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Anno 2950-2660 a.C.: unificazione dell’Egitto. Invenzione della scrittura geroglifica e del
calendario. Fondazione di Menfi. Inizio delle dinastie. 2660-2134 a.C.: Periodo dell’Antico
Regno. Costruzione delle grandi piramidi: Cheope, Chefren, Micerino. Religione solare.
2134-1785 a.C.:Periodo del Medio Regno. Ricostituzione dell’unità dello stato ad opera di
Mentuhotep II. Capitale Tebe. 1660-1557 a.C.:Dominazione straniera degli Hyksos.
1557-1085 a.C.:Periodo del Nuovo Regno. Apogeo della potenza culturale e politica egizia.
Tombe della Valle dei re, tra le montagne di Tebe. 1082-332 a.C.: Bassa Epoca. Periodi di
anarchia si alternano a restaurazioni faraoniche fino al momento della conquista del paese da parte
di Alessandro Magno.
L’arte egiziana si sviluppa per circa tre millenni e rappresenta una delle più remote e grandiose
manifestazioni della storia. Ne sono temi fondamentali e ispiratori l’ordinamento faraonico e la
concezione religiosa, sentiti ed espressi con intensa spiritualità. L’archeologia ha ormai precisato i
grandi cicli di quest’arte, che, priva di conseguenze dirette per la futura civiltà europea, può
apparire chiusa in schemi rituali. Eppure ogni periodo storico dell’arte dell’Antico Egitto è
caratterizzato da ideali e forme diversi, così da non risultare difficile, precisati alcuni fondamentali
caratteri stilistici, distinguere i prodotti delle singole epoche.
L’ARTE THINITA
Nel periodo iniziale, detto Thinita, la figura conserva un aspetto plastico massiccio, di blocco
unitario e ricorda soluzioni tipiche della tradizione più arcaica. Accenti realistici animano lo
schema frontale del personaggio, che risulta immerso in un’impenetrabile solitudine,
In tutta l’arte egiziana, astrazione e concretezza si alternano, anche con riferimento al tema e alla
destinazione dell’opera. Geometria e natura, idea perfetta immutabile e aspetto del mondo sempre
mutevole,sono i poli opposti entro cui si muove l’artista, che sceglie, volta a volta, la soluzione più
idonea. Così avviene nel periodo Menfita con le realizzazioni della IV dinastia.
Nell’architettura, le grandi masse di calcare lavorato si dispongono con estrema perizia tecnica
entro schemi geometrici. Il culmine di una tale ricerca è dato dalle piramidi, che esprimono
armoniosamente il sentimento del grandioso e dell’elementare. In tale felice momento storico,
anche nella pittura e nella scultura gli artisti egiziani raggiungono una singolare potenza
espressiva, organizzando gli elementi interni della figura secondo principi dinamici, che si
traducono in un sentimento drammatico della vita, o realizzando con sorprendente immediatezza
scene di ambiente naturale.
IL MEDIO REGNO
Durante il periodo successivo, detto del Medio Regno, nell’arte egiziana si verifica un mutamento
profondo: alla plasticità dei secoli precedenti si sostituisce un senso acuto della linea e la
geometrizzazione della figura non è più il punto d’arrivo dell’artista, ma il punto di partenza.
Da tale posizione si giunge a caratterizzazioni estremamente precise, per cui il volto del faraone
non è più un simbolo religioso, ma il ritratto di un uomo, con impressi i segni della propria
inconfondibile personalità.
IL NUOVO REGNO
Con il Nuovo Regno, di cui è capitale Tebe, l’architettura conosce un periodo di grande floridezza:
i maestosi templi di Karnak, di Luxor e di Amarnac testimoniano una complessità di forme non
disgiunte da un senso di raffinata eleganza, che caratterizza anche i prodotti della scultura e della
pittura. Nell’Epoca Bassa, che comprende gli ultimi sette secoli dell’Egitto faraonico prima della
conquista di Alessandro, si avverte il lento esaurirsi delle facoltà inventive e subentra un
atteggiamento spesso accademico di ripetizione di forme precedenti.
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La conquista dell’Egitto da parte dei Macedoni porta a grandi trasformazioni anche nel campo
artistico. Il regno dei Tolomei è dunque caratterizzato dalla penetrazione in Egitto della civiltà
greca.
