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Quale Ontologia?, in C. Gentili, F.W. von Herrmann, A. Venturelli (eds.) Martin Heidegger:
Trent’anni dopo, Genova, Il Nuovo Melangolo, pp. 149-173,
Eva Picardi
Quale Ontologia?
Nel 1950 Rudolf Carnap pubblicò un saggio intitolato “Empiricism, Semantics and
Ontology” in cui difende la legittimità di fare appello ad entità astratte, quali sono i
numeri, le proposizioni, le intensioni, per illustrare un aspetto del funzionamento della
semantica di una teoria matematica oppure di un frammento (quello modale, ad
esempio) di una lingua naturale attraverso la costruzione di una cornice linguistica
all‟interno della quale questioni di esistenza interne alla cornice di riferimento possono
essere formulate e risolte. Nel 1950 Carnap sottolinea con vigore che ciò che lo interessa
è la semantica di una lingua, non l‟ontologia: la disputa fra realismo, idealismo,
platonismo, nominalismo viene trattata come il retaggio di un modo arcaico di fare
filosofia che i filosofi formatisi alla scuola di Moritz Schlick e che avevano letto
attentamente il Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein ritenevano mal poste.
Come vedremo, nel 1950 le ragioni addotte per dubitare della proficuità di interrogarsi
sulle questioni ontologiche al di fuori di un qualsiasi linguaggio o teoria sono un po‟
diverse da quelle addotte nell‟articolo pubblicato nel 1932, Überwindung der
Metaphysik durch logische Analyse der Sprache che ha Heidegger come bersaglio
polemico.
Se lo scetticismo di Carnap circa il modo tradizionale di articolare la domanda
ontologica non cambiò in modo sostanziale rispetto alle posizioni sostenute negli Anni
Trenta ma soltanto si perfezionò nel corso della controversia con Quine degli Anni
Cinquanta, anche lo scetticismo di Heidegger circa il modo in cui i logici si accostano al
linguaggio non cambiò mai rispetto al giudizio espresso in Sein und Zeit § 33, anzi si
trasformò nel corso degli anni in aperta ostilità. Nelle minute del colloquio fra un
giapponese e un interrogante, che ebbe luogo intorno al 1953 e che è stato pubblicato per
la prima volta in Unterwegs zur Sprache, alla domanda del professor Tezuka, che
sottopone a Heidegger le vedute sull‟Iki sviluppate da Shuzo Kuki, circa il luogo dove
si annidi la metafisica Heidegger risponde senza esitazione “Là dove Lei meno se
l‟aspetta. Nello sviluppo della logica in logistica (“in der Ausbildung der Logik zur
Logistik”)”. Rincarando la dose, Heidegger aggiunge che c‟è poca consapevolezza
dell‟attacco contro l‟essenza del linguaggio celato nella logistica, e ciò rende l‟attacco
ancora più insidioso (“Und der Angriff gegen das Wesen der Sprache, der sich darin
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verbirgt, vielleicht der letzte von dieser Seite, bleibt unbeachtet” (Unterwegs zur
Sprache, p. 116). E dunque, conclude il giapponese „Um so sorgsamer müssen wir die
Wege zum Wesen der Sprache hüten“, al che Heidegger risponde che sarebbe già tanto
se riuscissimo a costruire un sentiero secondario per accedere alla via che conduce
all‟essenza del linguaggio. Immagino che qui Heidegger intenda dire che l‟attacco della
“logistica” minaccia la corretta concezione della natura del linguaggio. Pensare che
dalla logistica possa venire una minaccia all‟essenza del linguaggio sarebbe una
sopravvalutazione grottesca dell‟importanza che una qualsiasi disciplina formale
potrebbe mai rivestire per alcunché. Quel che Heidegger probabilmente intende è che la
logica moderna ha poco da dire sulla natura profonda degli atti di parola, e quel poco è
deleterio poiché incoraggia una concezione calcolistica del pensare.
Ora, è innegabile che la logica matematica ideata da Frege abbia contribuito come poche
allo sviluppo delle tecniche informatiche cha hanno cambiato la nostra vita, in una scala
e in un formato che negli Anni Cinquanta non erano neppure prevedibili. Ma se il
linguaggio non avesse in sé una struttura composizionale atta a ospitare tecniche e
procedure di carattere ricorsivo queste applicazioni della logica non avrebbero mai
attecchito e dunque non si può fare una colpa ai logici e ai matematici di aver
valorizzato questo aspetto delle lingue umane. Ovviamente, parlare una lingua non si
riduce ad operare con espressioni appartenenti a un calcolo retto da regole rigide. E
nondimeno le lingue umane hanno innegabilmente anche una struttura logico-formale.
Credo che tutti oggi possano tranquillamente dare per acquisite certe caratteristiche
delle lingue umane messe in luce dalla logica e dalla linguistica senza ravvisarvi alcuna
minaccia per l‟essenza del linguaggio. La constatazione di quelle che oggi ci sembrano
“ovvietà” rende ancora più difficile la comprensione dei toni accesi e intolleranti, da
entrambi le parti, che caratterizzarono il dibattito svoltosi fra il 1927 e il 1933 fra gli
esponenti delle diverse correnti della filosofia europea, e fra Heidegger e Carnap in
particolare.
Può l‟articolo di Carnap del 1932, Überwindung der Metaphysik durch logische Analyse
der Sprache essere stato il principale responsabile di questo stato di cose? Sicuramente
no. Le vicende politiche che costrinsero Carnap nel 1935, insieme a tanti filosofi,
matematici, letterati e scienziati, all‟emigrazione forzata, ebbero sicuramente una parte
non meno importante delle divergenze teoriche nell‟interruzione del dialogo non solo
fra questi due filosofi, ma fra due importanti indirizzi della filosofia europea, che,
grosso modo, possiamo identificare nella filosofia “scientifica” dell‟empirismo logico
avanzata dai protagonisti del Circolo di Vienna, che con l‟emigrazione forzata andò a
fecondare il terreno del pragmatismo americano, e nell‟indirizzo ermeneutico. La
situazione oggi è molto cambiata e ciò ci consente di riflettere in modo più equilibrato
e, spero, proficuo, sul passato recente della filosofia europea.
1. Concezione scientifica e concezione “naturale” del mondo
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Come ho accennato sopra, Carnap a partire dal 1928 affronta le questioni ontologiche
come questioni semantiche relative a una teoria specifica e a una lingua debitamente
“ricostruita”. Carnap non attribuì mai un ruolo particolare né tanto meno privilegiato
alla lingua ordinaria, che è dopo tutto l‟unica lingua che parliamo. La così detta filosofia
del linguaggio ordinario degli Anni Cinquanta (penso qui in particolare a Strawson e a
Austin) prese le mosse dalla critica ai linguaggi logicamente ricostruiti e depurati ideati
da Carnap per studiare in vitro la struttura logica di una certa classe di enunciati. Ma
anche dopo questa “liberalizzazione” il dialogo fra analitici ed ermeneutici restò lettera
morta.
