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PROPRIETÀ LETTERARIA E ARTISTICA RISERVATACopyright © 2008
Ciascun autore per il contenuto delle proprie operewww.isogninelcassetto.it per l’editing online no profit
info: redazione@isogninelcassetto.itI edizione in e-book ISNC-003PAB: novembre 2008
Questo e-book (autorizzato dagli autori) è gratuito e si scarica dal sito.Questo non significa però che è del tutto libero: il download èconsentito tramite una licenza CREATIVE COMMONS che completa ildiritto d’autore, permettendo ai lettori di copiare, distribuire eriutilizzare l’opera (totalmente o in parte) a patto di citare sempre ecomunque il nome dell’autore originario, l’indirizzo del sito originarioe di non utilizzarla per scopi commerciali.
Gli autori finalisti
Racconto 1° classificatoTHOMAS SERGNESE
Racconto 2° classificatoGIANLUCA BELLASSAI
Racconto 3° classificatoFRANCESCO TROCCOLI
Racconti selezionatiLuciano CariniLeonardo ColombiDarkoGianni FassinaAlessandro MasciaMatteo OlivieroStefano Santarsiere
PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA
Copyright © 2006 Ciascun autore per il contenuto delle proprie opereCopyright © 2006 www.isogninelcassetto.itEditing on line no profitinfo: redazione@isogninelcassetto.itI edizione in e-book, dicembre 2006
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Proprietà letteraria riservataE’ vietato qualsiasi utilizzo per scopi commerciali
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Racconto selezionato
Storia di un bimbo e di una volta[ THOMAS SERGNESE ]
era una volta, una Volta.
La stessa Volta che c’era nelle storie, e anche
stavolta, c’era. E ogni bimbo si dimenticava di ricordare che
senza quella Volta la storia non ci sarebbe mai stata.
Ma un giorno qualcuno si dimenticò persino di scriverla per
andare di fretta, per premura di narrare la vicenda, reputando la
Volta, una parola inetta.
Quel giorno i bimbi prima di andare a dormire ascoltarono
le gesta di principi e le bimbe ammirarono la bellezza delle
giovani vergini; ma nessuno si arrabbiò per la mancanza della
triste e sconsolata Volta, che sedeva mesta tra una storia e l’altra,
storie nelle quali era sempre presente, bella e giovane.
Allora un bimbo giunse da lei, non era bello né dolce, non
era neanche veramente un bimbo, era come la Volta: non voleva
C’
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essere, ma solo solcare le bianche pagine con la sua presenza, far
leggere ad altri bimbi le gesta di audaci guerrieri e di malinconici
amori.
“Perchè piangi Volta?” chiese lo scrittore, e lei: “Piango
perchè non servo, C’era mi ha lasciata sola!” rispose. Dunque il
bimbo le asciugò le lacrime e rise di gusto, quasi gli scoppiò la
pancia.
“Ma tu Volta esisti, sei tu che c’eri, e tu hai visto mondi di
fantasia e hai cavalcato destrieri insieme a nobili fanciulli, hai
amato Giulietta e sposato il Principe Azzurro, teso la mano a
Wendy e impugnato la bacchetta di Merlino, tu sei la storia, e
C’era chi è? Tu sei la mia Luce, tu sei ciò che non dà senso alle
mie storie, che permette di sognare...”.
E Volta singhiozzando: “C’era era la mia storia, C’era dava
forma agli occhi di Merlino, C’era donava tepore alle guance di
Giulietta, C’era era la fede che il Principe Azzurro portava,
C’era era... e... C’era...”.
Improvvisamente Volta comprese tutto. Il sorriso dello
scrittore si faceva sempre più bello e solare, tanto che i suoi
occhi, se fissati intensamente, le facevano notare quanto fosse
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bella e siderale e quanto i pianeti e le stelle impallidissero alla
Luce della sua sostanza.
“Che grande specchio” pensò “gli occhi della fantasia...”.
D’un tratto Volta notò il sorriso dello scrittore e capì, come
non aveva mai fatto prima d’ora, e chiuse finalmente gli occhi
che si era disegnata per non vedere bene.
Quella volta c’era una Volta, ma non c’era C’era. C’erano
solo il bimbo e la Volta, ma non la brutta Materia che, sconfitta e
sconsolata, si sfogò con C’era, che solo e malato, lasciava il
mondo della Realtà che lo aveva imprigionato, allo scopo di
ridurre in limitata copia umana il Cosmo.
C’era moriva sulla Terra per trovare finalmente riposo.
Scampato al terribile abisso della razionalità, volava verso il
mondo dell’irrealtà nel quale Volta era la regina e re era Verità.
Lo scrittore salutò con i suoi grandi occhi da bimbo e il
cuore pieno di felicità, osservando Volta e Verità sorridere
trionfanti sul firmamento.
Il bimbo si sedette su di un grande prato e immaginò mille
altre storie, quelle storie che cadono dal Cielo, quelle imprese
fatte di latte di stelle e polvere di Irrealtà...
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Apri il suo libricino, sfilò la penna dalla tasca e scrisse il
suo esordio: “C’era una Volta. Ed era felice”.
2008 THOMAS SERGNESEthomas_sergnese@hotmail.it
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Racconto selezionato
La scalata[ GIANLUCA BELLASSAI ]
llora siamo d’accordo?»
L’uomo dagli occhi azzurri continua a fissarmi con
quell’aria di chi sa di avere il coltello dalla parte del manico.
Sono seduto su una sedia scomoda e sto vendendo la mia ultima
proprietà.
Ci sono stati dei momenti in cui sono stato uno dei più
importanti immobiliaristi del nostro Paese. I giornali avevano
cominciato a parlare di me e le belle donne dello show-biz si
strappavano i capelli per un mio invito a cena.
La scalata di Padovan era diventata famosa in tutta Europa.
Sull’Economist mi avevano perfino dedicato mezza paginetta.
Dentro di me, ero certo che prima o poi sarei finito, col mio bel
faccione grassottello, dritto-dritto in copertina.
«A
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Quando cominciai, tempo addietro, ero partito con un
monolocale e un bilocale. Poi mi entusiasmai nella
compravendita d’immobili. Ricordo ancora il mio primo affare:
vendetti una delle due casette e ne comprai un’altra, grande il
triplo, ma situata in uno dei quartieri fetidi della città. Fortuna
volle, che nel giro di poco, il comune fece un piano di
riqualificazione della zona e la mia proprietà assunse un valore
spropositato. Misi in saccoccia qualcosa come duecentomila euro
di guadagno. E allora, più o meno con la stessa logica, comprai
un altro appartamento, poi un altro ancora, e ancora, e ancora.
Fino ad accumularne un buon numero. Comprai anche un
alberghetto a Milano. E quello rendeva da paura, ve l’assicuro.
Mi feci pure un socio, la dottoressa Morante, perché da solo non
ce la facevo più a stare dietro a tutto quanto. Socio di minoranza
s’intende. Mi divertivo a fare quel lavoro. Non facevo niente
tutto il giorno, eccetto qualche telefonata qua e là. Bisognava
solo saperci fare, e avere fiuto, e io ne avevo eccome.
Poi le cose presero una piega imprevista. Mi chiamò la
banca e mi fece notare un’irregolarità nel pagamento del mio
ultimo acquisto. Giuro che ero assolutamente in buona fede, non
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era mia intenzione combinare quella minchiata. Uno come me
non si sarebbe infangato per una miseria tale. Fatto sta, che da
quel giorno in poi, le fiamme gialle presero a starmi alle costole.
Ricordo ancora quel controllo a sorpresa che segnò l’inizio
della fine. Frugarono in tutte le mie scartoffie. “Falso in bilancio”
dichiararono alla fine. E mi sbatterono in prigione. Tuttora sono
certo che la colpa fu solo ed unicamente della dottoressa
Morante, tant’è, che con un colpo di coda, prelevò la sua quota e
se ne scappò via chissà in quale angolo sperduto del pianeta.
Quando uscii di galera avevo i conti a puttane, avvocati da
pagare, denuncie e reclami a non finire. E allora cominciai a
vendere, vendere, vendere. E vidi apparire, come bestie sulle
carogne, i maledetti Avvoltoi. Sono furbi gli Avvoltoi: non fanno
un’offerta quando sei messo male, te la fanno quando sei proprio
nella merda. E allora ti offrono degli spiccioli per immobili che
valgono una fortuna. E tu devi acconsentire per forza al loro
gioco, perché hai un fracco di debiti a breve scadenza. Un
po’come quando Cecchi Gori fece fallire la Fiorentina e fu
costretto a vendere Batistuta per due lire.
