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31 III. LA FILOSOFIA ERMENEUTICA CONTEMPORANEA. 1. La rideterminazione esistenziale e ontologica dell’ermeneutica nel Novecento Ad un primo, immediato confronto, l’ermeneutica di cui ci siamo occupati finora (sia nella sua veste più tradizionale e ‘antica’ di disciplina per la corretta interpretazione di testi, sia nella versione ottocentesca di ‘ermeneutica filosofica’) sembra aver ben poco da spartire con la ‘filosofia ermeneutica’ ossia con quella che ormai a pieno titolo si è qualificata come una delle più importanti correnti del pensiero contemporaneo, che si è sviluppata come l’eredità più matura della riflessione di Martin Heidegger e che vede in Hans-Georg Gadamer il proprio più significativo esponente. Se dobbiamo prestare ascolto a quest’ultimo, fin dalla Prefazione di Verità e metodo (testo universalmente considerato il principale riferimento della filosofia ermeneutica contemporanea) egli afferma che il suo lavoro vuole rappresentare“un radicale mutamento di prospettiva rispetto all’ermeneutica tradizionale” (p. XLIV) in quanto non affronta affatto problemi di metodologia della scienza dell’interpretazione, né vuol dare un contributo alla messa a fuoco di strategie atte a decifrare l’esatto significato di un testo, ma intende “porre un problema filosofico rispetto all’intera esperienza della vita dell’uomo e alla sua prassi vitale” (ibidem, p.8). La svolta a cui assistiamo è ben più radicale di quella espressa a fine Settecento da Schleiermacher: non si tratta solo di indagare i problemi filosofici connessi alla comprensione e alla comunicazione, ma di cogliere la comprensione e la comunicazione come dimensioni fondamentali dell’esistenza dell’uomo. Assistiamo, cioè, ad una ridefinizione esistenziale e ontologica dell’ermeneutica. Cercheremo di analizzare questa svolta osservando il cambiamento che avviene in alcuni temi e concetti portanti (quello di circolo ermeneutico, quello di fondazione, e la concezione del linguaggio), che ci permetteranno di delineare, assieme agli aspetti di continuità, anche il sostanziale cambiamento di prospettiva. 1.1. Il circolo ermeneutico. La filosofia ermeneutica assume con piena valenza filosofica e dà dignità speculativa a un elemento che da sempre accompagna (e affligge come un problema insolubile) l’ermeneutica tradizionale, invalidando i suoi sforzi di pervenire all’esatto significato di un testo: l’effetto di circolarità che il processo di comprensione e di interpretazione comporta. Già i filologi alessandrini, e poi Origene, avevano indicato un primo evidente movimento circolare che si stabilisce in un testo nella relazione tra il tutto e le parti. Ma solo nell’età metodica dell’ermeneutica, e in particolare grazie a Mattia Falcio Illirico, questa circolarità viene per la prima volta chiaramente tematizzata: per comprendere una parte è necessario aver presente l’intera articolazione dell’opera nel suo insieme; ossia, la comprensione delle parti richiede, se vuol essere efficace, una pre-comprensione dell’intero, la quale, a sua volta, si amplia e si integra solo attraverso la chiarificazione delle singole parti. Questa circolarità parti-tutto è ambivalente, poiché rappresenta, da un lato, una strategia preziosa per approfondire la comprensione dell’opera e per mettere in luce la complessità delle stratificazioni di senso; d’altronde, come ha ben individuato Schleiermacher, essa viene ad aprire un processo in cui il movimento della comprensione non ha davvero mai fine, ampliandosi in una risistemazione continua che sembra vanificare l’ideale metodico della esaustività e della completezza nella decifrazione del testo. Schleiermacher in particolare mette in evidenza quel peculiare effetto di circolarità che si viene a creare tra l’esigenza di spiegare il testo a partire dalla sua collocazione nella totalità della personalità dell’autore e la necessità di riportarlo, invece, agli strumenti espressivi di un certo codice linguistico e di un certo contesto storico e culturale (si vedano i rimandi continui tra interpretazione grammaticale, interpretazione tecnica e interpretazione psicologica, cioè fra tre contesti tutti importanti, ma nessuno dei quali esaustivo). Anche in questo caso lo sforzo ermeneutico si risolve in un indefinito rinvio reciproco tra i diversi tipi di collocazione, con un movimento circolare che non si conclude mai. Se l’ermeneutica tradizionale si arresta davanti a questo effetto di circolarità, vedendolo come un’impasse, un vizio logico da evitare, Heidegger invece, in un noto paragrafo di Essere e tempo 65 , assume tale circolarità come modalità costitutiva del processo della comprensione e, soprattutto, la vede come figura della condizione originaria della relazione tra l’uomo e il mondo. “L’importante – afferma Heidegger- non sta nell’uscir fuori dal circolo, ma nello starvi dentro nella maniera giusta. Il circolo della comprensione non è un semplice cerchio in cui si muova qualsiasi forma del conoscere, ma l’espressione della pre-struttura propria dell’Esser-ci stesso”. Siamo nella Prima Sezione di Essere e tempo, in particolare nell’analitica e nella definizione degli “esistenziali” ossia delle strutture fondamentali dell’Esser-ci come essere-nel-mondo. Per Heidegger essere-nel-mondo significa essere familiare non tanto con le cose che ci circondano e costituiscono il mondo, quanto essere già sempre –originariamente- familiare con una totalità di significati. L’essere-nel-mondo, per l’Esser-ci, è il trovarsi già sempre rimandato a una totalità di significati che precede qualsiasi rapporto particolare con le cose. Questa preliminare familiarità costituisce e struttura la stessa identità dell’Esser-ci. Heidegger la definisce “comprensione” e va intesa non solo in senso attivo/soggettivo, ma soprattutto in senso passivo (l’Esserci comprende, ma innanzitutto è compreso in un mondo). Essa rappresenta uno dei quattro esistenziali fondamentali (ossia i caratteri costitutivi dell’Esser-ci: comprensione, interpretazione, discorso e tonalità emotiva). Il suo movimento è circolare. Infatti ogni relazione con il mondo è resa possibile dal fatto che noi, prima di ogni esperienza particolare, possediamo un certo patrimonio culturale di significati, certe aspettative, un certo progetto, 65 M.Heidegger, Essere e tempo,1927, tr.it. di P.Chiodi, Longanesi, Milano 1976, § 32, pp.188-195

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III. LA FILOSOFIA ERMENEUTICA CONTEMPORANEA. 1. La rideterminazione esistenziale e ontologica dell’ermeneutica nel Novecento Ad un primo, immediato confronto, l’ermeneutica di cui ci siamo occupati finora (sia nella sua veste più tradizionale e ‘antica’ di disciplina per la corretta interpretazione di testi, sia nella versione ottocentesca di ‘ermeneutica filosofica’) sembra aver ben poco da spartire con la ‘filosofia ermeneutica’ ossia con quella che ormai a pieno titolo si è qualificata come una delle più importanti correnti del pensiero contemporaneo, che si è sviluppata come l’eredità più matura della riflessione di Martin Heidegger e che vede in Hans-Georg Gadamer il proprio più significativo esponente. Se dobbiamo prestare ascolto a quest’ultimo, fin dalla Prefazione di Verità e metodo (testo universalmente considerato il principale riferimento della filosofia ermeneutica contemporanea) egli afferma che il suo lavoro vuole rappresentare“un radicale mutamento di prospettiva rispetto all’ermeneutica tradizionale” (p. XLIV) in quanto non affronta affatto problemi di metodologia della scienza dell’interpretazione, né vuol dare un contributo alla messa a fuoco di strategie atte a decifrare l’esatto significato di un testo, ma intende “porre un problema filosofico rispetto all’intera esperienza della vita dell’uomo e alla sua prassi vitale” (ibidem, p.8). La svolta a cui assistiamo è ben più radicale di quella espressa a fine Settecento da Schleiermacher: non si tratta solo di indagare i problemi filosofici connessi alla comprensione e alla comunicazione, ma di cogliere la comprensione e la comunicazione come dimensioni fondamentali dell’esistenza dell’uomo. Assistiamo, cioè, ad una ridefinizione esistenziale e ontologica dell’ermeneutica. Cercheremo di analizzare questa svolta osservando il cambiamento che avviene in alcuni temi e concetti portanti (quello di circolo ermeneutico, quello di fondazione, e la concezione del linguaggio), che ci permetteranno di delineare, assieme agli aspetti di continuità, anche il sostanziale cambiamento di prospettiva. 1.1. Il circolo ermeneutico.

La filosofia ermeneutica assume con piena valenza filosofica e dà dignità speculativa a un elemento che da sempre accompagna (e affligge come un problema insolubile) l’ermeneutica tradizionale, invalidando i suoi sforzi di pervenire all’esatto significato di un testo: l’effetto di circolarità che il processo di comprensione e di interpretazione comporta. Già i filologi alessandrini, e poi Origene, avevano indicato un primo evidente movimento circolare che si stabilisce in un testo nella relazione tra il tutto e le parti. Ma solo nell’età metodica dell’ermeneutica, e in particolare grazie a Mattia Falcio Illirico, questa circolarità viene per la prima volta chiaramente tematizzata: per comprendere una parte è necessario aver presente l’intera articolazione dell’opera nel suo insieme; ossia, la comprensione delle parti richiede, se vuol essere efficace, una pre-comprensione dell’intero, la quale, a sua volta, si amplia e si integra solo attraverso la chiarificazione delle singole parti. Questa circolarità parti-tutto è ambivalente, poiché rappresenta, da un lato, una strategia preziosa per approfondire la comprensione dell’opera e per mettere in luce la complessità delle stratificazioni di senso; d’altronde, come ha ben individuato Schleiermacher, essa viene ad aprire un processo in cui il movimento della comprensione non ha davvero mai fine, ampliandosi in una risistemazione continua che sembra vanificare l’ideale metodico della esaustività e della completezza nella decifrazione del testo. Schleiermacher in particolare mette in evidenza quel peculiare effetto di circolarità che si viene a creare tra l’esigenza di spiegare il testo a partire dalla sua collocazione nella totalità della personalità dell’autore e la necessità di riportarlo, invece, agli strumenti espressivi di un certo codice linguistico e di un certo contesto storico e culturale (si vedano i rimandi continui tra interpretazione grammaticale, interpretazione tecnica e interpretazione psicologica, cioè fra tre contesti tutti importanti, ma nessuno dei quali esaustivo). Anche in questo caso lo sforzo ermeneutico si risolve in un indefinito rinvio reciproco tra i diversi tipi di collocazione, con un movimento circolare che non si conclude mai.