La priorità esplicativa attribuita da Carnap al linguaggio ha superficialmente alcuni punti
in comune con il primato che anche Heidegger attribuisce al linguaggio, o meglio al
discorso nella grande opera del 1927. Secondo Heidegger la comprensibilità di ciò che
ci circonda sembra essere legata in parte al fatto che il mondo viene investito dagli
uomini di una significatività derivante non tanto dall‟intenzionalità primaria di
significare (secondo il dettato di Husserl), ma dal modo in cui il parlare si trova
necessariamente legato a interessi e affetti specifici. E‟ nel discorrere, nell‟ascoltare e
nel tacere che l‟animale umano si incontra con coloro con cui condivide il modo
peculiare di essere nel mondo L‟Analitica esistenziale aspira a mostrare che ogni
interpretazione si muove nel quadro dell‟“universalità trascendentale del fenomeno della
Cura” (Sein und Zeit, §43).
Carnap che ancora negli Anni Cinquanta pronunzia con riluttanza la parola “ontologia”,
memore forse del progetto di Fundamentalontologie delineato in Sein und Zeit o della
Wesensschau husserliana, la pensa in modo completamente diverso. Per il giovane
Carnap quelle che sembrano scelte ontologiche antagonistiche sono in realtà scelte fra
linguaggi diversi, e il solo fatto (se è un fatto!) che linguaggi che assumono come
primitivi nozioni antitetiche (come i linguaggio fenomenista e il linguaggio fisicalista)
siano estensionalmente equivalenti, se non in senso stretto traducibili l‟uno nell‟altro,
mostra che le dispute tradizionali fra Idealisti, Nominalisti e Realisti sono, au fond,
pseudo-dispute. Che la metafisica tradizionale sia un tessuto di pseudo-problemi è un
assunto proprio anche di Heidegger, che però oltre a demolire aspira anch‟egli a
ricostruire. Sia Carnap che Heidegger coltivarono entrambi progetti filosofici
ambiziosissimi, progetti che proprio per la loro portata totalizzante presentano affinità di
impostazione, pervenendo però a conclusioni antitetiche. Una lettura equanime
dell‟opera giovanile di Carnap Der logische Aufbau der Welt apparso nel 1928 (con in
appendice Scheinprobleme der Philosophie) e di Sein und Zeit lo mostra in modo
lapalissiano.
L‟accesso alla Welt di Carnap è quello quasi-cartesiano degli Erlebisse, ossia dei
vissuti in prima persona: il mondo di cui Carnap vuol mettere a nudo l‟impalcatura
logica va ben oltre la totalità dei fatti di cui si parla nel Tractatus logico-philosophicus
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di Wittgenstein, apparso, ricordiamolo, in lingua tedesca nel 1921. Esso comprende i
vissuti psichici, gli oggetti culturali e gli oggetti fisici, tutti accomunati in quella che
Nelson Goodman chiamerà nel suo grande libro omonimo “the structure of appearance”.
Gli strumenti impiegati da Carnap sono la logica inventata da Frege e la teoria dei
simboli incompleti di Russell, che ben si presta alla realizzazione di programmi
riduzionistici. Questa ricostruzione logica accede a tutti i campi dell‟esperienza umana
in modo uniforme, con un intransigente monismo metodologico accompagnato dal
solipsismo metodologico. Anzi neppure di solipsismo si può parlare, perché del soggetto
nell‟Aufbau non se ne parla. I vissuti non hanno un portatore. A quei tempi, si sa, era
imperativo decostruire il Soggetto, ci provarono un po‟ tutti – basti pensare a Mach a
Freud. Heidegger e Carnap non si tirano certo indietro e forse questo tema sarebbe
davvero un buon punto di partenza per capire le differenze fra i vari indirizzi della
filosofia contemporanea.
Carnap tratta gli Erlebnisse tutti sullo stesso piano, in aperto contrasto con le
ingiunzioni di Edmund Husserl relativamente alle ontologie regionali e all‟intuizione
categoriale appropriata ad ambiti diversi di enti. Ma anche Heidegger vuole andare più a
fondo di Husserl e mira a tratteggiare un “concetto naturale del mondo” (Sein und Zeit,
§ 11, p. 52) capace di abbracciare ogni aspetto del nostro modo di rapportarci al mondo.
La concezione “naturale” è contrapposta a quella “naturalistica” che le scienze e la
matematica ci forniscono (Sein und Zeit, § 69). Questa contrapposizione, e il relativo
dibattito, fra quel che Philipse (2001) ha chiamato, con riferimento a Heidegger, “the
natural image” e contrastato con “the naturalistic image” è ancora con noi. Nel suo
monumentale libro, Heidegger’s Philosophy of Being, Philipse ha scritto pagine
importantissime su questo tema. Però egli non fa l‟unica cosa che io credo si dovrebbe
fare: mettere in discussione il contrasto stesso fra immagine naturale e immagine
naturalistica. Da una prospettiva linguistica, per lo meno, è facile convincersi del fatto
che non vi è un linguaggio delle scienze autonomo dal linguaggio ordinario o un organo
speciale di cui gli scienziati sono attrezzati e di cui la maggioranza delle altre persone
difetta: vi sono specializzazioni del linguaggio ordinario, che vi si aggiungono come
nuove periferie, per accedere alle quali occorre pagare un pedaggio costoso che consiste
di matematica e di tecniche sperimentali. E, per parte sua, il vocabolario scientifico
infiltra continuamente il linguaggio ordinario, nel bene e nel male. Parlare del mondo
del senso comune con la sua ontologia familiare contrapponendolo al mondo della
scienza con la sua ontologia arcana non può essere che fuorviante.
Al progetto formulato da Heidegger di offrire “die Ausarbeitung der Idee eines
„natürlichen Weltbegriffes‟ ” (Sein und Zeit, p. 52) Carnap nel 1928 contrappone quello
di tratteggiare la costruzione logica della mondo e, qualche anno più tardi, insieme a
Hahn e Neurath, quello più ambizioso ancora di edificare una “wissenschaftliche
Weltauffassung”. L‟opera del 1928 poteva servire come esempio della forma che il
progetto vagheggiato di edificare una concezione scientifica (e in questo senso
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naturalistica) del mondo avrebbe potuto avere. Per Carnap è la logica matematica
inventata da Frege e Russell la chiave universale per porre mano l lavoro filosofico; per
Heidegger invece è la messa a nudo della Grundstruktur der Sorge che apre l‟accesso
all‟ontologia fondamentale, mentre le scienze ci fanno accedere a ontologie relative e
opzionali (Sein und Zeit, § 69).