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Devo ammettere che ho avuto una probabilità di riscatto ad
un certo punto. Una piccola botta di culo. Un lontano parente che
tira le cuoia e mi lascia una piccola eredità. Non molto a dire il
vero, però poteva essere una buona chance per ripartire. Ma era
chiaro che ormai la dea bendata non stesse più dalla mia parte. Li
investo immediatamente, mi ributto a capofitto nell’unica cosa
che sono stato capace di fare nella mia vita: acquisto un piccolo
rudere. Tempo due giorni e qualche bastardo di creditore gli dà
fuoco, l’assicurazione non crede alla mia versione dei fatti e
finisco di nuovo dentro.
Sconto la pena, ed eccomi qua, da dove abbiamo
cominciato. Eccomi qua dinanzi all’Avvoltoio dagli occhi
azzurri. Si aggiusta i capelli con la mano destra e poi mi fa”
«È sempre un piacere fare affari con lei, ingegner Padovan»
È finito. È tutto finito. Non ho più niente di niente…
«Maaaaa! Abbiamo perso di nuovo!»
Chissà se la mamma mi ha sentito con quel casino che fa il
forno acceso.
«Su, vai a lavarti le mani che mi sa che è pronto» dice lui.
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Quell’avvoltoio di mio padre ci ha fregati un’altra volta. È
sempre stato il migliore a Monopoli. Prendo il mio funghetto
segnaposto, gli do un bacetto e lo rassicuro: “Dai che la prossima
volta lo battiamo, promesso. Io, te e lo zio Antonio. Lui sì che è
forte, non come quella schiappa della mamma”.
2008 GIANLUCA BELLASSAIgianluca.bellassai@gmail.com
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Racconto selezionato
Per amore[ FRANCESCO TROCCOLI ]
on avrei mai pensato che sarei stato felice di entrare in
una Chiesa. Eppure quel giorno lo ero, e molto. Sono
sempre stato un ateo impenitente, e se fosse stato per me Helene
non avrebbe dovuto sposarsi in Chiesa. Fosse stato per me
Helene non avrebbe dovuto sposarsi affatto. Ma non era da me
che poteva dipendere quella scelta.
Lasciando da parte il mio pensiero sull’argomento, devo
riconoscere che fu proprio una bella giornata. Una splendida
giornata di sole nel cuore delle alpi, lassù, a milleduecento metri;
era lì che si trovava la piccola cappella degli alpini che lei aveva
voluto. Gli invitati mormoravano che lui aveva accettato con
gioia tutte le scelte che lei aveva fatto riguardo quella giornata.
Non ho alcuna difficoltà a capirlo. Anch’io al posto suo l’avrei
N
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lasciata fare.
Helene è sempre stata così. Persino quando era in difficoltà
enormi; difficoltà che spero che ora lei non ricordi neppure nei
suoi peggiori incubi. Voleva sempre decidere in prima persona;
non lasciava mai che qualcun altro lo facesse al posto suo,
nemmeno se era convinta che fosse per il suo bene.
L’avevo conosciuta molti anni prima. Era difficile dire
esattamente quanti, e lo è tuttora. L’avevo amata, e forse quel
giorno la amavo ancora. Ma chi voglio prendere in giro… la amo
ancora oggi.
L’aria era ferma, il sole era caldo, e l’odore dell’erba fresca
e dei fiori dei monti mi stordiva, tanto era forte. Sono abituato
all’odore acre del solfuro, a quello pungente dell’ipoclorito, a
quello dolce del permanganato, io; per me il puzzo del gas dei
becchi buntsen usati per scaldare le provette è stato un compagno
di gioventù. Sono sempre stato un animale da laboratorio, e per
fortuna, dico oggi; poi a lei questa mia vocazione era sempre
piaciuta, tutto sommato.
L’altro topo da laboratorio, mi chiamava sempre.
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Tutt’intorno, il vociare diffuso dei pochi invitati si
confondeva con il ronzio delle vespe; a tratti, le campane del
vicino pascolo delle vacche facevano il solo rumore che
interrompeva quella monotona, dolce e soporifera sinfonia. Avrei
potuto addormentarmi sereno, disteso sul prato fiorito.
Ma quella giornata, per il Dio di Helene, non l’avrei mai
persa per nulla al mondo.
La cerimonia era già finita, in realtà; c’era stato anche il
lancio del riso, e lei ora stava girando fra gli invitati, per i saluti,
gli auguri, i sorrisi.
La vidi camminare. La vidi correre. La vidi persino
saltellare come una bimba verso il vecchio zio che tanto amava,
da sempre.
Quando mi vide, feci in tempo a strofinarmi e asciugare le
lacrime sotto i provvidenziali occhiali scuri. Si avvicinò a me,
titubante, indecisa. Continuava a fissarmi, e conoscendola sapevo
benissimo quanto si stava sforzando di ricordare, per arrivare da
me con un nome e un saluto pronti fra le labbra. Per un attimo
pensai che mi avesse riconosciuto. Sarò sincero, lo sperai. In
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fondo non ci sarebbe stato nulla di male.
Naturalmente non fu così.
- Buongiorno. - dissi io per primo per rompere il ghiaccio.
Aveva i capelli corti, come se in quella nuova vita avesse
deciso di trasformare anche il suo aspetto. Era ancora più bella di
come la ricordavo, e non poteva che essere così.
- Buongiorno… - ricambiò.
- Io sono Jean. Jean Blisset.
Avevo mentito, ma solo in parte. Non so perché, ma non ce
la feci a presentarmi con il mio vero nome. Quel giorno non
potevo permettermi di essere me stesso. Altrimenti avrei rischiato
di provarci gusto, e avrei potuto rovinare tutto.
- Allora lei è…
- Sono il fratello di Antoine.
- E dov’è lui? Antoine… è qui?
- Purtroppo Antoine non è potuto essere presente. Si trova
all’estero per un appuntamento di lavoro. Non poteva mancare;
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mi ha mandato personalmente, per farsi perdonare.
Sorrise.
- Antoine non ha proprio nulla da farsi perdonare da me.
Mai.
- So che è stato molto importante nella sua vita.
- Antoine me l’ha salvata, la vita. Avevo solo quattro anni.
Se quel giorno lui non fosse stato lì a prendermi e strapparmi via
all’improvviso, io sarei stata investita da quel pirata. E ora sarei
morta.
No, non saresti morta, piccola mia. Sarebbe stato peggio,
molto peggio.
- Sa - aggiunse - è il ricordo più lontano che ho dentro di
me. Il primo ricordo, forse, dalla mia nascita. Sento ancora le sue
braccia calde che mi stringevano. Lui è il mio eroe. L’unico vero
eroe della mia vita.
Arrossì.
- Sono venti anni che non lo vedo - aggiunse - Lei gli
somiglia tanto, sa?
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Sentivo che la piccola che avevo salvato quel giorno si era
davvero innamorata. Non poteva che essere così. Peccato che in
quella vita io avessi trentaquattro anni più di lei.
Ora aveva un uomo. Era giusto, era bello così. Lui era uno a
posto. E io fui ancora più pieno di lei, dei miei ricordi, dei nostri
momenti infiniti a guardare le stelle sui monti.
Io avevo faticato ad adattarmi, all’inizio. Avevo faticato
immensamente. Ero arrivato laggiù solo un paio di giorni prima
dell’incidente, appena in tempo per iniziare il viaggio con cui
raggiunsi il posto preciso, per intervenire all’ora giusta.
L’avevo vista sulla curva, all’alba, e mi ero lanciato verso di
lei. Sapevo chi guidava quell’auto. Ma questa volta non sarebbe
stato importante che lo prendessero.
Mi bastava che lei si fosse salvata.
Helene non sarebbe finita su una maledetta pietosa sedia a
rotelle per il resto della sua vita.
Per inciso, non mi avrebbe nemmeno mai conosciuto, non ci
saremmo mai innamorati, non avremmo vissuto insieme. E, ora
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lo so per certo, io non avrei mai conosciuto il mio compagno di
stanza all’università, Didier, il mio complice in questa pazzia; il
topo da laboratorio, come lo chiamava lei, l’amico comune che
ci aveva fatti incontrare.
La lasciai il giorno prima della partenza. Pensavo che così
sarebbe stato più facile, anche per lei.
Facemmo l’amore quella sera, e poi le lasciai un biglietto; le
spiegavo quanto l’amavo, ma anche che era finita. Diedi la colpa
ai miei studi, alla mia carriera all’università.
Era l’unico modo in cui potevo farlo; non avrei mai potuto
dirle dove andavo, né perché. Mi avrebbe considerato pazzo, o
peggio ancora, mi avrebbe creduto e sarebbe forse anche riuscita
a fermarmi. No, l’unica maniera fu lasciarla, con amore, ma
senza dubbi. Sperai che avrebbe tentato di odiarmi, e temetti che
non ci sarebbe mai riuscita.
Si stava alzando il vento.
La voce di Helene, lassù in montagna, mi risvegliò da
questo turbinare di ricordi.
