa dello Spirito Santo (S. Gregorio Nisseno), e che "si conosce solo se si ama".

Per gli invitati, la convocazione è partita irreversibilmente, ed un'u-nica volta, poi, mai più. I "molti-tutti", gli stolti, ossia anche noi oggi qui, debbono sapere che questa hòra della vocazione, ormai sta qui, con il suo imperativo esigente: Venite!

Avviene però il dramma. Unanimemente, come se si fossero dati la parola, "tutti" cominciano a declinare l'invito, a "scusarsi" (paraitéo-mai), con formule cortesi, ben motivate, nette. Sono descritte tre situa-zioni universali che fanno rifiutare la divina vocazione.

Per paradossale che possa sembrare, esse vengono direttamente dalla Santa Scrittura. Il cap. 20 del Deuteronomio infatti dava norme per comportarsi in situazioni determinate durante una guerra. Anzitutto il Signore assicura la sua presenza e la sua assistenza potente (Dt 20,1-4). Poi agli ufficiali è demandato l'ordine di fare la rassegna delle truppe, discriminando alcuni casi, per cui alcuni in casi previsti sono esentati almeno per quella volta di esporsi alla morte. Quelli che qui interessa-no sono: chi ha costruito da poco una casa, deve andare ad inaugurarla (Dt 20,5); chi ha piantato una vigna che dia frutto per la prima volta, deve andare a lavorarvi (20,6); chi si è fidanzato, vada a sposare la ra-gazza, affinchè questa non tocchi in sorte ad altri (20,7); infine, chi è un vigliacco come i mafiosi, torni a casa perché non deve demoralizza-re gli altri (20,8). Sono norme altamente umanitarie, e comprensibili solo in Israele, poiché altre nazioni non conoscevano queste misure.

Così il primo invitato si scusa: l'acquisto di un campo (una vigna?), lo costringe ad andare a prenderne visione, e dunque possesso e suc-cessivo lavoro. E invia a dire all'Ospite: "Ti prego", e questa è corte-sia, "abbimi (come) scusato", e questa è educazione e decenza (v. 18). Talvolta con chi sta sopra si usa questa forma, sperando nella rispetti-va cortesia.

Il secondo spiega che ha comprato ben 5 paia di bovi da lavoro, e subito deve provarli sul campo. Se sono idonei, va bene, altrimenti po-trebbe restituirli con la clausola compromissoria. Si tratta di "affari" economici, inderogabili. L'Ospite lo sa, perciò è pregato anche da que-sta parte di scusare. Anche qui cortesia ed educazione (v. 19).

Il terzo invitato, come il primo, e forse il secondo che applica 1'"analogia", conosce bene la Legge santa, è forte del suo diritto. Ma ha torto, poiché il Convito non è la guerra. Perciò dice secco: Che vuoi tu da me? Ho sposato, "e per questo non posso venire!" (v. 20). Forse non gli è balenato in mente il pensiero che la vocazione per il marito vale anche per la moglie. S. Paolo assicura che il marito cristiano, senza

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contrarre nuove nozze, santifica la sposa pagana, e così la sposa cristia-na santifica il marito pagano. Non serve qui nessuna forma ignobile di divorzio (cf. 1 Cor 7,12-14a), perché oltre tutto in ogni caso i figli che nascono sono santificati, quindi anche essi vocati al Convito, alla Cena grande (1 Cori,Uh).

Non sono narrate le reazioni meravigliate e addolorate del servo invia-to. Egli riappare presso il Signore suo, per annunciargli questi fatti incre-sciosi. Il Signore "Padrone della casa", Ospite divino, Lui sì si irrita (orgizó). Mentre nella parabola parallela di Matteo, invia le sue truppe a punire gli invitati ricusanti — il suddito non ha diritto di essere scortese ed irritante verso il suo sovrano — (cf. Mt 22,7), in quella di Luca, l'O-spite è più pacifico. E parla concitatamente al servo suo. La Sapienza di-vina non rinuncia mai al suo Convito. L'ordine è di uscire "in fretta", ve-locemente, perlustrando piazze e vie della città, e di "portare qui", da Lui, tutta la massa di indigenti che si trova: poveri, infermi, ciechi e zop-pi (v. 21). Di che si tratta? Proprio di tutti quelli che erano esclusi sia dai festini dei ricchi, sia dall'assemblea liturgica del popolo santo.

Ci si può chiedere: ma che tipo è questo potente e ricco Ospite, che può invitare tutta la città dall'inizio, ed invece limita dall'inizio gli inviti ai borghesi, possidenti, benestanti, agiati? La risposta viene dalla misura della capienza della Casa dell'Ospite. Essa deve essere riempita ordinata-mente, a ondate successive, poiché appunto c'è spazio per "tutti", non per pochi ricchi vignaioli, agiati bovari e sposini freschi. Significa che questi per un motivo dovevano essere invitati prima, vantando qualche diritto nel rapporto con l'Ospite. È chiaro, essi lavorano per lui ai suoi campi ed alle sue vigne, e hanno diritto di precedenza, sono sotto contrat-to, sotto "alleanza". Non si faccia qui l'applicazione facile, banale, inge-nerosa e non fondata: i primi invitati sono gli Ebrei, i secondi i pagani. Invitati sono tutti. Gli Ebrei, caso mai, per il titolo dell'alleanza divina fe-dele, hanno diritto di essere i primi beneficiari del Convito. Paolo ha sempre annunciato l'Evangelo anzitutto agli Ebrei, poi ai pagani. Ma gli Ebrei rifiutarono l'invito? Zaccaria, Elisabetta, Giovanni il Battista, Si-meone, Anna, la Madre di Dio, i Dodici Apostoli, i 120 discepoli, i 500 fratelli, Paolo... erano Ebrei. La "grande folla di sacerdoti che obbediva alla fede" di At 6,7, erano Ebrei. I farisei presenti alla Sinodo di Gerusa-lemme dell'anno 50, "avevano creduto" (At 15,5), ed anche "le decine di migliaia di quelli che tra gli Ebrei credettero, e sono tutti zelanti nella Legge" (At 21,20), erano tutti Ebrei. Anche le autorità che numerose cre-dettero in Gesù, benché per paura non Lo confessassero per allora (Gv 12,42), erano Ebrei. E gli imprecisati milioni di Ebrei che in tutto l'impero, ed anche in quello persiano, accettarono la predicazione dell'Evange-lo e costituirono da Gerusalemme a Roma le prime Comunità cristiane, tutte a loro volta missionarie, erano tutti Ebrei.

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Se molti Ebrei non accettarono il Convito del Figlio, restando fedeli a quello del Padre, è un fatto che deve certo impressionare, e far prega-re molto. Ma ieri ed oggi, e forse domani, quante immani folle di cri-stiani non accettarono per intero la vocazione alla Cena grande, e perfi-no dopo avervi partecipato se ne andarono a far parte dei nemici della Croce? Anche qui si deve pregare molto, e non arrogarsi di sostituirsi al Giudice, che è anche il Misericordioso.

Il povero servo questa volta torna contento: "Signore, avvenne quanto ordinasti", ossia la meraviglia dell'afflusso in massa dei poveri di Dio. "E c'è ancora posto!" (v. 22). La generosità dell'ospite, come si è anticipato, ha preparato un'Aula sconfinata, che può contenere tut-ta l'umanità, solo che questa lo comprenda — convito della Sapienza per gli stolti! —, e lo voglia, rimuovendo i pretesti inconsistenti dei pri-mi tre invitati.

Il Cuore paterno dell'Ospite per la terza volta invia il servo fedele, umile, obbediente e infaticabile: "Esci" ancora. Adesso lungo le vie ex-tracittadine, e i viottoli di campagna delimitati dalle siepi, fino a per-correre tutto il territorio, nessuno deve essere tralasciato. E viene lo strano ordine, che ha fatto scrivere molte pagine curiose di fantafiloso-fia e di fantateologia sulla "violenza religiosa": "E costringili ad entrare, affinchè sia riempita la Casa mia!" (v. 23).

"Costringili ad entrare". Il verbo anagkàzó dice appunto costrizione esterna, violenza, sopraffazione. Ma che ospitalità è questa, che non la-scia la "libertà" agli invitati? Perché i primi non furono "costretti", e gli altri, i "molti", i "tutti", sì?

Chi conosce appena poco l'Oriente non dai libri e dal cinematografo e televisione, ma per esservi vissuti almeno qualche tempo, sa bene che cosa voleva dire l'Ospite con quell'anàgkason eiselthéin. Intanto gli in-vitati primi sapevano della Cena perché stavano in rapporto con il loro Sovrano, e non avevano necessità di essere costretti, il rapporto era li-bero. Gli altri invece debbono essere circondati di premure soffocanti, come quando l'ospite orientale ti costringe ad assaggiare più volte cia-scuno dei 30 e 40 piatti e piattini del pasto, e ripetuti bicchierini di li-quore e tazzine di caffè, e dolci, e frutta secca, e sigarette... Guai a chi si rifiuta: ti si "costringe". Come dire no, a costo poi di sentirsi sazi per qualche giorno. È meraviglioso! Specie in confronto con i pranzi uffi-ciali con tanto di lista delle pietanze, e perfino — con immensa grosso-lanità — con la marca dei vini, esibiti sempre come i migliori, pranzi che offrono piattini piccoli e sofisticati e dai nomi ridicoli e dai sapori di cuochi alchimisti che a parte si cucinano le pietanze vere.

L'Ospite dunque vuole tutti. Vuole la sua Casa riempita. Vuole soprattutto riempire i suoi ospiti graditi, desiderati, di ogni Bene messianico.

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La parabola sta tutta qui, nella sua incredibile semplicità, ma nella sua immane meraviglia.

La finale, forse, è la parte che altrettanto interessa: nessuno dei primi invitati, "vocati" (keklèménoi), gusterà quella Cena. H Signore Gesù qui parla in prima persona, rivelando così che l'Ospite è il Padre. Ma anche Lui, come ad Emmaus. Egli è il Servo che chiama. Egli è anche lo Spo-so. I vocati che accettano sono la Sposa. E perciò "suo" a titolo esclusivo è il Déipnon, Però dice: "nessuno di quelli assaggerà", dove il verbo géuó risuona ancora oggi nella santa Liturgia: "gustate, géusasthe, e ve-dete che Buono è il Signore!" (Sai 33,9). E si pensi al Koinònikón che si canta nella celebrazione del Mattino santo della Resurrezione: "Sòma Christoù metalàbete, Pègès athandtou géusasthe, Allèloùia\, Del Corpo di Cristo partecipate, della Fonte immortale gustate, Alleluia!".

Assaggerà, gusterà, il verbo sta al futuro. Ecco dove si trova la solu-zione degli invitati primi e secondi. La Cena grande è convocata peren-nemente, già adesso occorre rispondere, e guai a rifiutare. Poiché "que-sta" sulla terra è vera Cena e realmente grande, però come dice la Scrit-tura Santa, si deve anche considerare che è "lungo la via", e porta a quella eterna. Rifiutare questa adesso qui, significa escludersi a quella futura, eterna, nella Casa infinita. Il rifiuto avvenne, avviene, e purtrop-po avverrà. L'accettazione anche, e questa deve essere permanente, continua, assidua, volenterosa, amata, desiderata, fatta crescere sempre. Solo allora "si gusterà" la Delizia delle Mani del Padre dello Sposo, co-me canta il Salmista in continue riprese:

Tu mi additasti le vie della vita,mi riempirai di gioia con il Volto tuo,delizie stanno nella Destra tua fino al fine (Sai 15,11);

Mangeranno i poveri e saranno riempiti,e loderanno il Signore quanti Lo cercano,vivranno i loro cuori nel secolo del secolo!Faranno memoriale e si convertiranno al Signoretutti i confini della terra,e adoreranno davanti a Luitutte le famiglie dei popoli,poiché del Signore è il Regno,ed Egli domina le nazioni (Sai 21,27-29);

Tu preparasti davanti a me la Mensacontro i miei tribolatori,ungesti d'olio la mia testa,e la Coppa mia inebriante quanto è gloriosa! (Sai 22,5);

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DOMENICA 1 laDILUCA

Solo questo chiesi al Signore, questo cercherò,di abitare nella Casa del Signore tutti i giorni della mia vita,per vedere la delizia del Signoree visitare il suo Santuario,poiché mi nascose nella sua Tenda nel giorno dei miei mali,mi protesse nell'adito della Tenda sua,sulla rupe mi innalzò,e ora ecco, esaltò la mia testa contro i miei nemici.Io girai in processione,ed immolai nella sua Tenda la vittima dell'acclamazione.10voglio cantare e salmodiare al Signore (Sai 26,4-6);

Quanto ingente la quantità della Bontà tua, Signore,che Tu tenesti nascosta per i timorati tuoi,Tu concludesti per quanti sperano in Te,davanti ai figli degli uomini.Tu li nasconderai nell'adito del Volto tuo dall'assalto degli uomini,11 proteggerai nella Tenda tua dall'attacco delle lingue.Benedetto il Signore,poiché rese mirabile per mela sua Misericordia nella Città fortificata! (Sai 30,20-22);

Gustate e vedete che è soave il Signore,beato l'uomo che spera in Lui.Temete il Signore tutti voi santi suoi,poiché non esiste indigenza per i timorati di Lui (Sai 33,9-10);

Signore, nel cielo sta la Misericordia tuae la Fedeltà tua fino alle nubi !La Giustizia tua come i monti di Dio,i Giudizi tuoi sono abisso ingente.Uomini ed animali salverai, Signore.Quanto moltiplicasti la Misericordia tua, Dio!I figli degli uomini spereranno nella protezione delle Ali tue,si inebrieranno per l'abbondanza della Casa tua,e dal torrente della Delizia tua li disseterai,poiché presso Te sta la Fonte della Vita,nella Luce tua noi vedremo la Luce.Estendi la Misericordia tua a quanti Ti conoscono,e la Giustizia tua ai retti di cuore! (Sai 35,6-11);

Dio, Dio mio, per Te io anticipo l'alba. Ebbe sete di Te l'anima mia!

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COMMENTO - CORSO DELLE DOMENICHE

Quanto per Te la carne miain terra deserta e impraticabile e arida?Così nel santuario mi mostrai a Teper vedere la Potenza tua e la Gloria tua,poiché è meglio la Misericordia tua di tante vite.Le labbra mie loderanno Te.Così io voglio benedire Te nella mia esistenza,nel Nome tuo voglio innalzare le mie mani.Come d'adipe e di pinguedine sia riempita l'anima mia,e con labbra d'esultanza loderà la bocca mia (Sai 62,2-6).

Beato quello che scegliesti ed assumesti,abiterà negli atrii tuoi.Saremo colmati dei Beni della Casa tua.Santo è il Tempio tuo, mirabile per la Giustizia.Esaudisci noi, Dio, Salvatore nostro,la Speranza di tutti gli estremi della terrae del mare lontano.Tu benedirai la corona dell'Anno della tua Bontà,ed i tuoi campi saranno riempiti di pinguedine (Sai 64,4-6.12);

Gli occhi di tutti in Te sperano,e Tu doni il cibo loro al tempo giusto,Tu apri la Mano tua,e riempi ogni vivente di compiacimento (Sai 144,15-16);

Egli custodisce la Fedeltà nel secolo,emette il Giudizio per chi subisce l'ingiustizia,dona cibo agli affamati (Sai 145,6c-7b).

6.MegalinarioDella Domenica.

6.KoinònikónDella Domenica.

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DOMENICA 29a DOPO PENTECOSTE ^

di Luca

"Sui dieci lebbrosi"

L'Evangelo di oggi si proclama comunque fuori della serie in cui è collocato.

Se la Pasqua cade tra l'8 e il 25 aprile, si proclama alla Domenica che cade tra il 14 ed il 20 gennaio.

Se la Pasqua cade l'8 aprile, si omette.

1. AntifoneDella Domenica, o i Typikà e i Makarismói.

2. EisodikónDella Domenica.

3. Tropari

1 )Apolytikion anastdsimon, del Tono occorrente.

2)Apolytikion del Santo titolare della chiesa.

3)Kontàkion: rifarsi al Typikón.