Come Carnap anche Heidegger ritiene che il così detto problema della realtà del mondo
esterno e dello scetticismo sia uno pseudo-problema, ma per ragioni molto diverse. Per
Heidegger la formulazione stessa del problema contiene un errore: il mondo non è una
realtà esterna al soggetto, ma si fa incontro, si offre, agli esseri umani come la cosa più
familiare che c‟è. Per Carnap occorre invece mettere a nudo la struttura formale dei tre
ambiti individuati (fisico, psichico e culturale), così da poter formulare sensatamente la
domanda circa che cosa esiste nei rispettivi domini e soprattutto per sapere se e in che
misura sia possibile ridurre il culturale allo psichico e lo psichico al fisico o viceversa. I
programmi riduzionistici che hanno percorso tutta la filosofia della scienza del „900
affondano le radici nell‟ideale di riduzione carnapiano (uno dei due “dogmi
dell‟empirismo” che Quine metterà in discussione nel celebre saggio “Two Dogmas of
Empiricism”). Col senno di poi possiamo dire, io credo, che l‟errore di Carnap (e non
solo dal punto di vista di Heidegger) è di non vedere che l‟accesso al mondo non ha
bisogno di alcun lavoro di “costituzione” a partire da una base di sense data. Nulla ci
può essere più familiare, “comprensibile” di certi aspetti del mondo delle cose, anche se
la ragione di questa familiarità è difficile da capire e collocare nella giusta luce. Quello
che invece non ci è affatto comprensibile ad occhio nudo è la struttura fisico-matematica
del mondo che ci circonda e di noi stessi ed è questo il lavoro che affidiamo alle scienze.
Ho ipotizzato che forse la ricostruzione delle varie interpretazioni della dottrina
dell‟appercezione potrebbe essere più istruttiva per capire le differenze fra le varie
correnti attive nella filosofia europea prima dell‟avvento del nazismo e dello scoppio
della Seconda Guerra mondiale, sottintendendo, tacitamente, più istruttiva di quella
proposta da Michael Friedman nel bel libro del 2000, A Parting of the Ways.Carnap,
Cassirer and Heidegger. Friedman ci guida con destrezza nel groviglio delle filosofie
neo-kantiane da cui trassero origine le ricerche di Heidegger, Cassirer e in parte del
giovane Carnap. Friedman si concentra sulle tribolate vicende che le dottrine dello
schematismo e delle facoltà subiscono nei diversi indirizzi del neo-kantismo. A suo
parere questa indagine dovrebbe gettar luce sulle ragioni della separazione delle strade
prese dai protagonisti dell‟incontro che ebbe luogo a Davos nel 1929, ossia Cassirer e
Heidegger, con Carnap fra gli astanti. L‟occasione dell‟incontro, com‟è noto, fu la
nuova interpretazione di Kant avanzata da Heidegger. Tuttavia a me non pare che le
questioni riguardanti lo schematismo aiutino a capire la differenza fra Cassirer e
Heidegger né aggiungano molto alle ragioni che portarono alla definitiva interruzione
della comunicazione fra Heidegger e Carnap.
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E del resto, anche una lettura superficiale dell‟ Aufbau e di Sein und Zeit mostra che né la
dottrina dello schematismo né la questione delle facoltà vi svolgono un ruolo decisivo. A
mio avviso, le differenze fra Carnap e Cassirer superano di gran lunga le analogie,
nonostante i valorosi sforzi di Friedman per dimostrare il contrario. I riferimenti che
nell‟Aufbau Carnap fa all‟idealismo trascendentale e alle scuole neo-kantiane del tempo
sono più di maniera che sostanziali. Non c‟è dubbio che Cassirer, ben più attento di
Heidegger per ciò che concerne gli sviluppi della logica matematica di Frege e Russell e sui
punti di attrito con le dottrine di Kant – basti pensare all‟interessante scritto del 1907, Kant
und die moderne Mathematik, e alla discussione con Louis Couturat - avrebbe potuto in
linea di principio continuare a discutere con Carnap anche dopo il 1935. Ma nel 1929
Cassirer si era lasciato alle spalle l‟interesse per gli sviluppi della logica contemporanea.
Dove nell‟Aufabau Friedman ravvisa un‟allusione alle idee contenute in Substanzbegriff
und Funktionsbegriff (1910) di Cassirer, io vi vedo piuttosto un‟allusione per nulla velata
alla teoria del concetto come funzione di Frege, le cui lezioni Carnap aveva seguito a Jena
nel 1912 e 1913 e il cui pensiero avrà un‟influenza enorme in tutta la sua produzione
filosofica, come ho cercato di mostrare in dettaglio altrove (Picardi 1995). La teoria
russelliana delle descrizioni definite e dei simboli incompleti informa lo Aufbau nella sua
interezza.
Il posto occupato dalla logica nell‟epistemologia e nella del filosofia del linguaggio
contemporanea, che riconosce nell‟opera di Frege, Russell e il giovane Wittgenstein i
suoi antenati, è decisivo e verrà radicalizzato da W.V. Quine. Egli propone di
riformulare la problematica ontologica classica “Che cosa esiste?” attraverso l‟ascesa
semantica (anziché domandarci che cosa esiste, chiediamoci che cosa una certa lingua o
teoria dice che esiste) e attraverso il criterio dell‟impegno ontologico contratto dalle
variabili di quantificazione, incapsulato nello slogan “Essere è esser il valore di una
variabile vincolata”. Per conoscere gli impegni ontologici contratti da una teoria,
mettiamo a fuoco le entità che occorre assumere nel dominio su cui si quantifica
affinché gli asserti esistenziali della teoria risultino veri. Com‟è ovvio, questo criterio ci
dice solo quali sono gli impegni ontologici contratti da una teoria, non se siano stati
legittimamente contratti. Per Quine la domanda ontologica viene incorporata, o meglio,
scorporata, in quesiti specifici relativi alla semantica delle varie teorie scientifiche: la
domanda sull‟Essere viene tradotta senza residui in una domanda sugli enti, con una
spiccata preferenza per quelli causalmente efficaci o comunque indispensabili per gli
scopi delle scienze. Non c‟è una domanda sull‟Essere che eccede quelle che possiamo
porci sugli enti e che sta in parte alle scienze trattare. Questo è in parte il succo del
programma dell‟epistemologia naturalizzata promosso da Quine. Fin qui c‟è più
convergenza che divergenza fra Quine e Carnap. La divergenza fra loro riguarda due
assunti ulteriori: la legittimità della distinzione fra questioni di fatto e questioni di
convenzione e stipulazione(e la distinzione fra proposizioni analitiche e sintetiche) da
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una lato, e la scelta estensionalismo e intensionalismo in semantica. Ma questa è un‟altra
faccenda. L‟accordo è di gran lunga preponderante.
Le risposte che Heidegger e Carnap danno al problema della “costituzione” sono
davvero agli antipodi, malgrado o anzi, proprio a causa, delle somiglianze strategiche di
impostazione. Se un confronto può essere fatto con qualche chance di sensatezza (ed è
stato fatto più volte, oltre che da Rorty anche da altri autori, come, ad esempio Mulhall
(1990)) è fra Wittgenstein e Heidegger. Ma, ancora una volta, un confronto proficuo non
può che mostrare le profonde differenze circa il modo in cui essi intesero alcuni cruciali
concetti come quelli di Welt, Leben e Sprache e soprattutto il compito della filosofia, che
per Wittgenstein restò sempre quello di fare “completa chiarezza”, poiché solo così
saranno dissolti i problemi filosofici che abbiamo ereditato dalla metafisica classica.
Nel Tractatus egli pensa di potere conseguire questa meta disegnando, dall‟interno del
linguaggio, l‟area del dicibile rispetto a quello del nonsenso (sia quello schietto, di
carattere logico, sia quello meno evidente, che si manifesta nel tentativo di enunciare
una teoria etica). A partire dal 1934, e, in particolare nelle Philosophische
Untersuchungen il compito della filosofia si configurerà sempre di più come una
terapia volta a dissolvere i problemi filosofici, senza però ricorrere alla logica o ai
linguaggi ideali, costruiti per gli scopi delle scienze, come i filosofi cresciuti in America
alla scuola di Carnap cercarono (e cercano) di fare.