COMPLESSO DI SAQQARAH
Forza incorruttibile e umana gentilezza sono espresse dalle antiche pietre di Saqqàrah, che
Jmhotep, per la prima volta nella storia dell’Egitto, usò con sapienza e sentimento poetico, per
glorificare la potenza terrena e celeste di Djoser. Gli elementi naturali, dal papiro all’albero, che
da millenni erano serviti all’egiziano per costruirsi la capanna sulle rive del Nilo, sono ancora la
fonte d’ispirazione di questo straordinario architetto.
Vicino a Menfi, divenuta capitale dell’alto e basso Egitto, unificati sotto l’impero di Djoser,
capostipite della III° dinastia, sorge a Saqqàrah, intorno al 2650 a.C., la prima piramide. Ne è
autore Jmhotep, il geniale architetto elevato dalla fantasia popolare ad onori divini.
Il complesso degli edifici di Saqqàrah rappresenta il momento di fusione di due civiltà: l’aspetto
monumentale della tomba discende dall’Alto Egitto, mentre l’organizzazione dell’ambiente
funerario, ad imitazione del palazzo di Menfi, è tipica del Basso Egitto. Così l’unificazione
politica viene interpretata da Jmhotep anche sul piano culturale e artistico..Dentro all’imponente
muro di cinta rettangolare troviamo infatti costruiti tutti gli ambienti tipici della residenza regale:
la sala dell’incoronazione, gli uffici amministrativi, il padiglione delle feste;ma tali costruzioni
assumono un puro significato simbolico, senza alcun contenuto funzionale. Il muro di cinta è
contrassegnato da 14 finti portali, mentre uno solo, aperto sul lato est, immette in un vasto atrio
illuminato dall’alto. Venti tramezzi in muratura dividono l’atrio in celle, e terminano in fasci di
colonne di forma vegetale.
Trovano posto ancora dentro il recinto sacro il cortile delle feste, destinato alla celebrazione del
giubileo del re, due edifici fittizi simboleggianti gli uffici amministrativi dei due paesi, e una
costruzione praticabile a forma di palazzo che si leva davanti alla piramide. Questa è il centro del
complesso architettonico e la sua forma risulta dalla sovrapposizione su di una originaria mastaba
(in arabo: tavola) quadrata, di altre mastabe di decrescenti dimensioni; il grande architetto realizza
così una tomba a gradoni dell’altezza di 60 m., visibile, oltre il muro di cinta, da tutta la pianura
circostante.
TEMPIO DI HATSEPSOWE
L’architettura egizia crea immense scenografie di pietra, ordinate con rigore geometrico quasi una
nuova, eterna natura, immaginata e costruita dall’uomo. La poderosa plasticità dei colonnati, delle
mura, degli ambulacri, dei cortili popolati di immagini divine e umane, determina, nel vuoto del
paesaggio africano, il sentimento di uno spazio greve e impenetrabile.
Tebe “dalle cento porte”, celebrata metropoli del Nuovo Impero, conosce un periodo di grande
splendore artistico sotto la guida della regina Hatsepsowe (1511-1480 a. Cr.).
Circa nel 1490 a.Cr. sorge il tempio che porta il suo nome, dedicato al dio Ammon, unitamente ad
altre divinità, e destinato in parte al culto funebre della famiglia regnante. Il geniale architetto, che
la tradizione indica con il nome del Cancelliere reale Seneumut, progetta una grandiosa
costruzione a terrazze, aperta, sul lato nord est, verso la città, e saldamente ancorata di spalle alla
roccia della montagna. La pianta del complesso architettonico è realizzata su più livelli, congiunti
da rampe che conducono dal recinto d’ingresso alle terrazze superiori, e di qui, attraverso cortili,
sale e colonnati, al Sancta Sanctorum del tempio, profondamente scavato nella roccia e avente a
lato la cappella funeraria della regina.
Al tempio di Hatsepsowe si giungeva, originariamente, dalla vicina oasi attraverso un viale
monumentale di sfingi, che completava la visione scenografica di questo straordinario centro
religioso, decorato in ogni suo ambiente da rilievi policromi e da statue.
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Purtroppo le distruzioni cominciarono subito con il successore della regina protettrice delle arti, il
re conquistatore Thutmose III, per proseguire fino ai primi tempi del Cristianesimo, quando una
comunità di religiosi copti trasformò il tempio in un monastero.
L’ARTE GRECA
Anno 1100 a.C.: invasione dei Dori. 750 a.C.: Fondazione della colonia greca di Cuma in
Campania, cui seguono quelle di Siracusa, Taranto, Bisanzio, Marsiglia. 594 a.C.: Solone
pubblica la legislazione ateniese. 490 a.C.: Prime tragedie di Eschilo e prime poesie di Pindaro.