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- Si sente bene? - mi domandò.
- Certo. Mai stato meglio di oggi, mi creda. E’ stato davvero
bello conoscerla.
Chiacchierando, avevamo passeggiato per alcune centinaia
di metri verso valle. Eravamo lontani dagli sguardi degli altri e
mi salutò con un bacio sulle labbra. Rimasi sorpreso, ma da parte
sua fu un atto spontaneo e naturale; per me invece fu travolgente,
quasi come un altro balzo nel tempo.
- Porti il mio bacio ad Antoine - sussurrò.
Poi, senza guardarla, mi girai e iniziai a scendere.
Annegai nelle lacrime.
Ora, mi rimane l’unica parte divertente di tutta questa
assurda storia.
Chissà se Didier mi crederà, quando domani gli dirò che il
suo esperimento è riuscito. Mi riconoscerà, così invecchiato?
Penserà ch’io sia un impostore? Chiamerà la polizia? Non sarà
facile convincerlo che la sua macchina assurda ha funzionato.
Chissà se anche in questa vita Didier sta provando a
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realizzare il suo sogno; chissà se sta cercando qualcuno da
spedire indietro nel tempo, come ha fatto con me.
Un pazzo, che pur sapendo che non c’è ritorno, si offra
volontario.
Magari, per amore.
2008 FRANCESCO TROCCOLIfrancesco.troccoli@fastwebnet.it
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Racconto selezionato
Nepenthes[ LUCIANO CARINI ]
utta colpa di quell'opprimente senso di solitudine.
O del calendario che scandiva impietosamente quanto
mancava al mio trentottesimo compleanno. Da passare sola,
ancora una volta. Oppure no – siamo onesti! – tutta colpa mia,
del mio carattere volitivo, del mio eccesso di amore per la vita.
Soprattutto per le incognite che la vita cela. Della mia incapacità
di creare un vero legame, un legame, come sento spesso dire,
stabile.
Forse la colpa stava in tutto ciò... e anche in un bicchiere di
troppo.
Eppure io non avevo fatto nulla più che le solite cose.
Il solito appuntamento con le amiche dell'ufficio – quelle come
me, non sposate – il solito giro dei bar alla moda, i soliti aperitivi
T
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alcolici con cui darsi la carica – per cosa poi? – il solito tirare
fino a tarda notte come ventenni alla scoperta del mondo. False
ventenni alla scoperta di un mondo ormai già bello e scoperto.
Nei suoi lati affascinanti. Nei suoi lati deludenti.
Però... però, se l'atmosfera è quella giusta, se accade quel
qualcosa di misterioso, se io mi sento al centro... il mio
pessimismo di fondo fa in fretta a sotterrarsi ancora più giù e
sparire. E quella sera tutte e tre le combinazioni si realizzarono.
Occhi. Occhi che mi fissavano. Come non mi accadeva da
tempo. Non gli occhi vogliosi di chi vuol trasmette tutto il suo
testosterone. Non gli occhi indecisi di chi non sa scegliere la
donna con cui provarci. Occhi intensi che parlavano una lingua
dimenticata. Romantica, avvolgente, vellutata. Mi sentivo
osservata, per questo mi accorsi di chi sedeva in fondo al
bancone. Oh mio Dio! esclamai dentro di me. Mi. Sentivo.
Osservata! La cosa più bella che può capitare a una donna.
Soprattutto se sta passando un momento – lungo – di grande
insicurezza.
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Non ne feci parola, c'era tutto da vantarsene e nulla da
scherzarci su. Le mie amiche ci avrebbero scherzato su. Mi alzai
e raggiunsi la porta del bagno, esattamente a fianco dello
sconosciuto. E mi tremarono le gambe. Bello. Di una bellezza
strana, non certo virile, più simile a uno di quegli efebi modelli
da passerelle di gran lusso. Quei bellocci né carne né pesce, li
avevo sempre definiti. Ma quel ragazzo era proprio bello e, se
non era né carne né pesce, beh... potevo diventare vegetariana io.
Giovane. Troppo giovane. Avanti, dillo! Abbi coraggio!
Troppo giovane per una stagionata come te! Va bene, non sono
una tardona, ma al suo confronto, rapportando i miei prossimi
trentotto anni ai suoi... diciotto?... venti?... c'era una intera
adolescenza di mezzo. E le mie gambe, belle, ben fatte,
accuratamente avvolte in costose autoreggenti, tremavano. Per il
suo sguardo profondo, ogni istante più profondo. Per la paura che
mi rivolgesse parola.
Mi rassettai davanti allo specchio, urinai per togliermi di
dentro il frastuono degli alcoli, e uscii. E fu come andare a
sbattere contro un muro a centottanta all'ora. Era sempre lì, mi
fissava, in profondità, ancor più di prima se mai fosse stato
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possibile. Nella sua mano appariva un secondo bicchiere. Che mi
porse. Mentre mi chiedeva se volevo sedermi di fianco a lui. Ma
non erano parole sfrontate, approcci maschi ma ben poco galanti
che ormai ero costretta a sentire e rifiutare non così spesso come
avrei desiderato. Erano sussurri di dolcezza e remissione. Gesti
decisi ma mozziconi di parole insicure. E quello sguardo che non
accennava a calare di intensità.
Così bevvi il primo cocktail, salutando ogni tanto le amiche
con la mano e godendo segretamente delle loro risate sguaiate.
Ascoltando lunghi silenzi e facendomi accarezzare da quello
sguardo infinito. Poi ne bevvi un altro, perché i silenzi erano
troppi e io non riuscivo a sopportarli. Ero inibita dal guardarlo. I
suoi occhi sempre presenti mi costringevano ad abbassare i miei.
Sentivo il suo profumo, osservavo quelle mani da pianista, con
lunghe dita affusolate. E quando alzavo lo sguardo per rispondere
a una sua rara domanda, incrociavo quegli occhi neri fissi su di
me. Infine ne bevvi un terzo e un quarto e...
...E mi ritrovai in quella camera. Ricordavo solo di essere
cascata all'interno dei suoi occhi e di aver rispettato il suo
silenzio chiudendogli la bocca con la mia. Per poi riaprirgliela
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quel tanto che bastava a far scivolare dentro la lingua. Ricordavo
di avergli chiesto io stessa di portarmi "ovunque". Non ricordavo
come ci fossimo arrivati. Per tutto il tempo gli avevo succhiato il
lobo dell'orecchio e accarezzato il collo con la lingua. E lui aveva
taciuto tutto il tempo, tranne quando diceva il mio nome e
sospirava di eccitazione. E io sospiravo di eccitazione assieme a
lui.
Eravamo lì, in un "nonsodove" ordinato e pulito e molto
chic. Adesso volevo guardarlo bene, adesso mi sentivo più tigre
che gatta, volevo essere certa che tutta quella bellezza era lì per
me. Per me! Lo fissavo e dentro di me continuavo a ripetere "né
carne né pesce, speriamo uova". Ero alticcia e imputai a quello la
sua ritrosia nell'abbracciarmi col corpo e non più con lo sguardo.
Cercai di darmi un contegno, gli snodai la cravatta, gli
scompigliai il lungo ciuffo. Cominciai a slacciargli la camicia.
Mentre lui niente. Stava fermo, titubante. La camicia volò oltre il
letto. Anche il petto non era certo virile, pochi muscoli, anzi, una
specie di seno appena accennato come fosse una ragazzina. Però
era ancora tanto bello da farmi superare quel piccolo
inconveniente. Tutto qui il motivo di tanta ritrosia? mi domandai.
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Per dimostrargli che non ero affatto turbata da ciò, glielo toccai,
glielo baciai. E finalmente lui si mosse.
Ricambiò le mie carezze con altre identiche, i miei baci con
altri identici, mi spogliò e mi portò di fronte al grande specchio a
figura intera. Mi vedevo mentre le sue mani lunghe mi toccavano
ovunque. Lo vedevo mentre poco alla volta si toglieva i suoi
indumenti. Finché non rimase nudo come me.
Esattamente nudo come me... o forse sarebbe meglio dire
nuda come me.
2008 LUCIANO CARINIzibalda@libero.it
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Racconto selezionato
Incidente di percorso[ LEONARDO COLOMBI ]
to correndo sulla spiaggia.
A pieni polmoni respiro l’aria mattutina, l’odore di
salsedine e la sensazione di sabbia appena umida è così piacevole
sotto ai piedi.
L’acqua risplende invitante alla mia sinistra mentre una
brezza leggera sembra tenere sospesi in volo macchie bianche di
gabbiani in un cielo di un azzurro irreale e sconfinato.
Corro a buona andatura: mi sento vivo, libero, leggero.
Nessuna nuvola oscura il cielo dei miei occhi.