4. Apóstolos

a) Prokéimenon: Sai 103,24.1, "Innodi lode". di Luca.Vedi Domenica 5a di Pasqua; 13a Matteo; 4a

a) Col 3,4-11Paolo con la sua Epistola alla Comunità di Colossi, in Asia minore,

mette in guardia quei fedeli dalle infiltrazioni eterodosse. Quella che si usa chiamare 1'"eresia di Colossi" era un misto di sincretismo e di idee promiscue, di varia provenienza (ebraica, ellenistica, misterica, di culti orientali), che soprattutto confluirà nello gnosticismo dei sec. 2° e 3°, dalla Chiesa considerato un pericolo mortale. Il sincretismo consisteva neirassociare a Cristo Signore 6 angeli considerati concreatori del co-smo, ciascuno in una sfera. Così l'Apostolo nel cap. 1 della presente Epistola riafferma il sovrano ed ineguagliabile Primato divino ed uma-no di Cristo (vedi Apóstolos della Domenica precedente), mentre nel cap. 2 tratta piuttosto di come guardarsi dalle dottrine eterogenee che si sovrappongono ali'Evangelo, comportando anche pratiche di ascetismo abnorme intorno al "culto degli angeli" (nominato in 2,18). Nel cap. 3 Paolo passa a delineare la "vita nuova in Cristo".

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COMMENTO - CORSO DELLE DOMENICHE

In 3,1-3 l'esordio è grandioso: i fedeli, resuscitati con Cristo, debbo-no ormai "cercare le realtà dell'Alto", tà ano. Tale espressione ancora oggi risuona nel Dialogo tra celebrante ed assemblea dei fedeli, che da inizio alla santa Anafora: Ano schòmen tàs kardias - Echomenprós tón Kyrionì Poiché negli altissimi cieli Cristo Risorto sta intronizzato alla Destra di Dio (3,1, che cita Sai 109,1). Debbono, i medesimi fedeli, pensare e cercare e desiderare tà ano, le realtà dell'Alto, non più quelle terrene (v. 2). Essi infatti sono "morti" al terreno ed al vecchio, e re-stando la loro vita ancora nascosta con Cristo in Dio (v. 3), mentre è pronto Cristo a manifestarsi come "Vita nostra", e i fedeli con Lui "nella Gloria" divina eterna (v. 4). È questo "essere manifestati" (pha-neróó) con Cristo dalla stessa Gloria divina che è lo Spirito Santo. In-sieme, è trasfigurazione, e divinizzazione, nella perfetta assimilazione a Cristo glorioso.

Di qui discendono conseguenze ineludibili di autentica vita fedele. Ed anzitutto, i cristiani debbono "far morire" inekróo) le loro membra che ancora aderiscono alla terra, alla vita solo terrena, avulsa e come contraria alla Vita nostra Cristo, e vita bassa nelle sue più repugnanti e malefiche espressioni. L'elenco che viene è diviso in due mandate. Al v. 5 sono bollate le passioni terrene rovinose, che distraggono il cuore dalla Realtà dell'Alto. E così anzitutto la fornicazione e l'impudicizia, la "passione" carnale di vario genere; poi V epithymia kakè, la concupi-scenza malvagia, termine con cui si indica in genere ogni smodato desi-derio tendente al male facile, e fonte di ogni altra passione abbnitente l'anima degli uomini. H primo elenco comprende anche uno dei peccati più gravi, lapleonexia, bollata come autentica idololatria (v. 5). Anche Cristo Signore richiama alla rovina della pleonexia, la brama insaziabile di possedere tutto a scapito di ogni altro simile (Me 4,19). Si tratta dun-que del più grave di tutti i diaframmi che ogni uomo può interporre tra il suo cuore e il prossimo, e Dio stesso, ma anche tra il suo cuore e se stes-so, sbilanciando la propria esistenza con il ricadere in se stessi; oggi un fatto simile si chiama successo, guadagno, potere, brame che laceravano profondamente la società di ieri, ed oggi come mai.

Per colpa di queste passioni e vizi, si abbatte l'ira di Dio sopra "i fi-gli dell'incredulità" (apeithéia), che significa rifiutare di farsi convin-cere e conquistare dall'amore di Dio (v. 6). L'"ira di Dio", come al soli-to nella Santa Scrittura dei Due Testamenti, non è un "movimento pas-sionale" ed irrefrenabile che "nasca" in Dio e poi si manifesti rabbiosa-mente sugli uomini e sul creato. È invece un modo simbolico per indi-care come gli uomini colpevoli, quelli che non vogliono sentire di Dio, i "figli dell'incredulità", con la loro impenitenza, si pongono nella con-dizione disperata di non essere più capaci di ricevere l'aiuto divino pro-veniente, concomitante e conseguente. Essi così si inoltrano nella "ten-

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DOMENICA 12" DI LUCA

tazione" finale, quella alla quale non si può più resistere — per questo si chiede al Padre: "...e non farci avanzare nella tentazione, bensì libe-raci Tu dal Maligno" (Mt 6,13) —, dunque alla rovina. Ma tutto questo altro non è se non la punizione procurata da se stessi, "come se" gli au-topuniti fossero stati colpiti dall'"ira divina".

Paolo qui traccia una volta di più la "teologia della storia", con la formula "allora...adesso". Anche i Colossesi una volta, infatti, procede-vano insieme con i "figli dell'ira" in tutto quel cumulo di peccati rovi-nosi, tipici della paganità di allora e di adesso, poiché in tali realtà "vi-vevano" (v. 7). Al contrario, adesso, nyni, non è più l'allora,potè: quei fedeli debbono deporre (apotithèmì) tutte quelle vergogne. Viene quin-di la seconda enumerazione dei vizi antichi e perenni degli uomini: l'i-ra (orge); il furore (thymós); la malvagità (kakia); la maldicenza (bla-sphèmia), che è diretta contro il prossimo, ma non di rado anche contro Dio, e diventa bestemmia; il "turpiloquio" (aìschrologia), con cui si in-tende quel discorrere compiaciuto delle passioni più vergognose degli uomini, che viene dalla bocca umana. Si tratta dell'espressione interna dell'intimo convincimento, e di desideri più o meno repressi, ma il più delle volte incontenibili (v. 8).

A questo occorre dare un taglio, ed operare una svolta. Dunque i fe-deli dovranno essere incapaci di mentirsi a vicenda, poiché nella Co-munità di fede la trasparenza e la lealtà sono le condizioni per vivere l'alleanza divina. Questo deve conseguire dal fatto irreversibile, che nella loro iniziazione al Mistero i fedeli si spogliarono una volta per sempre del "vecchio uomo", l'uomo del peccato, l'uomo della decrepi-tezza mortale della vita inutile, e con esso si disfecero delle azioni di quell'uomo ormai morto, il vecchio "Adamo" con tutte le sue colpe (v. 9). Al contrario, essi, inseriti nella Vita di Cristo, si rivestirono dell'"uomo nuovo". Non è un "altro" uomo, altrimenti nessuno sarebbe salvato, perché al posto del peccatore ne sarebbe stato creato uno diver-so. È l'uomo "rinnovato" (anakainóò), nel duplice movimento di "lui ri-fatto nuovo", e "di lui rinnovato dall'alto", come permette di leggere la particella and.

Non si tratta però di un rinnovamento che procede da un fatto natu-rale, come una cura di ringiovanimento, bensì di un processo assai pre-ciso e identificato: il rinnovamento avviene in vista délYepignósis, del-la conoscenza profonda, sperimentale, delle realtà divine. E questo a sua volta avviene così, che si conosce nella misura in cui tale "cono-scenza" superiore avviene a partire dal Creatore dell'uomo. Qui l'e-spressione è "secondo l'icona del Creatore di lui", che rimanda a Gen \,26-21.Il cristiano che rinunciò alla vita passata, che accettò la vita nuova, deve lasciarsi plasmare docilmente quale "icona", immagine e somiglianzà fedele del suo Signore e Sovrano, il quale è la Sapienza di-

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COMMENTO - CORSO DELLE DOMENICHE

vina, Conoscenza infinita, adesso partecipata alla creatura amata. È questa per l'uomo redento la conoscenza trasformante, che avviene in un modo indicibile. La Condiscendenza divina infatti si degna prima di "preconoscere" la sua creatura. Dio opera così:

Noi sappiamo che per quanti amano Dio,tutto coopera per il bene,quelli che secondo il Decreto esistono come vocati.Poiché quanti preconobbe (proégnó)anche predestinò come conformi dell'Icona del Figlio suo,per essere Lui Primogenito tra molti fratelli.Ma quanti predestinò, questi anche chiamò,e quanti chiamò, questi anche giustificò,e però quanti giustificò, questi anche glorificò (Rom 8,28-30).

Dio "preconosce" anche il popolo suo, Israele (Rom 11,2). E porta tutti i suoi fedeli ali "'esperienza conoscitiva", Yepignòsis, dono dello Spirito Santo (cf. qui Efes 1,15-23).

Conformati secondo l'Icona che è il Figlio (Col 3,10), gli uomini battezzati e redenti vedono sparire le differenze religiose, Ebrei e Gre-ci; rituali, circoncisione e prepuzio; culturali, barbari e Sciti; sociali, schiavi e liberi. E finalmente tutti diventano "il tutto" compatto, ed in tutti sussiste ormai Cristo. Per questo, vedi anche YApóstolos della Do-menica T &Luca.

5. EVANGELO

a) Alleluia: Sai 44,5.8, "Salmo regale" d i . d i L u ~Vedi l'Alleluia della Domenica 5a m Pasqua, 15a diMatteo,5a

ca.

b) Le 17,12-19La prima fase dell'Evangelo della Vita pubblica del Signore secon-

do Luca si estende dal Battesimo al Giordano fino alla Trasfigurazione, la quale fa anche da "cerniera" verso la seconda parte. Questa è descrit-ta da Luca come la lunga "salita a Gerusalemme" (Le 9,51 - 19,28), do-ve si consuma la terza fase, la Croce e la Resurrezione. Ma la "salita" è del Signore in quanto battezzato e trasfigurato-confermato, che passa annunciando TEvangelo ed operando le opere del Regno, ossia attuan-do il Programma battesimale e trasfigurazionale nella Potenza dello Spirito del Padre.

La "salita a Gerusalemme" contiene molto materiale proprio solo di Luca, come la presente guarigione dei 10 lebbrosi. Ma si deve notare

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che il quadro geografico della "salita" non vuole essere un itinerario preciso, poiché Luca, con la sua straordinaria abilità di scrittore, lo as-sume come un grande motivo di operatività e di dottrina del Signore. Così la lunga e splendida sezione che descrive tale viaggio è una specie di contenitore, dove Luca vuole fare opera di teologo, riportando solo lui preziosi insegnamenti e stupendi atti prodigiosi del Signore.

Così, avendo davanti una cartina della Palestina, si vede a colpo d'occhio che il Signore, partito dall'alto monte della Trasfigurazione, in fondo sta ancora traversando quasi a zig-zag "la Samaria e la Gali-lea". Questo per sé significa che Egli sta facendo una puntata verso il meridione, per poi risalire in Galilea, quando invece in 9,51, il momen-to del suo cominciare a "salire", aveva già traversato la Galilea. In una parola, si deve stare alla descrizione di Luca, senza cercare di aggiustare quello che non fu scritto per essere precisato (v. 11).

Gesù entra in un villaggio (kómè), in un piccolo paese di campagna. E Lo incrociano, andandogli incontro, dieci uomini lebbrosi. Ma resta-no a debita distanza, e si fermano (v. 12). Dalla severa legge della pu-rità levitica, che cercava di formare una specie di "cordone sanitario" per quanti avevano malattie altamente infettanti, trasmissibili per con-tatto, questi erano obbligati a non frequentare la comunità degli uomini sani. Erano dunque del tutto emarginati. A noi potrà sembrare del tutto esagerato che ben 2 capitoli del Levitico, 13 e 14, per un complesso enorme di versetti, 59 + 57, ossia 116, fossero dedicati al problema gra-vissimo per gli antichi, la lebbra, distinta in lebbra delle persone (Lev 13,1-46), delle vesti (13,47-59), delle case (14,33-57), oggetti di minu-ziose prescrizioni per la purificazione delle persone (14,1-32) e delle case ed oggetti. Ma gli antichi non conoscevano della lebbra una vera cura specifica, e allora attendevano o la guarigione naturale, o la fine letale. In attesa, non potevano che dettare norme di isolamento. Le principali delle quali prescrivevano che il lebbroso andasse con le vesti sdrucite, con il capo scoperto, e perciò visibile da tutti sotto sole o pioggia, con il labbro superiore coperto (e dunque con la bocca che non alitasse su altri), e quando si muovesse, avvertisse la gente gridando davanti a sé: "Contaminato, contaminato!". Egli era dichiarato pubbli-camente "impuro". Doveva essere segregato dal consorzio civile, tanto più dall'assemblea liturgica, e doveva dimorare fuori dell'accampa-mento nel deserto, e fuori dell'abitato in Palestina. Così Lev 13,45-46; cf. anche Lam 4,15.

I dieci lebbrosi che incontrano Gesù, da lontano non gridano "Con-taminato, contaminato!", bensì: "Gesù, sovrintendente, abbi misericor-dia di noi!" (v. 13). Con il titolo di epistàtès, capo amministrativo, pro-prio quasi solo di Luca, e del resto abbastanza improprio — infatti Matteo, ad esempio, in questi casi usa il titolo diddskalos, maestro —,

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essi riconoscono a Gesù una certa autorità. Mentre rispettano le norme levitiche da lontano, ritengono che Gesù sia "sovrintendente" anche in questa materia. Soprattutto, però hanno conosciuto la fama della bontà soave e forte di Gesù, Yéleos, la misericordia propria di Dio, e propria a Dio in quanto si è impegnato ad essa nella sua divina alleanza con il suo popolo. E così gli inviano questo grido implorante, e straziante. Se la lebbra era un problema immane nell'antichità, e fino a qualche seco-lo fa anche in Occidente, la sua paura era tale che il termine è restato per indicare qualche cosa che si attacca senza rimedio, che contamina e conduce alla rovina. Così si dice plasticamente che il peccato è la leb-bra dell'anima. Nel mondo moderno, la lebbra, nonostante ogni pro-gresso medico, scientifico e tecnologico, non è ancora debellata, e se restano intere regioni (Africa, Asia) a rischio, con vaste aree di diffu-sione, esistono sacche perfino ed ancora in terre che si credono civili; e per fare un esempio, in Italia esistono, discretamente nascosti, istituti medici per i lebbrosi, e tre lebbrosari.

Gesù guarda. Non è un semplice sguardo. I discepoli presenti ne danno la spiegazione. Così anzitutto Matteo, quando Gesù guarisce la suocera di Pietro, annota che poi guarì indemoniati e malati, tutti, affin-chè s'adempisse la profezia antica:

Egli le nostre infermità assunse,e le malattie si caricò (Is 53,4; LXX, in Mt 8,17),

dove il rimando diretto è al Servo sofferente, il Redentore universale, il Medico delle anime e dei corpi. Poi, anche Pietro, altro testimone ocu-lare, annota:

Egli stesso i peccati nostri si assunse nel corpo suosul Legno,affinchè ai peccati nostri morti,nella giustizia vivessimo,dalle cui lividure foste guariti (1 Pt 2,24),

dove le citazioni sono da Is 53,9 e 6, e nel contesto di un "inno battesi-male" (2,22-25, il 2° dei 4 inni battesimali dell'Epistola).

Gesù guarda con l'amore con cui il Servo, il Messia divino d'Israe-le, guarda a tutto il popolo suo, ed ai singoli membri di esso. Poiché è venuto per caricarsi di tutti i mali, e distruggerli sul Legno della Croce. Così che la guarigione resta sempre con l'Evangelo il "segno" del mi-nistero messianico del Signore (Mt 9,35), mentre la Misericordia resta il movente di ogni azione di Lui (Mt 9,36). Non solo, ma i discepoli debbono esemplarmente prolungare la medesima missione messianica

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per cui il loro Signore fu battezzato dal Padre con lo Spirito Santo. Per-ciò tra le prescrizioni per l'invio dei discepoli nel ministero primordia-le, preparatorio a quello dopo la Resurrezione e la Pentecoste, stanno questi punti:

...predicate, dicendo:II Regno dei cieli si avvicinò!Guarite i malati, resuscitate i morti,mondate i lebbrosi, espellete i demoni,gratuitamente riceveste, gratis donate (Mt 10,7-8).