Vittoria greca a Maratona sui Persiani. 456 a.C.: prima tragedia di Euripide. 450 a.C.: Inizio del
predominio di Pericle in Atene. 431 a.C.: Inizio della guerra del Peloponneso, che contrappone
Atene a Sparta. 404-371 a.C.: Egemonia di Sparta sulla Grecia 399 a.C.: processo a morte di
Socrate. 387 a.C.:Platone fonda l’Accademia. 334 a.C.: Aristotele fonda ad Atene il Liceo.
336-323 a.C.: Sottomissione della Grecia alla Macedonia e costituzione dell’impero di
Alessandro. 146 a.C.: Distruzione di Corinto da parte dei Romani e caduta della libertà greca.
La storia artistica greca comincia nell’ottavo secolo a.C., ma sulle rive dell’Egeo era già fiorita nei
secoli precedenti una splendida vita civile che i poemi omerici testimoniano. La civiltà cretese
micenea rappresenta infatti quasi un ponte tra il millenario oriente egiziano e l’occidente greco, ai
suoi inizi.
Nella fase arcaica, compresa tra il secolo VIII e la metà del V, le genti che formano la grande
famiglia ellenica, i Dori, gli Joni, gli Eoli e gli Attici, elaborano i primi fondamentali elementi
della visione artistica europea.
IL TEMPIO GRECO
Il tempio è l’espressione tipica del momento arcaico. Il nucleo centrale e primitivo di questa
architettura è la cella, dove trova posto la statua del dio, preceduta da un portico. Attorno alla
cella si svolge un colonnato continuo che è la parte più rappresentativa del tempio. Le dimensioni
e lo sviluppo della pianta variano anche in relazione alla forma delle colonne. Si distinguono
infatti tre ordini diversi: il dorico, semplice e d’intonazione severa; lo stile ionico, di raffinata
eleganza; e quello corinzio, che avrà sviluppo soprattutto in periodo romano.
L’architettura greca non tende a conquistare grandi spazi interni, ma nelle sue linee semplici e
geometriche giunge a chiudere in un’immagine chiara e razionale lo spazio, inteso come forma
pura da contemplare. Così il perimetro colonnare, gli architravi, i frontoni decorati da sculture
s’inseriscono nell’ambiente naturale, ritmandolo con la loro plastica profilatura. Si può dire che
l’architettura è pensata dai Greci come una scultura, e, viceversa, che la figura umana, sola
protagonista delle ricerche plastiche greche, presenta sempre, fin dai primi secoli, un’essenzialità
architettonica. Tale appare infatti il significato estetico della modellazione plastica della
architettura dei templi.
IL PERIODO PERICLEO
Dopo la vittoria sui Persiani, riconquistata la libertà, la civiltà greca, sotto la guida spirituale di
Atene,entra nel periodo classico, i cui limiti di tempo sono compresi tra la metà del sec. V e la
morte di Alessandro (323 a. C.). In questi due secoli, che si aprono con la grande stagione di
Pericle in Atene, e i cui protagonisti sono Fidia, Ictino, Callicrate, Scopa, Prassitele, Lisippo,
Zeusi, Parrasio, l’arte greca tocca le più alte espressioni artistiche. Crea in questo periodo i
modelli plastici di una bellezza, rimasta fondamentale nella concezione dell’uomo europeo, quasi
legge per ogni giudizio sull’arte stessa. La figura umana diventa il simbolo dell’armonia e i
principi della razionalità vengono estesi a ogni aspetto del mondo reale. Nei secoli successivi alla
morte di Alessandro, fino alla conquista romana della Grecia (146 a.C.), la civiltà artistica delle
genti elleniche si espande in tutto il bacino del Mediterraneo orientale e diventa patrimonio
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comune di ogni popolo che si affaccia su questo mare. E’ il periodo detto ellenistico, i cui centri
più importanti sono Pergamo, Rodi, Alessandria, e a un certo momento la stessa Roma. La serena
armonia dell’età classica pare ora incrinata da una continua ricerca di nuove forme espressive,
dettate dal sentimento individuale. Ciononostante, l’arte ellenistica resta sostanzialmente fedele
alla forma chiusa in sé, tipica di tutta la visione greca, simbolo di un ideale bellezza eterna e
perfetta.