Visiera sulla testa, pantaloncini corti, torso e piedi nudi.
L’auricolare del mio lettore mp3 nelle orecchie e molte
impronte sulla sabbia alle mie spalle: il mio passaggio.
Mi sento felice, capace di raggiungere ogni meta.
Il sole si tuffa e risplende attraverso l’acqua salata del mare
che avanza e poi, timida, arretra sul bagnasciuga.
S
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Corro e non voglio fermarmi.
Non lo so nemmeno da quanto sto correndo ma non voglio
smettere. E’ una passione che mi anima, che mi possiede, e della
quale non posso fare a meno.
C’è la vita: la sento.
In ogni movimento della mia corsa c’è tutto me stesso e
l’impegno di chi sogna di vincere ogni gara e un giorno
imprimere il suo nome negli annali dell’atletica leggera. Ce la
farò, ce la posso fare: questo il mio credo.
I Dire Straits mi accompagnano mentre procedo sulla
spiaggia: ora è Sultans of Swing a suonare per me.
Sorrido e continuo a correre mentre mi svuoto di ogni
pensiero unicamente teso alla fisica esperienza che tanto mi fa
sentire forte, vivo, presente nella storia di questo mondo
moderno.
Mi spingerò fino a dove le mie gambe allenate lo
permetteranno.
Delle barche all’orizzonte si muovono lontane dal mondo
degli umani che, impudente, spunta subito al di là degli alberi e
degli hotel al limite della spiaggia. Immobili ci osservano quasi a
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voler rammentare che questa sabbia e questo mare sono solo
fugaci attimi di paradiso, una parentesi prima del ritorno al
quotidiano.
E se le cose stanno così a ben ragione vale la pena di
godersela un poco finché dura questo sole e questo tempo di
vacanza.
Al contrario di me, alcune persone oziano godendosi la pace
del mattino ed il sole che riscalda pelle e sabbia. Innamorati si
coccolano al sole, bambini giocano e corrono e saltano mentre
genitori e nonni parlano o leggono quotidiani e blande riviste di
gossip.
Io invece continuo e non mi fermo.
Sto correndo da parecchio oramai e non lo so verso dove
dirigono le mie gambe, dove conduce questa spiaggia al confine
tra terra e mare.
Ma non importa: voglio solo correre e sfogare tutta l’energia
che ho in corpo, sfinirmi per sentirmi vivo e forte.
Pronto per le gare del mese prossimo.
Vedrete, sarò sul podio!
Ce la farò!
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Ma nonostante l’arroganza dei miei folli sogni di gloria non
nascondo che inizio a stancarmi, a percepire il calore del giorno e
soprattutto lo sforzo della corsa.
Correre è tutto per me ma, ahimè, sono umano anch’io!
Quindi mi fermo a riprender fiato presso una staccionata in
legno che sorge a lato di un camminamento, unico collegamento
tra spiaggia e città.
Mi appoggio un poco, giusto il tempo di riposarmi per poi
ricominciare a muovermi verso casa.
Ho giusto il tempo di alcuni esercizi per i muscoli quando
mi accorgo di una figura snella e sinuosa: si muove lungo il
camminamento che dalla spiaggia si dirige al centro abitato.
Mi viene incontro ancheggiando sensuale.
E’ una ragazza, bella come la vita giunge sino a me.
La pelle abbronzata, i capelli corvini e gli occhi profondi.
Inclina appena il capo di lato mentre mi saluta. Mi osserva
incuriosita accennando ad un sorriso che ricambio istintivamente
ormai perso in balia di quella bellezza ultraterrena.
“Ti piace davvero molto, vero?” mi chiede dolcemente.
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“Cosa?” chiedo di rimando, ancora col fiatone, confuso ed
ignaro del significato di quella domanda.
“Correre” spiega senza distogliere lo sguardo dai miei occhi
inesorabilmente persi nella contemplazione della sua bellezza.
Rispondo sorridendole: “Correre è tutta la mia vita!”
Un sorriso nasce allora sul suo bel volto mentre con una
mano sposta delicatamente una ciocca di capelli scivolata sulla
fronte. Una luce complice negli occhi mentre le sorrido di
rimando. Lentamente muove un passo verso di me…
Finalmente l’ho trovata.
Ed è allora una gioia indescrivibile, profumo di emozioni
profonde, di esperienze preziose che mi fanno sentire vivo!
Sono giorni intensi, sentimenti che mi scuotono, brandelli di
me che cambiano fondendosi con lei.
Tendo una mano ad accarezzarla, ma tutto sbiadisce e si
perde mentre giunge il buio.
***
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Il risveglio nel presente.
Apro gli occhi.
Nuovamente quel soffitto. Lo stesso insipido soffitto che da
qualche giorno continuo a ritrovare al mio risveglio.
Bianco.
Anonimo.
Privo di qualsiasi sostegno a cui appendere i miei sogni e le
mie emozioni, le mie speranze desolate.
L’aria condizionata è già in funzione per mantenere nella
stanza una temperatura ideale. Per il corpo ovviamente, perché il
mio animo ancora non ha pace.
Dalla finestra velata da tende chiare penetrano temerari
raggi di un sole di mezza mattinata. Fuori c’è la vita, un mondo
ancora in movimento.
Io invece, nonostante il prolungato riposo, mi sento ancora
stanco, esausto…
Porto il braccio sinistro sopra il viso, appoggiandolo sopra
gli occhi.
Con la destra invece la cerco. Invano.
Non c’è più… ma ancora non lo accetto… non ci riesco…
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Soffoco le lacrime ed il mio dolore: stringo forte le palpebre
quasi a voler assorbire quelle gocce d’acqua salata che dai miei
occhi sgorgano tristemente.
Una smorfia sul volto. Fa male dentro, una sofferenza atroce
che mi dilania l’anima.
Nessuno può capire… nessuno sa quanto dolore…
Non c’è più: devo solo accettarlo…
Me l’hanno già detto “ci vuole tempo” …ma io ancora non
ci riesco…
Non è facile, non lo capite?
Non è facile per niente, dannazione!
Stringo il lenzuolo bianco mentre la rabbia, puntuale come
sempre, torna a visitarmi nel mio letto di dolore.
Non mi serve. Arrabbiarmi non serve a nulla: lo so bene.
Non si può tornare indietro, non si può cambiare ciò che è
stato.
Piango.
Come ogni mattina piango perché non sarò mai più quello
che ero…
Devo solo accettarlo…
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Mai più…
Non resta più nulla di quello che ero prima…
In pezzi tutti i sogni miei…
Tutto è cancellato… la mia vita… riazzerata all’improvvi-
so… perduta come…
Dannazione!
Singhiozzi e pianto sommesso mentre con la mano stringo il
vuoto laddove prima era la mia gamba destra. Ormai perduta,
divorata dall’asfalto e dall’acciaio in quel tragico, stupido,
incidente d’auto…
Sul comodino una foto, il sorriso sul volto di un giovane
innamorato con accanto una ragazza dalla pelle abbronzata,
lunghi capelli corvini e profondi occhi scuri. Non c’è più. Portata
via, per sempre, come la mia gamba sull’asfalto di quella strada
di periferia.
Piango.
E’ colpa mia…
E’ solo colpa mia…
2008 LEONARDO COLOMBIleonardo.colombi@gmail.com
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Racconto selezionato
Bagna cauda[ DARK0 ]
ggi è il giorno del mio diciassettesimo compleanno.
Oggi, quattro novembre, arriva un sacco di gente nel mio
piccolo paesino inutile, ma nessuno viene per farmi gli auguri.
Nessuno. Tutti vengono solo per insaporirsi la bocca con l'aglio e
le acciughe. Perché la bagna cauda si fa così: con le acciughe,
l'aglio e l'olio e il quattro Novembre, nel mio piccolo paesino
inutile, è il giorno della Sagra della bagna cauda.
Come ogni anno vedo mia madre e mio padre euforici come
i miei coetanei quando hanno trovato del fumo il sabato sera.
Loro si sballano così: con le sagre paesane e in particolare con
questa qui che, come tutte le sagre e le feste e le occasioni dove
c'è un sacco di gente, io non sopporto. E peggio ancora è che non
sopporto loro entusiasti. Cioè, cazzo, siete o non siete i miei
genitori? Sono un'orfanella trovata sul sagrato di San Giovanni?
O
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No, vero? E allora, se siete i miei genitori, preoccupatevi per me:
è il mio compleanno. Ve lo ricordate o no che sono nata oggi?
Oppure avete attenzioni solo per il ristorante, per il barbera che
dovrete servire agli ospiti astigiani e/o torinesi e per quella vostra
disgustosa bagna cauda? Ma come si fa a definirlo piatto
prelibato e imbastirci sopra addirittura una Sagra?
Io lo odio questo mio piccolo paesino inutile.