Se l’ermeneutica tradizionale si arresta davanti a questo effetto di circolarità, vedendolo come un’impasse, un vizio logico da evitare, Heidegger invece, in un noto paragrafo di Essere e tempo65, assume tale circolarità come modalità costitutiva del processo della comprensione e, soprattutto, la vede come figura della condizione originaria della relazione tra l’uomo e il mondo. “L’importante – afferma Heidegger- non sta nell’uscir fuori dal circolo, ma nello starvi dentro nella maniera giusta. Il circolo della comprensione non è un semplice cerchio in cui si muova qualsiasi forma del conoscere, ma l’espressione della pre-struttura propria dell’Esser-ci stesso”. Siamo nella Prima Sezione di Essere e tempo, in particolare nell’analitica e nella definizione degli “esistenziali” ossia delle strutture fondamentali dell’Esser-ci come essere-nel-mondo. Per Heidegger essere-nel-mondo significa essere familiare non tanto con le cose che ci circondano e costituiscono il mondo, quanto essere già sempre –originariamente- familiare con una totalità di significati. L’essere-nel-mondo, per l’Esser-ci, è il trovarsi già sempre rimandato a una totalità di significati che precede qualsiasi rapporto particolare con le cose. Questa preliminare familiarità costituisce e struttura la stessa identità dell’Esser-ci. Heidegger la definisce “comprensione” e va intesa non solo in senso attivo/soggettivo, ma soprattutto in senso passivo (l’Esserci comprende, ma innanzitutto è compreso in un mondo). Essa rappresenta uno dei quattro esistenziali fondamentali (ossia i caratteri costitutivi dell’Esser-ci: comprensione, interpretazione, discorso e tonalità emotiva). Il suo movimento è circolare. Infatti ogni relazione con il mondo è resa possibile dal fatto che noi, prima di ogni esperienza particolare, possediamo un certo patrimonio culturale di significati, certe aspettative, un certo progetto, 65 M.Heidegger, Essere e tempo,1927, tr.it. di P.Chiodi, Longanesi, Milano 1976, § 32, pp.188-195

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che pre-orientano ogni relazione e ogni nostra comprensione delle cose. Questo non significa che la nostra conoscenza sia un a-priori, ma che ogni nostro sguardo sul mondo non è mai neutro e vuoto, ma è guidato e orientato da un pre- (che è insieme la motivazione che sollecita tale relazione e il contesto culturale dei significati che costituisce il nostro mondo). Da tale pre- non dobbiamo cercare di uscire, perché rappresenta la stessa possibilità di incontrare il mondo ed è la premessa (sempre dimenticata o rimossa) di ogni conoscenza. Ogni atto conoscitivo non sarà che una articolazione successiva di questa preliminare comprensione o familiarità tra Esser-ci e mondo. La conoscenza, dunque, anche se si propone come “oggettiva”, disinteressata, per così dire “neutrale”, in realtà affonda le proprie radici nella pre-comprensione e non potrà non essere un punto di vista prospettico (e interessato) sul mondo.

Dal punto di vista gnoseologico, il circolo ermeneutico indica la peculiare coappartenenza di “soggetto” e “oggetto” nel processo conoscitivo, i quali, proprio per questo, non possono più essere pensati in una astratta e neutra differenziazione. Infatti prima di ogni esplicito atto di conoscenza, prima di ogni riconoscimento di qualcosa come qualcosa, conoscente e conosciuto si appartengono già reciprocamente: il conosciuto è già dentro l’orizzonte del conoscente, ma questo anche perché il conoscente è dentro il mondo che il conosciuto co-determina. Per questo ogni ideale di “oggettività” conoscitiva è destinato a infrangersi nel rinvio pressoché infinito tra i termini di questa relazione.

Questa riflessione di Heidegger resterà una pietra miliare per lo sviluppo successivo non solo della filosofia ermeneutica, ma di ampi settori del pensiero contemporaneo. Basti qui ricordare come essa venga a collimare con alcune importanti articolazioni dell’epistemologia del ‘900.

Gadamer afferma a più riprese (in Verità e metodo e nei saggi dedicati alla figura del suo antico maestro nel vol.3° delle Gesammelte Werke66) di richiamarsi alla riflessione heideggeriana sul circolo ermeneutico e di assumerla in riferimento alla costituzione fondamentale dell’Esser-ci, quindi con piena valenza esistenziale e ontologica. Tuttavia, all’interno del percorso di Gadamer, la figura del circolo sarà rilevante soprattutto in riferimento all’analisi della storia e si coniugherà con la nozione di orizzonte. Più che al comprendere del singolo, Gadamer penserà al processo di comprensione che la storia realizza, abbracciando l’interprete e il suo oggetto in un contesto unitario. E’ questo il principio della Wirkungsgeschichte (storia degli effetti o delle determinazioni) che guida il processo della trasmissione storica e che, trascendendo il soggetto, nei suoi sforzi interpretativi, “decide anticipatamente ciò che si presenta a noi come problematico e come oggetto di ricerca.” In realtà, per Gadamer, “non è la storia che appartiene a noi, ma noi che apparteniamo alla storia. Molto prima di arrivare ad un’autocomprensione attraverso la riflessione esplicita, noi ci comprendiamo attraverso schemi irriflessi nella famiglia, nella società, nello stato in cui viviamo.”67 1.2. Il fondamento

Un secondo nodo problematico, affrontato a più riprese dall’ermeneutica metodica tradizionale e mai adeguatamente risolto, è la ricerca di una fondazione della disciplina: in molti esponenti dei diversi indirizzi della teoria dell’interpretazione troviamo espressa l’esigenza di individuare una strategia di accesso a un fondamento, o principio basilare, che costituisca quell’elemento unificante dell’intero campo di studio, in grado, pertanto, di giustificare i fattori da cui esso dipende. Tale nozione, che si richiama in ultima istanza alla concezione aristotelica di epistème, tende a venir vanificata quando deve trovare applicazione nell’ambito delle scienze umane, e in particolare alla storia e alle sue diverse articolazioni (alla storia politica piuttosto che a quella sociale o dei fenomeni culturali). Questa difficoltà si trova espressa in modo emblematico in Dilthey, il cui sforzo di fondare la ragione storica e il suo ambito disciplinare, assicurandone il carattere di oggettività, viene costantemente inficiato dalla constatazione della “congenericità di soggetto e oggetto” a partire dal tessuto unitario della vita: a differenza della scienze della natura, dove l’oggetto può essere distanziato, analizzato, spiegato (erklären), nell’ambito delle scienze dello spirito la delimitazione del campo di indagine e il controllo dell’oggetto non possono mai venir assicurati in forma piena, tanto che il suo compito viene meglio definito dal processo della comprensione dei fenomeni storici (verstehen), destinato a non conseguire mai esaustività e completezza.

La stessa difficoltà, che abbiamo osservato a proposito del circolo ermeneutico, di incompletezza e di continua apertura del processo, ricompare anche nei tentativi “metodici” vòlti a dare alla disciplina uno statuto rigoroso. Sembra delinearsi, insomma, una vocazione costitutiva dell’ermeneutica a mettere in crisi la nozione di fondazione.

E’ proprio tale aspetto ad essere assunto dalla filosofia ermeneutica -ancora una volta- non come problema irrisolto da superare, ma come tratto peculiare e costitutivo della modernità. La crisi dei fondamenti che a fine ‘800 coinvolge tutti i campi del sapere, comprese le discipline con statuti “forti”, come le scienze matematiche e fisiche, mette tragicamente a nudo la fragilità dei principi fondativi, rivelandone il carattere illusorio, fittizio. A ridosso della pubblicazione di Verità e metodo, nel 1962, Gadamer tenne una conferenza a Parigi, in cui indicò con estrema chiarezza i motivi che nel ‘900 hanno portato a rinnovata attualità i problemi ermeneutici. Questa conferenza ha un titolo

66 Interamente tradotto in it.: H.G.Gadamer, I sentieri di Heidegger, trad.it. di R.Cristin e G.Moretto, Genova, Marietti, 1987 67 Verità e metodo, op.cit., p. 324

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provocatorio: “I fondamenti del XX secolo” 68; è evidente, infatti, come il problema centrale della cultura del ‘900 è rappresentato proprio dal fatto di essere “sospesa sull’abisso”, dopo la messa in crisi della nozione di fondamento avvenuta nel secondo Ottocento. Gadamer rivolge la propria attenzione ad alcuni pensatori (Kierkegaard, Marx e Freud) che, seppure per strade diverse, hanno svelato “l’ingenuità della riflessione” ed hanno mostrato come questa non possa più essere concepita come un atto libero della soggettività che perviene alla piena autotrasparenza. Ma è soprattutto Nietzsche a condurre la critica alle nozioni di ragione e verità esiti estremi. Gadamer, infatti, definisce Nietzsche “la grande figura del destino, che ha trasformato in maniera essenziale la critica allo spirito oggettivo del nostro secolo”. Come pensatore epocale, Nietzsche porta a maturazione un percorso che, iniziato a partire dalla crisi dell’idealismo di Hegel, ha infine dissolto ogni elemento che pretenda di porsi come fondamento capace di rendere stabile qualsiasi verità. Anche del soggetto, dunque, il cui concetto finisce per dimostrarsi esito di un’invenzione, di una interpretazione69. Osserva Gadamer: “La sua critica si rivolge all’ultima, alla più radicale estraneità che soffi dalla nostra intimità più profonda, si rivolge cioè alla coscienza stessa. Che la coscienza e l’autocoscienza non forniscano alcuna testimonianza indubitabile del fatto che quel che si mostra alla coscienza come suo contenuto, magari in maniera mascherata o trasfigurata, si trovi realmente in essa, è stato da Nietzsche conficcato nel pensiero moderno in modo tale che lo riconosciamo ovunque, non solo in quella eccessiva, autodistruttiva disillusione con cui Nietzsche ha strappato via all’io una maschera dopo l’altra, finché non solo non restano maschere, ma non resta nemmeno più l’io.”