Così che quando Giovanni il Battista dal carcere invia i suoi discepoli ad interrogare Gesù: "Sei tu "Colui-che-viene' (ho-Erchómenos), o ne attendiamo un altro?" (Le 7,18-20), il Signore non risponde direttamen-te, ma invita alla testimonianza:

Andate, riferite a Giovanni quanto vedeste e udiste:i ciechi ci vedono, gli zoppi camminano,/ lebbrosi sono mondati, i sordi odono,i morti risorgono,i poveri sono evangelizzati (Le 7,22).

La guarigione della lebbra si pone come uno dei grandi "segni" messianici, una delle grandi "opere battesimali del Regno", e questo sia per il Signore, sia per i suoi discepoli, fino ad oggi. Anche se a questo oggi quasi nessuno presta più attenzione.

La Misericordia di Gesù, Yéleos divino salvifico, si pone allora in azione. Egli non compie qui un gesto di guarigione, né parla una parola che alluda alla guarigione. Spesso Gesù risponde di traverso, come si è visto poco sopra per i discepoli di Giovanni il Battista. È il suo modo sapiente ed efficace. Perciò parla ai dieci lebbrosi e dice ad essi sempli-cemente: "Partiti (da qui), mostrate voi stessi ai sacerdoti" (v. 14a). Da questo si vede come Gesù è deferente verso la Legge. Questa prescrive che unico giudice competente nel caso della lebbra è il sacerdote. Il quale deve operare il primo accertamento e prescrivere l'isolamento, poi fare il controllo nel caso di guarigione o di non guarigione, dimet-tendo, nel primo caso, e di nuovo isolando nel secondo. La parola di Gesù richiama Lev 13,49; 14,2-3, ma si può vedere anche Lev 13,32.45-46.1 sacerdoti restano i gelosi custodi della salute anche fisica del popolo, condizione previa per seguitare a far parte dell'assemblea liturgica, come si accennò sopra.

Luca annota sobriamente: avviene che nel loro andare obbedienti, secondo il consiglio del Signore, "furono purificati" (v. 14b). In fondo,

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tutti quelli pongono nell'andare una grande fiducia, altrimenti avreb-bero replicato di voler essere guariti subito, o avrebbero obiettato qualche cosa.

Però avviene quel fatto che si verifica spesso in un gruppo, partito compatto e poi ritrovatosi disunito per qualche questione. Un unico di quel gruppo quando constata che è stato guarito, immediatamente cam-bia itinerario, torna indietro, alza la voce con la preghiera del povero, che è gridare concitatamente la propria emozione al Signore, e glorifica Dio (v. 15). Si sa che questo avviene spesso ai guariti da Gesù (cf. 7,16; 13,13). Non solo, ma il lebbroso guarito finalmente può prostrarsi ai piedi di Gesù, con la faccia a terra, segno di venerazione e di ricono-scenza, di soggezione e di dedizione fiduciosa, e rende grazie a Gesù. Il verbo qui è eucharistéó. Glorificare e rendere grazie. Il primo verbo va a Dio in se stesso, per i suoi titoli magnifici, per le sue opere potenti. Il secondo va a Gesù come celebrazione dell'Autore di prodigi. Se alla prima invocazione dei dieci lebbrosi, si unisce la supplica, si ha la gamma completa della preghiera biblica. L'invocazione fu esaudita, poiché Dio è magnifico in potenza, ed opera mediante Gesù, che dun-que va celebrato. Così l'azione di grazie non è un "rito di congedo", un "grazie e arnvederci". È una celebrazione, che suppone la comunione tra il Fattore di opere ed il beneficato. Proprio la lode e l'azione di gra-zie sono i mezzi con cui l'implorante, adesso guarito, vuole entrare in comunione con Dio e con Gesù, a cui riconosce l'autorità sacerdotale.

Qui Luca annota rapidamente, e tanto più efficacemente: "E questo era Samaritano". Si conosce, è quasi proverbiale l'inimicizia e l'incom-patibilità (cf. Gv 4,9) tra Ebrei e Samaritani, e la loro reciproca gelosia per la venerazione dei disputati luoghi dei Patriarchi, e l'astio samaritano per non essere stati accolti nell'assemblea cultuale d'Israele dopo il ritorno degli Israeliti esiliati (vedi Domenica della Samaritana). Ma co-

me nel caso del "buon Samaritano" (vedi sopra, Domenica 8 a 1

Matted), chi fa l'eccezione, in fondo, è proprio Gesù. Che nell'inviare i discepoli per la prima missione, prescrive esplicitamente di non andare dai Samaritani (Mt 10,5; il "discorso di missione", Mt 9,35-38, prologo, e 10,1 - 11,1 , svolgimento). E Luca stesso annota, forse con una punta d'umorismo, che proprio all'inizio della "salita verso Gerusalemme", i Samaritani non lo accolsero "perché era con un viso come chi si reca a Gerusalemme" (Le 9,51-53), tanto che i focosi Giacomo e Giovanni addirittura vorrebbero che un fuoco dal cielo distruggesse i Samaritani. Gesù li disattende e li rimprovera (9,54-55). Vedi qui il 16 Agosto. Il Disegno di Dio comprende anche i Samaritani. Pur se solo dopo la Pen-tecoste, quando Barnaba, seguito da Pietro e da Giovanni, a Samaria raccolgono quella ricca messe di fedeli visitati dallo Spirito Santo (cf. At 8,5-17; e la Domenica 3aPentecoste), che Gesù stess° dal pozzo diraccol

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Sichar aveva annunciato come già biancheggiante (cf. Gv 4,35-38; era-no i Samaritani che vestiti sempre di bianco scendevano incontro a Ge-sù: Gv 4,39-43) (vedi Domenica della Samaritana).

Gesù fa eccezione, prima presentando l'esempio mirabile del Sama-ritano soccorrevole dove avevano mancato le persone più impegnate verso il popolo (sacerdote e levita); poi facendo in modo che qui il Sa-maritano lebbroso, ma guarito, dimostri la sua lode e la sua azione di grazie. E accoglie il guarito con strane parole. Anzitutto, gli "rispon-de", come se il Samaritano gli avesse rivolto una domanda; ma è la presa di posizione di Gesù, qui necessaria. Poi Gesù stesso, invece di fargli le felicitazioni come si usa nei casi di guarigione, e poi così pro-digiosa, gli chiede: "Non i dieci furono purificati?", e così restituiti alla vita civile normale e alla vita liturgica. "E i nove, dove?" (v. 17). È evi-dente, dopo il controllo sacerdotale, hanno fatto ritorno alla vita norma-le, come tutti gli altri, scomparendo nella massa anonima.

Al v. 18 prosegue la domanda di Gesù, che si fa amara: non furono trovati i 9 mentre ritornavano indietro, da Gesù stesso, ma solo per "da-re gloria a Dio", con l'eccezione di "questo straniero", il Samaritano. È un enorme elogio per quest'uomo straniero. Il quale solo, di tutti, ha compreso che per accettare veramente il dono, e non per esprimere un "grazie" cortese, si deve celebrare pubblicamente il Donante divino. Ma ha compreso anche, lucidamente, che il punto unico di raccordo con il Dio da glorificare è questo Gesù supplicato.

A sua volta, Gesù sa bene che se i nove non tornarono indietro fino a Lui, allora non dettero neppure gloria a Dio. I nove erano del popolo santo, bensì, partiti nella fiducia, egoisticamente, compresero solo di essere stati guariti. Solo il Samaritano era partito, oltre che nella fidu-cia, con la fede, sulla spinta della quale torna ad abbracciare i piedi del suo Guaritore. Lo straniero finalmente è tornato nella vera Patria, la co-munione con un Ebreo, poiché "la salvezza viene dagli Ebrei" (Gv 4,23, Gesù alla Samaritana di Sichar). E mediante l'Ebreo Gesù, la co-munione è anche con il Signore Dio degli Ebrei, il Medesimo però Si-gnore e Dio anche degli altri figli, i Samaritani.

La piena del cuore del Samaritano sta nel suo "glorificare con voce grande" e nel suo "rendere grazie" e nel suo abbracciare i piedi di Gesù.

La piena del cuore del Signore sta nelle parole stupende con cui sa-luta il Samaritano poco prima elogiato: "Risorto, va, la fede tua ti ha salvato!" (v. 19). Questa formula è comune ai Sinottici (cf. Le 7,50; 8,48; 18,42; Mt 9,22; Me 5,34; 10,52; etc.). Essa indica una teologia difficile. Come "la fede, pistis", può salvare se è un fatto che sorge dal cuore, che è l'intelletto e la volontà dell'uomo?

La risposta è semplice e complicata. È semplice: la fede è dono gra-tuito divino, che l'uomo non può darsi mai, ma che può, anzi deve, solo

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COMMENTO - CORSO DELLE DOMENICHE

accettare. La fede è adesione d'amore a Cristo. Essa è la condizione per cui il Signore possa operare per chi ha fede. In assenza di fede, quando esiste solo curiosità, Gesù non può compiere miracoli. Con la fede, tro-va la porta aperta per operare prodigi, e di fatto li opera. Nei dieci leb-brosi trovò la fiducia, una fede incipiente, e operò il grande miracolo della guarigione istantanea della lebbra. Tutto resta però lì, poiché una guarigione non è la salvezza. Il Samaritano torna per aderire al Signore, dunque ha la fede piena. Il Signore al di là del miracolo pur necessario, gli dona gratuitamente la "salvezza", la totalità della vita che non tra-monta più. Il Samaritano fedele diventa qui l'esemplare di ogni fedele, di continuo lebbroso per il peccato, di continuo guarito e così anche salvato per la fede.

E però, a riflettere bene, se la fede è condizione per il verificarsi del miracolo, qui fede vera è posseduta solo dal Samaritano. Ma il Signore ha guarito dieci lebbrosi, nove ebrei e uno samaritano, sulla fede solo di questo Samaritano. Allora il Samaritano credente è anche il mediato-re della salvezza dei nove lebbrosi ebrei. Il Signore accetta la preghiera e la fede sincere di ogni uomo, e su questa base amplia la salvezza an-che agli altri uomini per sé non meritevoli.

Ma dove sta il difficile? Non sta qui il difficile, bensì il difficilissi-mo da razionalizzare e da comprendere. -

Infatti i dieci hanno implorato la Misericordia divina. Questa, che at-tendeva dall'eternità, si è mossa in quel "momento opportuno". È stata donata ed è stata efficace per tutti e dieci. E ecco il difficilissimo, nella domanda terribile di Gesù: "ma perché non si fecero trovare — nella fe-de — mentre tornavano da Me per dare gloria a Dio?" (testo parafrasato del v. 18). Perché tutti ebbero da Lui, e però solo uno si trovò ad avere la fede? Tutti ebbero il Dono iniziale, dove la Libertà divina si ferma divi-namente rispettosa della libertà umana creata. Di lì spetta all'uomo grati-ficato, di cooperare in sinergia con la Grazia. Perché nove non collabora-rono? È il più fitto mistero che esista: il cuore dell'uomo.

Al difficilissimo nessuno è tenuto ad interloquire. Tanto meno a dare risposte astratte, parlando ad esempio di predestinazione, e dunque mo-notonamente, anche se ingenuamente, dando la colpa del male degli uomini al Dio Misericordioso.

"Tu, fatti trovare nel numero di quelli che hanno la fede, e basta" (i Padri).

6. MegalinarioDella Domenica.

7. KoinónikónDella Domenica.

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DOMENICA 30a DOPO PENTECOSTEI 3a di Luca

"Sul ricco interrogante Gesù"

L'Evangelo di oggi deve essere sempre proclamato primadi quello della Domenica 10a Luca, nella Domenica che cade tra il 24 e il30novembre.

1. AntifoneDella Domenica, o i Typikà e i Makarismói.

2. EisodikónDella Domenica.

3. Tropari

1) Apolytikion anastàsimon, del Tono occorrente.

2) Apolytikion del Santo titolare della chiesa.

3) Kontàkion: Prostasia tòn christianón.

4. Apóstolos

a) Prokéimenon: Sai 11,8.2, "Supplica comunitaria"Vedi la Domenica 6a di Pasqua; 6a 14a Matteo; 5a

b) Col 3,12-16Prosegue la lettura dell'Epistola ai Colossesi. La presente pericope

si salda con quella della Domenica precedente, a cui si rimanda anche per il contesto letterario e teologico. Tale contesto vuole tracciare la fi-sionomia della vita nuova secondo Cristo, e non più secondo il secolo, a partire dall'iniziazione battesimale al Mistero divino. Qui avviene che scompaia nel nulla "tutto il vecchio uomo con le sue azioni" (v. 9), ossia con il suo modo, inveterato nella sua immoralità, di comportarsi. L'"uomo nuovo-rinnovato" dal Mistero battesimale ormai ha acquisito il modo di essere e di pensare della sua Icona, che è anche il suo Crea-tore e Ri-Creatore, Cristo Signore (v. 10). In Lui scompaiono anche tutte le differenze per sé naturali e normali e perfino buone, di tipo religioso e cultuale, culturale, sociale, poiché ormai "sussiste tutto — restaurato — ed in tutto, Cristo" (v. 11 ).

L'iniziazione al Mistero divino, se è uno spogliamente del vecchio e decrepito, segno evidente del peccato antico e nuovo (v. 9), è però al contrario anche un "rivestirsi" (già al v. 10) di realtà nuove. Qui la ve-ste è l'immagine simbolica che significa qualche cosa come la pelle, che si porta per natura e che non si può dismettere, anzi si deve debita-

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COMMENTO - CORSO DELLE DOMENICHE

mente curare, con essa essendo nati. Nella teologia degli atti umani si usa parlare di "abito della virtù", ossia dell'attitudine ormai agevole a voler vivere la Grazia, come è agevole e pratico ed elegante indossare un bel vestito; da abito viene anche "abitudine", che però assume un senso non univoco, può essere abitudine buona, ma per lo più è indiffe-rente o non buona (ed allora si chiama vizio).

Di che veste parla qui Paolo? Di quella degli "eletti di Dio", dove il termine eklektói (da eklégomai, "scelgo per me"), indica l'indicibile Grazia della vocazione divina che raggiunge il suo effetto negli uomini fedeli e che corrispondono ad essa. Ora, chi è "scelto" da Dio, da Lui è anche dotato di tutto il necessario, poiché Veklogè, la scelta-elezione è precedente all'uomo, lo accompagna sempre, lo segue fino allo scopo inteso dal Disegno divino. Per questo gli "eletti" sono stati santificati, e di fatto sono hagioi, santi, e furono dall'eternità ègapèménoi, amati.

La dote, il Signore con infinita generosità l'elargisce agli eletti suoi, che dunque debbono accettarla, possederla, viverla, attuarla nella loro esistenza redenta e santificata. Essa (v. 12) consiste anzitutto nella qualità principale con la quale Dio stesso si presenta nella storia del suo popolo (ed ovviamente, di tutti gli uomini), gli spldgchna oiktirmoù, le "viscere di tenerezza", quelle materne, ossia la misericordia verso il prossimo. In secondo luogo, però sul medesimo piano, la chrèstótès, la bontà (chrè-stós, buono) benigna sempre. Poi la tapeinophrosynè, l'umiltà, base uni-versale dei rapporti di ciascun fedele con se stesso, con il prossimo, con Dio. Segue laprautès, la mitezza e mansuetudine dei "poveri di Dio" già nell'A.T., e poi di Cristo stesso (cf. Mt 11,29). Infine, è additato come componente indispensabile dell'"abito" indossato per sempre la ma-krothymia, la magnanimità longanime, paziente, generosa (v. 12). Ora Paolo non è nuovo ad enumerazioni come questa. Quella che più sembra avvicinarvisi nell'identità, e che è a sua volta fondamentale, è chiamata da lui "il Frutto unico dello Spirito Santo" in Gai 5,22, e che adesso si può utilmente comparare con la lista di Col 3,12:

Col 3,12 Gai 5,22-23

- viscere di misericordia, - carità agapesplàgchna oiktirmoù

- bontà benigna, chrèstótès - gioia, charà- umiltà, tapeinophrosynè - pace; g^nè- mansuetudine, prautès - magnanimità, makrothymia- magnanimità, makrothymia - bontà benigna, chrèstótès

- bontà d'animo, agathòsynè- fede, pistis- mansuetudine, prautès- dominio di sé, egkràteia.

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DOMENICA 13' DI LUCA

In Gai 5,22-23 Paolo organizza queste doti che sono "il Frutto" che lo Spirito Santo fa produrre nei cristiani, in 3 triplette; in Col 3,12 inve-ce in modo circolare, dalla misericordia alla magnanimità.

