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TRIDUO PASQUALE
2-3-4 aprile 2015
• Quello che veniva chiamato „triduo sacro‟ o anche i „tre giorni santi‟,
oggi viene ormai indicato comunemente come il „triduo pasquale‟. Comincia con
la Messa della sera del Giovedì santo, ha il suo centro nella Veglia pasquale e
termina con i vespri della domenica di Pasqua. Il Messale dunque prevede:
- il Giovedì santo la Messa della sera «nella memoria della cena del Signore
- il Venerdì santo nel pomeriggio (preferibilmente alle tre) la celebrazione della
Passione e Morte del Signore
- nella notte del Sabato santo la Veglia pasquale;
- la Messa della Domenica di risurrezione.
• Anche se le celebrazioni si svolgono in orari più accessibili, giova
sempre ricordare che i cristiani di oggi devono essere veramente motivati per
partecipare alle celebrazioni del triduo. L‟ambiente in cui vivono, le
preoccupazioni comuni non favoriscono affatto un‟attenzione profonda nei
confronti del Mistero pasquale. Dobbiamo riconoscere che i ritmi della vita
quotidiana e le sue continue sollecitazioni costituiscono più delle tentazioni che un
aiuto per coloro che cercano uno spirito di raccoglimento e vogliono porsi con
serietà di fronte al mistero della Morte e Risurrezione di Gesù. Vale la pena, però,
invitare tutti i cristiani a fare uno sforzo suppletivo per essere presenti a quelle
celebrazioni che costituiscono veramente il culmine dell‟anno liturgico.
GIOVEDÌ SANTO
Nel ricordo della Cena del Signore
• Il Triduo pasquale comincia la sera del Giovedì santo con la
celebrazione di una Messa che si svolge al modo solito, senza grandi particolarità.
Il Messale - è vero - suggerisce di ripetere il gesto della lavanda dei piedi, ma
aggiunge anche “là dove sembra pastoralmente opportuno”. Per il resto non ci
sono grandi novità in questa Eucaristia, al di fuori dell‟avvertenza di consacrare
tante particole quante possono bastare per la comunione del giorno dopo.
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• Tuttavia bisogna riconoscere che questa Messa -anche se priva di segni
esteriori consistenti - ha un carattere veramente speciale che le deriva dal fatto che
viene celebrata proprio in questo giorno, in cui, secondo la tradizione, Gesù ha
compiuto l‟Ultima Cena con i suoi. Ogni Messa, è vero, è il memoriale della Cena
del Signore, ma in questa Messa si aggiunge un „oggi‟ che non è di poco conto:
“In questo giorno, vigilia della sua passione, sofferta per la salvezza nostra e del
mondo intero...” dice il Canone Romano. Altre preghiere eucaristiche sono al
proposito più stringate “in questa notte”, mentre la terza preghiera eucaristica
amplia un poco il preambolo: “In questa notte in cui fu tradito, avendo amato i
suoi che erano nel mondo li amò sino alla fine e mentre cenava con loro.. “.
Non si tratta, comunque, di celebrare la Cena del Signore cercando di
rivivere gli stessi sentimenti che provarono gli apostoli in quel frangente. Molto
probabilmente essi non compresero il significato e la portata delle parole e dei
gesti di Gesù. E quella cena d‟addio dovette essere, in ogni caso, carica di
tristezza e di interrogativi. Dovranno rileggere tutti questi fatti alla luce della
Pasqua per comprendere veramente quello che aveva fatto Gesù.
• La proclamazione delle letture, poi, non può ignorare come secoli di
fede, di riflessione teologica e di esperienza di Dio permettano di interpretare con
maggiore ricchezza “la tradizione che viene dal Signore” (1Cor 11,23).
• Lo stesso „racconto dell‟istituzione‟, integrato nel cuore della preghiera
eucaristica, non è una semplice relazione obiettiva e neutrale di un fatto del
passato. Ma non si vuole affatto dare l‟illusione di assistere a „quella Cena‟. I
verbi restano rigorosamente al passato e si continua ad usare la terza persona
singolare, il che implica inevitabilmente un certo distacco. Nessuna tentazione,
allora, di effettuare una sorta di mimo sacro. Tuttavia nel quadro della liturgia
questo racconto attualizza, nel tempo, le parole e i gesti di Gesù. Quando il prete
dice: “Questo è il mio corpo”, e “Questo è il mio sangue”, le parole pronunciate,
quella sera, da Gesù, esse continuano ad operare, qui e oggi, quello che
esprimono.
• Da questo punto di vista nessuno statuto simbolico o sacramentale
particolare caratterizza la Messa del giovedì santo: essa ha da parte sua solo un
valore esemplare perché esplicita più chiaramente il legame esistente tra ciò che
fece Gesù “offrendosi liberamente alla sua passione” e ciò che noi compiamo oggi
ogni volta che celebriamo l‟Eucaristia, in sua memoria, fino al suo ritorno.
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• Se l‟armonia che contraddistingue questo rito è particolarmente
percepibile questa sera, ciò non toglie che noi avvertiamo sempre la presenza del
Signore, ma anche la sua „assenza‟: per questo siamo in attesa del compimento e
diciamo: “Vieni, Signore Gesù!”.
• Per cogliere tutto ciò non c‟è affatto bisogno di ricorrere ad una specie di
ricostruzione storica che ha solo lo scopo di farci tornare in dietro, al passato. La
liturgia, infatti, è nel presente, ed è in questo presente della storia della salvezza
che fa memoria degli avvenimenti decisivi che vengono riattualizzati. Questa
attualizzazione non riproduce i fatti storici: essi appartengono in modo
irrimediabile al passato, ma questi avvenimenti avvenuti una volta per tutte
agiscono con efficacia, qui e oggi, su di noi, perché è stato Dio a compierli e
perché Gesù ha dato alla sua Chiesa il compito e il potere di realizzarli attraverso
segni efficaci.
“Se io, il Signore e il Maestro,
ho lavato i vostri piedi,
anche voi dovete
lavarvi i piedi”
Giovanni 13,14
LITURGIA DELLA PAROLA Prima lettura: Il rito antico della Pasqua
(Es 12,1-8.11-14) La prima lettura ricorda l‟istituzione della Pasqua ebraica. I riti, fatti di
azioni simboliche, non sono invenzioni arbitrarie, ma affondano le loro radici nel
fondo di una cultura ancestrale. Lo stesso vale anche per i riti religiosi. Vengono
elaborati a partire da usanze che non sono necessariamente religiose e si caricano,
progressivamente, di significato, man mano che si sviluppano all‟interno dl un
contesto sociale che se ne appropria e che ne sviluppa le strutture. Questo vale
anche per i riti pasquali. In effetti i semiti nomadi conoscevano una festa notturna,
celebrata in occasione della prima luna piena di primavera, prima di partire verso i
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pascoli estivi. Con il pane non lievitato dei beduini e le erbe del deserto, si
mangiava un agnello del gregge, arrostito al fuoco. La partenza per la
transumanza, infatti, era un giorno importante e pieno di pericoli. Per liberarsi da
questi pericoli si sporcavano col sangue dell‟agnello i picchetti delle tende.
Il collegamento con la liberazione degli ebrei dalla schiavitù dell‟Egitto
diede a questo rito antico un nuovo significato. Ormai esso venne a ricordare
l‟intervento di Dio a favore del suo popolo e la speranza della venuta del Messia.
Il suo rituale, codificato in modo minuzioso, prevedeva dunque due riti distinti: i
pani senza lievito e il sacrificio dell‟agnello pasquale, ricordati dalla prima lettura.
Perché proprio questo testo? Per due ragioni molto evidenti.
Da una parte esso ci mostra il rito pasquale, così come veniva svolto ai
tempi di Gesù. E dunque indica quello che Gesù fece la vigilia della sua passione.
Dall‟altra, la tradizione cristiana vede nell‟agnello immolato per la Pasqua la
prefigurazione del sacrificio di Cristo sulla croce. Non era stato già Giovanni il
Battista a designare Gesù come «l‟agnello di Dio che toglie il peccato del
mondo»‟? Non mancano poi dei collegamenti significativi tra quel rito e quello
che noi facciamo oggi.
• Il pane azzimo è il pane dei nomadi, che non hanno il tempo di far
fermentare la pasta. Le erbe amare sono le erbe del deserto. Anche l‟eucaristia è la
Pasqua di credenti che si considerano pellegrini su questa terra. Essi non hanno
quaggiù una dimora stabile. Per questo il pane eucaristico è pane per il viaggio,
pane dei pellegrini.