In profonda sintonia con questa valutazione di Gadamer, anche P.Ricoeur, che rappresenta una delle voci più originali e profonde della filosofia francese contemporanea, in una conferenza tenuta a Yale nell’autunno del 1961 (pressoché contemporanea a quella ora ricordata di Gadamer) ebbe a usare un’espressione molto efficace per definire il percorso dissolutivo della filosofia europea del secondo Ottocento: con l’espressione “scuola del sospetto”, Ricoeur dà continuità al pensiero di tre autori –Marx, Freud e Nietzsche: i “maestri del sospetto”, appunto- il cui pensiero convergerebbe in un esito comune, poiché tutti e tre avrebbero contribuito a “smantellare” in modo irreversibile la “fortezza del Cogito cartesiano”, dimostrando l’impossibilità, per la ragione, di rendere trasparenti i propri contenuti legittimandone il pieno controllo70.

E’ dunque un tratto comune, che caratterizza la filosofia ermeneutica contemporanea, il riconoscimento e l’assunzione della dimensione infondata e infondabile (ab-gründlich) non solo dell’esercizio del pensiero, ma, più originariamente, della natura stessa dell’uomo. L’impianto antisoggettivistico e antifondazionistico, come elaborazione dell’eredità nietzscheana, è ben presente in Heidegger. Il riferimento obbligato è ancora una volta Essere e tempo e la ricerca sull’essere dell’Esser-ci condotta nell’analitica esistenziale. Ogni volta che Heidegger intraprende un lavoro, per così dire, di “fondazione” dell’Esser-ci e cerca di definirlo come totalità, assistiamo invece a una sorta di “sfondamento”, con un effetto paradossale di rovesciamento della prospettiva. Si veda innanzitutto come Heidegger definisce la costituzione dell’Esser-ci, indicando la Befindlichkeit (la situazione emotiva, il “come ci si sente”) come il più originario tra i quattro esistenziali, i possibili modi d’essere dell’Esser-ci. In quanto essere-nel-mondo, l’Esser-ci non solo ha già sempre una certa familiarità (pre-comprensione) con una totalità di significati, ma possiede anche sempre una certa tonalità emotiva: le cose non solo gli si offrono già sempre fornite di un certo significato, ma hanno anche una valenza affettiva, che per certi aspetti è ancora più originaria della stessa comprensione. Potremmo forse definirla come la nostra prima “prensione” emotiva sul mondo, le cui radici ci risultano tuttavia oscure e non sono in nostro dominio: questo modo originario di relazionarci al mondo ci sfugge nei suoi fondamenti, nelle sue ragioni ultime. Nella situazione emotiva noi ci troviamo esposti, la “patiamo” in qualche modo, senza poterla ridurre al nostro controllo razionale. Essa, accanto alla circolarità della comprensione, segna il limiti di ogni nostro progetto, accentua l’effetto di “spossessamento” del soggetto, della sua capacità di iniziativa, della sua piena padronanza delle relazioni con la realtà.

Ma un effetto ancora più destabilizzante si avverte nel § 46 di Essere e tempo, là dove Heidegger pone un problema che, a prima vista, appare in linea con una logica tradizionale di fondazione: l’analitica esistenziale fin qui condotta –si chiede Heidegger- ha portato all’individuazione della totalità delle strutture del Dasein? A questa domanda ne segue subito una seconda: che cosa significa, per l’Esser-ci, essere una totalità? Questo interrogativo, sviluppato coerentemente, porterà alla conclusione che l’Esser-ci può costituirsi in una totalità (e quindi trovare la propria unità, la propria identità) solo nella misura in cui si anticipa per la propria morte: la costituzione dell’Esser-ci comporta necessariamente il confronto con quella morte che è solo mia e che, come permanente possibilità dell’impossibilità di tutte le altre possibilità, mostra che ogni mio progetto esistenziale è in realtà sospeso sul nulla. L’anticipazione della morte rivela le possibilità come autenticamente tali, le mantiene nella loro specifica mobilità , ci fa riconoscere il carattere precario di ognuna delle possibilità concrete della nostra vita. Tutto questo significa, però, che

68 H.G.Gadamer, I fondamenti filosofici del XX secolo, trad. it. Di U.M.Ugazio in G.Vattimo, a cura di, Filosofia ’86, Roma-Bari, Laterza, 1987. 69 Si veda il seguente passo dei Frammenti postumi 1887-1888: “Noi non possiamo constatare alcun fatto “in sé”; è forse un’assurdità volere qualcosa del genere. “Tutto è soggettivo” direte voi; ma già questa è un’intrepretazione, il soggetto non è niente di dato, è solo qualcosa di aggiunto con l’immaginazione, qualcosa di appiccicato dopo. E’ infine ancora necessario mettere l’interprete dietro all’interpretazione? Già questo è invenzione, ipotesi.” (trad.it. di Sossio Giametta, vol.VIII, 1, Adelphi, Milano, 1979, p.299. 70 La versione integrale è reperibile in P.Ricoeur , Della interpretazione. Saggio su Freud, trad.it. di E.Renzi, Il Saggiatore, Milano 1966

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il senso ultimo dell’esistenza si fonda sulla possibilità, per l’Esser-ci, di non essere più, ossia sulla sua radicale finitezza, intesa non in senso esistenzialistico (come Heidegger chiarirà in modo molto netto nella Lettera sull’umanismo), ma in una accezione costitutiva, ovvero ontologica.

Trova così espressione –in continuità con la lezione di Nietzsche- il tramonto definitivo dell’idea di soggetto come entità autotrasparente, dotato di strumenti razionali capaci di illuminare non solo il suo mondo e i suoi saperi, ma anche la sua, la sua stesse natura.

Si afferma, invece, una nozione di soggettività che già abbiamo avuto modo di definire ‘infondata e infondabile’ (ab-gründlich), dove risultano caratterizzanti i tratti della finitezza e della gettatezza dell’esistenza. E tale nozione rappresenta un leit-motiv che ripercorre, con accenti diversi ed anche con diversi sviluppi, il variegato panorama della filosofia ermeneutica contemporanea. Ne seguiremo solo alcune articolazioni, in particolare in Gadamer, dove l’idea di finitezza viene interpretata come premessa di una radicale storicità di ogni umano progettare e, a partire dalla messa in discussione radicale delle categorie antropocentriche, viene integrata con la costruzione di nuovi strumenti concettuali, come la coscienza della Wirkungsgeschichte (la consapevolezza di essere determinati dalla storia e dal suo movimento di trasmissione dei significati), nonché con l’indicazione di nuovi percorsi per l’esercizio del pensiero. 1.3. Il linguaggio

Possiamo infine rilevare un terzo elemento di continuità tra l’ermeneutica tradizionale e la filosofia ermeneutica contemporanea, rappresentato dal comune interesse per il linguaggio. Se nella figura del circolo e nell’ideale del fondamento la filosofia ermeneutica ha messo in atto un’inversione di prospettiva rispetto alla tradizione ermeneutica (da problemi irrisolti a caratteri originari della stessa soggettività e, di riflesso, della relazione con il mondo), sul tema del linguaggio si registra, invece, una sostanziale continuità, che trova le sue più lontane radici nell’attenzione filologica dei primi studi di interpretazione dei testi, e si conferma nell’età della Riforma come centralità della mediazione linguistica nella comprensione e nell’interpretazione delle Sacre Scritture.

Ciò che è oggetto di un processo interpretativo e richiede una spiegazione, è innanzitutto un messaggio formulato linguisticamente, il cui scopo consiste nel comunicare e trasmettere significati attraverso il medium del linguaggio. Tale consapevolezza si fa del tutto chiara in epoca romantica, e in particolare in Schleiermacher, dove l’ermeneutica non è solo una disciplina riservata alla decifrazione di testi remoti, ma si applica a ogni tipo di messaggio, scritto o orale. Tale processo, però, tocca il suo culmine nella filosofia ermeneutica contemporanea, dove il carattere linguistico viene esteso non solo ad ogni conoscenza e ad ogni forma di sapere, ma alla struttura stessa dell’esistenza: ogni rapporto con la realtà - e non solo la relazione tra parlanti - viene mediato dal linguaggio, ogni interazione con il mondo, concepito come rete di significati, viene pensata come scambio comunicativo, come evento linguistico.

Questa centralità del linguaggio viene indicata da Heidegger fin dai primi paragrafi di Essere e tempo: la nozione di essere-nel-mondo si caratterizza subito per i suoi tratti linguistici, in quanto rappresenta quell’orizzonte di significati con cui abbiamo già sempre familiarità e che precede ogni nostra particolare relazione con le cose. L’essere-nel-mondo è dunque in stretta analogia con l’esistenziale della “comprensione” (cioè con quella condizione di pre-orientamento che condiziona ogni nostro sguardo sul mondo), la quale si articolerà successivamente in interpretazione e quindi in discorso. Tale gioco di relazioni tra essere-nel-mondo, significatività e linguaggio è presente in Essere e tempo in forma non pienamente tematizzata, mentre sarà oggetto di più approfondita elaborazione a partire dagli anni Trenta, contestualmente alla riflessione sull’arte (e in particolare sul linguaggio poetico) e alla messa a fuoco della nozione di evento (la fase della cosiddetta Kehre, in cui Heidegger orienta la propria riflessione dall’Esserci verso l’essere). Si veda la nota affermazione contenuta nella Lettera sull’umanismo che definisce il linguaggio come “la casa dell’essere”71. Ma il linguaggio diventerà centrale nell’ultimo periodo del pensiero di Heidegger, in particolare negli anni Cinquanta, quando a questo tema saranno dedicati un ciclo di conferenze e alcuni importanti saggi (raccolti poi nel volume In cammino verso il linguaggio).

Gadamer accentua ulteriormente l’interesse per il linguaggio. Egli evidenzia il carattere linguistico di ogni conoscenza e di ogni esperienza del mondo. Ogni nostra relazione, con le persone ma anche con le cose, è mediata dal linguaggio, è dialogo di domanda e risposta: noi siamo sollecitati da messaggi, espressi non solo in parole, ma anche in forme diverse, dalla gestualità all’immagine, che chiedono tuttavia di venir compresi, e il loro appello sollecita la nostra comprensione e la nostra risposta. Tale relazione comunicativa è un evento linguistico, che contribuisce alla formazione della rete dei significati del nostro contesto culturale di appartenenza. Il principio in cui si riassume la filosofia ermeneutica di Gadamer suona: “L’essere che può essere compreso è linguaggio” e viene a configurare una visione della storia come trasmissione di messaggi, come dialogo di domande e risposte, in cui il linguaggio è il modo fondamentale di accadere dell’essere. Noi apparteniamo a un orizzonte culturale che ci precede e ci comprende, ma soprattutto ci interroga con gli appelli che la nostra tradizione ci rivolge per venir compresa e riattualizzata. La coappartenenza tra uomo ed essere, meditata da Heidegger, sarà per Gadamer appartenenza preliminare al linguaggio:

71 M.Heidegger, Lettera sull’umanismo, 1947, tr.it. di F.Volpi, in M.Heidegger, Segnavia, 1976, Adelphi, Milano 1987, p.267. Si veda il brano antologico a fine capitolo

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l’essere si presenta nella storia come trasmissione di messaggi, come dialogo di appelli e di risposte, come mediazione linguistica.