E, in ogni caso, è semmai l‟idea di Wittgenstein che capire una lingua è capire una
forma di vita (Lebensform), che circola in filosofia fin dal 1934 (anche se è stata
sottoposta all‟attenzione del mondo filosofico nel 1953 con la pubblicazione postuma
delle Philosophische Untersuchungen ) che avrebbe potuto interessare l‟autore di Sein
und Zeit. La parola “Leben” nel composto “Lebensform” può evocare la concezione
della Lebenswelt husserliana, il progetto di psicologia descrittiva di Dilthey,
l‟interpretazione della cultura di Spengler, ecc. ecc. Questo concetto va trattato con
estrema cautela in un ambiente come quello della filosofia austro-tedesca dove la
filosofia della vita ha molte complesse ramificazioni - come del resto Heidegger,
cresciuto alla scuola di Rickert, sapeva molto meglio di Wittgenstein. Ma dopo il 1932
Heidegger si allontana progressivamente dal progetto dell‟ontologia fondamentale,
intesa come una ricognizione della struttura a priori della datità e della temporalità in cui
gli umani - l‟impersonale „man‟ - si trovano gettati, che reputerà viziato da una forma di
“antropologismo”. Anche per questo la distanza rispetto al cammino intrapreso da
Wittgenstein non può che aumentare. In un certo senso, come Rorty ( 1991: 60-65)
nota, Heidegger e Wittgenstein percorrono un tragitto analogo in direzioni opposte: il
primo passa dalla ricognizione dell‟analitica del Dasein all‟indagine sul senso
dell‟Essere, il secondo dall‟indagine sulla forma logica del linguaggio e del mondo
all‟analisi del modo in cui il linguaggio si intreccia con le forme di vita.
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E‟ dunque semmai al Tractatus logico-philosophicus che dovremmo rivolgerci per
trovare una concezione di Leben e Welt paragonabile a quella che troviamo in Sein und
Zeit. Il richiamo alla vita nel Tractatus si trova in un remoto decimale, ossia, nella
sezione 5.621, in cui a sorpresa scopriamo che il mondo, che sappiamo dall‟incipit
dell‟opera essere la totalità dei fatti e non delle cose, risulta essere tutt‟uno con la vita:
“Die Welt und das Leben sind Eins” (Il mondo e la vita sono tutt‟uno). Una mossa a
effetto di un fervente lettore di Schopenhauer? Forse, ma non solo. Con la vita appare il
bistrattato Soggetto, un limite del mondo non un suo costituente, che di “ciò che è più
alto” (etica ed estetica) nella lingua che parla non può affermare sensatamente quasi
nulla, ma non può però sopprimere l’aspirazione a farlo. Il che non lo esime, anzi lo
obbliga, a una condotta decente. In questo senso, come Wittgenstein scrisse a Ludwig
von Ficker, la parte più importante del libro è quella non scritta e il senso del libro è un
senso etico. McGuinness (2002) ha scritto pagine magistrali sulla genesi e la portata di
queste idee.
Heidegger, per quel che mi consta, non ha mai seriamente preso nota del Tractatus né
tanto meno delle Philosophische Untersuchungen pubblicate postume nel 1953. Non è
detto però che se il giovane Heidegger avesse letto il Tractatus ne avrebbe apprezzato il
carattere intrinsecamente aporetico. Altrove (Picardi 2004) ho lamentato il fatto che
neppure Gadamer al tempo in cui scrisse Warhrheit und Methode abbia tenuto conto del
pensiero di Wittgenstein. Un‟occasione di dialogo mancata.
2. Verità, costruttivismo, pragmatismo
Pochi forse sono al corrente delle parole assai elogiative dedicate dal giovane Heidegger
ai saggi pubblicate da Gottlob Frege del 1892 su senso, significato, oggetto, concetto.
Ma siamo nel 1912, gli anni dell‟apprendistato sotto la guida di Rickert, che sfoceranno
nella pubblicazione della monografia dedicata a quella che Frege nella Prefazione al
primo volume dei Grundgesetze der Arithmetik del 1893 aveva chiamato “la deleteria
irruzione della psicologia nella logica” (“der verderbliche Einbruch der Psychologie in
die Logik”), ovvero la malattia epocale dello psicologismo. Se Heidegger avesse
continuato a leggere Frege (cosa, che, per quanto ne so delle letture di Heidegger
preparatorie a Sein und Zeit, cioè pochissimo, può ben aver fatto) e, in particolare, se
avesse letto anche la prima ricerca logica Der Gedanke, pubblicata nel 1918 nella
rivista edita da Bruno Bauch, “Beiträge zur Philosophie des Deutschen Idealismus”, la
stessa, su cui Nicolai Hartmann pubblicò il suo saggio sull‟ontologia, avrebbe anche
appreso che due delle critiche che egli muove al concetto di verità come corrispondenza
erano già state anticipate da Frege. Mi riferisco alla difficoltà di stabilire una
comparazione fra pezzi di linguaggio (o di pensiero) e pezzi di mondo e di individuare
l‟aspetto rilevante sotto il quale la presunta congruenza andrebbe attestata. Non solo, ne
avrebbe anche appreso una terza, quella del regresso. Per affermare che A corrisponde a
B dobbiamo già sapere sotto quali condizioni è vero che A corrisponde a B, e dunque
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l‟idea di corrispondenza non spiega il concetto di verità, ma lo presuppone. Frege
conclude sostenendo che il concetto di verità è indefinibile, e che qui, come altrove
quando incontriamo concetti basilari della logica, non possiamo dare altro che cenni
(“Winke”) al lettore, confidando che egli colga quel che intendiamo, dal momento che
già padroneggia la lingua. Per inciso, la parola “Wink” ricorre con insistenza nel tardo
Heidegger.
Questo tema della ineffabilità della semantica o comunque della non definibilità delle
nozioni fondamentali della logica che troviamo in Frege, verrà ripreso da Wittgenstein
nel Tractatus logico-philosophicus, l‟opera che può considerarsi il manifesto della
filosofia analitica, oltre che il punto di partenza delle riflessioni di Carnap
sull‟insensatezza delle formulazioni di Heidegger riguardo all‟uso disinvolto della
parola “nulla” ora quale nome proprio di un ente ora quale termine sincategorematico.
Se la pars destruens della critica di Frege all‟idea della verità come corrispondenza
avrebbe potuto incontrato il favore di Heidegger, lo stesso non si può dire della pars
construens, in cui l‟oggettività dei pensieri viene assicurata al prezzo del loro esilio nel
Terzo Regno, mossa questa che Heidegger ben conosceva da Heinrich Rickert. Per
inciso, nel 1911 ebbe luogo anche uno scambio epistolare fra Rickert e Frege,
purtroppo andato perduto. Possiamo solo congetturare che Rickert in quell‟occasione
inviasse a Frege un estratto del suo articolo su “Das Eine, die Einheit und die Eins”,
apparso sulla rivista “Logos” nello stesso anno.