• La Pasqua non può essere mangiata da soli: ci si mette insieme, per
famiglie o per gruppi di vicini. E non solo perché altrimenti non si è abbastanza
numerosi per consumare l‟agnello, ma perché si viene salvati insieme, come
comunità appartenente al popolo di Dio.
• La celebrazione dei nomadi avviene nella notte perché le occupazioni
della giornata sono terminale, il gregge riposa e bisogna essere pronti a partire
all‟alba. Il rituale ebraico riprende quest‟uso, ma dando una nuova spiegazione:
«Fecero cuocere la pasta che avevano portata dall‟Egitto in forma di focacce
azzime, perché non era lievitata: erano infatti, stati scacciati dall‟Egitto e non
avevano potuto indugiare; neppure si erano procurati provviste per il viaggio» (Es
12,39), ma aggiunge anche: «Notte di veglia fu questa per il Signore per farli
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uscire dal paese d’Egitto. Questa sarà una notte di veglia in onore del Signore
per tutti gli Israeliti, di generazione in generazione». E il Vangelo non
riprende questo tema, ricordando ai cristiani che il Signore ritornerà
all‟improvviso, di notte? Per questo bisogna vegliare! L‟eucaristia che celebriamo
rimane orientata sempre verso il „ritorno del Signore‟: è questa speranza che
anima la Chiesa.
• Infine il rito del sangue. La Pasqua antica comportava il rito del sangue
con cui si sporcavano gli stipiti delle porte. Questo gesto segnalava che quelle
case erano abitate da persone alle quali Dio aveva promesso di aver salva la vita.
Ora, quello che il rito antico indicava, il Cristo l‟ha compiuto una volta per tutte
con l‟offerta della sua vita. Il suo sangue non viene più messo sugli stipiti delle
porte: è divenuto nostra bevanda sotto il segno del vino. E il suo corpo nostro
cibo, sotto il segno del pane.
È dunque questa Pasqua del Signore che viene celebrata in ogni eucaristia:
a questa Pasqua noi partecipiamo nella gioia e con il rendimento di grazie.
Seconda lettura: L‟eucaristia, una tradizione che
viene dal Signore (1Cor 11,23-26)
Scritta prima dei vangeli, la prima lettera di Paolo ai cristiani di Corinto
offre il racconto più antico dell‟Eucaristia. Paolo la presenta come una tradizione
che ha ricevuto. L‟ha probabilmente trovata nella Chiesa di Antiochia e la
condivide con il Vangelo di Luca.
Secondo questo racconto Gesù compie, innanzitutto, i riti di benedizione
della tavola previsti dal rituale ebraico. Si tratta di gesti che riconoscono nel pane
il dono di Dio, che permette di sussistere e di vivere insieme, ma Gesù aggiunge
che questo dono di Dio è il suo corpo, che è per noi. Mangiando questo pane, noi
oggi sperimentiamo come la sua morte è per noi sorgente di vita e di unità.
Presso gli ebrei la coppa del vino è il segno della festa, e soprattutto delle feste
pasquali. Qui Gesù la presenta come il calice della Nuova Alleanza annunciata da
Geremia (31,31-34), un nuovo modo di vivere con Dio e insieme tra noi. Questa
alleanza è fondala sul sangue, ma non sul sangue dei sacrifici - a partire da quello
celebrato al Sinai, Es 24,8 - ma sul sangue versato da colui che ha bevuto alla
coppa della morte.
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Compiere questo memoriale, dunque, significa proclamare davanti a Dio
il significato che assume la „morte del Signore‟, nella speranza che egli venga a
portare a compimento il mistero di una comunione universale.
Perché Paolo ricorda ai Corinzi che ha trasmesso loro quello che a sua
volta ha ricevuto? Perché egli ravvisava nella loro pratica eucaristica dei disordini,
un comportamento indegno della Cena del Signore. I cristiani che questa sera
celebrano la memoria dell‟Ultima Cena non devono dunque dimenticare che la
loro maniera di celebrare giudica la comunità. E nello stesso tempo che
l‟eucaristia „fa la Chiesa‟, cioè rivela ad ogni comunità ecclesiale ciò che essa è e
ciò che deve diventare, man mano che ripete il gesto di Gesù.
Vangelo: Gesù, maestro e Signore, in divisa da
servo (Gv 13,1-15) San Giovanni non racconta l‟istituzione dell‟eucaristia. Al suo posto,
riporta il gesto della lavanda dei piedi con il quale Gesù rende plasticamente reale
la sua affermazione: «Io sto in mezzo a voi come colui che serve...» (Lc 22,27).
Quest‟azione apre quel „testamento‟ che egli lascia ai suoi nel discorso di addio
(Gv 13-17, che verrà letto nel tempo pasquale). Si capisce dunque la lunga frase
introduttiva che riguarda l‟”ora” di Gesù: egli mostra ai suoi di entrare
deliberatamente negli avvenimenti della passione. È lo scontro tra Dio e le forze
delle tenebre, che si servono del tradimento di Giuda, ed è la Pasqua, cioè il
passaggio‟ da questo mondo al Padre.
Al di sopra di tutto, comunque, c‟è l‟impegno di amore di Gesù verso i
suoi‟, verso quelli che crederanno in lui: «egli li amò sino alla fine», cioè fino alla
morte e fino all‟amore più estremo, come la lavanda dei piedi vuole dimostrare, in
anticipo sugli avvenimenti.
Una vecchia legge ebraica diceva: «Uno schiavo ebreo non deve lavare i
piedi del suo padrone, né mettergli le calzature...». Proprio per questo Gesù
compie un gesto simile. E sembra che lo compia tranquillamente, oseremmo dire
quasi con lentezza. „Depone‟ le vesti, che poi „riprenderà‟, due verbi con i quali
Giovanni ha già evocato il Cristo che depone e riprende la sua vita nel mistero
della passione (cfr. Gv 10,17-18). Ed è davanti a questo abbassamento - che è
l‟abbassamento della croce - che Pietro, in anticipo e a sua insaputa, esprime
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l‟insufficienza della sua fede. Gesù gli dice: «Lo capirai dopo».
La difficoltà di ogni cristiano è in fondo la stessa di Pietro: lasciarsi
servire e salvare secondo il modo che Gesù ha scelto, fedele al progetto di amore
del Padre che, nel Figlio, spinge il suo amore fino all‟estremo. Certo, i discepoli
hanno già ricevuto un primo „bagno‟, quello della parola di Cristo che li ha
purificati, ad eccezione di Giuda, che si è lasciato ispirare dal diavolo,
dall‟avversario di Dio, ma ora essi devono affrontare il battesimo della morte che
fa parte della missione di Gesù.
Una volta rivestito dei suoi abiti (risuscitato?), Gesù esplicita il suo
messaggio. Il Maestro e Signore ha scelto il comportamento del Servitore, ed è
andato addirittura al di là di quello che ci si potrebbe attendere da un servo
comune. Bisogna tirarne le conseguenze: Gesù vuole che la logica di amore, che
egli incarna, passi nella vita dei discepoli, vuole che il loro servizio reciproco,
improntato all‟umiltà, diventi una buona testimonianza per il mondo.
La sera del giovedì santo, tre parole di Gesù - rimandandosi l‟una all‟altra
e illuminandosi a vicenda - offrono il significato pieno dell‟Eucaristia: «Vi ho
dato, infatti, l‟esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (Gv 13,15);
«Amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amato» (Gv 13,34), e «Fate questo in
memoria di me» (1Cor 11,24).
PER LA REGIA LITURGICA
Il gesto del vangelo, la lavanda dei piedi, sta al centro di questa eucaristia del
giovedì santo e aiuta ad interpretare e capire il gesto più abituale dell‟eucaristia, il
pane spezzato e il calice del vino che viene condiviso.
L‟omelia deve essere dunque consacrata a far emergere il „senso‟ di questa azione
di Gesù. A questo proposito suggeriamo alcuni passaggi da tener presenti.