Due anni fa ho fatto lo strago all'orecchio sinistro, l'anno
scorso il piercing alla lingua e l'anno prossimo compierò
diciott'anni e me ne andrò, fosse anche solo qui vicino, ad Asti
per esempio, va bene uguale. Prendo le mie cose e, addio. Non
m'importa se c'è il ristorante già avviato. Se c'è bisogno di me,
che mio fratello non può, che deve studiare, e tutte le menate del
caso. Non voglio vivere qui e non ci voglio neanche morire. É un
posto troppo stretto. Io ho bisogno di spazio. Ho bisogno di posti
dove c'è tanto spazio intorno. Niente montagne. Niente vallate.
Un posto in pianura. Ecco: Asti è in pianura? Non lo so. Ma se è
in pianura, per me va bene.
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Ivana verrà con me. Me l'ha promesso. Le acciughe al verde
e l'aglio fanno schifo anche a lei. Ogni anno durante tutta la
settimana della Sagra, ce ne stiamo su da me su in soffitta dentro
i sacchi a pelo e sotto il piumone.
Parliamo.
Parliamo, scriviamo e poi, a turno, ognuno legge quello che
ha scritto l'altra ad alta voce.
C'è una luce strana oggi pomeriggio in soffitta e fa più
freddo del solito. Io e Ivana stiamo vicinissime che sembriamo
una cosa sola. E gliel'ho anche detto. Detto. Gliel'ho scritto e l'ha
detto lei. Ad alta voce. Ha letto: “Quando ti sono vicina mi sento
meglio. Quando ti sono lontana mi sento male. Quando
lasceremo questo posto saremo una cosa sola.”
Lei ha letto quello che avevo scritto io, ma è come se
l'avesse detto anche lei.
Io le ho chiesto di promettere. Di promettere che saremmo
fuggite insieme l'anno prossimo.
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Lei si è avvicinata al mio orecchio e lentissimamente, in
modo che nessuna parola potesse scappare da quella soffitta, mi
ha detto: “te lo prometto, amore.” e poi mi ha dato un bacio sullo
strago.
Ha fatto così.
Ha detto proprio così.
Non mi aveva mai detto amore. Mai. Siamo state in silenzio
per un po'. Un po' che sembrava non finire mai. Io volevo dire
che…., ma lei mi ha anticipato: è uscita dal sacco a pelo e
dicendomi: “Io vado, a domani.” è scesa dalla scaletta a pioli
della mansarda ed è scomparsa. Io sono rimasta zitta a pensare a
quella parola, amore, che lei mi aveva detto in quel modo, con
quel tono. Intenso.
Ho pensato a come quel mio bisogno di spazi aperti
scompariva vicino a lei. Tutta quella voglia di fuga, quella voglia
di stare all'aperto, quel desiderio di pianura, con Ivana a fianco,
non c'era più. Si rimpiccioliva fino a sparire. Veniva risucchiato
sotto questo tetto, dentro questa mansarda, in fondo ai nostri
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sacchi a pelo, nel buio di questo piumone e oggi, dopo quella
parola, amore, mi implodeva dentro.
Avevo come la sensazione che standole ancora vicina, avrei
potuto rivedere la mia posizione riguardo la fuga dal mio piccolo
paesino inutile. Avrei potuto, come dire, ripensare ad andarmene.
Accontentarmi di quello che offriva. Arrivare perfino a smettere
di odiarlo. La sua promessa aleggiava sopra di me come una
forma di ricatto emotivo alla quale non riuscivo a sottrarmi e per
la quale mi sentivo dannatamente legata a lei. Come
imprigionata. E poi quella parola: amore amore amore che
suggellava tutti i miei sospetti.
Avevo paura di rivederla il giorno dopo.
Non volevo che Ivana si avvicinasse ancora a me, non
potevo permettere che i miei piani venissero stravolti da quella
sensazione che ora dopo ora, si faceva largo ormai con insistenza
dentro di me.
Così non l'ho aspettata in mansarda: sono scesa per le strade
del mio piccolo paesino inutile e mi sono messa a girare in
mezzo agli stand, davanti la chiesa di San Giovanni, per le
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bancarelle, attraverso la gente, le voci e il forte odore di aglio e
acciuga.
Osservavo le persone che incrociavo, mi sorridevano, la
calca mi spingeva in avanti e io mi lasciavo andare. Ero costretta
nei movimenti, bloccata nello spazio, priva di ogni volontà ma
soprattutto protagonista assoluta della Sagra della bagna cauda.
Ero dentro tutto quello che non avrei mai pensato di essere.
Dentro. O forse sarebbe meglio dire in fondo.
Mi sono trovata vicino a un tavolino pieno di verze, cavoli,
cipolle e gente che le intingeva in un unica grande ciotola di
terracotta. Meccanicamente ho preso un pezzo di un cardo e l'ho
infilato dentro la bagna cauda fino a scottarmi le dita, l'ho tirato
su e ho preso a mangiarlo con voracità, sbrodolando olio bollente
e pezzi di acciuga su tutto il tavolo.
Poi ho sgomitato e mi sono fatta largo per uscire dalla calca.
Stavo male. Avevo bisogno di spazio.
Mi sono guardata intorno e ho visto Ivana. Ho visto Ivana in
mezzo la gente. Ho visto Ivava alla Sagra della bagna cauda. Ho
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visto Ivana davanti a uno stand che intingeva una barbabietola
dentro la ciotola di terracotta e poi la portava alla bocca.
La stessa bocca che ieri mi aveva detto amore.
La stessa bocca che adesso puzzerà di acciughe e aglio.
La stessa bocca.
Il pensiero mi ha fatto venir su da vomitare.
E mentre vomitavo bagna cauda sul mio piccolo paesino
inutile ho pensato al quattro novembre dell'anno prossimo, il
giorno del mio diciottesimo compleanno. Quando fuggirò via.
Sola.
2008 DARK0pensareadaltro@tiscali.it
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Racconto selezionato
Bigné[ GIANNI FASSINA ]
lle sette del mattino, puntuale come stabilito, la
famigliona del dipendente pubblico Grassoni G. entrava
in autostrada diretta in una località di villeggiatura nota come
"Cima Golosa ".
La famigliona era composta dal padre, 150 chilogrammi, la
madre 100, l'erede adolescente 80 ed un povero bastardino
bianco e nero di nome Bigné con occhi talmente teneri e dolci,
che i primi tre componenti, se lo avrebbero volentieri inzuppato
in un caffellattone per colazione.
Purtroppo, il suo destino era ben più tragico: essere
abbandonato sull'autostrada, degna abitudine considerata in
questi ultimi anni sport nazionale.
Il “piccolo Euforbio“, il nome del bambinone, il cui acume
era pari al suo peso, presto si era stancato di giocare con il
A
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cagnolino con grande soddisfazione di quest’ultimo, annoiato
dai giochi troppo intelligenti ai quali doveva partecipare, era
ritornato alla sua attività preferita: guardare la tv mangiando chili
di nutella.
Bigné l’avevano trovato l’autunno precedente, abbandonato
da persone segretamente appassionate di pulizia, in un cassettone
per la spazzatura differenziata, raffreddato e quasi morto di fame.
Tutta la famiglia i primi tempi si era informata sugli usi e
costumi dei cagnolini bastardi per far si che non gli mancasse
nulla in special modo il cibo, ma alla fine col sopraggiungere
dell’estate e del periodo di ferie, dopo una sofferta riunione, con
saggia decisione, avevano stabilito di abbandonare il poverino.
Giunti su di una piazzola deserta, mentre la donnona e il
bambinone approfittavano della sosta per un piccolo spuntino
con tre panini di salame a testa, l’omone scendeva dall’auto con
il bastardino. Dopo aver giocato un po’ con lui, distrattolo un
momento, risaliva sulla macchina abbandonando la bestiola al
suo destino.
Chi mai potrà descrivere lo sconforto, la tristezza che si
disegnarono sul “volto” della povera bestiola? Chi potrà
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dipingere i suoi dolci occhi che parevano velati dal pianto nel
veder l’auto allontanarsi?
Giunti a pochi chilometri dalla località prescelta l’omone si
rivolse alla donnona moglie:
– Dammi la carta di credito che devo far benzina.
La donnona, sudaticcia, cercava la carta nella sua capiente
borsa.
La carta non c’è… attimi di panico.
– Come non c’è? – urlava l’omone
– Sei sordo? – urlava la donnona – Pensavo che l’avessi tu.
– E adesso?
– Adesso si esce dall’autostrada, si ritorna a casa, si prende
la carta e si riparte, cara la mia mogliettina!
– Non vi è altra soluzione – concludeva trattenendo a stento
l’ira.
Il ritorno a casa fu un unico e lungo rinfacciarsi le
responsabilità per aver dimenticato la carta.