Ad ogni modo, l‟idea sostenuta da Frege nella Prima Ricerca Logica che un fatto altro
non sia che una proposizione vera (e non: ciò che corrisponde a una proposizione vera)
sembra, in parte, andare nella direzione di una teoria dell‟identità cui anche Heidegger
sembra orientarsi. Se non che, il portatore degli ambito titoli “vero” e “falso” per Frege
resta il pensiero, non il fatto, e i pensieri, come sappiamo, sono entità astratte desumibili
da (ma non riducibili a) dagli enunciati costruibili in una lingua in base al senso delle
parole componenti. E del resto per Frege la parola “vero” è solo dal punto di vista
grammaticale un predicato, alla stregua di “dispari” o “longevo”. E‟ la forza assertoria di
cui investiamo le nostre parole che accenna all‟essenza della logica, che per Frege è
indissolubilmente connessa con il concetto di verità. Ma di questo mi sono occupata
ampiamente altrove (Picardi 1994) e non starò qui a riprendere i termini della questione.
Ovviamente Heidegger non può concordare con Frege circa l‟esilio dei pensieri nel terzo
regno, per le stesse ragioni per cui non condivide le idee di Husserl sull‟idealità dei
significati e sul progetto dell‟ontologia formale e delle ontologie regionali. Ora, anche
chi non condivida i dettagli o la sostanza dell‟Analitica dell‟esserci, esposta in Sein und
Zeit , non può che salutare con favore il fatto che (anche se non il modo in cui)
Heidegger riporta “a casa” i contenuti di pensiero che Frege aveva esiliato nel Terzo
Regno per garantirne l‟oggettività. Come Dummett (1992) ha messo bene in luce, Frege
e lo Husserl autore delle Logische Untersuchungen, pur fra le tante differenze,
condividono molti convincimenti. Ma il platonismo di Husserl e Frege ignora che i
contenuti di giudizio non sono i contenuti che potremmo scegliere da un immaginario
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inventario di verità e falsità, ottenibili grazie alle proprietà combinatorie di una lingua
(ideale) , ma sono i contenuti pensabili e pensati da esseri umani con particolari
caratteristiche esistenziali e interessi specifici. Si può disquisire a lungo su come,
esattamente, questi elementi esistenziali, storici, culturali, situazionali, contribuiscano a
modellare il contenuto dei nostri pensieri e delle nostre affermazioni. Io credo però che
la critica di Heidegger colga una debolezza della concezione platonista di Frege e
Husserl e il conseguente mistero in cui il concetto di verità, “primitivo e semplice”, si
trova avvolto.
Nella pars construens di Heidegger relativamente al concetto di verità Friedman (2000)
ravvisa una concezione della verità come apprensione “diretta” del modo in cui il mondo
è (un analogo della teoria della percezione diretta che troviamo in Sense and Sensibilia
di Austin in alternativa alla concezione dei sense-data sostenuta da Russell e Ayer).
Rorty vi ha visto una prefigurazione della concezione anti- rappresentazionalista della
conoscenza che presenta tratti in comune con il pragmatismo di Dewey e con la filosofia
del linguaggio di Davidson. Stefano Poggi nel suo recente libro La logica, la mistica, il
nulla. Un’interpretazione del giovane Heidegger , ricostruisce il pensiero di Heidegger
e le sue fonti di ispirazione dal 1914 al 1927, soffermandosi, sul debito di Heidegger
vers Lask, Meinong, Brentano da un lato e l‟apertura al misticismo dall‟altro. Quasi
tutti negli ultimi tempi hanno insistito sulla ripresa innovativa da parte di Heidegger
dell‟impianto aristotelico. Sugli ultimi paragrafi della Prima Sezione di Sein und Zeit e
sul paragrafo 69 della Seconda Sezione si è riversata una enorme mole di lavoro
esegetico, che non ambisco a incrementare. Qui vorrei solo soffermarmi brevemente
sull‟interpretazione pragmatista e su quella costruttivista del pensiero di Heidegger.
Nell‟anti-rappresentazionalismo Rorty identifica il tratto che accomuna tutte le concezioni
pragmatiste dell‟epistemologia, da Peirce a Davidson, e che consiste nel rifiuto di quella che
Dewey ha chiamato la “Spectator View of Knowledge”, l‟idea, cioè, che conoscere consista
nel tentativo di cogliere il modo in cui la realtà è in se stessa, al di là del modo in cui ci
appare. Una caratteristica del pragmatismo di Dewey è il rifiuto della distinzione fra
apparenza e realtà e della teoria della verità come corrispondenza. Davidson, secondo Rorty,
ha fatto per la filosofia del linguaggio quel che Dewey ha fatto per l‟epistemologia. A
Davidson Rorty attribuisce alcune importanti intuizioni, che hanno contribuito a mettere a
fuoco il nesso che sussiste fra le concezioni rappresentazionaliste del contenuto delle nostre
credenze e le discutibili dottrine del relativismo e del riduzionismo (di cui lo scientismo è un
caso particolare). Secondo Rorty l‟asse portante del rappresentazionalismo è l‟adesione alla
concezione della verità come corrispondenza fra parti di mondo e parti di linguaggio. Per
Rorty Heidegger ha avuto il merito di proporre una visione radicalmente anticartesiana del
nostro essere nel mondo e anche per questa ragione egli andrebbe incluso nella grande
famiglia dei pensatori pragmatisti – un club nel quale, com‟è noto, Heidegger non si sarebbe
mai degnato di metter piede.
11
Sarebbe stata interessato Heidegger, nel 1927, a questa idea di ontologia fondamentale
come semantica di una lingua? Nel senso di Carnap, sicuramente no. Ma nel senso di
Davidson, che stando a quel che Rorty ne dice, è l‟acme del pragmatismo americano?
Quel che di ermeneuticamente attraente c‟è in questa idea di sussumere l‟ontologia alla
semantica, e quest‟ultima all‟interpretazione (radicale), è il distacco dal platonismo dei
significati e l‟ammissione che per avere un‟idea di quel che i nostri simili dicono occorre
implicitamente fare appello a una vasta gamma di interessi umani e al fatto che il parlare
presuppone un orizzonte di credenze basilari più o meno condivise sul mondo e su noi
stessi. Tuttavia, l‟idea di temporalità e il progetto di analitica esistenziale dell‟esserci è
in senso stretto estraneo all‟ impostazione metodologica di autori come Davidson e
Putnam.