E qui egli prosegue nell'applicazione dei doni. Ed anzitutto, i fedeli debbono accettarsi (anéchomai) reciprocamente, e sopportarsi se serve, e nell'atteggiamento conquidente del donarsi (charizomai). Questo implica anche il condono benevolo e generoso nel caso che qualcuno, come ine-vitabilmente accade quando gli uomini si trovano in una qualsiasi comu-nità, abbia da fare giusti reclami (momphè). È un obbligo, questo, non un lusso dello spirito che si può concedere (oppure no). Esso proviene dal fatto scatenante che il Signore, Dio Padre, nel Figlio "fece grazia" (chari-zomai) di ogni sua giusta e terribile momphè, contestazione motivata contro gli uomini: che se così Lui, anche i suoi figli debbono agire in eguai modo. Qui può soccorrere la memoria talvolta pigra dei cristiani il "Padre nostro": "condona a noi i debiti come noi già li ebbimo condonati ai debitori nostri" (Mt 6,12), dove il nostro condono dei debiti altrui, sempre minimi rispetto a quelli che ci condona il Padre e che sono mo-struosamente grandi e mortali, è condizione per ricevere il perdono già accordato prima del nostro peccato (cf. qui Mt 6,8, e Is 65,24; Gv 16,26; 1 Gv 4,19). Vi insiste la parabola del Re e del condono del debito di 10.000 talenti (Mt 18,23-35), che termina: "Così il padre mio Celeste agirà con voi — come contro il debitore condonato ma spietato verso il suo debitore di soli 300 denari —, se non avrete rimesso il debito ciascu-no al fratello suo dai cuori vostri" (MT18,35),ossia a partire da tutto il cuore (vedi Domenica \v& latteo). Paolo è 1 ottimottiscepoTo (Tei Si-gnore, anche quando il Signore narra le parabole (v. 13). E perciò ripeterà questo instancabilmente: Efes 4,2.32; 5,2; Gai 5,14, etc.

La "norma d'oro" viene qui a scandire il ritmo della vita cristiana, e si pone come indelebile iscrizione che fonda la vita: Sopra ogni altra realtà, Vagape, l'amore di carità! È già detto in 2,13; lo aveva afferma-to in Rom 13,8-9; lo ripeterà in Efes 4,3-4. E motiva: la carità è il vin-colo, il legame infrangibile, che conduce verso la perfezione della vita fedele (v. 14).

In questo, sotto forma di augurio e di esortazione, Paolo ricorda che la pace di Cristo deve essere l'arbitra della gara, che decreta anche il premio, brabéuó, insediata come deve essere nei cuori dei fedeli, ossia nella profondità personale più decisiva della loro esistenza. Il cuore, quella pace deve guidare, dirigere, moderare, indirizzare, esortare, ed infine sanzionare con l'approvazione. Poiché a quella medesima eirènè tutti i fedeli sono vocati per formare il "corpo" (sòma) di Cristo, unico ed unitario.

E questo gruppo di norme preziose termina con l'imperativo autori-

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COMMENTO - CORSO DELLE DOMENICHE

tario: "E fatevi, diventate, siate 'grati'" (v. 15). Il termine euchdristoi è composto da eu- e charizomai, e indica le persone che sono gradite, ac-cettate da qualcuno, ma anche quelli che si comportano con animo gra-to, ben disposto perché memore dei benefici ricevuti, e dunque genero-si, larghi, "liberali" verso gli altri. Tali significati qui si compattano, e non se ne deve scegliere uno solo. I fedeli, già accettati dal Padre per-ché radunati nel "corpo di Cristo", debbono celebrare questo con azioni di grazie (nei Divini Misteri, nella preghiera continua), e memori dei benefici di cui furono gratificati largamente, debbono disporsi ad ope-rare altrettanto verso i fratelli.

H v. 16 sarà poi ripreso e rielaborato in Efes 5,18-20 (vedi YApósto-los della Domenica 9* & Luca). Ll lTcenti0 èla Coppa eucaristica che trabocca dell'ebrietà totale dello Spirito Santo. Qui il centro è il corrispettivo: la Parola di Cristo (ossia Cristo come Parola, Verbo del Padre, anche se non è espresso così se non in Giovanni) deve inabitare riccamente nei fedeli e tra i fedeli (en hymin ha il doppio significato ebraico, qui presentato). Essa comporta con sé la sophia, l'intera sapienza della Sapienza divina, alla cui luce i fedeli debbono essere gli uni insegnanti (didaskó) degli altri, e correttori (nouthetéó) gli uni degli altri, in modo da far crescere una Comunità formata ed equilibrata. All'interno della Comunità, inoltre, essi debbono condurre una vita liturgica attiva, per-meata dai Salmi, da inni e cantici, tutti spinti e guidati dallo Spirito Santo che dona la Grazia. Solo così il canto può erompere dal cuore adorante verso Dio che lo accoglie (v. 17; e Domenica 9a 1 uca>-

5. EVANGELO

a) Alleluia: Sai 88,2.3, "Salmo regale" di Matteo • di Luca'Vedi l'Alleluia della Domenica 6a di Pasqua; Ha ' 5a

b)Le 18,18-28

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esto evangelico è il parallelo di Mt 19, 16-26, vedi la Domenica 12adi Matteo; per il suo senso generale, si rimanda a quel commento.

Qui si cercherà di stringere da vicino le specificità lucane.Il contesto è la "salita a Gerusalemme" del Signore, la quale ormai

volge al suo termine. Lungo tale itinerario il Signore battezzato e trasfi-gurato ha moltiplicato la predicazione dell'Evangelo con l'insegnamento della dottrina che ne deriva, ed i "segni" miracolosi con cui attua le opere del Regno. Sempre nella Potenza dello Spirito Santo e secondo il Disegno del Padre, ed in vista della futura missione dei discepoli, che nel mondo, tra le nazioni, dovranno a loro volta compiere "opere più grandi" (cf. Gv 14,12) di quelle del Signore stesso.

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II .t » di

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DOMENICA 13" DI LUCA

Luca come autore sacro sta molto attento a raccogliere in particola-re, tra gli immensi tesori delle parole pronunciate dal Signore, il suo in-segnamento sulla povertà, che si può definire una vera e propria "cate-chesi sulla povertà" (rifarsi allo schema di Luca, nella Parte I). Ora, l'incontro con uno, che Lo interroga, da modo al Signore di definire sempre più da vicino che è la ricchezza, che è la povertà, che è la ri-nuncia e la sequela di Lui.

Ecco dunque uno di alta dignità, archón, si rivolge a Gesù. Quel ti-tolo può significare una presidenza di qualche ufficio, indicando l'essere "primo, principe" (cf. il verbo àrchó), ossia una magistratura, un in-carico importante. Solo da Mt 19,22 è chiamato "/io neaniskos, il gio-vane", per cui si dice in genere che questa pericope è "del giovane ric-co". Egli chiede a Gesù che occorre "aver compiuto (poièsas) per ere-ditare da parte di Dio la vita eterna". Però lo interpella con l'appellati-vo, in fondo molto lusinghiero: "Maestro buono" (v. 18). Nel parallelo di Mt 19,16 la domanda è: "Maestro, che di buono...", e così il centro della richiesta è spostato verso il moralismo. Marco e Luca hanno inve-ce "Maestro buono". Gesù non gradisce questo indirizzo alla sua perso-na. E non perché Egli non sia "buono". Tutta la prima parte dei tre Si-nottici, fino alla Trasfigurazione, presenta precisamente Gesù come il Messia mansueto, soave, mite, premuroso del bene dei suoi fratelli, mi-sericordioso, disinteressato; la sua fama si era diffusa largamente, e proprio per la sua bontà eccezionale accorrono da lui poveri malati in-felici, anche scribi e farisei, e peccatori e pubblicani...e uomini ricchi che hanno dentro il cuore il malessere della loro esistenza agiata, come qui. Ma allora, perché Gesù non accetta che Lo abbiano riconosciuto per quello che è, "il Buono" che viene dal Dio Buono?

Per devozione filiale al Padre suo, non per modestia ipocrita. Nella sua coscienza filiale sa bene, vivendolo, di provenire dal Padre Buono, di essere "Una Realtà unica" con Lui (cf. Gv 10,30), e poiché "in Dio tutto è uno, tutto è comune", salvo la diversità delle Ipostasi, la Bontà di Dio in Dio è del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. E però a Gesù Signore sta sommamente a cuore di riportare tutto al Padre. Co-me qui si è ripetuto insistentemente (e il benevolo lettore lo sopporti, poiché si ripeterà fino alla fine), Cristo battezzato al Giordano dal Pa-dre con lo Spirito Santo deve passare tra gli uomini quale Messia divi-no d'Israele per il triplice ufficio messianico, di annunciare l'Evangelo del Regno, di operare le opere del Regno, di riportare tutto nel Regno al culto del Padre suo.

A guardare bene, allora, in questa pericope il Signore sta insegnando la dottrina del Regno — "conseguire la Vita eterna" —, e riportando tutto e tutti al culto verso il Dio Unico e Padre suo e nostro. Manca an-

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COMMENTO - CORSO DELLE DOMENICHE

cora il prodigio, un miracolo vero, forse il più difficile, di mutare il cuore di questo "capo, archón" che adesso Lo interpella sull'essenziale dell'intera esistenza degli uomini. Ma qui la Potenza divina si arresta nel rispetto mirabile, immane, della libertà umana.

E perciò la prima risposta è: Non chiamare me "buono", bensì dirigi tutta l'attenzione della tua esistenza verso "l'Unico Dio (héis ho Theós)", l'Unico Dio Buono (v. 19). Da Lui ogni grazia, a Lui ogni adorazione. Noi cristiani fedeli sappiamo che "nel Padre", con unico atto d'amore, adoriamo anche il Figlio e lo Spirito Santo, il Dio Unico. Intanto però Gesù richiama per nostra somma fortuna al monoteismo stretto dell'A.T.

E Gesù prosegue senza indugio nel richiamare l'uomo ricco al reali-smo della vita fedele, secondo la Legge santa in cui, vivendola, si con-segue la vita (cf. ancora Lev 18,5; vedi Domenica 8a di Luca). E ancora una volta, come allora con il giurisperito a cui insegnerà anche la parabola del buon Samaritano (Le 10,25-37; e Domenica qui richiamata), l'orientamento e la concentrazione a cui il Signore spinge è sulla Tavo-la II del Decalogo, quella che dal 4° al 10° comandamento divino ri-guarda i rapporti verso il prossimo. E il v. 20, in un ordine diverso, enu-mera come doveri da compiere per la Vita senza tramonto, i comanda-menti essenziali, indispensabili, i primi ed assoluti: il 6° sull'adulterio, il 5° sull'omicidio, il 7° sul furto, l'8° sulla falsa testimonianza, il 4° sull'onore ai genitori. Ora, tenendo conto che il 6° comandamento trae con sé il 9°, che è sempre presupposto (e reciprocamente, il 9° suppone il 6°), ed il 7° fa lo stesso con il 10°, si ha qui al completo e sostanzial-mente l'intera Tavola II del Decalogo. Nel commento per la Domenica oa di Luca si e spiegato che la Tavola II impone le condizioni da assol-vere per accedere alla divina Presenza nel santuario, dunque per assol-vere anche alla Tavola I. E si è mostrato come questa presentazione della vita fedele sia propria dell'A.T., e perciò non meno del N.T. E così accedere alla divina Presenza, è iniziare a conseguire la Vita eterna, come il personaggio che sta interrogando Gesù desidera anzitutto. Però, ad una condizione che risulterà tra poco.

Egli ascolta Gesù, e si ritrova alle sue parole, e può affermare senza timore e senza falsa modestia: Così ho agito sempre (v. 21). L'espres-sione è ebraica: "custodii", phylàssó, traduce l'ebr. sàmar, termine tec-nico della Legge, dove la "custodia" (in greco, anche tèréó) indica l'e-satto e puntuale adempimento di essa.

Gesù ha posto in chiaro come il Fine, la Vita, debba essere consegui-to. Qui il parallelo di Me 10,21 (precisato rispetto ai precedenti Luca e Matteó) è indicativo nella sua completezza: "Gesù lo guarda (emblépó) e lo amò (agapaó)". Ha scoperto dunque un uomo magnifico per qua-

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DOMENICA 13' DI LUCA

lità morali, uno che sarebbe stato un degno discepolo per il futuro an-nuncio dell'Evangelo. E, come si sa, in un certo senso "Dio ha bisogno degli uomini", in vista dell'Evangelo del Regno: del loro cuore per ac-cettare il Signore e seguirlo, della loro bocca per la predicazione, dei lo-ro piedi per raggiungere i confini del mondo, delle loro mani per opera-re le opere del Regno, di tutta la loro esistenza per riportare i figli di-spersi all'adorazione del Padre. Perciò subito lancia il messaggio della vocazione anche a questo possibile discepolo. Gesù lo ascolta attenta-mente, e poi gli parla: "Ancora un unico fatto a te resta", dove il verbo léipó indica quanto deve essere adempiuto. L'altro parallelo, Mt 19,21 interpreta mirabilmente: "Se vuoi essere téleios, perfetto", poiché Gesù nel "discorso della montagna" aveva proclamato: Siate téleioi, perfetti, come lo è il Padre (Mt5,48, che rinvia a Lev 19,2: "siate santi!").

Gesù adesso martella gli imperativi dell'adempimento, che sono ben 4: "tutto quello che possiedi, vendi (póléó), "e distribuisci (diadidómi) ai poveri", al fine di possedere il tesoro depositato ormai stabilmente "nei Cieli", ossia presso Dio; poi "vieni (déuró), segui (akolouthéó) Me!"(v. 22).

È prescritta l'espoliazione totale dei beni terreni. Questi non sono da disprezzare, da abbandonare, da disperdere, ma da tesaurizzare nel mo-do più vero e conveniente al fedele, ossia ridistribuendoli ai poveri, rea-lizzandone la vendita ragionevole. Non è il pauperismo, tanto temuto dalle teorie neocapitaliste, che hanno paura proprio qui della Chiesa e della sua predicazione di giustizia urgente nella bontà, e perciò hanno paura di Cristo Signore, che pure dicono di stimare molto. Una paura immediata, che inconsciamente forse si rifa al reale di Cristo, il quale da Dio Ricco che era, volle farsi povero per arricchire tutti gli uomini non della sua "ricchezza", bensì proprio di questa sua povertà, come proclama, con frase al limite del paradosso, Paolo Apostolo (2 Cor 8,9). Come potrà la finanza mondiale, concentrata nelle mani di pochi "ricchi scemi", arricchire di soli beni di produzione gli uomini, senza il "Tesoro nel cielo"? La storia mostra gli orribili fallimenti dell'economia "pura" che si susseguono, addirittura affamando interi continenti, ma sempre con la conclamata fiducia ottimistica nella tecnica e nella produzione.

Gesù allora vuole "un ricco di meno"? No, vuole un discepolo in più: "Vieni, seguimi!" Sempre, dappertutto, fino alla Croce e dopo. È questo un "consiglio evangelico", che nelle teorie "spirituali" dei secoli sarebbe riservato ai pochi privilegiati, quelli che nella menzogna invo-lontaria, ma convenzionale ed accettata, "seguono Cristo più da vici-no"? La Chiesa avrebbe una minoranza di aristocratici dello Spirito Santo, i perfetti — ma questa era una precisa categoria dello gnostici-smo eretico! —, ed una massa inerme di tanti fedeli, a cui lasciare solo

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pochi comandamenti essenziali, tanto per il resto non possono elevarsi verso il Tesoro? Ma Gesù ha detto a quell'uomo ricco: "Vedi, signore, va tutto bene come fai, però, ecco, io forse ti vorrei dire qualche cosa "in più", ma senza esagerare, ecco io ti consiglierei per migliorare al-quanto la tua condizione che ti porta alla Vita eterna, certo, questa già la possiedi, sei così bravo nei comandamenti divini, ecco forse tu do-vresti, se puoi, beninteso, vendere, dare, venire, sempre se puoi...»?

No. Gli ha sbattuto in faccia 4 imperativi, preceduti da "tutto quello che possiedi". Imperativi, non "consigli", dunque un ordine da eseguire tutto e subito, senza remore, senza condizioni, senza rimpianti.