– Pensavo l’avessi prese tu – diceva la donnona
– Ti ho chiesto un’ora fa se l’avevi e mi hai risposto di si –
rispondeva l’omone.
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Avanti cosi per due ore buone, finché giunsero alla propria
abitazione.
Ci volle una buona mezzora, fra urla, insulti, rinfacciamenti,
trovarla, ma alla fine uscì fuori di sotto una rivista “100 ricette
per dimagrire presto senza soffrire troppo“.
Ripresero l’autostrada allo stesso casello.
L’omone aveva deciso che la spesa in più sostenuta per
l’autostrada sarebbe stata recuperata su qualche acquisto
annullato.
Non specificando quale, madre e figlio si guardavano in
cagnesco sospettosi.
Era quasi mezzogiorno.
L’appetito cominciava a pizzicare lo stomaco dei tre.
Mancavano pochi chilometri al punto dove era stato
abbandonato il povero Bigné.
L’omone ricordava che poco prima della piazzola vi era un
autogrill.
Vi giunsero in breve tempo.
Antipasto di salumi vari, tagliatelle al ragù, bistecca alla
milanese, patate fritte per contorno, frutta un gelatone, tutto
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innaffiato, tranne il bambinone che beveva solo coca cola, da un
buon mezzo litro di rosso.
Ripresero il viaggio soddisfatti.
Giunti alla famosa piazzola, all’improvviso sbucò il povero
bastardino che corse verso l’auto dei vecchi padroni, forse
riconoscendola e immaginando che fossero tornati a riprenderlo.
L’omone mezzo assonnato per digestione lenta, se lo trovò
davanti all’ultimo momento.
Istintivamente sterzò per non investire la bestiola, ma la
manovra fu fatale.
L’auto senza controllo invase la corsia opposta centrando
una seicento con a bordo due anziani coniugi.
L’impatto tremendo non lasciò scampo a nessuno.
I soccorritori e la polizia giunta sul luogo constatarono la
morte di cinque persone.
Sulla piazzola due cani, il bastardino ed un altro, quasi
certamente appartenuto agli anziani coniugi, giocavano
allegramente.
© 2008 GIANNI FASSINAg.fassina1952@libero.it
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Racconto finalista
Contratto in tre atti[ ALESSANDRO MASCIA ]
Atto I: la telefonata
rnoldo Di Leo era accovacciato sul vaso ghiacciato del
gabinetto quando trillò il telefono. Aveva atteso per
un'ora tonda quella chiamata. L’aveva aspettata trepidante,
percorrendo a scatti il salone, perché il bisogno premeva. Avanti
e indietro, dalla libreria alla credenza, dal tavolo al buffet.
Veloce, a falcate brevi, infreddolito, le chiappe tese, il bisogno
che premeva, premeva. E il telefono non squillava, mentre l'ora
tutta si compieva. Dunque l'arresa. Guadagnò la soglia del
gabinetto, rapido, a balzi. Calare le brache e sedersi: un tutt'uno.
Primo trillo. Cavoli! Secondo trillo. Carta bidet salvietta. Terzo
trillo. Cavoli Cavoli Cavoli! Calzoni e mutande su in blocco.
A
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Quarto trillo. Si precipitò a gambe levate verso l'apparecchio.
Pant Pant Pant...
– Pronto?
Quando si dice giusto in tempo. La signorina stava per
riattaccare. Figurarsi, con scribacchini in erba non si perde
tempo. Ma la fiondata cozza cozza lungo il corridoio aggiustò le
cose.
– Pronto, sono la signorina Baldini della Aemme edizioni.
– Oh! Sì Sì Sì, certo, è lei signorina Baldini… perdoni il
fiatone… felice di sentirla.
– C’e da mettere una firma sul…
– La firma! – la interruppe Di Leo – Certo, arrivo subito
subito subito.
– C'è tempo.
– C'è tempo?!
– Gliel'ho appena detto.
– Ehm...occhei, io però, se non firmo non dormo!
– Come crede, sa dove siamo?
– Sicuro, ho visto la mappa su internet, voi voi voi vi trovate
nella piazza affianco all'Antica Merceria.
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– Bene a presto.
– Arrivederci signorina, arrivederci... a tra pochissimo, il
tempo di un niente e sarò da lei.
C'era da aspettarselo – pensò indignato Di Leo – uno va al
bagno e squilla il telefono. C'era da aspettarselo, poi con una
telefonata così importante.
– Uno ha ventiquattrore per andare al gabinetto, NO –
borbottò indignato – dico NO, proprio quando ti sta per
cambiare la vita ti ti ti... mah... lasciamo stare.
Un bel contratto da scrittore meritava un bel vestito da
scrittore. Vabbé prima del vestito la barba andava rasata ché un
viso sbarbato è pur sempre meglio di uno irsuto, ispido e
trasandato. La barba. Fischiettando nevrotico Di Leo imboccò la
strada del bagno. Insaponata e taglio. Taglio e tagliò per davvero,
incidendo il derma. Un rivoletto di sangue si fece spazio nel
niveo della schiuma nuvolosa, solcandola. Cavoli! E chi poteva
fermarlo. Sangue rosso rosso che il lavandino pareva uno
scannatoio. Tentò di tamponare, carta igienica a rotoloni,
bambagia qui e là a contenere lo scempio. Il vestito occhei non
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era un problema, camicia pantalone e mocassini. Camicia bianca
e pantalone nero.
– No no no! – strepitò Di Leo esecrando la scelta – Così
conciato vado al bar a servire cappuccini. Meglio quella azzurra.
Camicia azzurra e calzoni scuri. Ahh!! Da bigliettaio dell’ATM.
Bah... metterò la camicia a righe. Vuoi mettere l'eleganza delle
righe?
Atto II: l'intermezzo
e scale, Di Leo scese giù per le scale, tac tac tac.
Rullo di tacchi lungo le scale. Con un paio di
mocassini che se non ci si bada, a guizzare come una saponetta
sul marmo è un momento. Fretta fretta fretta.
Due piani a velocità folle, vorticando tornò tornò alla
tromba delle scale. Si spalancò la porta della gattara. Pettegole di
quella razza se ne sono viste poche. Gattara bizzacca, mangia
pane e notizie, pane e intrighi.
L
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– Signore, stia attento che non ci arriva all'Antica Merceria
a quel modo.
Stooop. Di Leo le si inchiodò davanti rorido di sudore.
– A quel modo?... Quale modo?
– Non corra, voglio dire. Dove va così di fretta? Eh? Dove
va?
– Ma signora... signora mia... – Di Leo tartagliò qualcosa,
abbozzò un saluto e via tornò tornò alle scale, alla tromba delle
scale.
All'ultima rampa, quello del primo piano, Enzo, detto
Patata, sessant'anni, quaranta passati al bar dietro l’angolo. Tutto
intabarrato il beone da guinnes. Caracollava verso casa
armeggiando con un mazzo di chiavi tintinnanti. Il tramestio dei
mocassini in corsa, di Arnoldo Di Leo, era un vero fracasso.
Patata scollò la faccia dalle chiavi per tentare di addossare gli
occhi verso il discesista che stava per travolgerlo. Ma quegli
occhi andavano per conto loro. Patata sollevò l'indice forse per
iniziare un discorso o per calamitare lo sguardo su un punto fisso.
Di Leo lo eluse prima che quello si risolvesse a emettere suono.
E corse corse corse. Corse lungo l'androne.
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– Ma la macchina dov'è? – si domandò Di Leo amnesico –
Dov'è quel trabiccolo che se oggi non parte ne vedrà delle belle.
Un momento per la memoria.
– Dunque. Ieri. Ieri. Dunque. Sono stato al market. Poi
basta. Ho parcheggiato. Cavoli! L'ho abbandonata vicino al mare.
Rigagnoli di sudore si insinuarono nell'alveo di alcune rughe
precoci di Arnoldo Di Leo, valicando i confini delle labbra e
offrendosi all'assaggio della lingua. Salata, brodaglia salata,
grondante.
Seduto sulla soglia di casa, il figlio dei vicini. Lardoso.
Tutto intento a molestarsi la pianta del piede per estrarne una
spina di riccio.
Di Leo rovistò dentro la tasca a cercare un fazzoletto.
Cacciò fuori un cencio di stoffa aggrumata. Il fazzoletto, in
quella tasca da mesi. Lo sbrogliò, un disegnino qua e là, e
tamponò fronte, viso, naso, bocca. Riprese a marciare spedito
facendo schioccare i mocassini sul basolo, rapido rapido rapido.
La macchina era tramortita dallo sforzo del giorno prima. Il
viaggio al market l'aveva sfiancata. La canicola è canicola per
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tutti, anche per le macchine. Ghiò ghiò ghiò. Il vecchio ferro fece
le bizze. Oooh! Cavoli! Vaticinio azzeccato.