E in realtà il parallelo fra la fenomenologia esistenziale di Sein und Zeit e il progetto
pragmatista zoppica in più punti, in parte, perché, come ho accennato altrove (Picardi
2001) la centralità che il concetto di Cura (Sorge) svolge nell‟analitica esistenziale non
ha un parallelo in ambito pragmatista e in parte perché la posizione che il concetto di
verità occupa nell‟impianto di Sein und Zeit è ad dir poco ambigua. E del resto, nel
capolavoro del 1927 come lo stesso Heidegger converrà anche in seguito ALLE
critiche di Husserl, l‟Essere rischia di essere offuscato da un gigantismo del Dasein, che
ricorda un po‟ l‟antropologismo contestato da Husserl e dal giovane Heidegger alle
concezioni “psicologistiche” della logica. Non è, io credo, privo di interesse notare
come in Sein und Zeit (§44c: p. 227) Heidegger riprenda criticamente l‟esempio che
dovrebbe mostrare il carattere atemporale e “an sich” del contenuto espresso nelle leggi
di gravitazione di Newton, che come ho mostrato altrove (Picardi 1997) era stata uno dei
punti di contesa fra Husserl e Christoph Sigwart, impiegando di fatto argomenti simili a
quelli addotti da quest‟ultimo. Quel che Heidegger aggiunge al commento di Sigwart (ed
è ovviamente un contributo decisivo dal suo punto di vista) è il carattere a priori e
trascendentale dell‟analitica del Dasein, grazie alla quale dovrebbero venire a cadere le
accuse di antropologismo e relativismo scettico di cui la Logik di Sigwart era stata
tacciata da Husserl nei Prolegomeni alle Logische Untersuchungen. Il giovane
Heidegger nella Lehre vom Urteil im Psychologismus aveva approfondito quelle
critiche esaminando le idee esposte da Heinrich Maier, allievo di Sigwart e curatore
dell‟ultima edizione della Logik.
Dall‟antropologismo al costruttivismo il passo è breve. Carl Friedrich Gethman, prima e
indipendentemente da Rorty, ha visto nel § 44 di Sein und Zeit la prefigurazione di una
concezione costruttivista della logica e strumentalista della scienza. Le osservazioni di
Gethmann prendono lo spunto dalle lezioni tenute da Heidegger a Friburgo nel Winter
Semester del 1926. Fra gli uditori di quelle lezioni vi erano oltre a Gadamer, Krüger e
Löwith anche Kamlah. Il nome (per molti, credo) inatteso è quello di Wilhelm Kamlah,
noto come co-autore, insieme a Paul Lorenzen, del libro Logische Propädeutik.
Vorschule des vernünftlichen Redens. Il nome di Lorenzen è legato, com‟è noto alla
12
“Erlangen Schule”, di cui è stato il fondatore e che nel frattempo a subito numerose
trasformazioni. Ad Erlangen l‟ultimo esponente della scuola, migrata in parte a
Costanza, è il filosofo della matematica e storico della logica Christian Thiel. L‟analisi
proposta d Gethmann nell‟articolo pubblicato nel 1989, intitolato “Heideggers
Wahrheitskonzeption in seiner Marburger Vorlesungen. Zur Forgeschichte von Sein un
Zeit (§44)” contiene l‟interpretazione più accurata a me nota delle idee di Heidegger
nell‟ambito di una concezione costruttivista della logica e del linguaggio. Se questa
difesa sia sufficiente a rintuzzare le obiezioni che Ernst Tugendhat, Der
Wahrheitsbegriff bei Husserl und bei Heidegger e nelle Vorlesungen zur Einführung in
die sprachanalytische Philosophie è difficile dirlo. E questo anche per via dell‟ambito
estremamente circoscritto cui l‟idea di verità come “scoprimento” è applicabile, ossia
quella in cui ricadono enunciati per i quali una demonstratio ad oculos basta a
certificarne la verità – seconda la (a parole) deprecata abitudine di attribuire al modello
della visione il primato nella teoria della conoscenza.
La concezione semantica della verità formulata da Alfred Tarski in una serie di
importanti lavori pubblicati fra il 1933 e il 1935 è quella che informerà gli scritti di
Carnap, Quine e Davidson. In questo senso la difesa di Tugendhat di questo modo di
intendere il concetto di verità tocca un caposaldo, un articolo di fede, direi quasi, di tutta
la filosofia del linguaggio di impostazione analitica, con la notevole eccezione di
Michael Dummett che in tutti i suoi scritti ha problematizzato il concetto di verità
mettendone il luce i controversi legami con la logica classica. Ma, con buona pace di
Gethman, è difficile immaginare un Heidegger che simpatizzi con la logica
costruttivista, o con la logica dialogica ideata da Lorenzen, o con l‟intuizionismo.
L‟intenzione ufficiale di Heidegger è mostrare come l‟idea di verità come
corrispondenza non abbia riscontro nelle dottrine originali di Aristotele, senza con ciò
mettere a rischio l‟idea di adequatio in senso lato. Tarski, com‟è noto, ravvisa nel De
Intepretatione di Aristotele il germe della concezione semantica della verità,
indipendentemente dall‟elusivo concetto di corrispondenza fra enunciati e stati di cose.
La concezione semantica della verità può, secondo Tarski, essere compatibile con le
posizioni filosofiche più disparate. Secondo Heidegger la adequatio va piuttosto
ripensata nel quadro dell‟Analitica dell‟Esserci: si tratta, come al solito in filosofia, non
tanto di un‟ingiunzione a riformare il nostro modo di pensare ma di cogliere meglio la
base più profonda su cui esso poggia.
Insomma, non è facile arruolare Heidegger nelle file dei costruttivisti. O lo si può fare
solo a patto di mettere fra parentesi il legame fra logica e verità. Non a caso, Rorty e
Brandom, che propongono di arruolare Heidegger fra le file dei pragmatisti glissano sul
concetto di verità. Ma questo è, io credo, un concetto su cui nessuno può permettersi di
glissare se davvero vuol fare filosofia. Quel che a me pare interessante e
(pragmatisticamente e/o costruttivisticamente) condivisibile nell‟impostazione di
Heidegger è la ripulsa del platonismo e della formulazione tradizionale del problema
della verità come corrispondenza fra due “presenze”. Purtroppo però l‟idea che il nostro
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accesso agli enti sia improntato al carattere di strumentalità e fungibità come “arnesi”
(Zeuge) presenta non poche tensioni. Anzi, io credo che sia insostenibile per svariati
motivi, fra cui, ad esempio, i seguenti.
Non sarà sfuggito ad alcuni che oggi in ambiente informatico la parola “ontologia” ha
acquistato un‟accezione diversa, quasi ingegneristica, che forse sarebbe andata a genio
anche a Carnap. In questa nuova accezione per “ontologia” si intende in realtà la ricerca
di concetti idonei per rappresentare il modo in cui gli umani concettualizzano a fini
pratici un particolare dominio di oggetti. La via d‟accesso all‟ontologia oggi non passa
più (soltanto o principalmente) attraverso la struttura logico-semantica del linguaggio
(l‟ontologia come semantica, tipica della svolta linguistica, cui abbiamo accennato
sopra). Lo spirito in cui i cultori contemporanei della disciplina lavorano presenta
affinità con il modo Husserl nelle Logische Untersuchungen concepisce l‟ontologia
formale e le ontologie regionali. In tempi di rampante naturalismo e di tentativi di
accostarsi al mondo che ci circonda nel modo più diretto possibile (riducendo, cioè, al
minimo la mediazione linguistica e amplificando al massimo la dimensione ecologico-
percettiva) vi è un rinnovato interesse per le indagini condotte da Husserl sul momento
pre-categoriale della cognizione. L‟interesse per questo genere di ricerche è in parte
motivato da quella che nel gergo della Intelligenza Artificiale si chiama la
“rappresentazione della conoscenza”, cioè la costruzioni di programmi atti a simulare
l‟intelligenza umana al fine di ottimizzare l‟utilizzo di banche di dati relativi a un certo
dominio (dal traffico urbano alle cartelle cliniche). Evidentemente chi voglia costruire
un programma sul modo in cui gli umani concettualizzano lo spazio geografico per
recarsi da A a B, troverà assai poco utile un‟ontologia di quanti e superstringhe. I
costruttori di programmi sono interessati al così detto mondo del senso comune e
possono eventualmente trarre ispirazione dalle idee di Husserl sull‟ontologia formale (la
teoria delle parti e del tutto) e sulle strutture categoriali proprie di un certo ambito di
enti.