Tali imperativi sono per pochi nella Chiesa, la Parola tagliente deve tagliare solo pochi nella Chiesa, per gli altri la Spada deve passare lon-tano, e far sentire da lontano il terribile fischio del fendente che lacera l'aria, o la Parola Spada Imperativo deve tagliare in mezzo tutti? E se tutti, come farà la massa dei fedeli ad andare, vendere tutto, distribuire, seguire il Signore? Si può provare intanto a rovesciare l'ordine: l'es-senziale, è seguire il Signore. Occorre molto camminare, in salita ripida sempre, sotto il clima ostile sempre, senza riposo mai. Occorre il baga-glio leggero dei soldati. E nella battaglia, il bagaglio va lasciato in cu-stodia, e forse ripreso dopo, se si sopravvive. Ma va previsto di alleg-gerirsi. E l'alleggerimento può avvenire anche in un modo ancora più efficace: invece di abbandonare, e rimpiangere per tutta la vita, con la tentazione di tornare a "pentole di carne e cipolle e meloni d'Egitto", come nell'esodo antico (cf. Es 16,3), anzi, ad una lista più completa: "pesce a prezzi stracciati, cocomeri, meloni, porri, cipolle ed agli" (Num 11,5), si può "vendere e distribuire" sotto forma dell'usare come non possedendo, per il solo bene degli altri, con amore, nella giustizia senza ritorno e senza resto. È la questione drammatica, agitata mala-mente da estremisti "spiritualisti" nei secoli, sui "beni della Chiesa". La Chiesa per la sua diakonia ai poveri possiede dei beni, certo non come gli stati moderni occhiuti, esproprianti, possidenti, e neppure come le multinazionali. Di quei beni deve operare un'amministrazione oculata, "del buon padre di famiglia" (già così il diritto romano), poiché non so-no "beni della Chiesa", ma "beni dei poveri" della Chiesa e di quelli fuori della Chiesa. Povertà assoluta, nella nudità, e povertà condizionata dai poveri anche possedendo, sono due facce dell'unica perfezione.

La reazione dell'uomo ricco a questa Parola Spada Imperativo del Signore è squallida, sconcertante, deludente. Il ricco "capo" si era recato dal Maestro buono per "ascoltare" (akoùó) l'insegnamento, even-tualmente seguirlo, ma più come "consiglio" che come imperativo. Egli dunque "avendo ascoltato" educatamente, "diventò triste", greco perilypos, dove la radice è lypè, tristezza (lypéó in Me 10,22); però con

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DOMENICA 13" DI LUCA

abilità letteraria Luca sceglie quel peri-, "intorno", che indica come l'uomo fosse "preso e circondato dalla più cupa tristezza". Me 10,22 dice che se ne andò così, Luca blocca solo sulla motivazione: era infatti ricco moltissimo" (v. 23); per Marco, "possedente beni ingenti".

Il tratto non è ignoto alla Scrittura. Ezechiele narra come, mentre Gerusalemme sta per essere abbattuta dai Babilonesi, la folla corre dal Profeta per ascoltare il responso divino, e questo è precisamente di ope-rare il bene verso tutto il prossimo (Ez 33,22-29). Perciò tutti vi si rifiu-tano "perché il loro cuore corre dietro il guadagno" iniquo (vv. 30-31). Farsi triste è rifiutare. La tristezza davanti a se stessi, al prossimo e al Signore Beato, è grave peccato. Nel Signore sussiste solo Gioia, che è lo Spirito Santo, ma questa Gioia gloriosa, che è Gloria gioiosa, è co-municata agli uomini per la loro gioia infinita. Rifiutare la gioia dell'in-vito di Cristo, è farsi triste. Accettare la vocazione, è perfetta gioia do-vunque essa porti e comunque essa conduca. Che ha impedito all'uomo ricco di accettare questa gioia? Il diaframma in fondo esile, esiguo, ba-nale, cosificante, inutile, squallido, rovinoso, malefico, che si chiama mammona, ricchezza, guadagno, possesso, godimento, disposizione, avidità, avarizia, egoismo, aridità di cuore, inimicizia e sospetto verso tutti. Questo sono "i beni molti". L'essenza è: "ricco moltissimo". È sci-sma dal proprio cuore, diviso tra la chiamata, che si "sente" come santa, vera, salvifica, e questo peso mortale che inchioda a terra, il possesso, l'avida contemplazione di terreni e bestiame e case e cumuli di denari e titoli di credito e industrie e investimenti... Su questo, rivedere la para-bola del "ricco scemo" di Le 12,15-21, alla Domenica 9a di Luca.

Oggi la scienza psicoterapeutica dice che chi si stringe frenetica-mente addosso le sue ricchezze, è un bambino non cresciuto, dunque malato gravemente di nevrosi d'angoscia. Gesù parla di peccato, e non fa giri di parole anche vere, ma inutili.

Invece, Gesù si preoccupa. Guarda il giovane, lo vede triste. Però non può fare nulla con parole o azioni. Può solo ribadire i fatti ad uso dei discepoli di allora e di sempre: "Come è difficile", per non dire im-possibile, che i possidenti di beni entrino nel Regno di Dio (v. 24). Le ricchezze glielo impediscono? No, affatto, glielo impedisce il loro cuore alienato da se stessi, dal prossimo e da Dio, divenuto avido, e sempre più avaro, dunque duro e scontroso, negatore del bene dei fratelli, malvagio, peccaminoso come condizione permanente. Si usa dire che occorre inviare nel Regno, prima che si giunga in esso, il proprio accre-ditamento bancario, la propria assicurazione "sulla Vita" eterna, che so-no le opere dell'amore di carità fraterna. Questo richiede sempre lo spossessamento del beni-impedimento dal proprio cuore. Il non spos-sessamento rende dyskólòs (avverbio), "difficilmentepossibile" il pos-sesso del Regno donato da Dio.

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COMMENTO - CORSO DELLE DOMENICHE

Gesù aggiunge qui la celeberrima comparazione: con irrisoria faci-lità un cammello sguscia attraverso una cruna d'ago, rispetto alla diffi-coltà ostativa del ricco che si sforza di entrare nel Regno (v. 25).

E qui tutto è finito. La sentenza giudiziaria fu pronunciata, e non co-noscerà appello.

Ma interviene la paura e l'insicurezza dei discepoli presenti ai fat ti, che hanno ascoltato nella crescente meraviglia tutte le parole scambiatesi tra il Signore e il "capo" ricco. Ora, i discepoli non sono ricchi, per seguire il Signore non seguirono più i propri affari, anzi si trovano nella condizione pietosa, e sempre pregiudizievole per l'o-nore maschile, di essere praticamente "mantenuti" dalle donne: Le 8,1-3; cf. 22 Luglio.

Gesù lo accettava a viso aperto, i discepoli si nascondevano dietro a Lui, tirando avanti come all'avventura, non sapendo dove il Maestro li avrebbe portati. O forse speravano, come riportano Matteo (Mt 20,20-28) e Marco (Me 10,35-45), bensì non Luca, di diventare pezzi grossi nel Regno messianico, ma terreno? Si preoccupano spaventati: se la ric-chezza uccide, poiché nega l'ingresso nel Regno, che è la Vita eterna, però allora chi non ha una ricchezza, anche minima? Dunque, chi "può salvarsi?" (v. 26). La domanda qui è posta sulla dottrina dei meriti: chi ha la ricchezza non può conseguire meriti, perciò non potrà salvarsi.

Gesù respinge tale morale spicciola, e angusta. E riafferma i diritti di Dio: presso Dio anche quello che agli uomini non sarà mai possibile, è invece perfettamente possibile (v. 27). Dio è l'Onnipotente unico. Non che possa o voglia o debba salvare il peccatore non convcrtito ed impenitente, e per converso rovinare il santo e giusto ed umile e confi-dente in Lui. Le parole di Gesù in realtà rimano quasi alla lettera la me-desima parola che l'Angelo di Dio rivolse alla Vergine figlia d'Abra-mo, a Nazaret, sulla sua parente sterile, Elisabetta, che per il divino prodigio ha concepito Giovanni il Prodromo (Le 1,37), e già prima aveva rivolto ad Abramo stesso sulla sposa di lui, Sara, anch'ella steri-le, a cui è promesso divinamente un figlio (Gen 18,10), nonostante l'apparente impossibilità fisica (Gen 18,14). Ora, il medesimo Signore per il suo Disegno non trova davanti a sé un "fatto impossibile". Tale sarà semmai agli occhi degli uomini. Dunque a Lui non sarà impossibi-le far entrare nel Regno suo un ricco. Come? Convertendo il suo cuore avaro, e trasformandolo in cuore donante.

Ma esistono di questo esempi? Si veda la vocazione del pubblicano Levi (Le 5,27-31), con la conclusione: "Non venni a chiamare alla con-versione (metanoia) i giusti, bensì i peccatori (v. 32). E si veda 1'"af-frettata discesa" che il Signore provoca nel pubblicano Zaccheo, che confessa ed insieme sconfessa la sua ricchezza, facendone finalmente

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DOMENICA 13" DI LUCA

lo strumento di carità (Le 19,1-10; e Domenica 15aSi affrontano dunque il "difficile" per i ricchi, ed il "nulla impossibi-

le" per Dio. I due termini restano in equilibrio, poiché Dio come sem-pre non fa prepotenza sugli uomini. Resta ai ricchi accogliere la voca-zione alla conversione verso il Regno.

Ma resta ai poveri pregare ed operare affinchè anche i ricchi diventi-no strumenti del Regno, e vi entrino con tutti i fratelli.

6. MegalinarioDella Domenica.

7. KoinónikónDella Domenica.

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DOMENICA 31aDOPO PENTECOSTE

I 4 a di Luca

"Sul cieco"

L'Evangelo di questa Domenica si proclama talvolta prima di quello della Domenica 10\ altrimenti si omette.

Si proclama la Domenica che cade tra il 21 ed il 24 gennaio se la Pasqua cade tra il 22 ed il 25 aprile.

1. AntifoneDella Domenica, o i Typikd e i Makarismói.

2. EìsodikónDella Domenica.

3. Tropari

1) Apolytikion anastàsimon, del Tono occorrente.

2)Apolytikion del Santo titolare della chiesa.

3)Kontàkion: rifarsi al Typikón.

4. Apóstolos

a) Pwkéìmenon: Sai 27,9.ldi'jfe$fè!#cainSraHfiSle".Vedi Domenica T e 15a ' 6a

b) 1 Tim 1,15-17Paolo era stato prosciolto durante la sua prima prigionia a Cesarea

nell'anno 58, ed aveva potuto recuperare la sua libertà d'azione aposto-lica. Verso la metà del medesimo anno si trova probabilmente in Mace-donia, e di qui dirige istruzioni, tra le ultime che si abbiano, ai suoi fedeli e fidati discepoli, Timoteo e Tito. L'Apostolo è adesso stanco e provato da tutte le traversie cominciate sulla via di Damasco. Sa che non gli resta molto da vivere con gli uomini, e del resto il suo cuore fin dall'ini-zio è posto in alto, come dirà uno o due anni dopo ai Colossesi (Col 3,1-4), presso il suo Signore, nel quale anela di consumarsi. E tuttavia Paolo non è mai domo. La sua somma preoccupazione sono tutte le Chiese (lo afferma in 2 Cor 1 1,28), e dunque tutti i fedeli di esse, e non meno i capi che lo Spirito Santo pone a presiederle (cf. quanto dice agli Anziani di Efeso, At 20,28; vedi Domenica T di Pasqu

Timoteo gli è particolarmente caro. Nell'indirizzo dell'epistola lo chiama "autentico figlio mio nella fede" (1 Tim 1,2), un figlio che di-venta a sua volta padre di innumerevoli altri figli nella fede, per le ge-

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DOMENICA 14' DI LUCA

nerazioni di Dio lungo i tempi della salvezza. Paolo nel 2° viaggio mis-sionario (anni 50-52) aveva toccato Listri, e qui aveva incontrato un "discepolo" fedele, Timoteo, di padre pagano ma di madre ebrea, Euni-ce, la quale con sua madre e dunque nonna di Timoteo, Loide, aveva trasmesso la fede al figlio (2 Tim 1,3-5). Paolo, anche dietro la buona testimonianza dei cristiani di Listri e di Iconio, si era preso Timoteo, l'aveva fatto circoncidere e l'aveva associato alla sua missione; così Ti-moteo si ritrova oltre che nel 2° viaggio missionario di Paolo, anche nel 3° (anni 54-57; cf. At 17,14-15; 18,5; 19,22; 20,4). L'Apostolo l'aveva anche distaccato per delicate missioni a Tessalonica (1 Tess 3,2-6); in Macedonia (At 19,22); presso la comunità così irrequieta di Corinto (1 Cor 4,17; 16,10; 2 Cor 1,19).

Il fedele Timoteo aveva seguito Paolo a Roma nella sua prima pri-gionia (anno 58; Col 1,1; FU 1,1), mentre nella seconda prigionia (anno 61), Paolo gli scrive per chiamarlo vicino per i momenti supremi, stan-do con lui solo Luca (2 Tim 4,21 e l l ) .

L'Apostolo aveva distaccato Timoteo, per le sue capacità singolari, come capo della Comunità di Efeso (1 Tim 1,3), e lo segue anche da lontano, pregando incessantemente per lui e per la sua delicata posizio-ne nel ministero apostolico (2 Tim 1,3-5).

Timoteo fu molto venerato dall'antichità cristiana. Le sue sacre reli-quie, considerate autentiche dagli specialisti, furono ritrovate inaspetta-tamente nella cattedrale di Termoli, in Abruzzo-Molise, nel 1945 (vedi 22 Gennaio).

La 1 e 2 Timoteo e Tito sono chiamate "pastorali" (ma solo in Occi-dente, e solo dal sec. 18°). Su esse si accese il dibattito a proposito del-l'autenticità paolina, con argomenti solo filologici (muterebbe il lin-guaggio) ed ipercritici. Oggi la critica è molto più cauta, ed ammette che Paolo nell'ultima fase della sua epopea apostolica, dopo i grandi viaggi ed in vista del soggiorno a Roma, assunse nuove tematiche e nuovi con-tenuti (e così molti "latinismi"), con un linguaggio diverso.

Teologicamente si deve però ripresentare fortemente l'argomento principale contro ogni negazione moderna: la Chiesa considera Parola ispirata anche le "pastorali", e le legge nella santa Sinassi, davanti alla quale le piccole dispute di scuole "datate" non hanno eco. Alla critica eccessiva si deve rispondere con paziente anticritica.

Le Epistole "pastorali" sono tali solo in parte. Esse sono fortemente dottrinali, poiché insistono a fondo sul punto che da quegli anni tor-mentati, con il serpeggiare delle prime dottrine eretiche o almeno etero-dosse, tra le Comunità dell'intero impero romano, si era trovato ad es-sere cruciale: l'immacolata santa Dottrina divina, che è la Santa Scrit-tura nella sua integrità ma nell'interpretazione degli Apostoli, e dunque la Tradizione divina apostolica ormai in atto.

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COMMENTO - CORSO DELLE DOMENICHE

A Timoteo Paolo in effetti parla anzitutto delle dottrine eterodosse (1 Tim 1,3-11), rivendicando la santaparathèkè, il divino Deposito agi-to dallo Spirito Santo, trasmesso con l'imposizione delle mani apostoli-che. Per questo Paolo invia norme al fine che la Comunità viva ordina-tamente, in consonanza con il suo Capo, il Vescovo (3,1-7), i presbiteri (5,17-25); il diacono (3,8-13; e si noti la vicinanza di disposizioni sul diacono con quelle sul Vescovo); le vedove come un grande stato di consacrazione nella Chiesa (5,1-16).

La raccomandazione di pregare per le autorità anche pagane del-l'impero, come per tutti (2,1-7) sono finalizzate al bene comune, al giu-sto ordine politico e sociale, dentro cui la Chiesa possa prosperare per attendere al suo ministero missionario e salvifico.

In 1 Tim 1,12-17 Paolo rende conto della sua missione. Di essa si di-chiara del tutto immeritevole quale antico persecutore, tuttavia conver-tito dalla divina grazia per pura Misericordia, "per la carità di Cristo Gesù", e di questo rende grazie di continuo (vv. 12-14).