L’ACROPOLI DI ATENE
La saggezza politica di Pericle consente al genio artistico di Fidia di creare una delle immagini più
alte di significato intellettuale e poetico dell’arte occidentale. In questa cittadella sacra, le
architetture e le sculture in armoniosa, inscindibile unità, ravvivate dal colore, immerse nella
grande luce del cielo greco, testimoniano un perfetto equilibrio tra intelligenza e sentimento, tra
ricerca della verità e contemplazione della bellezza.
Nel 450 a.C. Pericle promosse la ricostruzione dell’Acropoli, distrutta durante la breve, ma
terribile occupazione persiana del 480 a.C. Affidò a un gruppo di architetti e di scultori sotto la
guida del grande Fidia, suo amico, il compito di edificare e di decorare il Partenone , i Propilei,
l’Eretteo e il tempietto di Athena Nike. Questo straordinario complesso religioso si estende in una
zona sopraelevata rispetto ad Atene di 70 m., lunga 300 e larga 130.
Il Partenone, progettato da Ictino e Callicrate, fu costruito tra il 447 e il 438 a.C. sul lato
meridionale, sopra un alto basamento. Presenta uno sviluppo di m. 69,54 di lunghezza per 30,87
di larghezza, ed è limitato da otto colonne sulle fronti e diciassette sui fianchi. Tutto in bianco
marmo pentelico, racchiudeva all’interno un’ampia cella di cento piedi di lunghezza, divisa in tre
navate da due colonnati. Al fondo della navata di mezzo era la statua di Athena Parthenos,
divinità protettrice dell’Acropoli, opera di Fidia. Il tempio, capolavoro dell’architettura dorica, fu
pressoché distrutto dai veneziani nel 1687. Nel 437 a.C. Mnesicle diede inizio ai lavori dei
Propilei,, destinati a restare incompiuti per il sopraggiungere della guerra del Peloponneso (432
a.C.). Questa costruzione, ornata di colonnati dorici, dotata di un vestibolo e di una vasta sala, la
cosiddetta Pinacoteca, costituisce il monumentale accesso all’Acropoli.
Tra il 430 e il 420 a.C. fu affidata a Callicrate la ricostruzione del tempietto di Athena Nike, alto
su uno sperone dell’Acropoli, in stile ionico. Dopo la pace di Nicia del 421 a.C., Filocle si dedicò
all’ultima opera acropolica: l’Eretteo. L’edificio presenta aspetti eccezionali dal punto di vista
planimetrico e una deliziosa loggia esterna, sorretta da quattro statue femminili.
FIDIA
L’arte fidiaca, supremo modello della visione classica, infonde nelle figure divine e umane dei
cicli partenonici un sentimento di religiosa, appassionata umanità. La sua forma plastica, intrisa di
luce, si libera nello spazio, creando un mondo armonioso ed eterno di immagini. Superando il
limite della cronaca, assurge all’atmosfera rarefatta di una celebrazione che fonde il mito con la
realtà.
490 circa a.C.: nasce ad Atene Fidia ed esercita inizialmente, secondo Plinio, la pittura, sotto la
guida di Panainos, suo parente. Della sua vita sono noti pochi fatti di un qualche rilievo.
L’amicizia per Pericle, il sapiente reggitore di Atene, e le sue disavventure giudiziarie. I
riferimenti alle sue opere sono numerosi in tutta la letteratura antica: ne parlano Platone, Pausania,
Plutarco, Diodoro e Plinio, ma nessuna di quelle eseguite prima del 448 a.C., data d’inizio della
ricostruzione dell’Acropoli, è giunta fino a noi nell’originale: l’Athena Pròmachos, il Donario
Delfico con il ritratto di Milziade, l’Athena Parthenos, lo Zeus Olimpico e l’Amazzone Mattei.
L’arte di Fidia risplende ancor oggi dai frammenti della imponente decorazione plastica del
Partenone, da lui ideata e in parte realizzata. La decorazione si estendeva sulle 96 metope ad
altorilievo con le raffigurazioni della Gigantomachia, dei miti attici di Eretteo e di Jone,
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dell’Amazzonomachia, della presa di Troia e del mito di Cecrope; mentre sul fregio, scolpito a
bassorilievo, e che cingeva la cella del tempio per una lunghezza di 160 m., era rappresentata la
grande processione panatenaica. Sui frontoni si celebravano con statue a tutto tondo la nascita di
Athena e la gara di Athena e Poseidone per il predominio sull’Attica. Nel 432 a.C. Fidia, accusato
di essersi appropriato di parte dell’oro e dell’avorio destinati alla statua di Athena Parthenos, e di
empietà per essersi raffigurato sullo scudo della dea, viene processato e lascia la città, rifugiandosi
nell’Elide, dove poco dopo muore.