1. La lavanda dei piedi è un‟azione simbolica, che richiama quelle dei
profeti dell‟Antico Testamento. L‟interpretazione di questo gesto ci viene offerta
in molti modi “Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era giunta la sua
ora di passare da questo mondo al Padre”, cioè l‟ora di essere innalzato sulla croce
per essere elevato nella gloria; “quando già il diavolo aveva messo in cuore a
Giuda Iscariota di tradirlo, Gesù si appresta ad amare i suoi “fino alla fine”, cioè
fino a donar loro la più grande prova d‟amore che consiste nel dare la vita per i
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suoi amici. A questo scopo egli “depone” le sue vesti prima di “riprenderle”, come
il buon pastore che offre la sua vita per le pecore.
2. Lavare i piedi resi sporchi e maleodoranti dal cammino di una giornata
era un‟azione riservata agli schiavi di origine straniera, tanto essa sembrava
umiliante nei confronti di schiavi che appartenevano allo stesso popolo ebreo.
Tuttavia, qualche volta questo gesto serviva a dimostrare l‟attaccamento che i
discepoli provavano nei confronti del maestro o che un figlio provava verso il
padre. Il gesto di Gesù non è solo un gesto di umile servizio, ma anche un gesto di
amore: è la testimonianza dell‟amore di una persona che sta andando verso la
morte per lavare e salvare i suoi con il proprio sangue
3. Pietro si ribella di fronte a questo gesto, di cui coglie solo il carattere
umiliante che assume per Gesù. Di fatto, solo dopo la morte e risurrezione del
Maestro, egli comprenderà il grande significato che esso conteneva: un amore
smisurato verso di lui e verso tutti gli uomini. Perché non si tratta di essere lavati:
“Voi siete già puri”, dice Gesù, ma di lasciarsi amare fino all‟estremo.
4. Se il gesto di Gesù manifesta, anticipatamente, l‟amore che egli porta
verso di noi, fino a donare la sua vita, allora comprendiamo perché egli ci invita a
comportarci allo stesso modo. Il suo ordine “Anche voi dovete lavarvi i piedi gli
uni gli altri» non istituisce un nuovo rito, ma equivale al suo comandamento:
“Amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amato”. I discepoli devono amare come
Gesù, fino in fondo!
5. La celebrazione eucaristica della sera del giovedì santo riceve un
accento particolare da questo gesto narrato dal vangelo e eventualmente ripetuto
subito dopo la proclamazione. Invita a guardare al senso profondo di quello che si
sta per fare. Il pane che ci dà la vita è un corpo spezzato, donato. Il calice della
salvezza contiene un sangue versato. Partecipare all‟eucaristia significa
condividere “In gesto d‟amore, ricevere la forza per mostrare, in ogni frangente,
uno stesso amore che va “fino in fondo”.
Senza cadere in un continuo riscontro „mimetico‟ con l‟ultima cena, la
regia liturgica deve tuttavia far avvertire la memoria solenne che contraddistingue
questa celebrazione, attraverso alcuni gesti e alcune parole appropriate.
Alcuni gesti e segni:
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- una tavola apparecchiata dove c‟è un grosso pane e una coppa di vino;
- il gesto della lavanda dei piedi, accompagnato da una musica di fondo o da un
canto di meditazione;
- un gesto di solidarietà nei confronti dei più poveri e abbandonati, che dà
immediato riscontro alla fraternità.
Alcune parole:
- che aiutano ad „entrare‟ nella celebrazione. Non è così evidente, in un giorno
lavorativo, staccare dalle preoccupazioni e dalla giornata quotidiana e vivere
intensamente un momento come questo;
- che introducono alle letture, in particolare alla prima, che ha un grande
significato, ma anche un gusto „arcaico‟ difficile da decifrare (ecco perché ci
siamo dilungati su di essa...);
- che fanno il passaggio dalla liturgia della Parola alla liturgia eucaristica.
E anche un consiglio: non enfatizzare eccessivamente il collegamento tra
sacerdozio ministeriale e Ultima cena. Per fedeltà al Vangelo: ogni servizio, ogni
ministero, ma anche ogni gesto più umile di bontà, di dedizione e di amore, trova
il suo modello in Gesù che lava i piedi. Per fedeltà alla comprensione globale
della fede, che non ignora come il ministero sia da collegarsi non solo all‟Ultima
cena, ma anche alla Pasqua e alla Pentecoste, cioè al dono dello Spirito.
Sarà opportuno, inoltre, curare il passaggio dal termine della celebrazione
al momento dell‟adorazione eucaristica. Lo si faccia con sobrietà, ricorrendo
magari alle parole che abbiamo suggerito nelle schede.
VENERDÌ SANTO
Nella memoria
della passione e morte del Signore
• Dalla sera del giovedì santo la Chiesa vive nel raccoglimento e nella
meditazione. La celebrazione del venerdì santo prolunga quel raccoglimento e,
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proprio per questo, comincia con un momento di preghiera silenziosa, al termine
del quale si leva la voce di colui che presiede, che si rivolge a Dio, a nome di tutti:
“Ricordati, Padre, della tua misericordia; santifica e proteggi sempre questa tua
famiglia, per la quale Cristo, tuo Figlio, inaugurò nel suo sangue il mistero
pasquale”.
• Il rito, uno dei più belli del Messale-Romano proprio per la sua sobrietà,
si sviluppa in quattro parti: il racconto della Passione, la solenne Preghiera
universale, l‟adorazione della Croce, la Comunione. A chi prepara questa liturgia
domandiamo di vegliare sull‟autenticità dei segni, delle invocazioni, delle parole
e dei gesti. In questo caso, aggiungere troppo significherebbe sciupare. Ci deve
essere piuttosto una tendenza contraria, fino ad andare verso una sorta di nudità e
di spoliazione... cercando di fare meglio dell‟anno scorso!
Presero Gesù
e
lo crocifissero»
LITURGIA DELLA PAROLA
È particolarmente esemplare. Comporta due letture prima del Vangelo:
una tratta dall‟Antico e una dal Nuovo Testamento, entrambe scelte, come nelle
domeniche e nei giorni di festa, in funzione del vangelo. Esse ci preparano a
comprendere bene il racconto della Passione e morte di Gesù secondo
l‟evangelista Giovanni.
Prima lettura: «Il giusto, mio servo, giustificherà
molti, egli si addosserà la loro iniquità»
(Is 52,13-53,12) È il quarto canto del Servo sofferente che apre la celebrazione della
Passione. Questo testo, dichiaratamente non facile se non addirittura oscuro, ha
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fortemente ispirato gli autori del Nuovo Testamento e noi lo leggiamo oggi
proprio per questa ragione. Secondo una delle interpretazioni, il Servo rappresenta
un gruppo di ebrei esiliati a Babilonia nel sesto secolo a.C., che porta su di sé il
peso del castigo, mentre altri ebrei, che non sono in esilio, sono colpevoli come
loro di ciò che è accaduto. Nell‟umiliazione e nella fedeltà di questi deportati Dio
vede un sacrificio volontario che ha valore di perdono per l‟insieme del popolo.
Per questo sarà possibile un futuro, una risurrezione e una posterità, e il mondo
intero ne sarà testimone. «Il servo giustificherà le moltitudini»: questo avverrà
proprio per il suo sacrificio. Dio cancellerà il peccato e, in vista di una nuova
partenza, considererà il suo popolo come giusto. Ricordiamo che il testo alterna
dei momenti in cui parla Dio («il mio Servo») a momenti in cui a parlare sono
degli ebrei o addirittura le nazioni testimoni del destino del Servo.
Al di là comunque della questione sull‟identità del Servo al tempo in cui
l‟oracolo profetico viene pronunciato, rimane un dato di fatto. Fin dagli inizi la
comunità cristiana ha ravvisato in questo misterioso Servo i tratti del suo Signore:
Gesù corrisponde perfettamente al Servo che soffre di cui parla Isaia. È, infatti,
evidente che questo testo assume tutto un senso particolare se lo si legge
lentamente, contemplando il Cristo in croce: «Maltrattato si lasciò umiliare e non
aprì la sua bocca, era come agnello condotto al macello...»; «Egli è stato trafitto
per i nostri delitti...»; «Per le sue piaghe noi siamo stati guariti». Proclamato il
venerdì santo, questo brano attira utilmente la nostra attenzione sul modo in cui
dobbiamo interpretare la Passione secondo Giovanni. Infatti, proprio descrivendo
con realismo il destino tragico del Servo, questo „canto‟ mette in evidenza, per
contrasto, gli effetti benefici del suo sacrificio, come anche la gloria cui sarà
elevato colui che ora sembra annientato, distrutto, percosso e umiliato.