La motivazione è una proclamazione gloriosa: "Fedele è il Lògos" di-vino, la Parola che contiene l'intero Evangelo della Grazia, ed è in se stesso, per sua sola virtù e potenza, "degno di intera recezione" (apodo-chè), ossia che gli uomini lo accolgano nel loro cuore con tutta la fede, con fiducia, con speranza. H suo contenuto è il kèrygma apostolico: il Cri-sto Gesù, il Messia regale risorto, venne da parte di Dio nel mondo. Gio-vanni riporta la medesima visuale teologica: così eccessivamente Dio Pa-dre amò il mondo, da donare il Figlio suo Monogenito, affinchè chi crede non perisca, bensì consegua la Vita eterna (Gv 3,16). La "venuta", ércho-mai, è un grande tema cristologico, così che nei Sinottici ed in Giovanni uno dei grandi titoli del Messia è Ho Erchómenos, "Colui-che-viene". Ta-le Venuta è secondo il Disegno divino presecolare, di cui tante volte Paolo ha parlato alle sue Comunità (cf. lo splendido testo di Rom 1,1-4; e 16,25-27): salvare i peccatori dalla rovina che il peccato induce in essi, e che è la morte. Paolo si professa "primo tra i peccatori", e non per un'ap-parente modestia che in realtà si porrebbe al centro della visuale perfino nel male, ma perché mai davanti alle sue Comunità ha nascosto che un tempo fu persecutore della Chiesa, visitato al momento opportuno dalla Grazia divina, dall'incontro con il Salvatore dei peccatori (v. 15). La mi-sericordia che qui egli ricevette divinamente, e per nessun suo diritto o merito, e che lo rese "misericordizzato" (eleéó, qui all'aoristo passivo), serviva al Disegno divino per renderlo primo schermo proiettivo, per così dire, su cui Gesù Cristo potesse manifestare l'intera sua magnanimità (makmthymia) ai futuri fedeli, quelli che verranno alla fede per la predi-cazione e l'esemplarità di Paolo stesso, che così ne saranno "impressiona-ti" (hypotypósis) e condotti sulla via della Vita eterna (v. 16).

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DOMENICA 14» DI LUCA

La pericope è chiusa da un'imponente, splendida dossologia, una gemma preziosa:

Al Re dei secoli Incorruttibile, Invisibile, all'Unico Sapiente Dio, onore e gloria peri secoli dei secoli. Amen!

L'espressione "il Re dei secoli" significa che Dio è Sovrano dell'in-tera creazione, poiché il greco aión, che traduce qui l'ebraico 'ólàm, si-gnifica sia "il mondo", e al plurale "il mondo qui e il mondo che verrà"; sia l'epoca temporale, anche qui duplice, quella presente e quella senza più scorrimento, l'eternità. Termini circa identici provengono da testi come Sai 9,37.1 due aggettivi àphthartos, incorruttibile, e aó-ratos, invisibile, sono molto rari nell'A.T. dei LXX (cf. Sap 12,1; 18,4 per il primo, e Is 45,3 per il secondo); e in genere vengono dal linguag-gio sapienziale; essi erano invece molto frequenti nella cultura filosofi-ca e religiosa dell'ellenismo.

L'Unico Dio, la Sapienza eterna, è tema centrale della Rivelazione. Il marchio paolino si vede dal parallelismo con Rom 16,27, altra dosso-logia; ed ancora da Giud 25, essa pure dossologia.

Con questa acclamazione Paolo vuole salutare il Dio Unico, memo-rando così la Misericordia sua usata per l'Apostolo, ma anche per i fe-deli ai quali fu provvidenzialmente inviato. Quei fedeli leggevano con enorme attesa ed interesse le Epistole del loro Fondatore; in questo ca-so Timoteo le fece di certo risuonare nelle sante assemblee. Così le for-mule dossologiche entrarono nell'uso cristiano. La loro derivazione dall'A.T. ma anche dalla creatività apostolica, garantisce che il Signore Dio e Sovrano nostro è così salutato secondo le parole ispirate, ennesi-ma indicibile grazia per il popolo fedele.

5. EVANGELO

a) Alleluia: Sai 90,1.2, "Salmo didattico sapienziale". e

Vedi l'Alleluia della Domenica T e 15" ' 6a 1 la

b) Le 18,35-43La "salita a Gerusalemme" sta ormai al suo termine (cf. Le 9,51 -

19,28; e lo schema generale di Luca, Parte I). Il Signore battezzato dal Padre con lo Spirito Santo, trasfigurato dalla Luce increata e assunto dalla Nube della Gloria divina che è lo Spirito Santo, ormai sta per consumare il "suo esodo" (cf. Le 9,31), che ha come punto di arrivo ne-cessario ma provvisorio la Croce, per l'Assunzione nella gloria della

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COMMENTO - CORSO DELLE DOMENICHE

Resurrezione. La Potenza dello Spirito Santo durante la sua Vita tra gliuomini Lo guida ad annunciare l'Evangelo, insegnandone la dottrina,ad operare le opere della carità del Regno, e a riportare tutto al culto alPadre Celeste. _ . , „

Il contesto della pericope di oggi si inquadra tra la 3a p Croce e della Resurrezione, l'ultima (Le 18,31-34; vedi la prima, 9,23, prima della Trasfigurazione che si colloca a 9,28-36; la seconda, in 9,43b-45, subito dopo la Trasfigurazione, la quale dunque va interpretata alla luce di quelle predizioni) e la vocazione di Zaccheo (19,1-10), con l'ultimo insegnamento, la parabola delle mine (19,11-28). Poi Gesù fa ingresso a Gerusalemme.

Come si vede, il moltiplicarsi dei miracoli e dell'insegnamento del Signore si fa più intenso alla fine della "salita". In fondo, se solo si considerano i miracoli di Gesù in Luca, si ha il primo (4,31-37) con la guarigione dell'indemoniato di Cafarnao, e l'ultimo, il presente, con la guarigione del cieco di Gerico. Due "segni" potenti abbastanza simili, il primo come liberazione dalla Potenza malefica delle tenebre che atta-naglia l'uomo impedendo così l'espansione del Regno di Dio totaliz-zante, esigente tutti gli uomini integri e salvi; l'ultimo, come restituzio-ne di un uomo afflitto da una delle più terrificanti disgrazie dell'esi-stenza umana, la tenebra permanente della cecità. Di fatto, il Regno di Dio è anche visione e Luce eterna e contemplazione trasformante, e il simbolismo della "visione", determinante per la fede, è decisivo insie-me con quello dell'"ascolto" di fede.

Luca narra qui come Gesù si avvicinasse a Gerico, visitando così il ter-ritorio e la città stessa. Nella "salita a Gerusalemme", secondo una cartina topografica, Gesù sta in realtà discendendo dal settentrione verso il meri-dione. Da Efraim, all'estremo confine della Samaria con la Giudea, giun-ge a Gerico, e successivamente si reca a Betania, da dove entra a Gerusa-lemme nel tripudio popolare. La "salita" però esiste, poiché Gerico sta sotto il livello del mare, e Gerusalemme la sovrasta di oltre 1000 metri.

Lungo la via per Gerico stava abbandonato a sedere un povero cieco, chiedendo l'elemosina (v. 35). Questa scena è sconsolatamente comune sotto tutti i cieli, in tutte le culture, in tutte le "civiltà economiche", ieri come oggi, e purtroppo come domani. Il cieco mendicante è particolare, poiché è molto comune. Su lui esiste perfino una letteratura di barzellet-te, alcune simpatiche, ma per lo più e comunque fuori luogo. I "vedenti" dovrebbero aiutare validamente i ciechi, e non lasciare che si riducano a mendicare, e d'altra parte dovrebbero provvedere a cure e ricerche mediche per debellare questo male terrificante, "questa cappa buia den-tro cui non esiste direzione". In Oriente, in particolare, imperversava il tracoma, un'affezione curabile, ma talmente trascurata che è un flagello che si diffonde senza riparo; ieri, ma ancora oggi.

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DOMENICA 14' DI LUCA

II cieco non vede. La provvida creazione però dispone che i suoi sensi, mancandone uno, si acuiscano in altre dimensioni. I ciechi hanno infatti un tatto eccezionale, per cui "leggono" con la punta delle dita sia le monete, sia, oggi, i libri stampati con sistemi appositi (Braille, etc.); e "sentono" palpando il volto di una persona, come è, per cui possono anche scolpire con singolare efficacia. Ma i ciechi hanno altresì un udi-to fine, e al minimo rumore sanno triangolare la posizione della fonte del rumore stesso, e così le persone che si muovono.

H cieco di Gerico sta tutto il giorno in attesa. Sente passare la folla,fatto insolito, e chiede alla cortesia di qualcuno: "Che è questo?" (v.36). Egli si attende dal Signore Dio qualche cosa, non troppo invecedalla rara carità dei passanti. Uno di questi frettolosamente gli dice:"Gesù Nazareno sta passando" (v. 37) , . , . . . , .

La Domenica la diLuca si è commentata la vocazione dei primi discepoli, e" si sono richiamati in proposito i vèrbi della vocazione, che sono 3: Gesù passa, guarda, chiama. Il cieco di Gerico si inserisce dunque nella divina vocazione, poiché sta attento a "Gesù che passa e guarda", e sa che passa e lo guardava, ma poi non torna più, e allora lui vuole afferrarsi a Lui, Lo conosce da sempre, sa chi è, sa che è la sua vera ed unica speranza, anzi certezza. Perciò il cieco grida la sua fede totale: "Gesù figlio di David, abbi misericordia di me!" (v. 38). Ma come accomunare un Nazareno, uno che viene da "Nazaret"? — che da Nazaret, che cosa di buono può venire? È la domanda di Natanaele in Gv 1,46 — con il "figlio di David", che deve venire da Betlemme se-condo la Promessa antica?

E però va riconosciuto che il cieco di Gerico è un buon teologo, spinto dalla fede, ed anche dal suo estremo bisogno di "misericor-dia" divina, dato che gli uomini per lui nulla ormai possono fare. Egli ragiona come ogni buon Ebreo, con un sillogismo impeccabile: a) questo Gesù di Nazaret compie straordinari miracoli (guarigioni, resurrezioni, liberazioni di indemoniati...); b) però straordinari mi-racoli sono attesi dal Re Unto, il Messia divino d'Israele, il discen-dente di David promesso; e) dunque Gesù di Nazaret è "il Figlio di David". E solo a Lui compete l'accoglimento del grido di intervento misericordioso divino, Veleéó, attuare Yéleos, la Misericordia del-l'alleanza del Signore d'Israele con il suo popolo santo. Il grido "eléèsonme!" risuona decine di volte nei Salmi, e molte altre nei li-bri biblici. Ormai Yéleos divino sta presente nel Figlio di David Fi-glio di Dio.

Qui va chiesto: ma Gesù se ne passava tranquillamente, forse aveva visto il cieco distrattamente e tirava lungo, incurante del male? Se il cieco non avesse gridato, non se ne sarebbe accorto, o almeno non sa-rebbe intervenuto? La risposta è monotona: Gesù interviene sempre,

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COMMENTO - CORSO DELLE DOMENICHE

ma occorre che prima si accetti la fede in Lui, e con l'invocazione di salvezza si entri in comunione con Lui. Allora, la fede "salva".

Questo è ignorato dalla testa del corteo intorno a Gesù. Mentre il cieco sente Gesù che viene con la folla, i primi della folla però lo rim-proverano, e gli intimano di tacere, sia per non disturbare il grande per-sonaggio, sia perché per il cieco non c'è da intervenire, nessuno ha mai restituita la vista ad un cieco. Ma questo grida ancora più forte: "Figlio di David, misericordia di me!" (v. 39). Sa bene che Gesù possiede la re-galità salvifica. Come si disse più volte, il Re messianico doveva venire per restituire al martoriato popolo di Dio tutte le condizioni di vivibilità del Regno di Dio, ossia la pace, la salute, la prosperità, la gioia di vive-re. Il cieco sa molto più di un indovino. Sa che tali condizioni sono im-meritate dal popolo di peccatori, di cui egli sente di far parte, e perciò implora la Misericordia, non il diritto. Anche se i poveri "hanno dirit-to", in quanto il Signore ad essi lo concede sempre. Allora "grida", la prima volta verbo boàó, la seconda krdzó. È sempre il vocabolario del-la preghiera biblica (il secondo verbo, molto frequente in Isaia).

Gesù che passa, è anche Gesù che si ferma a guardare con l'intensità di tutta la sua Misericordia. Ed è Gesù che chiama. Infatti ordina di condurgli il cieco. E quando questo gli si avvicina, di certo gli prende la mano, gli posa l'altra sulla spalla, fatti che Luca non narra ma che sono familiari negli Evangeli; e poi gli parla con calma per metterlo a suo agio (v. 40): "Che vuoi ti faccia?" (v. 41a). Fare, non dire. Il dire è del cieco, ed è "Figlio di David, misericordia di me!", e adesso: "Si-gnore, che io ci riveda!" (v. 41b). È la fede in Colui che come creò, così quando vuole può ri-creare le realtà rovinate.

Dietro la fede del cieco, Gesù mentre opera deve dare la sua Parola: "Vedici di nuovo!", e la sua spiegazione: Io ho operato solo perché hai la fede, e mediante la fede che salva Io ti ho salvato (v. 42). Dove non esiste fede, non esiste possibilità d'intervento divino, non esiste la sal-vezza che la fede produce.

La conclusione è dossologica. Il cieco recupera subito la vista. E nel moto incontenibile della sua gioia e della sua riconoscenza, si pone al seguito (akolouthéó) di Gesù, glorificando Dio. Non si sa se fu uno dei 120 discepoli (cf. At 1,15; 1 Cor 15,6, diventati ormai 500). Né per quanto seguisse Gesù. Ma un Ebreo fedele quando glorifica il suo Si-gnore, non tralascia ormai di farlo tutti i giorni, più volte al giorno.

Il fatto è partecipato dalla folla che vi assiste, e qui è "tutto il popo-lo" testimone autoptico, come si dice, autentico e veridico. Che si met-te a "dare lode" a Dio. Glorificazione e lode. È il culto al Dio Vivente, che con l'Evangelo e le opere, come questa qui, forma precisamente il Programma battesimale del Signore, svolto nella Potenza operante dello Spirito Santo.

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DOMENICA 14- DI LUCA

La vista ai ciechi è uno dei "segni" potenti del Re messianico su cui riposa lo Spirito di Dio (Is 61,1-9; 11,1-10), e sarà notato nelle crona-che delle genti: Is 29,17-18. Testo citato, come già visto, da Gesù quan-do vanno ad interrogarlo i discepoli di Giovanni il Battista, se fosse Lui "Colui-che-viene" (cf. Le 7,18-23; e Domenica 3a di Luca).

La luce negli occhi, che possono contemplare il volto dei fratelli e le meraviglie del creato divino, è il grande simbolo della Grazia divina e della santità spirituale dell'uomo fedele (cf. Le 11,34-37, testo già com-mentato). È la "visione", dono battesimale.

Perciò la Chiesa chiama l'iniziazione ai Misteri "il phótismós", l'il-luminazione, che ripropone intatte davanti agli occhi le Realtà divine visibili ascoltabili partecipabili vivibili.

E gustabili, se dopo la comunione la divina Liturgia fa cantare: "Ve-demmo la Luce vera". Quella che conduce alla contemplazione eterna del Volto del Signore, che il cieco di Gerico guardò come il primo Vol-to da amare. Ma anche come l'ultimo, per l'eternità. Benché non l'uni-co, poiché quel Volto ama stare in mezzo ai volti di tutti i suoi fratelli, sui quali effonde la Luce del Fuoco dello Spirito Santo.

6.MegalinarioDella Domenica.

7.KoinónikónDella Domenica.

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DOMENICA 32a DOPO PENTECOSTE 15a di Luca

"Su Zaccheo"

L'Evangelo di questa Domenica non si proclama prima della Domenica che segue la Teofania del Battesimo al Giordano.

Si omette se Pasqua cade tra il 22 e il 31 marzo, poiché allora la Domenica che segue la Teofania del Battesimo del Signore da inizio al Periodo del Triòdion.

Se Pasqua occorre tra il 1° e il 7 aprile, questo Evangelo si proclama la Domenica tra il 14 ed il 20 gennaio. Se tra 1'8 ed il 21 aprile, la Domenica tra il 21 ed il 27 gennaio. Se tra il 22 e il 25 aprile, la Domenica tra il 28 ed il 31 gennaio.

1. AntifoneDella Domenica, o i Typikà e i Makarismói.

2. EisodikónDella Domenica.

3. Tropari

1) Apolytikion anastàsimon, del Tono occorrente.

2) Apolytikion del Santo titolare della Chiesa.

3) Kontàkion: rifarsi al Typikón.