L’ARTE ETRUSCA
Sec. X-VIII a.C.: Espansione degli Etruschi dalla Valle Padana in Toscana. Costituzione delle
città di Tarquinia, Vulci, Vetulonia, Cerveteri , Arezzo, Chiusi, Roselle, Volterra, Cortona,
Perugia, Orvieto, Populonia. Sec.VII a.C.: Il dominio etrusco si estende sul Lazio. 616-578 a.C.:
Tarquinio Prisco impone la supremazia etrusca su Roma; costruisce la Cloaca Massima, il Circo
Massimo e inizia il Tempio di Giove Capitolino. 524 a.C.: I Latini alleati ai Calcidesi di Cuma
vincono nella battaglia di Ariccia gli Etruschi. Cessa la supremazia etrusca sul Lazio.
508-507 a.C.: Fuga di Tarquinio il Superbo a Cere. 473 a.C.: I Cumani con l’aiuto dei Siracusani
battono gli Etruschi per mare.
Della civiltà etrusca, fiorita in Italia fin dal sec: VIII, si conoscono soltanto alcuni aspetti. Ignote le
origini, oscura la lingua, misteriosi i significati di molti usi di questo popolo: i prodotti artistici,
rinvenuti nelle tombe, ne costituiscono senza dubbio la testimonianza più completa.
LE TRE FASI
Il corso dell’arte etrusca si sviluppa lungo l’arco di 600 anni fino al II sec. A.C., e si divide in tre
grandi fasi: periodo “ionico-etrusco” (sec. VIII-sec:VI), in cui si mescolano influssi originari del
mondo asiatico ed egeo con altri tipici dell’ambiente protostorico italico; periodo di “mezzo”,
detto anche “arcaico” (sec. V), durante il quale si manifesta una tendenza all’isolamento rispetto al
mondo greco; periodo “ellenizzante” (sec. IV-II).
Questa distinzione non è comunque valida per la concezione architettonica, che si mantiene
sostanzialmente immutata nei secoli.
Purtroppo, i templi e le altre costruzioni civili, che erano, secondo Vitruvio, in legno rivestito di
lastre di terracotta, sono andati tutti perduti. Il tempio etrusco presenta una pianta rettangolare con
un doppio colonnato sulla fronte, ampiamente spaziato, mentre la cella è preceduta da un largo
vestibolo. La visione è solo frontale, e, a differenza del tempio greco, gli spazi interni
costituiscono la sostanziale caratteristica di questa architettura. Se nel tempio prevalgono ancora
le soluzioni rettilinee (architrave,colonnati ecc), in altre costruzioni gli Etruschi introducono una
tecnica assolutamente nuova per la civiltà occidentale: l’arco e la volta, come possiamo ancora
vedere nei resti delle mura di cinta delle città collinari. I Romani derivarono più tardi da questa
evoluta tecnica costruttiva la loro grandiosa concezione spaziale. Nel periodo iniziale, intorno al
sec. VII, vanno collocati i primi Canòpi (vasi funebri) provenienti da Chiusi. Poco dopo, a questi
prodotti di derivazione ancora artigianale, ne seguono altri che riflettono la presenza di artisti di
spiccata personalità. Si tratta dei grandi sarcofagi di Cerveteri, dove la rappresentazione dei due
coniugi è ottenuta con una forza inquietante, dalla quale emerge il carattere tipico della visione
artistica etrusca: un realismo espressionistico senza reticenze, talvolta perfino impietoso.
L’ARTE A VEIO
In questo stesso momento è molto attivo il centro artistico di Veio, dal quale si leva la figura di
Vulca, unico nome di artista etrusco giunto fino a noi. Caratteri analoghi a quelli descritti per la
scultura sono evidenti anche nella pittura parietale delle tombe di Tarquinia, i cui nomi suggestivi
sono desunti dalle figurazioni stesse: Tomba dei Tori, degli Auguri, delle Leonesse, della Caccia e
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della Pesca, delle Baccanti e del Barone. Da questi ipogei sono pervenuti anche vasi, monili,
oggetti d’uso che erano collocati vicino al defunto.