Ora, supponiamo che un costruttore di programmi, convinto che l‟Analitica dell‟esserci
di Heidegger colga la struttura a priori del modo in cui ci rapportiamo al mondo,
volesse fornire una simulazione la più “antropologicamente” fedele possibile. Che cosa
dovrebbe fare per incorporare la Grundstruktur der Sorge e la struttura della temporalità
in questa rappresentazione? Forse dovrebbe dotare gli umani di stati emotivi del tipo
giusto (paura, colpa, stupore, angoscia, risolutezza) e delle manifestazioni corporee
appropriate. Dovrebbe mostrare lo sconcerto e l‟angoscia che i rari momenti di
autenticità imprimono sul loro volto e nei loro gesti. Ma dovrebbe anche rappresentarli
abilissimi sia nell‟utilizzare strumenti, sia nell‟occultare ciò che fanno attraverso
l‟impiego di un linguaggio oggettivista quando si recano nei laboratori e fanno attività
scientifica. Non voglio annoiare il lettore con queste fantasie, che ad alcuni possono
sembrare irriverenti, eccetto che per sottoporre alla sua attenzione una tensione presente
in Sein und Zeit, resa più esplicita dalle interpretazioni pragmatiste e costruttiviste del
pensiero di Heidegger proposte da Gethmann e da Rorty. Il costruttore di programmi che
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simula il comportamento degli umani si troverebbe qui di fronte a un imbarazzante
problema di “plausibilità psicologica”. Se la lettura pragmatista/costruttivista coglie in
parte l‟intenzione di Heidegger, si dovrebbe anche convenire che una volta che gli
umani (il generico “man”) prendano atto di avere una teoria reificante del mondo, che
scambiano per Vorhanden ciò che in realtà è Zuhanden, dispongono di varie opzioni.
Che cosa possono fare una volta che abbiamo preso coscienza di questo fatto? Sappiamo
che per Heidegger non possono fare la rivoluzione, imboccare la strada
dell‟emancipazione e dell‟utopia; o meglio, possono farlo, ma non guadagnerebbero in
autenticità. E del resto, anche la strada additata da Hegel è sbarrata. Presumibilmente
gli umani seguiranno il suggerimento di Rorty e adotteranno una concezione baconiana
del sapere, per cui sapere è potere (e non ricerca disinteressata della verità) e si
dedicheranno al dominio della natura e degli altri uomini. Insomma, se l‟interpretazione
pragmatista-costruttivista è corretta, l‟uomo tecnologico è inscritto fin dall‟inizio
nell‟Analitica del Dasein. Basta solo che decida risolutamente di diventare quel che è.
Costruttivismo, pragmatismo, progresso scientifico e tecnologico sono perfettamente in
armonia fra loro e con le premesse e promesse dell‟Illuminismo. E del resto Faust,
accecato da Sorge (o proprio perché accecato da Sorge, diranno alcuni) in punto di
morte intona l‟inno al progresso della scienza e della tecnica più toccante che sia mai
stato scritto. Per lo meno, questa è l‟interpretazione che ne ho dato altrove (Picardi
2001). E‟ al pensiero anticipante di come la costruzione della diga renderà più sicura la
vita della popolazione interessata, che Faust è quasi tentato di dire all‟attimo: Fermati!
Perché mai l‟uomo di cui ci parla Heidegger in Sein und Zeit quando si trova alle prese
con Sorge e col suo tetro corteggio dovrebbe comportarsi in modo diverso da Faust?
Perché mai dovrebbe trovare l‟autenticità di fronte all‟anticipazione della morte e della
sua propria nullità anziché di fronte al compimento della sua vocazione di costruttore di
strumenti? Detto ancora più crudamente: perché messo di fronte ai suoi due destini,
quello di costruttore sempre più raffinato di strumenti e quello di asceta, ancorché
risoluto, deve optare per il secondo? E questa domanda, a sua volta, fa venire il sospetto
che l‟Analitica dell‟esserci, lungi dall‟identificare le condizioni a priori dell‟esperienza
umana, sia un‟immagine parziale e artificialmente limitata del nostro modo di essere nel
mondo. Torniamo sul terreno scabro! L‟assenza di attrito in filosofia può avere effetti
letali.
Per tutte queste ragioni viene il sospetto l‟interpretazione “costruttivista” e
“pragmatista” del concetto di verità che Heidegger discutte nei paragrafi 44 e 69 di Sein
und Zeit non sia quella giusta. O forse c‟è una profonda tensione nell‟impianto stesso di
Sein und Zeit, che verrà messa a fuoco negli scritti successivi di Heidegger sulla tecnica.
Ad ogni modo, comunque lo si consideri, indipendentemente dalla interpretazione
costruttivista, pragmatista o semplicemente in chiave aristotelico/pratica, il concetto di
verità illustrato in Sein und Zeit Heidegger è a dir poco ambiguo. E quando dico questo
non alludo alla nozione di verità come scoprimento, nozione che senza sforzo ci pare di
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capire quando la applichiamo a esempi semplicissimi come “Il martello è troppo
pesante” o “La neve è bianca”, ma che ha il fiato corto quando pensiamo a contenuti di
pensiero complessi e remoti dalla dimensione percettiva. Mentre l‟esempio reso celebre
da Tarski enfatizza il carattere obiettivo dello stato di cose descritto dall‟enunciato,
l‟esempio del martello scelto da Heidegger esibisce una spiccata sensibilità contestuale.
I martelli, a differenza della neve, sono nostri artefatti e la valutazione della loro
pesantezza è generalmente relativa all‟utente del martello, all‟impiego che se ne intende
fare in una circostanza specifica, al paragone con altri utensili, ecc. E nondimeno, dal
punto di vista della metafisica tradizionale, la bianchezza in senso fenomenico è una
qualità secondaria COLLEGATA alla quantità di luce riflessa e assorbita da un
certo volume di molecole del familiare composto di idrogeno e ossigeno in un
particolare stato di aggregazione Eliminare?), mentre il peso del martello (a differenza
del suo risultare troppo pesante per un bambino o inutilmente pesante per fissare una
puntina da disegno) gli appartiene acontestualmente (modulo, s‟intende, la forza di
gravità), e si offre così allo sguardo dello scienziato, come Heidegger osserva (Sein und
Zeit § 69). Il peso del martello esemplifica meglio della bianchezza della neve
l‟indipendenza del modo di essere degli enti rispetto agli organi di senso e agli interessi
umani. Ma per approfondire questa differenza fra l‟esempio della neve e quello del
martello dovremmo scomodare l‟idea di proprietà intrinseca, contrastarla con quella di
proprietà secondaria, alludere alla distinzione fra proprietà essenziali e proprietà
contingenti, fra concezioni atomistiche e concezioni relazionali degli enti, insomma
rimettere in funzione l‟apparato concettuale proprio della metafisica tradizionale che a
me sembra irrimediabilmente compromesso. Per coloro che insistono sulla differenza
sostanziale fra immagine “naturale” e immagine “scientifica” del mondo questo sviluppo
(o questo regresso, a seconda dei punti di vista) appare inevitabile. La cosa più sensata
da fare è, io credo, convenire che, considerati più da vicino, questi esempi mostrano
l‟inevitabile dipendenza della verità di un asserto sia da come è fatto il mondo sia dal
significato che l‟uso sistematico della lingua ha conferito alle parole che impieghiamo
per formularlo.