L‟oracolo di Isaia termina con una visione di pace, di serenità e di
speranza; è sempre un salmo di fiducia in Dio e di lode che ne costituisce la
risposta, non un grido di lutto o di disperazione.
Seconda lettura: Gesù, Figlio di Dio
(Eb 4,14-16; 5,7-9)
La seconda lettura è come il terzo pannello di un trittico, in cui al centro
sta l‟Evangelo. L‟oracolo del libro di Isaia faceva intravedere un misterioso
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«servo di Dio», che con le sue sofferenze avrebbe salvato la moltitudine e sarebbe
stato glorificato da Dio. Ecco ora, invece, un autore cristiano che mostra la dignità
di colui che noi conosciamo bene per nome e svela il mistero della sua obbedienza
al Padre: è «Gesù, il Figlio di Dio», è «il Cristo».
L‟autore della lettera agli Ebrei presenta Gesù come il nostro sommo
sacerdote. Dal loro sommo sacerdote gli ebrei si aspettavano che presentasse a
Dio le loro offerte in modo irreprensibile e che in tal modo ottenesse a loro
misericordia e grazia da parte di Dio. Ma nel tempio terreno il sommo sacerdote
non incontrava Dio faccia a faccia. Ora, invece, Gesù «è penetrato al di là dei
cieli». E tuttavia non è diventato un estraneo, lontano da noi. Il venerdì santo ci
ricorda proprio che egli ha conosciuto le nostre prove, senza mai cedere al
peccato. Non ha dunque abbandonato la sua condizione umana. Egli rimane per
sempre il Crocifisso, segnato dalle piaghe, ormai gloriose, della sua Passione.
L‟esperienza della prova, iscritta in modo indelebile nella sua memoria e nel suo
cuore, fa di Gesù un sommo sacerdote vicino alle nostre debolezze e pieno di
compassione verso le nostre infermità.
Per questo veniamo invitati a «mantenere ferma la professione della nostra
fede» e «ad accostarci con piena fiducia al trono della grazia», a non cercare altro
tramite tra noi e Dio che non sia Cristo Gesù.
Dopo l‟esortazione, l‟autore presenta l‟eccellenza della mediazione di
Cristo. «Durante i giorni della sua vita terrena» egli ha offerto a Dio la sua
preghiera fedele e la sua totale obbedienza, come nel giardino degli ulivi. Così
egli è stato esaudito: ha potuto unire la sua volontà alla volontà d‟amore del Padre.
Ha accettato «le sofferenze della sua passione» e ha vissuto in totale solidarietà
con l‟umanità. Avendo oltrepassato la morte è divenuto l‟esempio e la guida
perfetta di tutti coloro che comprendono il significato del suo sacrificio.
In effetti, nulla come la morte dell‟uomo costituisce uno scandalo che la
ragione umana non riesce a superare e che può condurre ad un pessimismo
radicale. Come dice Qoelet (3,19): «Infatti, la sorte degli uomini e quella delle
bestie è la stessa; come muoiono queste muoiono quelli; c‟è un solo soffio vitale
per tutti. Non esiste superiorità dell‟uomo rispetto alle bestie, perché “tutto è
vanità”, ma che cosa dire della morte di colui che Dio stesso riconosce come
giusto, della morte del suo Figlio? Com‟è che Gesù stesso ha visto e vissuto la
propria morte? Veramente uomo - e non eroe impassibile - egli ha provato
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angoscia ed orrore davanti alla morte: per questo «offrì preghiere e suppliche, con
grandi grida e lacrime». Ma che ne è stato della sua preghiera? Si è scontrata forse
col silenzio di Dio, col suo rifiuto di ascoltarlo? No, «egli fu esaudito». Fu
esaudito perché potè portare a compimento un progetto di amore, i cui effetti
benefici si diffondono su tutta l‟umanità. Fu esaudito perché il Padre «l‟ha
glorificato». Ecco i dati che la fede ci invita a tenere insieme, benché la ragione
umana non riesca a comporre la loro antinomia. Pur essendo il Figlio, Gesù,
attraverso le sofferenze della sua passione, ha imparato fino in fondo ad obbedire,
fino alla spoliazione assoluta, fino al dono della vita. In questo modo è diventato
«causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono». Il mistero della
morte del giusto e di ogni uomo permane, ma il credente l‟accoglie nella fede,
contemplando il Cristo. La croce di Cristo non è un simbolo di morte, ma è Buona
Novella, Vangelo di vita, di speranza, pegno di vita eterna.
Vangelo: Passione del Signore Gesù secondo
Giovanni (18,1-19,42)
È senz‟altro un racconto di una densità e di una ricchezza teologica
considerevoli.
- La passione è, in effetti, questa misteriosa „ora‟ di Gesù, di cui il quarto
vangelo ha cominciato a parlare fin dagli inizi e verso la quale tutto converge.
Essa costituisce il segno supremo, quello che ricapitola tutto. Nella presentazione
globale del mistero dell‟incarnazione e della missione di Gesù, che troviamo nel
prologo, Giovanni scrive: «Egli è venuto tra i suoi, ma i suoi non l‟hanno accolto»
(Gv 1,11). L‟”ora‟ decisiva della croce è però anche quella della glorificazione.
Attraverso la Pasqua, il passaggio da questo mondo al Padre, Gesù porta a termine
quell‟opera per la quale è venuto nel mondo (Gv 19,30): per questo può dire:
«Tutto è compiuto» (Gv 19,30). La gloria di Cristo, che appariva velata nella sua
carne mortale e che lasciava intravedere solo i „segni‟ che egli compiva, ora si
trova messa in piena luce. La croce è il luogo della vera manifestazione. Dalla
morte del Figlio sgorga la vita per tutti coloro che leveranno gli occhi verso il
Crocifisso, trapassato dal colpo di lancia del soldato. Nella Passione secondo
Giovanni affiorano tutti i temi che hanno costituito la trama del suo Vangelo. Gli
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annunci, i segni discreti, le parole a doppio senso che scandiscono il suo testo
trovano ora pieno significato. Storia e teologia si raggiungono. I fatti sono riportati
con fedeltà da un testimone oculare («La sua testimonianza è vera ed egli sa che
dice il vero»: Gv 19 35), ma l‟evangelista vuole anche che i suoi lettori
percepiscano il significato vero di ciò che accade: «perché anche voi crediate»
(Gv l 9 35).
- Ciò che colpisce immediatamente quando si sente raccontare la Passione
di Gesù secondo Giovanni è la straordinaria e sovrana serenità e libertà che
emanano da Cristo. Egli non subisce gli avvenimenti: li vive in piena coscienza e
conoscenza di causa. Non viene sorpreso, li vede arrivare, ma proprio per questo è
in grado di dominarli. In effetti, egli sa che è arrivata la sua „ora‟ (Gv 13,1) Questa
conoscenza non genera in Gesù una sorta di fatalismo coraggioso. Per lui si tratta
«del calice che il Padre gli dà da bere» che egli non vuole rifiutare. La scena
dell‟arresto è particolarmente significativa. Gesù avanza verso il distaccamento
delle guardie che è venuto per arrestarlo. «Chi cercate?». «Gesù di Nazareth»
«Sono io». Questa determinazione tranquilla e questa padronanza di sé
impressionano i soldati che indietreggiano e cadono a terra: bisogna che Gesù
stesso intervenga perché essi si riprendano e portino a compimento la loro
missione. Ma mentre si presenta lui stesso ai soldati, Gesù dà un ordine: «Se
cercate me, lasciateli andare». E i soldati obbediscono e non molestano nessuno
dei discepoli, neppure Pietro che aveva estratto la spada e colpito il servo del
sommo sacerdote. Anche Pilato, che non si lasciava prendere facilmente dagli
scrupoli e che disprezzava profondamente gli ebrei, resta impressionato da Gesù.