Nel periodo di mezzo, la scultura etrusca annovera alcune opere meritatamente famose, come la
“Chimera d’Arezzo” e la “Mater Matuta”, mentre nella pittura tombale le forme assumono
un’articolazione più elegante. L’ultima fase, fino al sopraggiungere della conquista romana, è
caratterizzata da due correnti: una d’impronta decisamente ellenistica, l’altra di un accentuato
realismo, presente soprattutto nei sarcofagi e in affreschi che annunciano, nel rinnovato senso del
colore usato a macchia, l’avvento dell’impressionismo romano.
LA TOMBA DEGLI AUGURI
Visione contrastata e violenta quella degli Etruschi, in cui si palesa, talvolta con accenti
drammatici, la partecipazione dell’uomo agli eventi imprevedibili del destino. L’incapacità di
trascendere la sofferenza del vivere, di organizzarla subordinandola ad una concezione razionale
che la interpreti, porta l’arte etrusca ad una partecipazione intera e indiscriminata alla vita delle
cose, misteriosa e fatale.
530 circa a.C.: attorno a questa data è da porsi la costruzione di questa tomba a ipogeo detta degli
Auguri, che nella sua forma ricorda quelle precedenti dell’ambiente egeo, interamente scavate
sotterra e contrassegnate in superficie da un tumulo stretto alla base da un cerchio di pietra. La
stanza rettangolare presenta le pareti decorate ad affresco con la raffigurazione dei giochi funebri,
splendida opera del periodo artistico denominato ionico-etrusco. Si verificano infatti verso la metà
del sec.VI a.C. delle immigrazioni di artisti dai centri ionici dell’Asia minore e delle isole greche
verso le coste tirreniche, con il conseguente sviluppo della loro cultura figurativa in Etruria.
La pittura è impiegata dagli Etruschi a documentare le forme più diverse della vita quotidiana, alla
cui rappresentazione viene attribuito il prestigioso potere di salvare dalla morte l’anima: la tomba
infatti è considerata l’effettiva dimora dello spirito dei morti. Gli artisti etruschi in questo periodo,
pur derivando modi pittorici dai Greci, se ne distinguono in maniera netta per una cosciente
aderenza alla realtà. I soggetti della decorazione ad affresco della tomba degli Auguri appaiono
desunti tutti, in maniera diretta ed esclusiva, dal costume etrusco, di cui risulta evidente la
sottostante concezione materialistica: un mondo religioso a noi incomprensibile per molti aspetti, e
profondamente diverso da quello greco. Il rituale ha un significato magico, ma non esclude, anzi
sembra evocare accadimenti di singolare violenza e crudeltà. Il pittore di questa tomba proviene
quasi certamente dall’ambiente di Caere, dove fu attivo un centro artistico greco-orientale di
grande originalità.
L’ARTE ROMANA
Anno 753 a.C.: Fondazione di Roma. 509 a.C.:Costituzione della Repubblica. 390-270 a.C.:
Guerre difensive con i Galli, i Sanniti, i Tarantini. 264-201 a.C.: Si succedono le tre guerre
contro Cartagine . 58-51 a.C.:Cesare conquista la Gallia. 30 a.C.:-14 d.C.: Ottaviano-Augusto,
primo imperatore. Sono gli anni di Virgilio, di Orazio, di Tito Livio. 14-248 d.C.:Si succedono
sul trono gli imperatori Giulii, Claudi, Flavi, Antonini , Severi, fino a Diocleziano che istituisce la
tetrarchia. 313 d.C.: Costantino riconosce la libertà di culto ai Cristiani. 330 d.C.: Costantino
stabilisce la capitale a Bisanzio. 476 d.C.. Caduta dell’Impero romano di occidente.
Il carattere fondamentale dell’arte romana è il suo realismo. L’artista romano non s’ispira, come
quello greco, all’ideale astratto della bellezza, né al mistero insondabile della morte, come quello
etrusco, ma ai dati reali della storia, cioè al “tempo”, misura delle azioni umane; anzi nella storia
ravvisa la sola dimensione di eternità possibile all’uomo.
Gli inizi dell’arte romana vengono posti intorno al I sec. a.C., e riflettono gli influssi della cultura
ellenistica. Soprattutto nel periodo augusteo, nella scultura come nell’architettura, il classicismo
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greco sembra soverchiare l’originario gusto italico dell’ambiente latino. Eppure , vicino ad opere
ufficiali improntate a questo stile aulico (Ara pacis, Foro di Augusto), non ne mancano altre in cui
si manifestano i termini fondamentali e costitutivi della visione romana. Gli archi trionfali
inquadrano lo spazio con una grandiosità di prospettive mai prima conosciuta, così come taluni
ritratti ci appaiono ancor oggi di una toccante, umanissima immediatezza. Anche la pittura, che ci
è pervenuta soprattutto attraverso le decorazioni di Pompei e di Ercolano, annovera, vicino a cicli
di evidente influsso ellenistico, brani di una singolare vivacità.