Il linguaggio come tema centrale della riflessione della filosofia ermeneutica contemporanea si è rivelato anche uno strumento fecondo che ha permesso di aprire momenti di confronto tra i diversi ambiti del panorama filosofico del nostro tempo e in particolare di avviare un fecondo colloquio tra settori tradizionalmente distanti, dove la comunicazione sembrava preclusa dall’eterogeneità dei rispettivi impianti concettuali di riferimento. Si pensi, ad esempio, alla filosofia analitica o alle diverse correnti dell’epistemologia contemporanea, dove il dialogo con l’ermeneutica sembrava precluso dall’antica frattura tra le scienze della natura e le scienze dello spirito.

Grazie al linguaggio, quindi, la filosofia ermeneutica ha potuto proporsi come area di convergenza tra le più diverse correnti del pensiero contemporaneo, tanto da poter essere riconosciuta (soprattutto nel corso degli anni Ottanta) come una nuova koinè, una comunità di confronto e di dialogo interculturale. 2. Per una teoria dell’esperienza ermeneutica. La lezione di H.G.Gadamer

Dopo aver individuato i nodi concettuali emergenti della filosofia ermeneutica contemporanea, cerchiamo di analizzarne in modo più dettagliato i contenuti, tenendo come riferimento costante l’opera di Gadamer, Verità e metodo, che è universalmente considerata come il più ampio tentativo di sistemazione teorica di questo orientamento filosofico. Qui sono riprese e sviluppate le implicazioni ermeneutiche contenute nel pensiero di Heidegger, con una impostazione di sostanziale continuità, anche se su alcuni aspetti Gadamer si discosta dall’impianto heideggeriano, con soluzioni originali e ricche di nuove implicazioni teoriche.

Verità e metodo, come Gadamer stesso ricorda72,raccoglie ricerche e studi compiuti in un lungo arco di tempo; è un’opera complessa, di vasto respiro, che non presenta un carattere sistematico, né intende proporsi come sintesi organica di una nuova metodologia dell’interpretazione. L’orientamento filosofico è chiaramente esplicitato nell’Introduzione, dove Gadamer dichiara di riferirsi all’impostazione di Heidegger che “pone finalmente nei suoi termini autentici il problema ermeneutico” (p.15). Infatti Heidegger “è stato il primo a caratterizzare il concetto del comprendere come aspetto universale costitutivo dell’esistenza”. Per questo la filosofia ermeneutica viene ad indicare “il movimento fondamentale dell’esistenza, che la costituisce nella sua finitezza e nella sua storicità e che abbraccia così tutto l’insieme della sua esperienza nel mondo.” (p16)

L’opera si articola in tre parti, che rappresentano le tre scansioni in progressione di un percorso coerente, vòlto a riesaminare e ridefinire alcuni termini/concetti del linguaggio filosofico. In particolare, dopo la crisi della ragione classica e dell’idea di fondazione, Gadamer si interroga su quali possibilità rimangano ancora aperte per l’esercizio del pensiero e si chiede quale possa essere oggi il ruolo della filosofia. Se nel ‘900 l’uomo ha irrimediabilmente perduto la fiducia (ingenuamente ottimistica) nelle capacità della ragione di comprendere appieno non solo la realtà, ma innanzitutto sé stesso, quale spazio potrà ancora pretendere la nozione di verità e quale compito potrà avere ancora la filosofia che è, nella sua natura più essenziale, ricerca della verità?

Le prime due parti dell’opera si strutturano quindi come una chiarificazione del problema della verità e come ricerca di una possibile ridefinizione di questa nozione all’interno di un orizzonte di pensiero non fondativo, consapevole della finitezza condizionata della coscienza, nonché della circolarità (e della non obiettivabilità) della comprensione.

2.1. L’arte come esperienza di verità Nella critica alla nozione di verità della tradizione filosofica, Heidegger aveva avvertito la necessità di risalire fino alle più remote radici greche della storia del pensiero, per trovare nelle trasformazioni di senso del termine alétheia un occultamento progressivo dell’essere. Secondo Heidegger l’ontologia greca ha dato al soggetto un primato nella determinazione della verità, concepita come orthòtes, come correttezza dello sguardo dell’uomo. Queste premesse avrebbero segnato in modo via via più marcato tutto lo sviluppo successivo della storia della filosofia come storia dell’oblio dell’essere. Gadamer evita invece questa prospettiva unitaria (e totalizzante) sulla storia del pensiero. Egli

72 “La sintesi dei miei studi sull’ermeneutica filosofica, apparsa finalmente nel 1959 sotto il titolo di Wahrheit und Methode, concludeva un lento e spesso interrotto processo di crescita. Gli studi sull’estetica, sulla storia dell’ermeneutica e sulla filosofia della storia, al seguito di Dilthey, Husserl e Heidegger, dovevano alla fine trovare una loro unità in un resoconto filosofico, che non intendeva essere una costruzione omogenea, ma raccoglieva la sua documentazione dai vasti campi dell’esperienza ermeneutica.” Così Gadamer nell’opera autobiografica Maestri e compagni nel cammino del pensiero.Uno sguardo retrospettivo, trad.it. di G.Moretto, Queriniana, Brescia, 1980, p.147.

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constata innanzitutto che la nozione di verità, nell’accezione attuale, è profondamente influenzata dal modello metodico delle scienze positive, che identificano la verità con il metodo –sia esso il metodo dimostrativo della matematica, o, con la stessa valenza, quello sperimentale della fisica- e questa tendenza si è imposta durante l’età moderna, in particolare nel corso del ‘600, il secolo per eccellenza della riflessione sul metodo. Si tratta ora di riscoprire l’esperienza di verità che avviene al di fuori di tali contesti metodici.

Per chiarire che cosa significhi “esperienza di verità”, Gadamer usa il termine Erfahrung, nel suo significato di esperienza di vita. In generale –afferma Gadamer- noi possiamo parlare di esperienza di verità là dove c’è vera esperienza: là dove, cioè, l’incontro con la cosa produce nel soggetto un’effettiva modificazione. Quando diciamo :”Ho attraversato un’esperienza importante” non intendiamo il termine “esperienza” nell’accezione con cui esso viene usato nelle scienze naturali, dove è modellato sul concetto di esperimento e di verifica empirica, ma lo intendiamo nel senso di una trasformazione personale, dove il nuovo è venuto ad integrarsi con tutto ciò che precedentemente costituiva l’identità della coscienza. L’esperienza di verità, insomma, è un evento che sposta e disloca la coscienza, la trasforma.

Per sviluppare più adeguatamente tale accezione di esperienza (che avrà in seguito importanti implicazioni sulla nozione di verità), Gadamer apre una riflessione a tutto campo sull’esperienza artistica, vista come uno degli ambiti del sapere umano che ha saputo conservare un diverso rapporto con la realtà. Forse proprio perché l’arte da sempre (ma soprattutto a partire dall’età moderna) è stata considerata priva di valore dal punto di vista conoscitivo ed è stata relegata ai margini dei saperi forti, non è stata così pesantemente compromessa dalle procedure e dai metodi della scienza. Gadamer vede nell’arte una forma “extrametodica” di conoscenza, che, proprio in virtù della scarsa considerazione di cui ha goduto nelle epoche in cui hanno trionfato il metodo e il sapere scientifico, ha potuto conservare un diverso rapporto con la realtà e una diversa accezione di verità. Alcuni interpreti736sostengono che Gadamer nella Parte prima di Verità e metodo ha elaborato una vera e propria teoria estetica, la quale costituirebbe il contributo più interessante di tutta l’opera. Ma, per esplicita affermazione dell’autore, la riflessione sull’arte ha solo uno scopo preliminare, propedeutico, ed è finalizzata a mettere in luce un modello di esperienza ed un concetto di verità diversi rispetto a quelli del sapere metodico della scienza. L’analisi, per così dire, genealogica di alcuni termini centrali del linguaggio dell’arte e la loro rilettura critica si dimostrano funzionali all’intenzione di limitare la portata del soggetto nell’ambito dell’esperienza estetica (sia come soggetto produttore che come fruitore), valorizzando, invece, il ruolo dell’opera e la sua autonomia (autonomia garantita sia nei confronti dell’artista che l’ha creata, sia rispetto al potenziale pubblico).

Esamineremo questa Parte prima di Verità e metodo non solo per esigenze di completezza espositiva, ma proprio perché nella riflessione sull’esperienza di verità nell’arte vengono messi a punto alcuni concetti che in seguito, nella formulazione della filosofia ermeneutica in senso proprio, avranno un ruolo centrale. E’ opportuno, quindi, leggere fin da subito i termini peculiari dell’esperienza artistica come modelli a cui si farà riferimento anche in seguito. Ad esempio, per la definizione dell’esperienza ermeneutica sarà preziosa l’analisi del concetto di gioco sviluppata nel contesto dell’esperienza artistica74. La nozione di gioco viene qui liberata dalle rigidità di una interpretazione tutta soggettiva e viene descritta come modello di un’esperienza in cui emerge la struttura relazionale dell’essere. Il gioco è un mezzo (medium), la cui natura consiste nel venire rappresentato: esso si produce attraverso i giocatori, e tuttavia resta distinto da essi, nel senso che non viene creato da chi gioca. E’ vero, piuttosto, che il gioco guida i giocatori, che sono “presi dal gioco” e devono rispettarne le regole, adeguarsi alla sua forma. Il gioco ha dunque un primato rispetto ai giocatori, tanto che potremmo dire che il soggetto è il gioco stesso, il quale mostra di possedere una identità definita e indipendente da coloro che lo giocano.