4. Apóstolos

a) Prokéimenon: Sai 28,11.1 ,"Innodi Luca'Vedi la Domenica 8a e 16a ' T

b) 1 Tim 4,9-15Paolo, fortunatamente assolto nel processo della prima prigionia a

Cesarea (anno 58), ripresa l'attività apostolica, dalla Macedonia invia a Timoteo, posto a presiedere le Comunità di Efeso, un'Epistola dove ab-bondano insieme la dottrina e le esortazioni dell'anziano Apostolo al giovane suo successore. Come si è accennato (vedi Domenica prece-dente), tenendo conto delle date essenziali: la Resurrezione del Signore il 9 aprile dell'anno 30, data certa; la Sinodo apostolica di Gerusalemme l'anno 50 (potrebbe esservi un'oscillazione di 1 anno prima o dopo), l'apostolato paolino ormai dura da oltre 20 anni. In so-stanza, con le "pastorali", ossia 1 e 2 Timoteo e Tito, si assiste al transi-

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DOMENICA 15" DI LUCA

to graduale tra la prima e la seconda generazione apostolica, anche se si tratta di terminologia abbastanza impropria. Di questo è consapevole anche Luca, che appartiene a questa seconda generazione, di quelli che non furono testimoni oculari ed auditivi del Signore (cf. Le 1,1-4), e che tuttavia sono il supporto essenziale, non solo utile, degli Apostoli, poiché questi senza i loro successori e continuatori non avrebbero real-mente consumato il loro ministero dell'Evangelo.

Si assiste, da altra visuale, al formarsi della Paràdosis, la Tradizione divina apostolica (Parte I, Cap. 3), questo "trasmettere-ricevere" da bocca ad orecchio, da mano a mano, il contenuto salvifico, la Rivelazione di Cristo, le sue "Parole e gesta" (cf. At 1,1) nello Spirito Santo, che abbracciano anche l'intero A.T., e che vogliono giungere al mondo lungo le generazioni. Nell'opera di "trasmissione", l'Operatore divino è sempre lo Spirito Santo. Il contenuto della "trasmissione", la Parathèkè divina, o Deposito da custodire, esplicitare e tramandare, è ispirato, delimitato, diretto dallo Spirito Santo. E anche il fatto di darsi un Successore da parte di un Apostolo, con l'imposizione delle mani, è di fatto la Paràdosis divina, la Trasmissione divina dello Spirito Santo. La cura gelosa dell'immacolatezza della Dottrina divina salvifica sta sempre sotto l'opera indefettibile dello Spirito Santo. Il "magistero" della Chiesa non è opera di privati. Così invece ritiene una parte della cultura teologica attuale, che sta sotto il pesante gravame del rigetto moderno dell'intera Tradizione divina apostolica; per non parlare del pullulio satanico di sètte e di "movimenti" più o meno proclamanti l'ortodossia dottrinale, ma che di fatto rigettano i Vescovi e la Chiesa di Dio che è la Chiesa locale. Il magistero della Chiesa è opera faticosa, proba, preoccupata del bene, che risale allo Spirito Santo.

Paolo vede di persona, e ne riceve anche informazione dai suoi col-laboratori e dai suoi fedeli più attenti, che ormai si insinuano nelle Chiese di Dio predicatori comunque di un "altro evangelo", come ne aveva severamente messo in guardia, già all'inizio, i Galati (cf. Gai 1, verso l'anno 56), e non cessa di allertare le altre sue Comunità, come i Colossesi (anni 59-60). Ad Efeso, dove presiede il giovane Timoteo, una regione particolarmente infestata, anche nei secoli seguenti, da ideologie religiose, da attese apocalittiche, da culti entusiastici, la situa-zione non è diversa, se non è peggiore. Timoteo deve restarne avverti-to, e sempre in guardia.

Paolo allora cerca di mostrare a Timoteo quale sia l'insuperabile, ir-removibile, invincibile barriera, fonte e movente della fede salvifica: "Fedele è la Parola". La formula è paolina, e ricorre nell'Epistola in 1,15 (cf. Apóstolos della Domenica precedente); 3,1; 4,9, qui; poi in 2 Tim 2,11; Tit 8,8; l'insistenza ripetitiva indica l'importanza del tema. La Parola divina è "degna dell'integrale accettazione", come aveva già

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COMMENTO - CORSO DELLE DOMENICHE

detto l'Apostolo in 1,15. Integrale accettazione (apodoché, da apodé-chomai, ricevere "da" fuori, da un altro) significa intangibilità senza re-sto, poiché la Fonte è solo divina (v. 9), e l'effetto è solo salvifico, in favore degli uomini fedeli ed accettanti.

La motivazione che segue mostra l'apostolato disinteressato nella carità. Poiché a questo solo scopo, trasmettere la Dottrina immacolata, l'Apostolo "si affatica" (kopiómen, plurale di modestia) ed è anche "vi-tuperato". Ma si sa il motivo, poiché Paolo già da tempo, e per sempre, "ha sperato", ha riposto ogni sua speranza nel Dio Vivente, quello al quale per tutta la sua esistenza apostolica ha portato i peccatori dei pa-gani affinchè Gli dessero culto autentico e fossero salvati (cf. 1 Tess 1,9-10). Ed infatti il Dio Vivente è l'unico Salvatore di tutti gli uomini, senza Lui non esiste salvezza. Oggi questo è revocato in dubbio, perfino da missionari, con vari sofismi dovuti alle ideologie moderne ed al nominalismo che da 8 secoli sta sgretolando le fondamenta perfino del pensiero umano, della parola autentica, della vita autentica. Ma Egli è il Salvatore, il nostro Dio Vivente, in specie dei fedeli che si affidano solo a Lui (v. 10).

A Timoteo qui Paolo indirizza due imperativi: annuncia ed insegna questo, alla lettera: paràggelle, denuncia, annuncia, da ordine, ammo-nisci, verbo che porta sul da farsi e sul non da farsi, e su questo poi di-daske, dare spiegazioni, l'insegnamento paziente (v. 11).

Per tutto ciò occorre 1'"autorità", il prestigio, che viene dall'età avanzata, dalla personalità, dalla scienza, dall'abilità consumata di go-verno. Ora, Paolo sa bene che Timoteo è giovane, troppo forse per un mondo come quello ellenistico abituato a dare prestigio solo a persona-lità civili, militari, di cultura, che fossero fuori della gente normale. Perciò l'Apostolo ordina seccamente: Nessuno sottovaluti (kata-phronéò) la tua gioventù (neótès, un'età che non superava i 30 anni). Anzi il giovane successore dell'Apostolo si porrà quale "tipo", o mo-dello, dei fedeli che ha ricevuto in carico, a partire dalla "parola", lògos, dove si può comprendere così: dalla Parola divina che diventa il linguaggio abituale di Timoteo; il senso di lògos qui può comprendere le due soluzioni. E anche con la condotta della vita irreprensibile, ana-strophè, nella carità, agape, verso tutti, nello Spirito da donare a tutti, nella fede, pistis, nella santità di costumi, agnéia (v. 12). È tracciato il programma di quello che deve essere il Vescovo, e da lui il presbitero e il diacono, nella Comunità ma anche verso l'esterno. La Chiesa antica, si deve dire, in Oriente come in Occidente, ebbe una vera fioritura di simili figure di santi Gerarchi.

Da lontano, Paolo seguita ancora a tracciare il programma di vita per Timoteo, onde conferire a lui la fiducia, la fermezza, la stabilità nel ministero. Così, promette di visitare il discepolo amato, che però "in-

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DOMENICA 15" DI LUCA

tanto" deve applicarsi assiduamente alla "lettura", anàgnòsis, termine che si riferisce alla Santa Scrittura. Questa deve essere "letta" ai fedeli e quindi spiegata, ma deve essere anche oggetto di "lettura divina" conti-nua, personale. Dalla Scrittura all'azione pastorale, e qui anzitutto Timoteo deve applicarsi alla paràklèsis. Il termine è importante, indi-cando una serie di realtà. Il senso originale è: chiamare accanto, invitare vicino (la particella para da questa sfumatura), e questo si dice dell'"avvocato" chiamato alla difesa; poi, l'esortazione, l'ammonizione, la correzione data a qualcuno; quindi la richiesta, "invocare qui", la pre-ghiera; infine, per traslato, confortare i deboli, esortare i tristi, consolare gli afflitti. Paolo per Timoteo e la sua azione richiama tutto questo con un termine. Il terzo punto è la didaskalia, l'insegnamento della didachè, la dottrina apostolica. L'esempio viene dal Signore Gesù, "il Didàskalos" per eccellenza, che cura però affinchè tutti i suoi discepoli insegnino (verbi come didàskó e mathètéuó) per far giungere la Luce della Verità nei cuori degli uomini. Paolo è stato didàskalos sempre, e quindi esige che chi lo sostituisce e ne prolunga il ministero sia anch'e-gli bravo nell'insegnare, realtà fondante la Chiesa. Non per nulla Paolo pone l'insegnare, con vari nomi, tra i carismi principali, costitutivi: cf. 1 Cor 12,28; Rom 12,6-8; Efes 4,11. Tutti gli altri carismi, ammesso che servano qualche volta, stanno in subordine a questi, che sono "apostoli-ci". Le rivendicazioni "carismatiche" di ieri (e oggi?), pur ammettendo la buona fede sempre, si pongono nettamente contro il quadro apostoli-co, detto per disprezzo "gerarchico", o istituzionale, della Chiesa. Questi "movimenti", invariabilmente aclericali e anticlericali, nel loro indiscriminato e molto indiscreto proselitismo, tendono a chiudersi nelle conventicole dei "perfetti", che considerano gli "altri" come "profani". Paolo già li ha condannati (cf. tutto 1 Cor 12) (v. 13).

E qui prosegue proprio il tema dei charismata di cui è stato dotato Timoteo. L'esortazione è a "non trascurare il carisma che sta in te". Ora, come si è detto più volte, chàrisma ha diversi significati: prove-nendo dal verbo chanzomai, indica anzitutto il dono benevolo conferito a qualcuno in modo gratuito, e qui soprattutto il massimo dei chari-smata è la Carità divina effusa nel cuore degli uomini e che è lo Spirito Santo (cf. Rom 5,5, testo esemplare); il carisma così può anche confi-gurarsi come la Grazia divina dello Spirito Santo per l'intera esistenza cristiana, come la salvezza eterna, l'opera globale dell'umana Redenzione, l'aiuto in singoli momenti della vita di fede, la grazia ma-trimoniale, l'aiuto in momenti particolarmente difficili, la stessa Vita eterna. Paolo qui indica la grazia donata gratuitamente a Timoteo, con la cheirotonia, un antico e tipico rito biblico, già dell'A.T., rinnovato e confermato nel N.T. da Cristo stesso: l'imposizione delle mani sui di-scepoli all'Ascensione (Le 24,50).

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COMMENTO - CORSO DELLE DOMENICHE

Si tratta del charisma donato "mediante profezia", forse in occasione della santa Liturgia in cui il "profeta" spiegava le Scritture, e dove avvenne "l'imposizione delle mani del presbiterio". Questo v. 14 è così importante, che è tra i più discussi dagli storici delle origini della Chiesa, perché implica già l'attuale struttura della Chiesa. Ossia, ri-spetto al tempo di Timoteo, la Chiesa che conserva intatta la Tradizione divina apostolica, l'Episcopato con diaconato e presbiterato, il complesso dei divini Misteri, sussiste ed agisce ancora in modo immutato. Il già costituito episkopos, che si può chiamare però ancora presbyteros — i due termini oscilleranno ancora per molti decenni, in-dicando la medesima realtà ecclesiale e ministeriale —, è stato posto nel suo ufficio da chi questo ufficio già possiede. Ad Efeso, verso il 60 dopo Cristo, esiste già unpresbytérion, "il presbiterio", ossia il "colle-gio di presbiteri, o Vescovi", ovviamente di successione paolina. Qui si può rileggere il grande testo di At 20,17-38: Paolo convoca da Mileto "ipresbyteroi dell'Ekklèsia di Efeso" {At 20,17), quali suoi im-mediati collaboratori e corresponsabili; ad essi rivolge il "discorso di commiato" (vv. 18b-35), il cui centro è la frase: "Vegliate su voi stessi e sull'intero gregge nel quale lo Spirito Santo pose voi come episkopoi per pascere la Chiesa di Dio, che (il Padre) si acquisì mediante il Sangue proprio (del Figlio suo)" (v. 28) (vedi Domenica 7a di Pasqua). Ora, episkopos significa "visitatore" responsabile del buon andamento di un'impresa, presbyteros significa "anziano" chiamato ad essere "vescovo", visitatore, responsabile, pastore del gregge, dunque colui che nutre il gregge con la Parola e con i Misteri, che dirige la Comunità, che ordina la sua esistenza... che impone le mani ad altri episkopoi-presbyteroi.

Il collegio presbiterale-episcopale di Efeso, su ovvia designazione di Paolo, ha "imposto le mani", ha ordinato "secondo i canoni", si direbbe oggi, Timoteo benché molto giovane. Paolo esige che Timoteo sia il ca-po della Comunità, benché giovane, tutti debbono rispettarlo... compresi ipresbyteroi ordinanti. Si ha qui la nozione del primato del capo sul collegio dei capi e sull'intera comunità. S. Ignazio il Grande, d'Antiochia, martire a Roma, verso il 107, mostrerà che il "Vescovo monarchico", ossia unico, è già un dato di fatto in Oriente; in Occidente per almeno 2 secoli esisterà il "collegio dei presbiteri" con un capo onorifico (si vedano le tombe dei "Presbiteri" di Roma nelle Catacombe di S. Callisto).

Come si disse, l'imposizione delle mani indica insieme comunione dei due soggetti, l'imponente e l'imposto, indicazione ed accettazione di una funzione, presentazione al Signore, e passaggio ed accettazione dello Spirito Santo. È sempre l'inizio pneumatico della Tradizione divi-na apostolica. Perciò Paolo vi insiste (v. 14).

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Ed insiste sulle raccomandazioni a Timoteo: "Di questo, abbi cura", ossia occupazione assidua, considerazione, meditazione, come indica il verbo meletàò. "A questo stai sopra", stabilmente, senza spostamenti, come indica il verbo histèmi. È la condizione per cui tutti, il collegio dei presbiteri ordinanti anzitutto, ma anche la Comunità — e con un occhio sempre rivolto anche agli estranei —, avranno la concreta manifestazio-ne del progresso ministeriale, e non meno personale nella santità, di Timoteo. La phaneràprokopè, manifesto progresso, è necessaria a Timoteo, perché Paolo l'ha scelto e posto in quella Chiesa di Dio quale "typos per i fedeli" (v. 12). Ora qui va detto che typos non indica solo un "modello" esteriore, che, per quanto da secoli insista certa letteratura religiosa, non potrà mai essere "imitato". Al contrario, il typos indica 1' "impressione" visibile di una figura, di un segno, di qualche cosa che resta: Timoteo dovrà "imprimere" nei suoi fedeli la sua "icona sacerdo-tale" (Agatangelo di Bisanzio), che è quella di Paolo, soprattutto che è quella dell'Unico Signore Gesù Cristo, Sommo Sacerdote. Questo è l'Unico Modello che non solo si può, bensì si deve imitare (v. 15).

5. E VANGELO

a) Alleluia: Sai 91,1.2, "Azionedigrazie individuale".Vedi la Domenica 8a e 16a ' T

b)Le 19,1-10La narrazione evangelica del fatto di Zaccheo di Gerico (Le 19,1-

10), seguita dalla parabola delle mine (Le 19,11-28), termina in pratica la "salita di Gerusalemme" (Le 9,51 - 19,28), che Gesù aveva iniziato dopo la Trasfigurazione (Le 9,28-36). Si deve ancora insistere sui dati reali. Cristo Signore battezzato dal Padre con lo Spirito Santo, e trasfi-gurato dalla Luce eterna increata per essere posto sotto la Nube della divina Gloria che è lo Spirito Santo, passa tra gli uomini attuando il Programma battesimale, che sono l'Evangelo, i grandi miracoli come opere del Regno, il culto al Padre. Il culmine di tale Programma è la Croce per ottenere con la Resurrezione il Dono dello Spirito Santo.