Contrariamente a quello che si aspettava, non è lui, il procuratore romano, che
incute paura all‟accusato, ma è l‟accusato che si rivela padrone della situazione:
ispira rispetto. Tanto che Pilato vorrebbe rilasciarlo, dal momento che - man mano
che procedeva l‟interrogatorio - sentiva crescere in lui un certo timore. Proprio per
paura lo mette nelle mani dei suoi accusatori. Anche sulla croce Gesù resta
padrone di se stesso Egli «rimette lo spirito» sapendo che «ormai ogni cosa è
compiuta». Inevitabile il contrasto tra l‟atteggiamento di Gesù e le reazioni dei
discepoli: essi subiscono gli avvenimenti senza capire quel che accade. Pietro
segue Gesù fino alla casa del sommo sacerdote, ma poi nega di essere un
discepolo di «quell‟uomo». Dopo la morte di Gesù è Giuseppe d‟Arimatea, un
uomo che non fa parte del gruppo degli intimi di Gesù, un «discepolo segreto, per
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paura dei Giudei» che prende l‟iniziativa coraggiosa di richiedere il corpo di
Gesù. Ed è assieme a Nicodemo, «colui che era andato a trovare Gesù di notte»,
che depone il corpo in una tomba.
- La regalità di Gesù è oggetto del dialogo tra lui e Pilato. Se ne parla con
insistenza, ma il titolo è del tutto equivoco, perché evoca un potere temporale che
potrebbe situarsi sullo stesso piano del potere di Cesare ed opporsi a lui. In effetti,
è proprio questo equivoco che sfrutteranno i capi degli ebrei. Gesù non nega la sua
qualità di re, ma spiega in quale senso deve essere intesa: «il mio regno non è di
questo mondo... Io sono nato e sono venuto nel mondo per questo: per rendere
testimonianza alla verità». Questa affermazione, annota l‟evangelista, non manca
di colpire Pilato che «ebbe ancor più paura» quando gli dissero che Gesù si «era
fatto Figlio di Dio». I soldati colgono questo pretesto per fare di Gesù un re da
burletta: intrecciano una corona di spine e gliela pongono sul capo, gli mettono
addosso un mantello di porpora e in mano una canna. Pilato, una volta che si è
ripreso, approfitta della regalità di Gesù per umiliare gli ebrei che detesta e che lo
mettono continuamente in situazioni impossibili: «Gesù, il Nazareno, il re dei
Giudei». San Giovanni, è evidente, riporta tutti questi fatti proprio per farci
comprendere che Gesù è veramente re. La sua regalità si manifesta pienamente
proprio nell‟”ora‟ della sua passione, che è anche il momento in cui possiamo
provare l‟autenticità della nostra fede, adorando Colui che è stato inchiodato alla
croce.
PER LA REGIA LITURGICA
In molte comunità cristiane i sacerdoti evitano di fare un‟omelia il venerdì
santo. È un segno di rispetto nei confronti del racconto che è stato appena inteso,
non tanto un accorgimento per abbreviare una liturgia che rischia di essere troppo
lunga! Del resto quale parola - pur di spiegazione e di commento pieno di fede ed
amore - potrebbe avere l‟ardire di coprire le parole che sono state appena udite?
Se, comunque, esiste la tradizione di fare l‟omelia noi consigliamo
vivamente un intervento breve. Che cosa dire?
1. Partire dall‟emozione benefica provocata dal racconto della passione di
Gesù, un‟emozione destata dalla morte di una persona alla quale vogliamo bene,
perché essa stessa ci ha manifestato per primo un immenso amore. L‟emozione è
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un passaggio importante, ma essa deve approdare alla fede, una fede che rigenera
tutta l‟esistenza cristiana.
2. Che cosa ci dice la fede sulla morte di Gesù? La prima realtà che ci
manifesta è la morte di Dio. Sulla croce appare tutto il mistero dell‟Incarnazione.
Colui che muore sulla croce è il Figlio di Dio. Varrebbe la pena ricordare qui le
icone orientali della Natività che mostrano la grotta della nascita uguale alla grotta
della sepoltura e la culla che coincide con una tomba, il corpo di Gesù avvolto in
fasce richiama anche il corpo del Signore morto coperto dalle bende. Accettiamo
questo annuncio della morte. E riconosciamo in questa morte l‟identità di Dio, di
quel Dio in cui crediamo. Egli ha voluto condividere la vita dell‟umanità fino a
questo punto, fino a compiere l‟itinerario completo della nostra esistenza, fino a
raggiungere anche il momento oscuro della morte. La vera contemplazione del
venerdì santo è contemplazione dell‟amore di Dio per gli uomini.
3. Ma c‟è anche una seconda verità che ci viene rivelata. Nel suo
abbassamento, nella sua spoliazione, nel suo incontro drammatico con l‟odio e la
violenza, Dio rimane Dio e riesce a vincere la morte e tutto ciò che genera morte.
Un cristiano non può contemplare la croce, dimenticandosi la risurrezione. La
risurrezione non rende artificiale o meno realistica e tragica la morte. Colui che
risuscita è morto veramente. Per essere vera, la risurrezione ha bisogno della
verità della morte, ma questa morte non è una morte qualsiasi, casuale. È la morte
di Colui che dà la vita per i suoi, per tutti, per amore. E ci invita a fare la stessa
cosa con la nostra vita, se vogliamo trovare la risurrezione.
4. Il suo sangue scende sopra di noi, ci purifica da ogni male. Il suo
sangue ci induce al pentimento e alla conversione. Il suo sangue ci lava da ogni
cattiveria. Il suo amore mette in risalto le nostre fragilità. Ma non per scoraggiarci.
Al contrario: per donarci una forza nuova, per trasmettere a noi la sua vita.
Oltre alla liturgia della Parola, in questa celebrazione del Venerdì santo vi
sono altri tre momenti importanti, che abbiamo già ricordato all‟inizio del nostro
intervento.
1. La solenne preghiera universale. Benché essa appaia oggi, dopo la
riforma liturgica del Vaticano II, meno desueta, bisogna riconoscere che è
caratterizzata da una ampiezza e da una profondità particolare. Richiede quindi di
essere compiuta con tutto il tempo che si rende necessario, dal momento che si
prevede l‟enunciazione dell‟intenzione, un breve silenzio per la preghiera
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personale e l‟orazione conclusiva (per ogni intenzione) da parte di colui che
presiede. Anche se una liturgia celebrata alle tre del pomeriggio prevede un buon
numero di ragazzi e di fanciulli, è bene non „saltare‟ il momento di silenzio.
Un‟introduzione molto breve potrà invitare a rispettarlo, anche se costa fatica.
2. L’adorazione della Croce. È un rito che trova la sua origine nella
Chiesa di Gerusalemme, dove ha assunto un‟ampiezza prima sconosciuta in
seguito al „ritrovamento‟ della croce di Cristo nel 326, ad opera di Sant‟Elena, la
madre dell‟imperatore Costantino. Anche se le persone presenti sono molte, vale
la pena di evitare l‟uso di due croci. È importante che tutti convengano verso uno
stesso „simbolo‟. Si cerchi, piuttosto, di accompagnare la realizzazione di questo
gesto, pieno di spontaneità e di affetto, intercalando dei canti e delle preghiere a
cui l‟assemblea può rispondere. Potrebbe essere utile anche utilizzare delle
preghiere che i fanciulli stessi del catechismo hanno composto e che vengono a
leggere, a turno, al microfono.
3. La Comunione. Non è un‟appendice devozionale, ma piuttosto il logico
proseguimento del rito. La preghiera del Padre Nostro fa da „passaggio‟, ci
permette di cogliere la nostra identità di figli di Dio e fratelli tra di noi. È il sangue
di Cristo sulla croce che ha reso possibile tutto questo. È sangue versato per quel
Regno di cui attendiamo e desideriamo il compimento. La Comunione in questa
giornata - severa, ma non luttuosa - assume un tono particolare.
Perché quel pane che riceviamo sulla mano rinvia immediatamente al
corpo martoriato che vediamo inchiodato alla croce.
La liturgia del venerdì santo si è aperta nel silenzio: è bene che si chiuda
anche con un silenzio pieno di rispetto e di contemplazione, in un clima di
preghiera che continua per tutti coloro che si fermeranno ai piedi della croce.
VEGLIA PASQUALE
Cristo è risorto!
“Gesù venne
loro incontro
dicendo:
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„Salute a voi”
(Matteo 28,9)
1. Liturgia della luce
Benché la parola occupi, al suo interno, un posto rilevante, bisogna
riconoscere che la liturgia è, fondamentalmente, questione di simboli, di azioni, di
gesti. Se si viene a cercare solo un insegnamento e se la si accosta con una
mentalità utilitaristica se ne resta immancabilmente delusi. Bisogna, dunque,
accettare i suoi dinamismi, che fanno appello all‟intelligenza, ma anche al cuore e
che, attraverso il simbolismo, impegnano tutto l‟essere. Non si tratta solo di
ascoltare, dunque ma anche di guardare per vedere, attraverso le realtà significate,
quello che le parole e le spiegazioni non possono evocare. Quanto vale in genere
per la liturgia, riguarda - a maggior ragione - la veglia pasquale. La liturgia della
luce non ha nulla di utilitaristico o di folkloristico, ma mostra come «la luce di
Cristo, risorto nella gloria, dissipa le tenebre del nostro cuore e del nostro spirito».