Nella trattazione del concetto di gioco Gadamer perviene a quello “smorzamento della soggettività” che rappresenta un passaggio centrale per approdare ad un nuovo orizzonte filosofico. Non si tratta tuttavia di un passaggio che cancella la nozione di soggetto: come nel gioco i giocatori non vengono tolti di scena, ma anzi è richiesta tutta la loro abilità e la loro partecipazione affinché il gioco riesca, così in un nuovo contesto filosofico la soggettività non viene annullata, ma piuttosto ridefinita nel suo ruolo, in modo che non costituisca più quel centro dell’attenzione - il perno non solo del pensare, ma dell’intero essere- che la poneva come fondamento della tradizione culturale dell’Occidente. Vanno, insomma, sottoposte ad un processo di revisione critica le categorie metafisiche con cui la soggettività è stata pensata.

Dal concetto di gioco la riflessione si estende all’esperienza estetica in senso proprio. L’attenzione, piuttosto che sul momento produttivo in cui l’autore compone l’opera, troppo compromesso dall’enfatizzazione operata in età romantica del ruolo del soggetto e dall’idea del genio creatore, viene spostata sul momento della fruizione estetica, in cui l’opera diventa di nuovo viva nel colloquio con un interprete che cerca di coglierne appieno il significato. Se tale incontro si attua in tutte le sue potenzialità, assume i caratteri di una vera e propria esperienza, ossia segna un cambiamento nell’identità dei protagonisti, che ne risultano influenzati e trasformati. La lettura di un testo letterario,

73 Si veda, ad esempio, G.Vattimo, “Estetica ed ermeneutica in H.-G.Gadamer” in Rivista di estetica, VIII, 1963, pp.117-130 ed anche G.Ripanti, Gadamer, Assisi, La Cittadella 1978, p.22 74 Verità e metodo, pp.132-142

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l’ascolto di un brano musicale, la visione di quadro possono cambiare il nostro modo di pensare e la nostra stessa concezione della vita. L’opera d’arte, infatti, non è un oggetto che possa essere contemplato in modo astratto, ma esprime un messaggio spirituale che entra in rapporto con i valori che orientano la nostra esistenza.

Ma anche l’opera d’arte viene trasformata nell’esperienza estetica. L’opera vive nel venire rappresentata. La sua natura più autentica, lo scopo per cui è stata composta, consiste nel venir fruita e compresa. Nella fruizione il suo significato, ossia ciò che essa comunica, si realizza e diviene pienamente presente, attuale. Non possiamo tuttavia ritenere che tale significato sia unico e che corrisponda a ciò che l’autore voleva effettivamente comunicare. L’opera ha sempre un’eccedenza di senso rispetto alle intenzioni dell’autore, in quanto “l’essere estetico è temporale ed ha il proprio essere nell’essere rappresentato.”75 Nella trasmissione storica, l’opera è esposta a molte possibili interpretazioni, ma questo non altera il suo valore. Il tempo, la distanza che può separare il momento in cui è stata composta dal momento in cui viene rivisitata, non è un fattore che limita le sue potenzialità estetiche; anzi, è vero piuttosto il contrario, poiché in ogni rivisitazione l’opera assume un “incremento d’essere”, e l’incontro con l’interprete rappresenta anche per l’opera un’esperienza autentica, che modifica ed espande la sua identità. Essendo impossibile tracciare il confine che separa il significato dell’opera dalle interpretazioni che ne vengono date, essa vive e si arricchisce nel processo della trasmissione storica. Dal punto di vista del fruitore che si rapporta all’opera cercando di comprendere il messaggio che essa comunica, è innanzitutto necessario che egli sospenda i propri canoni espressivi nonché le proprie aspettative di senso per lasciar parlare l’opera. Analogamente alla dinamica del gioco, in cui i giocatori devono sottoporsi alle regole lasciandosi, in un certo senso, giocare, così nella fruizione delle opere d’arte è necessario lasciarsi prendere dal loro linguaggio, lasciare spazio alla rappresentazione della loro verità. E’ qui evidente l’intenzione di richiamare la nostra attenzione sull’evento artistico, ossia su quanto accade nella relazione comunicativa. Questo consente a Gadamer di superare gli orizzonti tradizionali delle teorie estetiche e di pervenire a differenti strumenti concettuali. E’ soprattutto la nozione di verità a trovare una prima, importante ridefinizione: resa problematica dalla critica destabilizzante di Nietzsche, indicata da Heidegger come l’espressione più evidente della modalità pres/entativa del pensiero occidentale e del suo oblio dell’essere, la nozione di verità trova nella riflessione di Gadamer sull’arte una possibilità di riorientamento, venendo pensata come esperienza di apertura e di trasformazione, piuttosto che come esito delle determinazioni del pensiero soggettivo.

2.2. Storicità del comprendere ed esperienza storica Se in ambito artistico Gadamer ha sottoposto a critica la nozione di “coscienza estetica” (e la centralità del

soggetto che in essa si esprime), pervenendo alla nuova nozione di “esperienza estetica”, pensata come relazione vitale che coinvolge e modifica chi la compie, così, aprendo una più ampia riflessione sulle scienze dello spirito egli avverte innanzitutto l’urgenza di sottoporre a revisione critica la nozione di “coscienza storica” che ha caratterizzato le forme tradizionali di analisi della storia. Analogamente segnata da schemi derivati dal modello obiettivante delle scienze naturali, anche la coscienza storica ha perseguito un ideale di verità come conoscenza certa, nella pretesa che lo storico sia in grado di conseguire un punto di vista universale sul proprio oggetto di studio. In un lungo capitolo, dal titolo Preparazione storica76, Gadamer analizza le posizioni dei principali esponenti della Scuola storica, di Dilthey e dello storicismo tedesco del secondo ‘800. Per Gadamer c’è una contraddizione palese tra le premesse positive da cui questi indirizzi prendono avvio (in particolare Dilthey77 che, con il concetto di Erlebnis ha intimamente connesso il significato della storia alla concretezza della vita, rivalutando la peculiarità dell’essere umano finito) e gli esiti a cui invece giungono, tutti improntati dall’istanza di trascendere tale finitezza, avvertita come un limite che impedirebbe di conseguire una conoscenza storica oggettiva78Si cerca, insomma, di esorcizzare la finitudine nel tempo del soggetto interpretante, così che la coscienza storica, pur partendo da una corretta relativizzazione dei criteri di giudizio per ciò che concerne lo studio del passato, non sa poi relativizzare sé stessa e, tentando un “grandioso oblio epico di sé”79, pretende di poter assumere un punto di vista universale.

Solo la filosofia di Heidegger è riuscita, secondo Gadamer, a farsi carico fino in fondo della dimensione finita della coscienza, portando tale consapevolezza alle sue ultime conseguenze e risolvendo il residuo di oggettivismo presente in Dilthey (ma anche in Husserl). Egli parte “dal proposito di interpretare l’essere, la verità e la storia in base

75 Verità e metodo,p. 168 76 ibidem, pp.211-311 77 “Dilthey parte dalla vita. La vita è essa stessa orientata alla riflessione. […] Nella vita stessa è presente il sapere. Già l’avvertire che caratterizza l’Erlebnis contiene una specie di ripiegarsi della vita su sé stessa. La stessa riflessività immanente della vita serve anche a definire il modo in cui, secondo Dilthey, sorge il significato nei contesti vitali.” (ibidem, p.279). 78 “Questo contrasto ha il suo fondamento ultimo in una ambiguità intima del suo [di Dilthey] pensiero, che parte da un non risolto cartesianesimo. La sua riflessione gnoseologica sulla fondazione delle scienze dello spirito non si lascia in realtà conciliare con l’impostazione vitalistica della sua filosofia.” (ibidem, p.282) 79 ibidem, p.275

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all’assoluta temporalità.”80 La condizionatezza, l’effettività (Faktizität) dell’Esser-ci heideggeriano comporta l’impossibilità di assumere uno sguardo teoretico puro sul mondo. Per Heidegger l’uomo è gettato nel mondo nel momento stesso in cui si rapporta alla realtà; si attua quindi un rovesciamento di prospettiva, per cui l’io non può essere uno spettatore disinteressato che possa guardare al mondo dei fenomeni in piena indipendenza da presupposti storico-esistenziali. Piuttosto sono tali presupposti che, costituendo il soggetto come Esser-ci, come progetto calato nel mondo, rendono possibile la conoscenza dei fenomeni: che non sarà mai pura descrizione, ma sempre interpretazione, prospettiva particolare e finita sul mondo. A questa riflessione sulla natura del comprendere ed ai concetti tipicamente heideggeriani di gettatezza, di finitudine e di temporalità, Gadamer imprime uno sviluppo in senso storico. Il suo interesse, più che all’analitica esistenziale, si rivolge alla dimensione storica dei nostri parametri concettuali: ciò che stabilisce in ultima istanza le modalità con cui ci rapportiamo al mondo è il nostro inserimento in un contesto linguistico e culturale storicamente determinato. La comprensione della realtà che ci circonda viene condizionata in modo decisivo da “schemi irriflessi” di giudizio che assumiamo in modo del tutto inconsapevole attraverso i comportamenti abituali, le norme sociali condivise, il linguaggio. Dissentendo in questo da Heidegger, Gadamer ritiene che le consuetudini linguistiche non vadano considerate come “vuota chiacchiera” impersonale e priva di valore, come un “si dice” anonimo e “inautentico”. Gli schemi comportamentali e le forme abituali di dire, proprio perché agiscono in modo inconsapevole, hanno un ruolo determinante nella formazione dell’individuo e marcano la sua appartenenza a un mondo storico. Prima che noi possiamo comprendere la realtà del nostro tempo, questa realtà ci comprende, la storia comprende noi: “In realtà non è la storia che appartiene a noi, ma noi apparteniamo alla storia. Molto prima di arrivare ad una autocomprensione attraverso la riflessione esplicita, noi ci comprendiamo secondo schemi irriflessi nella famiglia, nella società, nella stato in cui viviamo. La soggettività è solo uno specchio frammentario. L’autoriflessione dell’individuo non è che un barlume nel compatto fluire della vita storica.”81