In particolare, Luca organizza letterariamente un "grande inciso", ossia questa "salita" del Signore a Gerusalemme, verso la Croce, ed in esso concentra molto materiale "proprio" a lui solo, molto originale e denso. Si tratta di una parte della dottrina del Signore e altri "segni" miracolosi, che formano un patrimonio prezioso ed insostituibile. Qui, anche se è un tratto non esclusivo di lui, tuttavia Luca raccoglie molto materiale sulla "povertà", sull'espoliazione di se stessi, sulla sequela del Signore, per il motivo che il Signore ha già espoliato se stesso, si è fatto povero, e chiede la sequela di discepoli assimilati a Lui. Come si è

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detto, lungo l'Anno liturgico, proprio a partire dalla celebrazione dell'Esaltazione della S. Croce, le pericope evangeliche scelte e ordina-te, provenienti da Luca, sono disposte su questa visuale: la totale umiltà povera del Signore sulla Croce era cominciata già con la sua Nascita. E come i discepoli di allora vollero imitare il Signore per seguirlo con più fedeltà, così è proposto ai discepoli di ogni tempo.

Tuttavia, il cammino di Luca prosegue al di là del Natale del Signore. Giunge fino all'altra contemplazione della Croce, che attra-verso il digiuno, la preghiera e le opere di carità giunge alla Gloria della Resurrezione. È il tempo che tutte le Chiese dedicano alla santità del ritorno a se stessi, al prossimo ed ai fratelli, e con ciò stesso al Signore Misericordioso che attende. Così Luca introduce i fedeli fino alla Tessarakostè, ai Nestàia, con l'abituale "preparazione" di Domeniche.

Qui Zaccheo il pubblicano avido ma umilmente convcrtito, è posto come una delle figure esemplari del fedele che "discende" per accettare la Visita del Signore.

Gerico così è ancora il luogo di questi fatti. Località già in antico ri-nomata per la sua bellezza, come "città delle palme", dal clima che non conosce le asprezze dell'inverno palestinese, ma intensi traffici, con le grandi ville dei ricchi e frequentati bagni termali, Gerico ebbe diversi "siti", poiché, essendo probabilmente, secondo gli archeologi, il primo posto abitato come vera "città" al mondo, fu più volte distrutta e rico-struita, perciò ebbe impianti distanti tra essi; questo è un problema in più per gli studi biblici.

Come luogo di frequentazione e di passaggi anche commerciali, Gerico era altresì sede di dogane, e chi dice dogane dice taglieggia-menti sui prodotti importati e talvolta anche esportati. E i doganieri an-tichi non erano affatto migliori di quelli di oggi, mentre oltre tutto ave-vano dai Romani, irsuti occupanti, l'appalto per la percezione delle im-poste. Doganieri ed agenti delle imposte, come si sa, non furono mai amati da nessuno, ed essi lo sapevano, e tanto più si approfittavano del-la loro situazione di assoluto privilegio ed arbitrio, dovendo percepire a loro volta la "percentuale", ed avendo pressoché mano libera neh"im-porre tasse e balzelli. Che questo non sia un quadro prevenuto, ma la lettura dei fatti, è testimoniato da un personaggio povero e spoglio, nul-latenente e disinteressato, Giovanni il Prodromo, il quale preparando la via al Signore amministrava il battesimo di conversione dopo una spe-cie di dura catechesi a chi si recava da lui. Quando alcuni "pubblicani", ossia questi agenti delle tasse per conto dei Romani, vanno da lui, Giovanni ascolta la loro sottomissione: "Maestro, che dobbiamo fare?", e risponde: "Non esigete (rapinate...) più di quanto vi fu fissato!" {Le 3,12-13). Il che la dice lunga. I pubblicani erano i principali grassatori del loro popolo ebraico, e oltre i tributi versati ai Romani, la loro tan-

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gente strangolava la popolazione più umile e meno facoltosa. Il loro mestiere era considerato impuro, ed escludeva dall'assemblea liturgica. Luca mostra che il pubblicano se ne stava lontano, nel tempio (Le 18,13; vedi Domenica prossima).

Gesù a sua volta, secondo la morale corrente e le leggi di purità sa-cra, era accusato di frequentare, e perciò di accogliere proprio i pubbli-cani, ritenuti i peggiori tra i peccatori, ed altre categorie di gente messa al margine dalla morale. Con molto umorismo, ma ovviamente anche con amarezza, se lo riconosce il Signore stesso, quando riassume tali accuse in modo lapidario: "Voi dite: Ecco un mangione e bevone, ami-co dei pubblicani e dei peccatori" (Le 7,34).

L'episodio di Zaccheo si colloca in questo più ampio contesto, e non a caso Luca lo pone alla fine della "salita a Gerusalemme", come il se-gno culminante della Vita terrena del Signore: accogliere i perduti e re-cuperarli al Regno di Dio che si avanza con Lui e con lo Spirito Santo (cf. ancora Le 11,20, e Mt 12,28).

Ancora una volta però, qui si tratta anche di vocazione, con i 3 verbi ormai spiegati diverse volte: Gesù passa, guarda e chiama.

Dopo guarito il cieco forse all'entrata di Gerico (Le 18,35-43; vedi Domenica precedente), nel traversare la città (Le 19,1), "ed ecco un uo-mo". È stato detto qui più volte che in genere con "ecco" la Scrittura segnala qualche prodigio. Come esempi furono portati Is 7,14, "Ecco la Vergine", riscontrato con l'"ecco" dell'Angelo a Maria: "Ecco, tu con-cepirai nel tuo seno" di Le 1,31, se si vuole, confermato dall'"ecco, Elisabetta tua parente concepì" di Le 1,36. "Ecco" insomma segna l'in-tervento sempre imprevedibile del Divino che irrompe sull'umano.

L'uomo aveva nome Zaccheo. Questo nome è la grecizzazione del-l'ebraico Zakkaj (dal verbo zàkah, essere puro, integro, giusto); è cono-sciuto anche nell'A.T. (cf. Esr 2,9; Neh 3,20; 7,14). Si tratta di un nome "teoforico" abbreviato, che suona così: "II Signore è puro". Anche se non si vuole esagerare sui significati, si deve dire che da una parte Zaccheo non faceva troppo onore al Signore ed alla qualità indicata da questo nome, e dall'altra, che con l'incontro con Gesù tale contrasto di-venta più forte, ma solo per essere sanato. E così Luca aggiunge: "Zaccheo, ed egli era architelónès, e questi era ricco" (v. 2), perciò la nota è ancora aggravata dall'essere quello un capo degli esattori delle tasse e dogane, sfruttatori del popolo, e in conseguenza notoriamente, ossia sfacciatamente ricco. Alla sua professione esosa aggiungeva an-che la sua condizione odiosa di ricco contro la povertà della massa del popolo sfruttato.

E però Zaccheo è mosso da dentro. Cerca di sapere qualche cosa su questo Gesù che passa, un povero da cui era impossibile esigere la mi-nima tassa (Mt 17,24-27), ma la cui fama traversava le regioni. Così

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"cercava di vedere Gesù", si contentava almeno di sbirciarlo da lonta-no, ma con la domanda intcriore: "Chi è?". Luca aggiunge qui un tratto che in altri contesti appare comico. Zaccheo non è un gigante, non ha neppure la statura "media", è basso, e la folla gli rende impossibile ve-dere Gesù. La taglia bassa di Zaccheo è funzionale alla narrazione (v. 3), poiché così il piccolo di statura e grande di ricchezza, Zaccheo, non può aggiungere un palmo a questa sua statura (cf. Le 12,25; e Mt 6,27), e deve correre prima che giunga la folla, e salire su un sicomoro "al fi-ne di vedere Lui", poiché quella era la direzione presa da Gesù per tra-versare la città (v. 4). La scena ancora oggi si ripete in occasione di ma-nifestazioni, di feste, soprattutto per lo sport, quando pali elettrici ed al-beri sorreggono grappoli di giovani, anche alti, ma qui per risparmiarsi il costo del prescritto biglietto.

Gesù che passa è Gesù che guarda. Infatti Gesù giunge sul posto dove sta il sicomoro con Zaccheo, e guarda verso l'alto e lo vede. Gesù che passa e guarda è Gesù che chiama alla vocazione: "E parlò a lui: Zaccheo, affrettatoti, discendi" (v. 5a). Si tratta certo di situa-zione topografica, Zaccheo sull'albero sta in alto, Gesù sulla via sta in basso. Ma si può qui riflettere più a fondo. Gesù dall'Alto della sua Vita divina sta nel basso della vita comune degli uomini, già "è disce-so". Mentre Zaccheo è "salito" per la sua condizione di capo dei pub-blicani e di ricco, una salita che è però bassezza davanti a Dio e ai po-veri, che deve essere vinta da questa "discesa" ordinata da Gesù, per stare al livello di Gesù, per essere riportato da Gesù verso l'Alto a cui è destinato.

Gesù aggiunge la motivazione del suo imperativo, come sempre: "Oggi, infatti, nella casa tua si deve che io rimanga" (v. 5b). Sèmeron, oggi adesso, non ieri né domani. Sta nel Disegno divino, espresso qui come spesso dal verbo greco dèi, "si deve" secondo quanto disposto divinamente, e secondo quanto gioiosamente Cristo Signore attua. Così che avviene uno scambio paradossale: Egli "deve rimanere" quale Ospite divino e Padrone, nella casa "di Zaccheo", che "deve" perciò farsi ospitare da Gesù, aderendo a Lui, ponendo tutto in comu-ne con Lui.

Zaccheo, che già era mosso da dentro, e che si sarebbe contentato di "vedere" Gesù, e di sapere "chi è", si affretta ad obbedire, discende dalla sua scomoda posizione sull'albero, in sospeso, viene sulla terra sicura, e "accoglie nella gioia" Gesù (v. 6), come spesso era accolto Gesù proprio dai pubblicani nella gioia di mangiare insieme. Questo aveva provocato i mormoni di disapprovazione dei benpensanti, preoc-cupati che l'iniquità e l'impurità trovassero sostegno e giustificazione, e soprattutto pietà e comprensione da parte di uno del resto assai stima-to come Gesù (cf. Le 7,36-50).

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Così avviene anche adesso. Tutti conoscono il famigerato Zaccheo, l'avido succhiatore di sangue umano, e tutti conoscono or-mai la fama di Gesù, tutti dunque "mormorano"; il verbo diagoggyzò è usato nella Santa Scrittura sempre per stigmatizzare un grave pec-cato, quello di dubitare del Signore, della sua potenza, della sua provvidenza, della sua cura per il suo popolo, in specie durante l'eso-do nel deserto. Allora il Signore disponeva medicine sanatrici sotto la specie di punizioni termporanee che riportavano il popolo alla ra-gionevolezza e alla pietà religiosa. Gesù preferisce stare ad ascoltare il rimbrotto: "Presso un uomo peccatore — peccatore notorio, si di-rebbe oggi — entrò per pernottare!" (v. 7). Il verbo usato qui, katalyó, al modo intransitivo, significa "sciogliere" ad esempio la so-ma di un cavallo o di un asino per far tappa durante un viaggio; di una persona, indica lo scaricarsi dei bagagli e spogliarsi delle vesti da viaggio per sistemarsi per la notte. Di qui viene il katàlyma di Le 2,7, dove Giuseppe porta la sposa Maria, incinta di Gesù; era la "sta-zione di servizio", con stalle per le bestie e cameroni per i viaggiatori, dove si dava da mangiare agli uomini e fieno e paglia agli animali. Luca annota plasticamente che Gesù nasce dalla Vergine, è avvolto da fasce e deposto — come dalla Croce! — nel luogo dove gli ani-mali mangiavano paglia e fieno, la phàtnè, "poiché non c'era per essi posto nel katàlyma, nella locanda" (Le 2,7).

Gesù passò guardò chiamò. Il vocato deve dimostrare la sua accetta-zione. Così Zaccheo si pone in piedi davanti al Maestro ed alla folla, e si rivolge a Gesù, manifestando che il prodigio divino è avvenuto: "Ecco!" è la prima parola. Si deve porre al livello di Gesù umile e po-vero, ma soprattutto venuto a riparare i danni del peccato: "Ecco, la metà delle mie sostanze, Signore, io dono ai poveri". È il testamento spirituale per cominciare da lì la sequela del Signore invocato adesso. Adeguandosi ai fratelli poveri, Zaccheo si adegua a Gesù, che va libero da pesi verso la sua ultima parte della sua missione divina. "E se qual-cuno defraudai, restituisco il quadruplo" (v. 8). Il verbo "defraudai" è lo strano verbo greco sykophantéó, che nei LXX traduce l'ebraico 'àsaq; per sé viene dall'indegna speculazione sui fichi (syka), che av-veniva la mattina presto al mercato di Atene (che avviene ancora su tutti i prodotti ogni mattina nei mercati di ogni città del mondo), quando accaparratori fraudolenti requisivano tutto il prodotto per trame incre-dibili guadagni. Di qui il senso si fa traslato: accusare iniquamente e falsamente per lucro, calunniare, denunciare bassamente, opprimere in-giustamente, defraudare, estorcere con bassi mezzi. Zaccheo sta in piedi davanti al suo Giudice divino, e sta confessando i suoi reati, senza quantificare, ma senza mezzi termini: voi sapete quanti ne frodai con violenza. È la conversione del cuore, che è pentimento, penitenza salu-

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tare, desiderio di riparare, di restituire. Tutto secondo la Legge santa, che questo esigeva, ad esempio Es 22,1 ; Num 5,6-7; 2 Re (= Sani) 12,6, detto di David.

Il divino Giudice nella sua longanime pazienza ascolta. Ha già la sentenza pronta: "Sèmeron seteria tò óikò toùtó egénetoV Sono le pa-role che sigillano nella Divina Liturgia lo splendore del canto della Doxologia megàlè, che unisce le Lodi divine alla Divina Liturgia. Solo che da allora la Salvezza avviene tò kósmó, all'intero mondo creato, poiché adesso "noi cantiamo al Risorto dal sepolcro e Condottiero della vita nostra". L'Oggi di Dio si compie sempre per vie misteriose. Propriamente il sémeron e la seteria non sono altro che Cristo, come nella proclamazione di Ebr 13,8, già richiamata:

Gesù Cristo!Ieri nostro e Oggi nostro!Il Medesimo per il secolo!

Si è detto che Cristo Signore motiva sempre i suoi atti, che restano così anche come divina Dottrina salutare: "in quanto anche lui è figlio d'Abramo" (v. 9).

Come figlio d'Abramo è adesso reintegrato in quel popolo "che os-serva la via del Signore, e agisce secondo diritto e giustizia, affinchè il Signore compia per Abramo quanto gli promise" (Gen 18,19, testo fon-dante). Così Zaccheo è perdonato e riammesso a pieno titolo nell'as-semblea santa del popolo santo.

Come figlio d'Àbramo, per il titolo dell'alleanza divina fedele, però Zaccheo ha diritto alla Benedizione ed alla Promessa che Cristo acquisì con il Legno della Croce, e che è lo Spirito Santo (Gai 3,13-14, altro testo fondante).

Allora questo che cos'è se non quanto adesso spiega il Signore?"Il Figlio dell'uomo venne a cercare": passò guardò chiamò. "Ed a

salvare": Io, Oggi di Dio e Salvezza di Dio. "In questa casa": "quanto era il perduto", il rovinato senza rimedio (v. 10).

Infatti, secondo il divino Disegno, come ad esempio è annunciato in testi enormi come Ez 34,11-16, il Figlio dell'uomo, ossia Dio stesso, viene adesso a recuperare al Regno divino quanto per il medesimo Regno era "rovinato, perduto, annullato" (apóllymi) a causa del peccato (cf. qui anche Le 5,32; 15,4; eMt 10,6; Gv3,17; 1 Tim 1,15).

E però, per questo, il Figlio dell'uomo deve incarnarsi, essere bat-tezzato, e nella Potenza dello Spirito Santo dolorosamente, faticosa-mente "cercare", e non sempre "trovare", poiché alcuni, come il riccoche lo interpella sulla vita eterna da conseguire (Le 18,18-27; e la Domenica \yài"Lucal vi si rifiutano.

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Questo "cercare-trovare" ha dunque singolari anticipi, come qui con Zaccheo. Ma il cercare-trovare finale sarà dalla Croce, nella Redenzione finale. La medesima che ad altri Zacchei e peccatori do-vranno poi portare i discepoli del Signore, fino a noi, e dopo noi, forse anche con la collaborazione di noi, e di tanti altri fratelli del Signore.

6. Megalinario Della Domenica.

7.Koinònikón Della Domenica.

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