IL PERIODO IMPERIALE
Con il periodo flavio-traianeo (dal 69 al 117 d.C.) ha libero sviluppo una autonoma visione
figurativa romana. In architettura le tecniche costruttive consentono espressioni curvilinee di
grande impegno spaziale, di cui sono luminosa testimonianza edifici civili come il Colosseo, le
Terme e l’Arco di Tito, il palazzo imperiale sul Palatino (opera questa dell’architetto Rabirio,
attivo sotto Domiziano), il Foro e i Mercati di Traiano, la Basilica Ulpia, costruiti su progetto del
grande Apollodoro di Damasco. Ormai vasti spazi vengono chiusi dal muro romano, che assume
le forme più libere e plastiche che mai architettura avesse conosciuto: l’arco e la volta sono gli
elementi principali di questa nuova visione. Non diversamente avviene nel campo della scultura
con le complesse decorazioni delle colonne imperiali, dei rilievi inseriti negli archi di trionfo, in
cui le figure partecipano di uno spazio aperto all’azione, destinato all’umana esperienza. I mezzi
espressivi della scultura di questo periodo sono eminentemente coloristici e tendono a risultati di
un potente realismo figurativo. Nei successivi ventun anni, corrispondenti al periodo di Adriano
(117-133 d.C.), si registra un ritorno al gusto ellenistico, soprattutto nella scultura; anche
l’architettura, pur nella sua grandiosità spaziale, riflette moduli plastici della visione greca. Di
questo momento sono il Pantheon, il Tempio di Venere, il Mausoleo di Adriano oggi Castel
Sant’Angelo, e, a Tivoli, la famosa Villa imperiale.
IL PERIODO TARDOROMANO
Negli ultimi due secoli dell’arte romana, cioè presso a poco dall’avvento degli Antonini al regno
di Costantino, si svolge una splendida stagione artistica, che va sotto la denominazione di periodo
tardoromano. Si può affermare che è anzi questo il momento in cui l’arte romana riesce a fondere
gli apporti culturali delle province orientali, venendo così a costituire quel vasto repertorio formale
che sarà patrimonio dell’arte cristiana e medievale dell’Occidente europeo. Le opere di Baalbeck
e di Leptis Magna, come le Terme di Caracalla in Roma, esprimono una spazialità a prima vista
incommensurabile, racchiusa da volte poderose. Così nella scultura e nella pittura di questo
estremo momento dell’arte romana, il realismo espressionistico esplode nei fregi della Colonna di
Marco Aurelio per toccare più tardi nei ritmi rallentati del periodo di Costantino accenti di una
ieratica solennità figurativa. Ormai l’arte romana è matura per accogliere i temi ascetici cristiani.
IL COLOSSEO
L’equilibrato rapporto fra la luce degli archi e le pause delle fasce murarie conferisce
all’eccezionale volumetria di questa fabbrica un senso di forza dinamica, che allude direttamente
alla complessa funzionalità delle strutture architettoniche dello spazio interno. Lo spirito
costruttivo romano crea con il Colosseo uno dei massimi capolavori della civiltà occidentale.