Quel che è profondamente antipragmatista nella concezione della verità come
scoprimento tratteggiata in Sein und Zeit è, pace Rorty, la mancanza di socializzazione
della pratica di dire la verità. Il dire la verità è una pratica che apprendiamo attraverso
l‟esempio e l‟imitazione dai membri adulti della nostra comunità, imparando a valutare
che cosa conta come prova a favore o contro quel che è stato detto, quando dobbiamo
ritirare quel che abbiamo affermato e quando invece possiamo continuare a insistere
sulle nostre affermazione e quali conseguenze ne discendano. E‟ dalla pratica del fare
asserzioni che ricaviamo il concetto di verità, non dall‟esercizio di atti di giudizio
evidente secondo il modello tratteggiato da Husserl nella Sesta Ricerca Logica, e
perfezionato da Emil Lask, in cui il momento non proposizionale sembra avere il
sopravvento su quello proposizionale (l‟equivalente, mutatis mutandis, della conoscenza
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di cose (acquaintance) rispetto alla conoscenza di verità di cui parla Russell nei
Problems of Philosophy del 1912). Se la priorità dell‟oggettuale sul proposizionale sia
dovuta a una fedele lettura di Aristotele non saprei dire, e non ha neppure troppa
importanza, se quel che ci interessa capire è il pensiero di Heidegger (anziché quello di
Aristotele). Di certo però si tratta di un movimento di pensiero ambiguo: la familiarità
percettiva esibita dagli oggetti che popolano il mondo ambiente porta Heidegger ad
attribuire la verità (non: il predicato di verità) alle cose. Ma le cose possono contribuire
al massimo a rendere vere le nostre credenze, non sono esse stesse vere o false.
Si obietterà che la concezione della verità che troviamo in Sein und Zeit è più
sfaccettata; forse “verità” è una parola che va riservata ai rari sprazzi di autenticità di cui
gli umani sono capaci. Come Tugendhat (1970) ha osservato, una cosa è l‟aspirazione a
condurre una vita all‟insegna della verità e una cosa completamente diversa è specificare
che genere di proprietà (ammesso e non concesso che di proprietà si tratti) sia la verità
che attribuiamo ai pensieri espressi dai nostri enunciati. Saremmo dunque di fronte a un
impiego equivoco del concetto di verità, inteso ora come autenticità ora come
correttezza delle proposizioni accettate e asserite. Ma il concetto di verità è
eminentemente intersoggettivo, mentre quello di autenticità non è tale. E, ad ogni modo,
sembra arduo condurre una vita all‟insegna della verità intesa come autenticità senza
mostrare alcuna curiosità per la verità (correttezza) delle proposizioni in cui articoliamo
le credenze che abbiamo sul mondo, sui nostri simili e su noi stessi e che dovrebbero
guidare la condotta razionale di soggetti responsabili. Le idee successivamente
sviluppate da Heidegger vanno in una direzione che tende ad ignorare l‟idea di verità
come correttezza: è la parola poetica il luogo privilegiato del dischiudersi del senso e
della verità.
Ma questa è davvero una concezione angusta della verità. Assomiglia piuttosto
all‟esperienza del mistico di cui parla Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus.
Questa esperienza non è passibile di un‟articolazione proposizionale, e neppure ne ha
bisogno. La menzione del mistico rimanda all‟etica, e questo mi dà lo spunto per
richiamare un‟osservazione su Heidegger contenuta nelle minute che Friedrich
Waismann stilò dei colloqui che Wittgenstein ebbe con alcuni esponenti del Circolo di
Vienna, e con Schlick in particolare, la cui edizione è stata curata da Brian McGuinness.
Il brano, piuttosto noto, si trova nella minuta di un colloquio svoltosi il 30 dicembre del
1929 a casa di Schlick:
Posso immaginarmi molto bene quel che Heidegger intende con „essere‟ e
„angoscia‟. L‟uomo ha l‟impulso ad avventarsi contro i limiti del linguaggio.
Pensate allo stupore per il fatto che qualcosa esista. Tale stupore non può venir
espresso sotto forma di domanda e infatti non vi è una risposta. Tutto quel che
potremmo dire può essere a priori solo un non-senso. Eppure ci avventiamo contro
il limite del linguaggio (in nota: Il sentimento mistico è sentire il mondo come un
tutto limitato. “Non mi può succedere nulla”, cioè: qualunque cosa succeda, per
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me non ha alcun significato) Anche Kierkegaard ha visto questo urto e lo ha
perfino designato con un termine simile, come urto contro il paradosso. Questo
avventarsi contro i limiti del linguaggio è l’etica. E‟ molto importante, secondo
me, porre fine a tutte le chiacchiere sull‟etica, se vi siano valori, se vi sia una
conoscenza, se si possa definire il bene, ecc. (Wittgenstein 1975: pp. 55-6)
L‟orizzonte di idee cui questa osservazione rimanda è ancora quello del Tractatus.
Sull‟indicibilità in forma proposizionale dell‟etica (nel senso di Kant, Schlick o G.E.
Moore) Wittgenstein non cambiò mai idea, anche se nella celebre conferenza sull‟etica,
tenuta nello stesso anno, in cui si trovano ampliati pensieri simili a quelli sopra riportati,
la nozione di nonsenso è per forza di cose diversa da quella impiegata nel Tractatus,
essendo venuti meno i criteri per indicare i limiti del dicibile. Sul linguaggio e sul posto
spettante alla logica nella filosofia Wittgenstein cambiò invece radicalmente idea. E
infatti dopo il 1929 non cercherà più di tracciare il confine fra dicibile e indicibile con
riferimento alla logica e alla capacità delle proposizioni munite di senso di descrivere
fatti, pur continuando a ravvisare nella tendenza a trattare alla stessa stregua
proposizioni empiriche e proposizioni grammaticali una delle principali fonti di
confusione in filosofia. Nelle Ricerche filosofiche le forme di vita con cui si intrecciano
i vari giochi linguistici non sono trattate all‟insegna di un‟analitica del Dasein informata
dalla Grundstruktur der Sorge. La nozione di forma di vita allude all‟insieme variegato e
complesso delle attività in cui la vita degli esseri umani si svolge e nel cui contesto le
parole prodotte acquistano senso e significato.
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