Gadamer supera dunque le aporie della “coscienza storica” tramite la nozione di esperienza storica, la quale, analogamente all’esperienza estetica, è un’esperienza di verità, un incontro e un processo di trasformazione reciproca dei termini che la compongono: l’interprete e l’oggetto storico. Che cosa richiede tale esperienza? Essa esige, innanzitutto una sensibilità all’alterità e una disponibilità a mettere in gioco fino in fondo le proprie opinioni, i propri riferimenti culturali. Gadamer riconosce che tale precondizione metodologica non può consistere nell’ingenua pretesa di rapportarsi alla cosa da interpretare pensando di poter abbandonare anticipatamente tutti i propri pregiudizi: una neutralità oggettiva non è consentita alla ragione finita dell’uomo, la quale è sempre storicamente determinata e articola il proprio procedere tramite concetti e parole forniti da un particolare orizzonte linguistico e culturale. E’ necessario, piuttosto, avere la consapevolezza dei propri preconcetti, delle aspettative di senso che pre-orientano la nostra comprensione, del progetto che finalizza la nostra attività interpretativa. Analizzando la natura dei pregiudizi, Gadamer ne rivaluta la funzione, sostenendo che essi costituiscono l’orizzonte preliminare necessario del processo del comprendere. Se riflettiamo, infatti, sul modo in cui si verifica la comprensione, possiamo renderci conto che l’approccio a una cosa che cerchiamo di capire avviene sempre a partire da una motivazione e da una aspettativa di senso, le quali vengono poi via via confermate, o parzialmente corrette, o sostituite, a seconda della loro maggiore o minore adeguatezza alla realtà. La presa di coscienza dei propri preconcetti porta a riconoscere e a saper accettare i limiti entro cui si muove il nostro pensiero. La riflessione sull’esperienza storica implica, dunque, una nuova accezione della nozione di ragione: “L’ideale di una ragione assoluta non costituisce una possibilità per l’umanità storica. La ragione esiste per noi solo come ragione reale e storica; il che significa che essa non è padrona di sé stessa, ma resta sempre subordinata alle situazioni date entro le quali agisce.”82

Questa analisi consente a Gadamer di ripensare il ruolo della tradizione, che viene vista come il risultato di un processo di trasmissione compiuto dalla storia. Tutto ciò che proviene dal passato si presenta a noi dentro un movimento di trasmissione storica, che ha selezionato ciò che era degno di essere tramandato, integrandolo e arricchendolo nel corso del tempo. Studiare un documento o un testo che appartiene a un’altra epoca non è solo un’attività voluta da noi, in quanto l’oggetto della nostra ricerca è pervenuto fino ai nostri giorni e ci è stato consegnato dal movimento della storia, che ne ha via via caratterizzato l’identità.

La nostra comprensione è a sua volta storica, non solo nel senso che si verifica attraverso i parametri concettuali del nostro tempo, ma soprattutto nel senso che realizza quella sintesi tra passato e presente che garantisce che il nostro oggetto di studio venga tramandato alle generazioni future. E’ in questa processualità che si sostanzia la tradizione, definita da Gadamer non secondo categorie statiche di conservazione, ma come risultato della mobilità stessa del divenire temporale: la tradizione, a suo giudizio, non si costituisce solo in virtù della persistenza dell’”antico”, ma ha bisogno “di essere accettata, di essere adottata e

80 ibidem, p.303-304 81 ivi, pp.324-325; il brano è riportato nella sezione antologica a fine capitolo 82 ivi, pp. 324.

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coltivata”. E’, quindi, una conservazione entro il mutamento, un passato che si tramanda grazie alla sua capacità di diventare presente, un “antico” che può essere compreso e attualizzato perché si propone come “nuovo”83.

A conferma del fatto che la sua idea di tradizione non ha un significato di conservazione e di difesa dell’esistente, Gadamer valorizza nel processo di trasmissione storica la funzione delle esperienze di discontinuità, che si rivelano particolarmente feconde per l’attività ermeneutica. Ad esempio, la distanza temporale che separa l’interprete dal suo oggetto di studio non viene vista come un ostacolo da superare, ma anzi come una proficua chance dell’attività interpretativa. Mentre l’ermeneutica tradizionale, che voleva stabilire l’esatto significato di un testo, cercava di colmare la distanza temporale, in sintonia con l’obiettivo metodico della storicismo di trasporsi nello spirito delle epoche passate, Gadamer sostiene che il tempo non è “un abisso che deve essere scavalcato perché separa o allontana.[...] In realtà si tratta di riconoscere nella distanza temporale una positiva e produttiva possibilità del comprendere.”84 Riprendendo e ampliando la riflessione sull’opera d’arte, Gadamer sostiene che nel corso del tempo l’opera può evidenziare meglio la propria identità e la propria autonomia nei confronti dell’autore e inoltre può conoscere, nella ricchezza delle interpretazioni a cui dà origine, una continua dilatazione dei propri significati, rivelando sempre nuove e insospettate connessioni di senso. Le osservazioni sulla fecondità della distanza temporale consentono di definire meglio il processo della trasmissione storica, poiché mettono in maggior evidenza il principio della Wirkungsgeschichte. Vattimo traduce questo termine con l’espressione “storia degli effetti o delle determinazioni” e tuttavia nel testo è riportata anche la versione tedesca, a conferma della difficoltà di rendere appieno il significato nella lingua italiana. La stessa spiegazione di Gadamer va oltre la puntualità della parola e si articola in più passaggi concettuali. C’è un primo riferimento alla storia delle interpretazioni di un certo oggetto o alle “fortune” che una determinata opera ha conosciuto nel corso del tempo. Questo patrimonio interpretativo ha un peso rilevante sul modo in cui noi, oggi, ci rapportiamo a quell’oggetto, nel senso che è complementare al suo significato, tanto che spesso non possiamo tracciare il confine che separa tale “storia delle interpretazioni” dalla sua ricezione. Questa constatazione non fa che confermare ancora una volta l’autonomia dell’opera rispetto a chi l’ha prodotta, il quale non poteva certo prevedere o immaginare lo sviluppo di tutti i significati postumi, né gli effetti dell’opera sulla storia della cultura.

Tuttavia a Gadamer preme cogliere i risvolti filosofici di questa analisi e afferma che il principio della Wirkungsgeschichte, inteso in un senso più ampio, come motore del più generale processo della trasmissione storica, impone di superare l’ingenua idea che lo studio delle opere del passato sia determinato da una nostra libera scelta. Noi stessi veniamo orientati dalla storia non solo nelle nostre capacità interpretative, ma anche nell’individuazione dell’oggetto di studio. E’ dunque tale “storia degli effetti” che “decide anticipatamente ciò che si presenta a noi come problematico e come oggetto di ricerca.”85 Le considerazioni conclusive sul principio della Wirkungsgeschichte, più che intorno al sapere della cosa, si sviluppano intorno al sapersi della coscienza: delimitata e condizionata nel suo agire dal movimento della storia, esposta alla forza della Wirkungsgeschichte, la coscienza comprende che storica è innanzitutto la sua essenza più profonda, determinata dalla situazione a cui appartiene. Il concetto di contesto storico e di situazione vengono sviluppati tramite il ricorso ad un’immagine di grande efficacia esplicativa: quella di orizzonte. L’orizzonte è innanzitutto la linea di confine che circoscrive le possibilità del sapere umano; tale accezione, già usata da Kant, viene ampliata da Gadamer, che interpreta la finitezza conoscitiva in un senso non trascendentale ma storico, e la integra con la dinamicità del divenire temporale. Il nostro orizzonte non è spazialmente chiuso e fermo, ma è una realtà in continuo farsi, in cui vengono a fondersi i caratteri che ereditiamo dal passato, l’elaborazione e la trasformazione a cui li sottoponiamo per farli nostri, adattandoli ai bisogni del presente e orientandoli, a partire dalle nostre aspettative, verso il futuro86.

Nell’immagine dell’orizzonte è ripresa anche la figura del circolo ermeneutico di eredità heideggeriana, a cui viene tuttavia impresso il dinamismo e la processualità temporale dell’esperienza storica. Comprendere non significa solo essere parte di un contesto, ma richiede che il proprio orizzonte particolare si confronti con altri punti di vista per conseguire una più completa prospettiva, una fusione di orizzonti, in cui si realizza non solo l’attività del comprendere, ma anche quella del comprendersi, dell’intesa interpersonale.

2.3. L’esperienza ermeneutica e il modello dialogico.

83 Su questo tema si veda anche Gadamer, L’enigma del tempo, trad.it. a cura di M.L.Martini, Bologna, Zanichelli 1996, pp.118-133] 84 Verità e metodo, p. 347. 85 ivi, p.351. 86 Particolarmente significativa mi sembra la seguente affermazione: “La mobilità storica dell’esistenza umana è proprio costituita dal fatto che essa non è rigidamente legata a un punto di vista, e quindi non ha neanche un orizzonte davvero conchiuso. L’orizzonte è invece qualcosa entro cui noi ci muoviamo e che si muove con noi. Per chi si muove, gli orizzonti si spostano. Allo stesso modo anche l’orizzonte del passato, di cui ogni vita umana vive e che è presente nella forma dei dati storici trasmessi, è sempre in movimento.[...] Il passato proprio e quello altrui [...] costituiscono questo mobile orizzonte entro cui la vita umana vive e che la definisce come provenire e tramandarsi.” Ivi, p.355.

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Il problema del comprendere storico è stato progressivamente ridefinito da Gadamer come problema della

storicità del comprendere, dove il primato non spetta più all’iniziativa del soggetto, ma è un evento che accade nella storia, in quanto “il compimento del comprendere entra nell’accadere per essere da esso temporalizzato e disposto secondo un intreccio. La libertà della riflessione, questo presumibile essere-presso-di-sé, nel comprendere non ha affatto luogo, tanto grande è la misura in cui esso è determinato dalla storicità della nostra esistenza.”87. Gadamer si richiama a una nozione-chiave di Heidegger, a quell’Ereignis inteso come evento dell’essere che caratterizza tutto il pensiero della “svolta” degli anni Trenta. E’ importante segnalare, però, che il termine usato preferibilmente da Gadamer non è Ereignis, ma un suo sinonimo: das Geschehen, l’accadere, meno enfatico e più legato agli usi colloquiali del linguaggio (mentre la parola Ereignis ha una sfumatura più forte che dà maggior rilevanza o eccezionalità al discorso). Mantiene, tuttavia, lo stesso significato di “smorzamento della soggettività”, poiché contiene l’idea della gratuità e della non predeterminabilità di quanto accade: che l’esperienza storica come esperienza di verità e come integrazione di orizzonti si verifichi, non dipende dall’uomo, non può essere preliminarmente decisa o prefigurata. L’analisi degli elementi costitutivi della storicità del comprendere mette progressivamente in luce come l’esperienza storica sia in realtà un’esperienza ermeneutica intesa come situazione di natura dialogica, che si sviluppa nell’interazione tra “domanda” e “risposta” e porta all’integrazione dei rispettivi orizzonti di significato. La Parte seconda di Verità e metodo si conclude, quindi, con la definizione del nuovo modello ermeneutico, in cui convergono gli esiti (sia critici che propositivi) degli studi sull’arte e sulla storia, e in particolare la diversa nozione di verità, nel contesto di un pensiero non fondativo.