La processione al seguito del cero pasquale evoca il cammino del popolo di Dio,
guidato non più da una nube luminosa, ma dal Cristo glorioso che illumina ogni
uomo: «Cristo, luce del mondo...». «Rendiamo grazie a Dio!». Quando la chiesa
appare illuminata dalle candele che sono state accese al cero pasquale, essa viene
percorsa dalla più lunga e dalla più lirica delle azioni di grazie, il preconio
pasquale. In esso le espressioni si succedono l‟una all‟altra, con un‟audacia
straordinaria: «Davvero era necessario il peccato di Adamo, che è stato
distrutto con la morte del Cristo! Felice colpa, che meritò di avere un
così grande redentore!». Ascoltando questo canto meraviglioso si capisce
perché questo cero viene acceso ad ogni battesimo e ad ogni celebrazione delle
esequie: «Ti preghiamo, dunque, Signore, che questo cero, offerto in
onore del tuo nome per illuminare l’oscurità di questa notte, risplenda
di luce che mai si spegne... Lo trovi acceso la stella del mattino, quella
stella che non conosce tramonto: Cristo, tuo Figlio, che risuscitato dai
morti, fa risplendere sugli uomini la sua luce serena...».
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2. Liturgia della Parola
La veglia pasquale continua con la liturgia della Parola che riserva un
posto eccezionale alla lettura dell‟Antico Testamento. È giusto, infatti, che in
questa santa notte venga consacrato un tempo più lungo all‟ascolto delle Sacre
Scritture e soprattutto a quelle tratte dall‟Antico Testamento. Si tratta di «partire
da Mosè e da tutti i profeti» per capire che «bisognava che il Cristo soffrisse tutto
ciò per entrare nella sua gloria» (Lc 24,26-27). Del resto, come afferma l‟orazione
che viene dopo la settima lettura, attraverso le pagine dell‟Antico e del Nuovo
Testamento, Dio ci prepara a celebrare il mistero pasquale. La scelta delle prime
quattro letture trova corrispondenza, almeno in parte, nella tradizione d‟oriente e
d‟occidente. Non solo, essa viene confermata anche dalla tradizione ebraica. Si
tratta - secondo il Targum palestinese del II secolo a.C. - delle „quattro notti‟ che
venivano ricordate nella notte di Pasqua: quella della creazione del mondo, quella
del sacrificio di Abramo, dell‟esodo e della venuta del Messia. Le altre tre letture,
invece, hanno chiaramente riferimenti battesimali. La lettera ai Romani, che viene
subito dopo di esse, riguarda dichiaratamente il battesimo, come passaggio dalla
morte del peccato alla vita per Dio. Infine, il vangelo ci conduce alla tomba del
Signore Gesù, quella tomba che le donne, all‟alba del primo giorno della
settimana, trovarono vuota e dove ricevettero il primo annuncio della risurrezione.
a) “In principio...” (Gen 1,1-2,2). L‟esperienza di ciò che Dio ha fatto per
il suo popolo fa nascere una domanda: «Chi è questo Dio che ci ama fino a questo
punto?». È la stessa questione che si è posta un sapiente di Israele, nel V-VI
secolo a.C., meditando sul potere con cui Dio guida la storia. Il ritorno insperato
dall‟esilio ne rappresentava la manifestazione più recente, ma per comprendere
era necessario riandare all‟inizio, a ciò che era avvenuto «in principio». Dio creò
il cielo e la terra, creò l‟uomo maschio e femmina «secondo la sua somiglianza»,
diede loro il compito di governare la terra e di riempirla. Ecco i primi atti di Dio
che lo rivelano e di cui si deve «fare memoria» ogni volta che si vuole
comprendere ciò che accade nella storia.
Di questo inizio viene tracciato un affresco davvero mirabile:
comprensibile a tutti - si potrebbe dire popolare - e di un‟esattezza teologica - o
addirittura mistica - considerevole, attraverso un racconto ordinato, facile da
memorizzare. Chi scrive conosce i miti babilonesi sulla creazione del mondo e in
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parte li utilizza, liberandoli dagli antropomorfismi più rudimentali e da ogni
dualismo, che prevede la lotta tra principio del bene e principio del male. Il Dio
del libro della Genesi crea con una sola parola: la sua parola giocherà un ruolo
decisivo in tutta la storia della salvezza, manifestando la sua iniziativa e la sua
potenza creatrice. Lo stesso vale a proposito del suo soffio vitale, dell‟acqua e
della luce.
b) La prova di Abramo (Gen 22,1-18). Anche se sappiamo che Isacco non
verrà immolato, tuttavia il racconto della prova a cui Dio sottomette Abramo non
manca di continuare a colpire per la sua drammaticità. Per la nostra coscienza
contemporanea è inammissibile che si debba uccidere qualcuno per dimostrare la
propria fedeltà. Lo è ancor più quando si chiese ad un padre di sacrificare il
proprio figlio, ma a fronte di queste difficoltà che avvertiamo oggi alla lettura di
questo testo, resta il fatto che il Nuovo Testamento fa più volte allusione alla
prova di Abramo e al sacrificio di Isacco, che vengono poi ripresi nell‟iconografia
cristiana. Dalla sua chiamata fino alla nascita di Isacco, la storia di Abramo
registra una serie di promesse da parte di Dio, alle quali egli deve credere
basandosi solo sulla parola del Signore. L‟episodio di cui ci occupiamo non
costituisce solo un momento tragico e sconvolgente della sua storia personale.
Questa „prova‟ rivela che la realizzazione delle promesse è assicurata perché Dio
si è impegnato e nulla può impedire che la parola di Dio giunga a compimento.
Questo fatto oscuro evoca per i cristiani ciò che è accaduto nella storia di Gesù: è
Gesù l‟Agnello di Dio, il Figlio della promessa che si compie una volta per tutte
attraverso la sua morte e risurrezione. Una morte che rimane una prova per la
fede: gli apostoli non l‟hanno superata con facilità.
c) «Quando Israele uscì dall’Egitto...» (Es 14,15-15,1). Non si può
celebrare la Pasqua, che ne costituisce il memoriale, senza rileggere il racconto di
quella notte, notte memorabile più di ogni altra notte, notte in cui il Signore liberò
il suo popolo dalla mano degli oppressori, in terra d‟Egitto. L‟esodo dall‟Egitto è,
difatti, il primo, grande avvenimento fondatore scritto nella memoria collettiva di
Israele. È anche il fatto cui questo popolo si riferisce continuamente quando deve
trovare un senso alla sua esistenza e ravvivare la sua speranza. Ma che cosa è
accaduto veramente in quel frangente? Quale fatto storico ha dato origine a questo
grande racconto? Una cosa è certa: Israele ha riconosciuto in quanto è accaduto un
intervento decisivo da parte di Dio, l‟intervento che deve essere ricordato di
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generazione in generazione. È il rito della Pasqua, celebrata ogni anno, mangiando
pani azzimi e l‟agnello pasquale, all‟interno di un pasto familiare in cui il padre
prende la parola per spiegare ai figli il significato di ciò che si sta facendo.
Dopo avervi alluso durante la sua predicazione. Gesù assegna alla Pasqua
un posto centrale nell‟Ultima Cena, nuovo banchetto pasquale, e nel discorso
d‟addio che ha luogo immediatamente dopo. Non è casuale, poi, che Giovanni
strutturi il suo vangelo attorno alle tre feste di Pasqua (Gv 2,13: purificazione del
tempio; Gv 6,4: moltiplicazione dei pani; Gv 13,1: l‟ultima cena di Gesù e la sua
passione). Egli presenta Gesù come il vero Agnello pasquale: il suo sacrificio
sulla croce inaugura l‟esodo definitivo. San Paolo (1Cor 10,1-2) vede nel
passaggio del mar Rosso l‟immagine del battesimo. Tutto questo non manca di
trovare un‟eco nel cuore dei cristiani, quando nella veglia pasquale ascoltano il
racconto dell‟esodo. Camminando dietro a Cristo, la nube luminosa che li precede,
essi sanno di poter oltrepassare ostacoli ritenuti insormontabili.