– Me la sono tirata la sfiga. – disse Di Leo stizzito – Me la
sono proprio voluta tirare.
Girò la chiave con l'ira che avvampava riscaldando tutti i
circuiti meccanolettrici e ghiò ghiò ghiò ghiò vrooam vrooam.
Accelerò a un milione di giri e i pistoni riempirono la testata di
mazzolate. Dunque partì alla volta dell'editore.
– Editore?! – Ululò Di Leo rinfrancato – Editore! Sto
arrivando editore, arrivooo.
Atto III: dall'editore
n parcheggio, un porco parcheggio. Macché, a
momenti nemmeno in doppia fila si trovava spazio.
D'un tratto si accese un lampeggiante arancione.
– Sì sì sì! – esortò Di Leo esaltato – Dai bello che andiamo a
firmare. Oggi mettiamo una bella firmetta al primo contratto da
scrittore. Che ne sai tu di libri?! Su su su! Non attardarti che il
U
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tempo stringe. Starai tornando dall'Upim o da qualche altra
gabbia di matti. Eh... io la conosco la gente come te:
scialaquatore! Dai... bravo! Ecco, bravo! Occhei. Grazie grazie
grazie. Vedi che alla fine la sfiga te la scrolli. Basta saper
aspettare quei cinque minuti che lei ti succhia un po'. Tu in
silenzio, zitto zitto, devi fingere che nemmeno ti si è attaccata.
Zitto, buono, indifferente. E lei così com'è arrivata prende i piedi
e se ne va.
Di Leo scese dall'auto e si specchiò sul finestrino. Fece per
stirare il cravattino nero e aprì un varco di sopra, tra nodo e
colletto. Come rimedio strozzò il nodo provocando
l’allungamento della fettuccia dietro la cravatta. Maledetta
fettuccia, se la infilò nei pantaloni e via via via a mettere la firma
sul contratto. L'editore si trovava al primo piano di un palazzotto
adiacente all'Antica Merceria e tutt'e due gli stabili si
affacciavano su una piazza intitolata a chissacchì. Pigiò il
campanello e con un clic si schiuse il portone. Di Leo tirò su i
calzoni e versò giù la giacca. Dunque dunque dunque. Al
pianerottolo tutto era accogliente. La chenzia avvizzita ma
bellissima, le pareti scrostate ma familiari, il neon lampeggiava
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una luce stanca, ora sì ora no, ora sì ora no. Flash di intesa,
amiccamenti, quasi a dire vai vai vai... è il tuo momento!
– Buongiorno, credo di aver parlato con lei stamattina. Sa,
per la firma...
– Mi ricorda il suo nome?
– Di Leo. Arnoldo Di Leo.
– Vediamo. Da Campo, Damiani, Dassi, Dedalo, Del Prete,
Densi, Dicoli, Di Leo. Ecco la sua pratica Signor Di Leo. Deve
mettere una firma per il trattamento dei dati.
Con la testa che gli ronzava in un tripudio di scariche
eccitanti non era mica facile firmare. Bisognerebbe andare da un
editore a firmare un contratto – pensò Di Leo – per capire quanto
non sia facile acciuffare una penna e vergare il proprio nome. Ad
ogni modo estrasse una raffinata stilografica e vergò il
nomecognome.
– Grazie Signor Di Leo. A giorni saprà anche l'esito della
commissione che sta valutando il suo romanzo.
– Ah... il mio romanzo... la commissione che... valutando.
Eh sì perché ancora...
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– Signor Di Leo la chiamerò io stessa appena avrò il
responso dalla commissione. Ora mi deve perdonare.
Arnoldo Di Leo uscì dall'ufficio e come colpito da barbagli
di sole cocente si guardò intorno confuso. Una brutta chenzia
ingiallita davanti a una parete dall'orribile pittura divelta. Tutto
apparve per com'era. Avvilente. Perfino quel neon che nessuno
aveva ancora aggiustato.
2008 ALESSANDRO MASCIAalessandromascia@hotmail.it
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Racconto selezionato
Racconto d’altri luoghi, d’altri tempi[ MATTEO OLIVIERO ]
uanto sono basse le case di campagna, quel tetto spiovente
sembra piegato contro una forza superiore. Chi ci vive
deve sembrare così piccolo, piccolo come il mondo può apparire.
I panni stesi alla finestra, come sono liberi nel vento.
Volteggiano come bandiere della vita e profumano di pulito
come l’aria e il sole che respirano.
C’è un’auto che passa sulla strada lontana. Solleva la
polvere dalla strada grigia come il fumo. Ha un colore diverso
dalla natura che la circonda, un colore stonato che la rende inutile
come l’errore simbolo d’arte in un dipinto.
Com’è sincero il sorriso di quella ragazza che ride e guarda
me. Stesa all’ombra con un libro tra le mani. Si mantiene il
vestito che il vento cerca di alzarle fino alla vita. Ha i capelli
Q
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biondi e mossi come l’erba che volge tutta da un lato. Le sorrido
e alzo una mano per salutarla, lei fa lo stesso e questa volta sono
io a sorriderle. Le mando un bacio da lontano che parte con lo
schiocco della dita fino ai suoi occhi e alla sua bocca. Lei ride
coprendosi il volto con il libro.
Continuo a pedalare. Ed ecco la musica che viene dagli
alberi. Saluto quel giovane seduto che imbraccia la chitarra. La
mano sventola sulle corde così lieve come le note che ne
fuoriescono. Accanto a lui c’è una rosa. Mi avvicino e gli faccio
cenno indicandogli l’albero dov’era la ragazza col vestito al
vento. Mi sorride anche lui e raccoglie la rosa, la sua chitarra e va
verso l’amore.
Continuo a pedalare accanto ai bambini festosi. Giocano
con una palla di pezza senza capire il senso della loro corsa.
I bambini sono felici quando corrono, sorridono. Non si
stancano, non si sforzano, sorridono fino alla sera quando
dormono prima ancora di sapere cosa succederà e chi vivrà felice
e contento per sempre.
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Le donne curve nei campi sollevano la testa e mi scrutano
mentre scartano la frutta più genuina, quella che darà l’odore alla
cucina. La salita è così ripida che sento la stanchezza nelle
gambe. Accosto la bici e mi fermo a bere alla fontanella. L’acqua
non cade dall’alto come in tutte le fontane, ma viene dal basso.
Bevo sempre tanto a questo tipo di fontane. L’acqua ha una
temperatura che sento fin nel cuore mentre scende.
Riprendo la bici e continuo a pedalare per le strade del paese
in cui sono giunto. Parte della frutta raccolta dalle donne è stipata
nelle ceste di vimini in vendita al mercato. Mi avvicino e prendo
una mela così rossa da sembrare una decorazione, una moneta
dalla tasca e mille sapori in quel morso.
Con le mani il bottegaio getta l’acqua sul pesce. Deve essere
freschissimo, appena pescato. Sul porto girano ancora stormi di
gabbiani, la barca ha attraccato da poco.
Le donne entrano ed escono dalla chiesa, si dicono qualcosa
e poi un saluto prima di continuare la loro strada. Tra poco
suonerà la campana, quella che annuncia le dodici. Dodici
rintocchi indietro nel tempo.
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Un giovane attende in strada che la madre vada via per la
spesa e la messa. Una ragazza dietro l’angolo attende il segnale
dalla finestra. Via libera… sorrido mentre sale le scale di corsa.
Tra le stradine strette in discesa arrivo alla stazione. Chi va
via, chi arriva, chi bacia il proprio amore, chi legge nell’attesa,
chi cammina accanto ai binari, chi saluta con un abbraccio, chi
con una stretta di mano. E quando passa il treno poi. Sembra
enorme come una montagna. Non posso non guardare un treno
che passa.
Rocce scoscese sul mare mi fanno dondolare sulla bici. E’
infinito e di una miriade di colori e sfumature quel mare. I corpi
immersi mi sembrano così piccoli dall’alto. Riesco anch’io a
sentire la loro freschezza, il benessere di nuotare tra le onde. Di
sentirsi avvolgere dalla spuma che scivola dagli scogli ad ogni
onda.
Più avanti c’è una coppia giovane, si tengono la mano e
guardano il mare. Lui ha una macchina fotografica al collo, lei
occhiali da sole e un cappello la cui tesa svolazza nel vento fino
a… un soffio lo porta via verso il mare. Il fragore delle loro risate
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e un bacio. Mi chiedono di fargli una foto mentre si abbracciano
come radici nella terra. Dietro hanno solo il mare e il cielo, così
lontani eppure così simili e legati, proprio come un uomo e una
donna. Chissà da dove vengono… chissà se gli piace il paese.