Gadamer evidenzia costantemente il carattere esperienziale della verità, come evento che ci accade e ci coinvolge, su cui non abbiamo garanzie di dominio. Sul significato da attribuire al termine esperienza egli polemizza non solo con i parametri del pensiero scientifico, ma anche con l’eredità dell’idealismo, e in particolare con Hegel, affermando che di essa non vi può essere scienza88, perché la sua dimensione non può essere superata: l’esperienza non è una fase all’interno di un processo di inveramento del sapere destinato a raggiungere l’Assoluto, ma si tratta di un carattere costitutivo dell’esistenza umana, che ne segna (e ne apre) permanentemente l’identità. Ciò che la contraddistingue è l’incontro con la differenza, la relazione, l’apertura all’alterità. Ma tutto questo non può essere prefigurato, perché non dipende da noi, ma è un processo inatteso, sia nel suo accadere, sia nei suoi esiti. L’esperienza autentica è quindi intesa come costante apertura alla dimensione del possibile: “La verità dell’esperienza contiene sempre un riferimento a nuove esperienze. Perciò colui che chiamiamo uomo esperto non è solo uno che è diventato tale attraverso delle esperienze fatte, ma è anche aperto ad altre esperienze.”89

Il modello più efficace per descrivere l’esperienza di verità è dunque quello offerto dal dialogo, che mantiene il tu costitutivamente altro e diverso dall’io. Nelle pagine in cui Gadamer espone il modello dialogico, c’è un riferimento costante alla figura di Socrate e al sapere di non sapere, recuperando per il discorso filosofico un contenuto di verità che non può mai essere posseduto né definito in modo esaustivo. L’essenza dialogica della verità, così come si delinea nel sapere di non sapere socratico, contrasta qualsiasi progetto assolutizzante e riporta la filosofia alla sua natura più autentica: all’attività di interrogazione, di problematizzazione, di ricerca. In direzione simmetricamente opposta alla dialettica di Hegel, Gadamer ritiene che la filosofia ermeneutica sia finita per ciò che riguarda il soggetto della ricerca (la coscienza, consapevole della sua condizionatezza storica) e l’oggetto della ricerca (un tu, un’alterità mai riconducibile all’io); è invece infinita come compito, in quanto è pensata come atto vitale sempre aperto all’ulteriorità del senso.

2.4. L’universalità del linguaggio L’esperienza ermeneutica come esperienza di verità è quindi concepita come un evento dialogico che

coinvolge due persone (oppure un interprete e il suo oggetto di studio, in una situazione ermeneutica in senso stretto) le quali si trovano a vivere un’esperienza comune di trasformazione; la natura di questo evento è linguistica, nel senso che

87 Gadamer, I fondamenti filosofici del XX secolo, op. cit., p.207 88 Per Gadamer, il sistema hegeliano non rende ragione del significato più autentico del termine Erfahrung, esperienza, perché la configura a partire dalla circolarità della coscienza: è ”l’esperienza che la coscienza fa con sé stessa” e non un’apertura effettiva alla differenza. Infatti il fine ultimo della dialettica di Hegel è il sapere assoluto, dove “ha termine il vagabondare della coscienza, che si acquieta perché non ha più fuori di sé nulla di altro e di estraneo”. Ma questa non è un’esperienza autentica, perché gli esiti sono prefigurati fin dall’inizio: “L’essenza della coscienza viene pensata in anticipo sul modello del momento in cui l’esperienza è superata”. Solo un diverso e più autentico modo di intendere l’esperienza ci permette di superare la sistematica di Hegel, comprendendo come, per la dimensione finita dell’uomo, il termine esperienza non indica solo un’azione del soggetto, ma è innanzitutto un patire, un subire un processo di trasformazione inatteso e non prefigurabile. Cfr. Verità e metodo, p.395 e sgg. 89 Ibidem, p.411

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porta a realizzare uno scambio di messaggi che avvengono per mezzo del linguaggio e nel linguaggio, che “è il medium in cui gli interlocutori si comprendono e in cui si verifica l’intesa sulla cosa.”90

Per linguaggio Gadamer non intende solo il linguaggio verbale, anche se il messaggio formulato in parole ha indubbiamente un primato rispetto alle espressioni non verbali, sia perché possiede una più elevata capacità di definizione del significato, sia perché dimostra una esplicita intenzionalità comunicativa: ciò che viene trasmesso con la parola è qualcosa che ci viene volutamente indirizzato affinché noi cerchiamo di comprenderlo. Per lo stesso motivo, fra tutto ciò che è oggetto di trasmissione storica Gadamer attribuisce un’importanza particolare ai testi scritti, nella cui natura è costitutivamente presente l’intenzione di inviare un messaggio a qualcuno che è distante nello spazio o nel tempo. La possibilità che uno scritto sia frainteso non segnala una sua intrinseca debolezza (come voleva Platone), ma indica piuttosto il rischio a cui è esposto ogni messaggio che deve essere compreso e interpretato nell’orizzonte dei significati in cui il destinatario vive. E’ vero, se mai, che lo scritto si colloca in una sfera di senso superiore, che lo rende indipendente da contingenze particolari e da aspetti emozionali della comunicazione: rispetto al discorso parlato, lo scritto è più autonomo dall’autore, dal destinatario e dal contesto, configurandosi “come un documento che si legittima da sé stesso”91. Lo scritto, in quanto messaggio che chiede di essere trasposto nel nostro linguaggio, ci pone un compito ermeneutico. Più che un dire, esso rappresenta un domandare: chiede di essere attualizzato, di poter di nuovo parlare attraverso la nostra comprensione e la nostra interpretazione.

Non solo la natura di ogni messaggio è sostanzialmente linguistica, ma anche la nostra ricezione dei messaggi è un atto linguistico. Possiamo infatti dire di aver accolto un messaggio e di averlo compreso quando siamo in grado di riformulare il suo contenuto nel nostro linguaggio: il suo significato ci è davvero chiaro quando riusciamo a esprimerlo con le nostre parole, quando lo interpretiamo con i nostri parametri espressivi. Gadamer spiega questo passaggio con l’esempio della traduzione da una lingua straniera: la traduzione è riuscita quando viene raggiunta la comprensione del senso, che non consiste in una trasposizione letterale parole per parola, ma piuttosto in una interpretazione che porta ad espressione il significato globale contenuto nel testo.

A volte, tuttavia, anziché vedere il linguaggio in tutta la sua ricchezza e potenzialità, lo viviamo come una sorta di “cattività babilonese dello spirito” e ci sembra che le sue possibilità espressive siano limitate rispetto a ciò che sentiamo in forma intuitiva pre-linguistica. Oppure ci sembra che esso costringa la libertà del nostro pensiero entro schemi, convenzioni e modi di dire che non ci consentono di esprimerci fino in fondo come vorremmo. In realtà -osserva Gadamer- senza il linguaggio non potremmo neppure formulare questo disagio, che segnala la necessità di sottoporre a critica le convenzioni e le cristallizzazioni presenti nel linguaggio, non il linguaggio in sé, il quale, anzi, da questa esigenza trae nuova linfa vitale, nuovi e più adeguati modi di dire92. Non solo “esso sta al di là di ogni critica dei suoi limiti”, ma bisogna riconoscere che è esso stesso a renderla possibile: “La sua universalità va di pari passo con l’universalità della ragione.”93

La difficoltà che incontriamo oggi a capire l’autentica natura del linguaggio e la sua universalità dipendono dal nostro modo di pensare, che vede in ogni fenomeno un oggetto da sottoporre ai nostri parametri di giudizio. Anche il linguaggio, infatti, viene pensato come una cosa, che può essere circoscritta dalla nostra ragione, sottoposta a indagine e manipolata a nostro piacere. Tale è l’idea di fondo che orienta gli studi della linguistica, ma una concezione strumentale del linguaggio domina anche il alcune correnti del pensiero contemporaneo, dalla strutturalismo alla filosofia analitica. La lingua è intesa come un ”factum”, come un oggetto di possibile ricerca empirica, che può essere sezionato e analizzato in parti differenziate, separando, ad esempio, la forma dai contenuti e dalle funzioni.

Alle concezioni strumentali del linguaggio Gadamer contrappone l’unità profonda di pensiero, essere e linguaggio: la parola non è segno che sta al posto della cosa, ma è vero piuttosto che la cosa possiede un significato che trova espressione nella parola e che è presente nella relazione comunicativa. La cosa non è mai un dato neutro, un oggetto astratto, ma si rapporta a noi con una ricchezza di significati che chiedono di essere compresi e interpretati. La cosa ha dunque una natura linguistica, ci parla. Questo non è vero solo per l’oggetto culturale, come il testo letterario o l’opera d’arte, ma ogni cosa ha un proprio linguaggio, tanto che “non parliamo solo di un linguaggio dell’arte, ma anche di un linguaggio della natura, o più in generale di un linguaggio che le cose stesse parlano”94. Il linguaggio rivela quindi uno statuto sempre più universale. La sua centralità, emersa fin dalle prime riflessioni sull’esperienza ermeneutica e sul processo di trasmissione storica, trova nella parte conclusiva di Verità e metodo un riconoscimento esplicito con una indagine a tutto campo sul linguaggio. non è solo il fenomeno ermeneutico a possedere un carattere linguistico: è necessario riconoscere che l’esperienza ermeneutica si fonda sulla più generale linguisticità dell’esperienza umana nel mondo. E’ lo stesso rapporto tra io e mondo ad essere un rapporto originariamente linguistico, perché mondo per l’uomo è un insieme strutturato di significati che si costituisce nel

90 Ibidem , p. 442 91 ibidem, p.454 92 “L’esperienza ermeneutica è il mezzo attraverso cui la ragione si sottrae alla prigionia del linguaggio e tale esperienza si costituisce a sua volta come linguaggio” (ibidem, p.462) 93 Ibidem, p.461 94 Ibidem, p.542; il brano è riportato nella sezione antologica a fine capitolo

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linguaggio, è linguaggio95. La nozione di “mondo in sé”, concepito come autonomo e in qualche modo esterno al linguaggio diventa del tutto problematica. Si chiede, infatti, Gadamer: “Ma si può pensare davvero che questo mondo sia un in sé, che sta al di là di ogni relatività esistenziale?”96 Medium comunicativo, ma anche, e soprattutto, contesto vitale che ci comprende, il linguaggio è l’orizzonte stesso dell’essere. La nota affermazione di Gadamer secondo cui “l’essere che può venire compreso è linguaggio”97 contiene innanzitutto il riconoscimento della natura ontologica del linguaggio. Ma c’è tuttavia un’importante indicazione sulla struttura stessa dell’essere, che consiste nel venire all’espressione del senso, a partire dalla natura delle cose e dall’essenza dell’uomo: il significato del loro esistere si mostra nel loro reciproco relazionarsi, a partire da una analoga condizione di finitudine che accomuna tutti i viventi.