Ciò che un tempo Dio ha compiuto per un solo popolo, in Cristo l‟ha
realizzato per tutte le nazioni. Ecco perché l‟assemblea riprende il Cantico di
Mosè per cantare la vittoria del Cristo che ci libererà dalla schiavitù del peccato e
della morte.
d) Una felicità senza limiti (Is 54,5-14). La quarta tappa della storia della
salvezza - la quarta notte che vedrà risplendere la luce - è annunciata da una
parola del Signore contenuta nel libro della consolazione. È Dio stesso a parlare,
accostandosi al suo popolo con accenti di grande tenerezza: «tuo sposo è il tuo
creatore». Dio rivela di essere unito ad Israele da un legame d‟amore
indistruttibile. Ci sono state - è vero - delle crisi, dei periodi in cui l‟amata si è
allontanata dal suo sposo, dei momenti in cui Dio stesso sembrava aver deciso la
rottura, ma ora egli ha deciso di riprendere con immenso amore la sua alleanza, di
avere pietà e di mostrare un affetto perenne.
e) «Venite, ascoltate e vivrete!» (Is 55,1-11). L‟evocazione di ogni grande
tappa della storia della salvezza guidava lo sguardo del cristiano verso Cristo,
origine e compimento di ogni cosa. In questo modo le prime quattro letture
offrivano la possibilità di meditare nella fede il mistero della Pasqua di Cristo. I
tre oracoli che seguono permettono di prolungare questa riflessione considerando
l‟opera compiuta da Cristo in una prospettiva sacramentale. Così la conclusione
del «Libro della consolazione di Israele» (Is 55) mostra l‟”ora‟ in cui finalmente si
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può colmare la propria sete e la propria fame e cercare il Signore finché si fa
trovare. La salvezza, dunque, è alla portata di tutti, anche di coloro che non hanno
denaro. La tavola del Signore è offerta gratuitamente, il perdono e la salvezza
sono vicini a tutti gli uomini. Quello che colpisce in questo testo è l‟importanza
assegnata alla Parola. Nella parte finale il messaggio è molto chiaro. Dio dice:
«Ascoltate e vivrete», perché la parola non manca mai di raggiungere il suo
obiettivo.
f) Vieni alla saggezza! (Bar 3,9-15.31-4,4). Se la lettura che precede
aveva proposto una meditazione sulla Parola che risuona nel mondo, questo testo
profetico propone invece un inno alla Sapienza, che «è apparsa sulla terra e ha
vissuto in mezzo agli uomini». Il male in sé ha un‟antica causa e un‟unica
spiegazione: gli uomini si sono allontanati dai sentieri di Dio, dalla sorgente della
Sapienza, ma questa saggezza di Dio gli uomini non la possono raggiungere con le
proprie forze, resta fuori della loro portata. Le loro conoscenze non raggiungono
la conoscenza. Ogni ricerca di saggezza resta, dunque, votata al fallimento? No,
perché Dio stesso ha deciso di rivelare la sua Sapienza. La ricerca disperata si
cambia allora in gioia e gli occhi possono finalmente contemplare la luce. Il
Cristo, «pieno di grazia e di verità», è lui stesso «la Sapienza di Dio», «la via, la
verità e la vita».
g) «Metterò dentro di voi uno spirito nuovo” (Ez 36,16-28). L‟ultima
delle letture dell‟Antico Testamento è tratta dal libro di Ezechiele, quando il
profeta riferisce la parola di Dio che gli è stata rivolta. È Dio stesso ad evocare ciò
che è accaduto: il peccato, i crimini, l‟idolatria del popolo che hanno provocato il
suo furore e l‟hanno costretto al castigo dell‟esilio. Non bisogna cercare altrove la
causa della deportazione: la corruzione era diventata radicale, ma le nazioni non
hanno compreso la storia così e ora si prendono beffe del Dio d‟Israele. Per questo
Dio non può fare a meno di reagire. Radunerà tutti i dispersi, porrà fine all‟esilio,
ricondurrà il suo popolo in patria. Per operare questo, si rende, tuttavia, necessaria
una purificazione che solo Dio può operare. Ad essere toccato è stato il cuore del
suo popolo: questo cuore deve essere ricreato. Dio porrà in ognuno il suo Spirito
che lo rigenererà. Inutile dire che i cristiani pensano immediatamcnte alla
rigenerazione realizzata dal battesimo, che è una seconda nascita «dall‟acqua e
dallo Spirito».
h) Il battesimo: morte al peccato per rinascere ad una vita nuova (Rom
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6,1-11). Il capitolo 6 della lettera ai Romani ci appare come lo schema di
un‟omelia battesimale, nella quale Paolo invita i cristiani a considerare le
conseguenze del battesimo. Molte formule ci fanno pensare allo stile di un oratore
che si sforza di convincere il suo uditorio («Non sapete...? Sappiamo bene...»).
Tutto ruota attorno all‟affermazione: «battezzati in Cristo Gesù». Attraverso il
battesimo, ricevuto nella fede, si instaura, infatti, una stretta solidarietà con Cristo.
Il simbolismo dell‟immersione aiuta a comprendere il significato del battesimo.
Non immaginiamo, però, una piscina profonda alcuni metri! I bagni romani erano
poco profondi..., ma non è per questo che il segno dell‟acqua risulta meno forte.
Come tutti i grandi simboli, anche l‟acqua è caricata di un duplice significato,
morte e vita. I salmi non mancano di evocare le «acque della morte» da cui il
fedele domanda di essere salvato. Ora con il battesimo noi veniamo immersi in
quella prova, da cui il Cristo è uscito vivo e glorioso il mattino di Pasqua. Per noi,
tuttavia, la risurrezione avviene in due tempi: prima il dono di una vita nuova, che
si deve tradurre quotidianamente in una rottura radicale con il peccato, poi la
risurrezione che configurerà definitivamente il nostro corpo umiliato al corpo
glorioso del Cristo.
i) Risurrezione di Cristo e tempi nuovi (Mt 28,1-10). Matteo vede nella
risurrezione di Cristo l‟inaugurazione dei tempi nuovi, l‟avvenimento che prelude
alla fine dei tempi (Mt 28,1-10). Il suo racconto si presenta come quello più ricco
di dettagli, più elaborato teologicamente e, grazie al suo ieratismo, anche quello
più liturgico. L‟evangelista, infatti, ha notato che le due donne, «Maria di Magdala
e Maria, la madre di Giacomo e di Giuseppe», hanno assistito alla sepoltura di
Gesù e hanno visto che veniva posta una grande pietra all‟entrata del sepolcro.
Ricorda anche come siano state collocate delle guardie per sorvegliare la tomba di
Gesù. Apparentemente tutto sembra finito, ma l‟evangelista sa bene che le cose
non sono così. Se insiste su alcuni fatti ed alcuni dettagli è perché il lettore se ne
ricordi quando leggerà il seguito del racconto. Questo comincia proprio con la
visita alla tomba delle due donne, che erano state testimoni della sepoltura e di
tutte le precauzioni prese dall‟autorità.
«All‟alba del primo giorno della settimana», quando vanno al sepolcro,
esse avrebbero, dunque, dovuto trovare le cose come le avevano lasciate il
venerdì, ma non è affatto così. Si produce un insieme di fatti straordinari: un gran
terremoto (come quello che era accaduto alla morte di Gesù), la pietra rotolata via,
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l‟angelo del Signore seduto sopra la stessa pietra (il suo aspetto era come la
folgore) e, come al momento della morte di Gesù, ancora una volta le guardie
sono piene di spavento. Tuttavia, pur mettendo insieme tutti questi elementi che
sono abituali nelle apocalissi, il racconto di Matteo rimane di una grande sobrietà.
Infatti, Matteo non scrive questi particolari per soddisfare la curiosità dei lettori,
ma perché noi possiamo comprendere come la risurrezione inaugura un mondo
nuovo, la fine dei tempi: è «il primo giorno della settimana». Egli vuol farci
cogliere la potenza del Dio invisibile che è all‟opera: a guardar bene non c‟è nulla
da vedere, se non dei segni. Come ha ben detto il preconio: «O notte beata, tu sola
hai meritato di conoscere il tempo e l‟ora in cui Cristo è risorto dagli inferi».