Sembrano felici di aver vissuto tutto questo. Forse era da tempo
che volevano vederlo. Forse era da tempo che anch’io volevo
viverlo. E così posso farlo ogni volta che posso. Come una favola
senza morale, come tutti i sogni senza incubi, come un ricordo
senza nulla da dimenticare… come il racconto che ho vissuto.
2008 MATTEO OLIVIEROmatteo_oliviero@libero.it
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Racconto selezionato
Teledipendenza[ STEFANO SANTARSIERE ]
fuggii al pomeriggio uggioso rintanandomi in casa del mio
amico Massimo. Contemplava il caminetto; la fiamma che
guizzava tra le fascine accendeva un riflesso ondeggiante sulla
sua faccia tetra.
“Bè?” feci. “Ti è morto il gatto?”
“Non ce l’ho il gatto,” mugugnò. “E se fosse morto sarei
dispiaciuto, non preoccupato. Invece sono preoccupato.”
“E perché sei preoccupato?”
Mi rivolse uno sguardo obliquo, poi tornò a fissare il fuoco.
“Sono tre giorni che Rocco si rifiuta di uscire di casa. Non
capisco che cavolo gli è preso.” Si strinse nelle spalle e protese le
mani verso il fuoco. “Sto cercando di ricordare se gli ho fatto
qualcosa di male.”
S
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“Magari ha l’influenza.”
“No, perché a scuola ci va. E’ solo che non vuole uscire con
me.”
Non era frequente vederlo così abbattuto, ma capivo la sua
inquietudine. Rocco era il suo miglior compagno di avventure;
con lui imbastiva le situazioni più assurde perché riusciva a farsi
seguire in ogni strampalato progetto gli venisse in mente. Con me
era molto più dura, e anche gli altri non erano sempre disposti ad
assecondare le sue fantasie. Ma Rocco era il suo feticcio, il suo
alter ego nelle scorrerie, negli esperimenti, nelle burle ai danni
del mondo. Era insomma la mano da tenere mentre varcava la
mitica soglia dell’età adulta.
“Andiamo a casa sua,” proposi. “Vediamo che gli prende,
così smetti di essere preoccupato e finalmente cominci a essere
dispiaciuto.”
“Sai che bel cambiamento,” borbottò sollevandosi dalla
sedia.
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Al citofono rispose la madre di Rocco: appena sentì le
nostre voci fece “Ah!” e aprì la porta. Ci venne incontro per le
scale.
“Meno male che siete venuti, speriamo che almeno voi lo
fate ragionare quel disgraziato.”
La casa era avvolta da un invitante profumo di cannella,
molto appropriato per l’atmosfera autunnale e per l’umore di
Massimo.
“Sto cucinando delle mele al forno, se rimanete un po’ ve le
faccio assaggiare” disse Maria sbrigativamente, e ci condusse in
salotto. Massimo gettò un’occhiata verso la sala da pranzo da cui
proveniva il rumore del televisore acceso; aveva intravisto Rocco
seduto in poltrona.
“Voi non avete idea!” esclamò la donna. “Passa giornate
intere davanti alla televisione. Non si schioda nemmeno per
mangiare! Solo per andare al bagno e per cambiare canale,
perché il telecomando si è scassato. Se può, si alza una sola volta
per fare le due cose insieme: va al bagno e al ritorno cambia
canale.”
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Maria spiegò che ogni giorno, dopo la scuola, Rocco si
piazzava in poltrona e iniziava la sua maratona televisiva:
cominciava con i cartoni animati, Pollon Combinaguai e Holly &
Benji, quindi i telefilm di metà pomeriggio e infine Happy Days;
pausa cena con la Conquista del West su Telenorba, film in
prima serata su Italia 1, horror in seconda serata su canale 5 il
martedì oppure Colpo Grosso con Umberto Smaila sulla tv
privata, il venerdì. E se ci scappava il filone a scuola, la maratona
iniziava con i telefilm del mattino e includeva i programmi di
cucina a mezzogiorno.
“Fate qualcosa,” implorò Maria. “Sta diventando verde
come una televisione spenta.” Ci precedè in sala da pranzo
annunciando al figlio che eravamo lì a fargli visita. Rocco ci
accolse con un sorriso stirato e senza staccare gli occhi dal
televisore.
“Che piacere uagliù! Benvenuti!”
In effetti aveva una faccia terrea, come uno che stesse
inconsapevolmente tirando le cuoia, ma mi sembrava anche un
po’ più in carne.
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Esplosero delle pistolettate e una Ferrari sgommò a tutta
saetta tra le palme di Miami Beach. Rocco saltò sulla poltrona
“Marò! Stavolta se l’è vista proprio brutta!”
“Si può sapere che hai?” disse Massimo. “Avanti, spegni la
televisione e vieni fuori con noi. E’ una giornata bellissima.”
Osservai la finestra. Da uggioso il pomeriggio si era
trasformato in piovoso. Mi scoprii a pensare che non era Rocco
quello ammattito.
“Devo finire la puntata di Magnum P.I. Poi usciamo, state
tranquilli. Intanto sedetevi. Mà, offri la tua limonata ai ragazzi.”
Maria sospirò e aprì il frigorifero. Un tizio con una camicia a
fiori e una coppia di doberman al seguito veniva incontro a Tom
Selleck.
Massimo fece una smorfia e si sistemò su una sedia di
fianco alla poltrona di Rocco. “Dopo però usciamo. Non ho
voglia di stare chiuso in casa.”
“Ma certo!” Assicurò Rocco. “Ora zitto e guarda la
televisione.”
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Maria ci servì dei bicchieroni di una limonata fatta in casa.
Ne presi uno e mi sedetti anch’io.
“Buona, eh?” Rocco mi strizzò un occhio appena assaggiai
la bevanda.
Era squisita e feci i complimenti alla madre. Massimo
sorseggiava senza dire niente. Tutto in lui manifestava la sua
impazienza di tagliare la corda; come stava seduto sulla punta
della sedia picchiettando il piede sul pavimento; gli occhi che
correvano di continuo verso la porta. Sui titoli di coda del
telefilm si alzò di scatto.
“Bene. Usciamo.”
“Ehi mà!” gridò Rocco. “Sono pronte le mele al forno?”
Maria rispose dalla cucina. “Le ho appena tirate fuori, ve le
faccio assaggiare subito.”
Massimo mi guardò terrorizzato. “E dai Rocco!” gemè.
“Avevi promesso!”
“Sì, sì, non ti preoccupare! Ma che fretta hai? La mamma si
offende se non assaggi le mele!”
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Io posai il bicchiere vuoto sul tavolo e mi pulii con un
tovagliolo di carta. Massimo scrollò le spalle, rassegnato.
Maria apparve con un vassoio colmo di globi color bronzo
che fumavano come minuscoli vulcani. Ci servì le mele su un
piattino, mentre alla tv attaccava la sigla dei Chips e due
poliziotti con occhialoni scuri e casco scorrazzavano in
motocicletta per le vie di una metropoli americana.
Infilai il cucchiaino nel foro in cima alla mela, ed estrassi la
polpa attraverso una pozzetta di miele fuso. Fuori pioveva più
forte.
“Allora, che ne dite?” chiese Rocco. Stavolta anche
Massimo approvò; Maria ci osservava orgogliosa.
L’episodio dei Chips riguardava una falsa accusa di traffico
di droga contro il fratello di uno dei protagonisti. Poncharello si
stava prodigando per dimostrare la verità e scoprire il vero
colpevole. Vidi che Massimo aveva finito la sua mela e guardava
la tv con aria scontenta. Non insisteva più per uscire. Rocco
mangiava lentamente, una cucchiaiata di polpa dopo l’altra,
occhieggiando ora la tv, ora me e Massimo. La madre si presentò
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un paio di volte a recuperare i bicchieri vuoti e i gusci delle mele
al forno. L’ultima volta chiese: “Ma non dovevate uscire?”
Massimo allargò le braccia come a dire: e io che ci posso fare?
All’ora di cena ringraziai Maria per la limonata e le mele (e
anche per certi biscottini all’uovo che erano comparsi alla fine
della puntata dei Chips, prima che attaccasse Happy Days) e me
ne andai.
Nei giorni seguenti il tempo peggiorò, si preparava un
inverno lugubre. Se uscivo di casa mi ritrovavo ovunque in
completa solitudine, per strada, al bar o al Circolo che fosse, a
tremare di freddo e sentirmi più smagrito del solito.
Così presi l’ombrello e mi recai a casa di Rocco.
Maria mi accolse con la solita concitazione. “Vieni Stefano!
Vediamo se almeno tu riesci farli ragionare.”
Era comparsa una seconda poltrona accanto a quella di
Rocco. Massimo stava finendo di sorbire la sua cioccolata calda.
E in tv davano ‘L’incantevole Creamy’.
2008 STEFANO SANTARSIEREstefano@santarsiere.it
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