CAPITOLO III. BRANI ANTOLOGICI

M.Heidegger, Essere e tempo, 1927, tr.it. di P.Chiodi, Longanesi, Milano 1976, pp.193-4: “Anche la comprensione, in quanto apertura del Ci, riguarda sempre l’essere-nel-mondo nella sua totalità. In ogni comprensione del mondo è con-compresa l’esistenza, e viceversa. Ogni interpretazione si muove nella struttura del “pre-“ che abbiamo descritta. L’interpretazione, che è promotrice di nuova comprensione, deve aver già compreso l’interpretando. Si tratta di un fatto già notato da tempo, benché solo nell’ambito delle di forme derivate di comprensione e di interpretazione come l’interpretazione filologica. Questa cade nel dominio della conoscenza scientifica. Un tal genere di conoscenza richiede la rigorosa giustificazione dei propri asserti. Il procedimento dimostrativo scientifico non può incominciare col presupporre ciò che si propone di dimostrare. Ma se l’interpretazione deve sempre muoversi nel compreso e nutrirsi di esso, come potrà condurre a risultati scientifici senza avvolgersi in un circolo, tanto più che la comprensione presupposta è costituita dalle convinzioni ordinarie degli uomini e del mondo in cui vivono? Le regole più elementari della logica ci insegnano che il circolo è circulus vitiosus. Ne deriva la rimozione a priori dell’interpretazione storiografica dal dominio del conoscere rigoroso. Poiché il costituirsi del circolo è un fatto che non può essere eliminato, la storiografia finisce per doversi accontentare di procedimenti conoscitivi meno rigorosi. […] Ma se si vede in questo circolo un circolo vizioso e se si mira ad evitarlo o semplicemente lo si “sente” come una irrimediabile imperfezione, si fraintende la comprensione da capo a fondo. […] L’importante non sta nell’uscir fuori del circolo, ma nello starvi dentro nella maniera giusta. Il circolo della comprensione non è un semplice cerchio in cui si muova qualsiasi forma di conoscere, ma l’espressione della pre-struttura propria dell’Esserci stesso. Il circolo non deve essere degradato a circolo vitiosus e neppure ritenuto un inconveniente ineliminabile. In esso si nasconde una possibilità positiva del conoscere più originario.” H.-G-Gadamer, Verità e metodo, 1960, tr.it. di G.Vattimo, Bompiani, Milano 1983, pp.324-5: “L’ideale di una ragione assoluta non costituisce una possibilità per l’umanità storica. La ragione esiste per noi solo come ragione reale e storica, il che significa che essa non è padrona di sé stessa, ma resta sempre subordinata alle situazioni date entro le quali agisce. […] In realtà non è la storia che appartiene a noi, ma noi che apparteniamo alla storia. Molto prima di arrivare ad una autocomprensione attraverso una riflessione esplicita, noi ci comprendiamo secondo schemi irriflessi nella famiglia, nella società, nello stato in cui viviamo. La soggettività è solo uno specchio frammentario. L’autoriflessione dell’individuo non è che un barlume nel compatto fluire della vita storica. Per questo i pregiudizi dell’individuo sono costitutivi della sua realtà storica più di quanto non lo siano i suoi giudizi.” H.-G.Gadamer, I fondamenti filosofici del XX secolo, 1965, tr.it. di U.M.Ugazio, in Filosofia ’86, a cura di G.Vattimo, Laterza, Roma-Bari 1987, p.197: “La sua critica [di Nietzsche] si rivolge all’ultima, alla più radicale estraneità che soffi dalla nostra intimità più profonda, si rivolge, cioè, alla coscienza stessa. Che la coscienza e l’autocoscienza non forniscano alcuna testimonianza indubitabile del fatto che quel che si mostra alla coscienza come suo contenuto, magari in maniera mascherata o trasfigurata, si trovi realmente in essa è stato da Nietzsche conficcato nel pensiero moderno in modo tale che lo riconosciamo ovunque, non solo in quella eccessiva, autodistruttiva disillusione con cui Nietzsche ha strappato vi all’io una maschera dopo l’altra, finché non solo non restano maschere, ma non resta nemmeno più l’io. Non si penas solo […]alla critica dell’ideologia, così come è stata esercitata in misura sempre maggiore a partire da

95 “Il linguaggio non è solo una delle doti di cui dispone l’uomo che vive nel mondo; su di esso si fonda, e in esso si rappresenta, il fatto stesso che gli uomini abbiano un mondo. Per l’uomo il mondo esiste come mondo in un modo diverso da come esiste per ogni altro essere vivente nel mondo. Questo mondo si costituisce nel linguaggio.” Ivi, p.507 96 Ivi, p.516 97 Ivi, p.542

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Marx[…]. Soprattutto penso alla psicologia dell’inconscio, a Freud, la cui interpretazione dei fenomeni psichici è interamente dominata dall’idea che nella vita psichica dell’uomo possono esserci laceranti contraddizioni tra il pensiero conscio e il volere e l’essere inconsci e che, in ogni caso, quel che crediamo di fare non è in nessun modo identico con quel che in realtà avviene nel nostro essere umano. Una parola ci dà qui la giusta angolatura per riconoscere quanto sia profonda questa frantumazione dei valori della coscienza soggettiva: si tratta del concetto di interpretazione.” P.Ricoeur, Della interpretazione. Saggio su Freud, 1965, tr.it. di E.Renzi, Il Saggiatore, Milano 1979 (2), p.46: “Completeremo la collocazione di Freud assegnandogli non solo una contrapposizione, ma anche una compagnia. All’interpretazione come restaurazione del senso opporremo in modo globale l’interpretazione secondo ciò che chiamerò collettivamente la scuola del sospetto. […] La dominano tre maestri che in apparenza si escludono a vicenda, Marx, Nietzsche e Freud. […] Se risaliamo alla loro intenzione comune, troviamo in essa la decisione di considerare innanzitutto la coscienza nel suo insieme come coscienza “falsa”. Con ciò, essi riprendono, ognuno in un diverso registro, il problema del dubbio cartesiano, ma lo portano nel cuore stesso della fortezza cartesiana. Il filosofo educato alla scuola di Cartesio sa che le cose sono dubbie, che non sono come appaiono; ma non dubita che la coscienza non sia così come appare a sé stessa; in essa senso e coscienza del senso coincidono; di questo, dopo Marx, Nietzsche e Freud, noi dubitiamo. Dopo il dubbio sulla cosa, è la volta per noi del dubbio sulla coscienza.” M.Heidegger, Lettera sull’”umanismo”, 1947, tr.it. di F.Volpi, in M.Heidegger, Segnavia, 1976, Adelphi, Milano 1987, p.267 e sgg.:”Il pensiero porta a compimento il riferimento dell’essere all’essenza dell’uomo. Non che esso produca o provochi questo riferimento. Il pensiero lo offre all’essere soltanto come ciò che gli è stato consegnato dall’essere. Questa offerta consiste nel fatto che nel pensiero l’essere viene al linguaggio. Il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono custodi di questa dimora. […] La devastazione del linguaggio che rapidamente si estende ovunque […] proviene da una minaccia dell’essenza dell’uomo.La decadenza del linguaggio, di cui da qualche tempo si parla molto, anche se tardivamente, non è però il fondamento, ma già una conseguenza di quel processo per cui il linguaggio, sotto il dominio della moderna metafisica della soggettività, cade in modo quasi inarrestabile fuori dal suo elemento. Il linguaggio ci rifiuta la sua essenza, che consiste nell’essere la casa della verità dell’essere. Il linguaggio si concede piuttosto al nostro semplice volere e alla nostra attività come uno strumento del dominio sull’ente. […] Ma se l’uomo deve ancora una volta ritrovare la vicinanza dell’essere, deve prima imparare a esistere nell’assenza di nomi.” H.-G.Gadamer, , Verità e metodo, 1960, tr.it. di G.Vattimo, Bompiani, Milano 1983, p.507 : “Il linguaggio non è solo una delle doti di cui dispone l’uomo che vive nel mondo; su di esso si fonda, e in esso si rappresenta, il fatto stesso che gli uomini abbiano un mondo. Per l’uomo, il mondo esiste come mondo in un modo diverso da come esiste per ogni altro essere vivente nel mondo. Questo mondo si costituisce nel linguaggio. […] L’originario carattere umano del linguaggio significa, dunque, l’originaria linguisticità dell’umano essere-nel-mondo. Ivi, pp.541-2: “Il linguaggio è un mezzo in cui io e mondo si congiungono, o meglio si presentano nella loro originaria con genericità: è questa l’idea che ha guidato la nostra riflessione […] In tutti i casi analizzati, sia nel linguaggio del dialogo come in quello della poesia e anche il quello dell’interpretazione, ci è apparsa la struttura speculativa del linguaggio, che consiste nel non essere un riflesso di qualcosa di fissato, ma un venire all’espressione in cui si annuncia una totalità di senso. Proprio per questa via ci siamo trovati vicini alla dialettica antica, perché anch’essa non teorizzava un’attività metodica del soggetto, ma un agire della cosa stessa rispetto al quale il soggetto è piuttosto passivo. Questo agire della cosa stessa è l’autentico movimento speculativo, che afferra e trasporta il soggetto parlante. […] Ora ci risulta chiaro che questo agire della cosa stessa, questo venire ad espressione del senso, indica una struttura ontologica universale, cioè la struttura fondamentale di tutto ciò che in generale può essere oggetto del comprendere. L’essere che può venir compreso è linguaggio. Il fenomeno ermeneutico riflette per così dire la sua propria universalità sulla struttura stessa del compreso, qualificandola in senso universale come linguaggio e qualificando il proprio rapporto all’ente come interpretazione. Così non parliamo solo di un linguaggio dell’arte, ma anche di un linguaggio della natura, o più in generale di un linguaggio che le cose stesse parlano.”