Contrariamente alle guardie, che sono morte di paura, le donne accolgono
il messaggio dell‟angelo: «Non abbiate paura, voi! So che cercate Gesù, il
crocifisso. Non è qui. È risorto, come aveva detto». È il messaggio pasquale in
tutta la sua forza e la sua semplicità, così come verrà proclamato nella
predicazione apostolica. Vale la pena di sottolineare come la fede dei discepoli si
basi proprio sulla parola di Gesù.
L‟angelo aggiunge: «Venite a vedere il luogo dove era deposto. Presto,
andate a dire ai suoi discepoli: È risuscitato dai morti e vi precede in Galilea: là lo
vedrete». Anche questo Gesù l‟aveva anticipato e promesso (Mt 26,32).
Il messaggio è così importante che bisogna andare a comunicarlo in tutta
fretta: le donne lo fanno «con timore e gioia grande». Gesù stesso, a questo punto
viene incontro alle donne ed esse «avvicinatesi, gli strinsero i piedi e lo
adorarono». Anche Gesù ripete che l‟appuntamento per i discepoli è in Galilea.
Perché questa insistenza continua sulla Galilea? Basta leggere il seguito di
Matteo per capirlo. In una scena grandiosa egli mostra gli undici apostoli che
manifestano la loro fede nel Signore risorto: nonostante i loro dubbi, essi «si
prostrarono» davanti a lui. In quell‟occasione essi vengono inviati in missione (Mt
28,18-20): «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate, dunque, e
ammaestrate tutte le nazioni... Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del
mondo». È proprio verso questa conclusione del vangelo di Matteo che vuole
orientare il racconto della risurrezione.
Perché parliamo di un chiaro “sapore liturgico” del racconto? Perché gli
atteggiamenti delle donne sono quelli della liturgia («si prostrarono»). In questo
modo Matteo ricorda che la risurrezione di Gesù è essenzialmente oggetto di fede.
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Non bisogna cercare delle „prove‟, ma fidarsi dei testimoni.
3. Liturgia battesimale
Oltre ad una liturgia della Parola più sviluppata, la celebrazione della
veglia pasquale comporta una liturgia battesimale. Questa si può svolgere in due
forme: in un caso l‟acqua viene benedetta per il battesimo che ha luogo
immediatamente dopo o nel tempo pasquale, nell‟altro la celebrazione del
battesimo non è prevista, ma ha comunque luogo un‟aspersione di acqua benedetta
e il rinnovamento delle promesse battesimali. Infatti, la notte pasquale assurge ad
una sorta di anniversario del battesimo di ogni cristiano, quale che sia la data in
cui esso di fatto è stato celebrato.
La benedizione dell‟acqua battesimale evoca i grandi momenti della storia
della salvezza in cui l‟acqua ha giocato un ruolo: dagli inizi, quando lo Spirito di
Dio deponeva nell‟acqua la forza che santifica, al diluvio in cui essa ha
prefigurato la morte al peccato e la nascita di una giustizia nuova, al passaggio del
mar Rosso, al battesimo di Gesù e alla sua morte in croce, quando dal suo costato
aperto esce sangue ed acqua, per concludere con la missione affidata agli apostoli
di battezzare «nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo»,
4. Liturgia eucaristica
«Cristo è risorto! È veramente risorto!»: il grido lanciato nella notte di
Pasqua si ripercuote di secolo in secolo, nel corso della celebrazione della Pasqua,
da un‟assemblea cristiana all‟altra. Si prolunga in Alleluia infiniti che cantano la
gioia del cielo e della terra.
Eppure l‟espressione più consistente di questa gioia è l‟azione eucaristica.
È l‟eucaristia di ogni domenica che in questa notte assume, però, un significato
particolare. Dopo aver rivissuto ciò che Dio ha fatto «dagli inizi», si può percepire
meglio il canto di lode di tutta la creazione che inonda il cielo e la terra: «È
veramente cosa buona giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, proclamare
sempre la tua gloria, o Signore, e soprattutto esaltarti in questa notte nella “quale
Cristo, nostra Pasqua, si è immolato”.
5. Per la regia liturgica
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Quale omelia nella veglia pasquale? a) In questa notte, illuminata dalla
gloria del Risorto, l‟assemblea cristiana è invitata a celebrare il suo passaggio
dalla morte alla vita.
Chiamando il suo Figlio crocifisso a vita nuova, Dio non ha né annullato
né banalizzato l‟atroce realtà della sua morte umana, ma ne ha cambiato il
significato. La risurrezione mostra come la prova angosciosa della morte apre un
passaggio verso la comunione con Dio.
b) Tutta la vita di un battezzato è una Pasqua, un esodo dal paese
dell‟idolatria, della menzogna e della violenza. Mentre annuncia il nostro destino
di risorti con Cristo, la veglia pasquale celebra il mistero quotidiano della nostra
rinascita, così magnificamente evocato dai simboli: la luce, la parola, l‟acqua del
battesimo, il pane e il vino dell‟eucaristia.
c) Su questi elementi vale la pena soffermarsi, prediligendo in particolare
l‟uno o l‟altro. Senza eccessi, tuttavia. Infatti, l‟omelia ha lo scopo di portare a
parola ciò che già si vede e si intuisce attraverso l‟azione liturgica e di collegarlo
alla storia di una comunità. In ogni caso si preferisca il ricorso alle immagini, ai
fatti, attraverso un linguaggio evocativo e poetico, piuttosto che infarcire la
propria presa di parola di elementi dottrinali e didattici: si rischierebbe di
mortificare la grande ricchezza di questa veglia. Basterà allora poco per far
emergere l‟esperienza di credenti che si sentono illuminati dal Signore e che, pur
nella loro fragilità, sono guidati fiduciosamente lungo i sentieri della storia.
Oppure si potrà richiamare i momenti in cui avvertiamo una „sete‟ che solo lo
Spirito, con la sua presenza, riesce ad estinguere... una sete che si esprime
attraverso le grandi domande, i grandi interrogativi dell‟esistenza. O ancora si farà
percepire quale senso assume, in questa veglia, la ripetizione del gesto dell‟Ultima
Cena, come essa faccia commensali del Signore risorto, facendo ripetere la stessa
esperienza degli apostoli.
d) Se si assegna una parte preponderante dell‟omelia al percorso tracciato
dalla proclamazione delle letture, se ne scelgano una o due il brano paolino e il
racconto evangelico, o una lettura veterotestamentaria e l‟annuncio della mattina
di Pasqua.
e) Non si passi, comunque, sotto silenzio l‟importanza che assume
l‟appuntamento in Galilea. Il destino di Gesù si è compiuto, in modo drammatico,
nella città santa (“non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme”: Lc
27
13,33), ma il Risorto di Gerusalemme è lo stesso Maestro che ha cominciato la sua
missione in Galilea. Si tratta in ogni caso di lasciare i luoghi santi, consacrati dalla
tradizione, per recarsi al crocevia delle nazioni, perché il vangelo deve essere
portato ad ogni popolo. L‟assemblea che celebra la Pasqua sarà in grado di
affrontare la dispersione con lo stesso coraggio e la stessa fiducia degli apostoli?
Quanto è già stato detto sullo svolgimento rituale dovrebbe aver reso
avvertito il sacerdote o il gruppo liturgico che preparano la veglia. Poiché si tratta
di una veglia suggestiva e straordinariamente ricca, il rischio è quello di impedire
l‟accesso ai grandi simboli e ai grandi elementi della celebrazione. Come
suggeriscono le schede, si ricorra a pochi commenti, sobri ed in ogni caso
essenziali. Se si compie ogni azione con dignità e si eseguono i gesti previsti con
semplicità e calma, questa liturgia porterà una grande consolazione e una grande
gioia a coloro che vi partecipano.
Eppure non si può dar l‟impressione di avere fretta: meglio diminuire il
percorso delle letture, che proclamarle frettolosamente.
Né si può lesinare sulle candele: si priverebbero i presenti della
sensazione fisica che si prova nel reggere un cero acceso.
Né si può ricorrere ad oggetti che mortificano l‟azione liturgica: ci vorrà
un bel cero pasquale e un bacile degno di contenere l‟acqua battesimale, se non si
utilizza lo stesso battistero.
Si valuti anche la necessità di non „schiacciare‟ l‟azione eucaristica perché
ci si è troppo attardati precedentemente. Anche se il rendimento di grazie è
comune ad ogni messa, la celebrazione eucaristica di questa notte è del tutto
particolare.