75 d.C.: Vespasiano, salito da pochi anni al potere dopo la morte di Nerone, inizia, tra le altre
opere pubbliche intese a ridare fiducia nelle civili istituzioni, perché destinate alla collettività, il
grandioso anfiteatro Flavio, chiamato Colosseo, forse, in origine, per la vicinanza della statua di
Nerone, indicata popolarmente come il Colosso, ma in seguito soprattutto per le sue proporzioni
eccezionali. L’edificio sorge tra l’Esquilino, il Palatino e il Celio, con l’asse principale dell’ellissi
disposta in linea con i monumenti del Foro. Le misure dell’esterno sono di m. 188 x m.156 e
l’altezza tocca, alla sommità, m. 48,50. La base dell’edificio è costituita da un rialzo di due
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gradini, da cui si dipartono tre ordini d’arcate in stile tuscanico, ionico e corinzio. Le sovrasta un
grande attico, riquadrato da pilastri corinzi con finestre alterne. L’opera fu eseguita rapidamente,
seguendo una tecnica costruttiva molto avanzata e si direbbe moderna: infatti, completata la
fondazione, si alzarono indipendentemente gli archi esterni e i pilastri della struttura radiale, fino
al colmo, poi si cominciarono le coperture a volte, in “ opus caementicium”, discendendo a rifinire
tutti i corridoi, le scale e l’esterno al riparo dalle intemperie, con molto risparmio di tempo. Nella
cavea trovavano posto fino a 50.000 spettatori, e uno dei problemi più ardui, brillantemente risolto
dall’anonimo architetto, fu la distribuzione razionale delle entrate e delle uscite del pubblico,
mediante un complesso di ambulacri, di corridoi e di scale costituenti un elastico sistema di
legamenti fra la muratura esterna e la cavea. Una fitta rete viaria viene così ad animare dall’interno
il monumento. Il Colosseo, ultimato nell’80 d.C., venne inaugurato da Tito.
LA COLONNA TRAIANA
L’anonimo scultore dei rilievi traianei ha un senso altamente drammatico della storia. Lo spazio,
in cui si verificano gli accadimenti, è espresso pittoricamente come luogo destinato all’azione. La
linea che chiude la figura è animata da una singolare potenza espressiva e le masse plastiche,
violentemente contrapposte dall’alternarsi delle luci e delle ombre, si organizzano secondo
movimenti scenici rapidi e imprevedibili, come la realtà stessa della guerra.
115 d.C.: Apollodoro di Damasco, architetto di corte, fa elevare nel foro Traiano la colonna
celebrativa delle imprese imperiali sui Daci (101-102 e 105-106 d.C.). Si ignora il nome del
grande scultore che ha predisposto i cartoni dei rilievi e diretto l’esecuzione dell’opera. La
colonna, posata su un basamento ornato di trofei, contenente una piccola cella e le tre prime rampe
di scale, è costituita da 17 tamburi in marmo di Carrara, alti m. 1,50 l’uno, entro cui sono state
intagliate le scale a chiocciola larghe m. 0,65 e 45 piccole finestre. Al vertice, altri tre tamburi
formano il capitello dorico e la base della statua: in origine quella di Traiano, sostituita da papa
Sisto V con l’attuale immagine di San Pietro. La colonna, alta 40 m., presenta una lieve
rastrematura verso l’alto e tutta la sua superficie è ricoperta da un nastro continuo a rilievo che si
svolge a spirale per 200 m., diviso in 22 giri, undici per ciascuna delle due guerre daciche,
condotte vittoriosamente da Traiano. Tra la prima e la seconda serie dei rilievi s’interpone la
figurazione di una grandiosa vittoria che incide sullo scudo le date. Le scene sono continue,
ognuna della lunghezza di un giro, così che le vicende si sviluppano ininterrottamente lungo il
percorso della colonna, senza alterarne la struttura architettonica. Questo eccezionale
documentario di un grande avvenimento storico è realizzato plasticamente con i modi appassionati
e rapidi di una narrazione realistica, animata però da un ideale quasi religioso della storia. Il
racconto si dipana con un ritmo conciso e serrato e tocca accenti di una grandiosità veramente
epica nella rappresentazione dei personaggi storici e delle loro memorande imprese.
L’ARTE PALEOCRISTIANA
Anno 476: Odoacre, deposto Romolo Augustolo, governa l’Italia con il titolo di patrizio.
489:Teodorico vince Odoacre sull’Isonzo e a Verona. 493: Teodorico occupa Ravenna e uccide
Odoacre, i Goti lo proclamano re. 500: Teodorico a Roma. 524-525: Boezio in carcere scrive il
“De consolatione philosophiae” in attesa della morte. 526: Morte di Teodorico. 536: Belisario
entra in Italia per riconquistarla all’impero di Giustiniano. 546: Totila, a capo dei Goti, conquista
Roma. 552 Spedizione di Narsete e sconfitta e uccisione di Totila. 557-570: Agnello è
arcivescovo di Ravenna; accrescimento di splendore della Chiesa ravennate.
L’arte cristiana, dopo l’editto di Costantino del 313, va considerata come un filone dell’arte
romana del periodo tardoantico. Le sue manifestazioni infatti, architetture, pitture catacombali,
mosaici, fregi di sarcofagi, sono espresse con lo stesso linguaggio delle contemporanee opere
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pagane, e quasi sempre anche l’iconografia deriva direttamente dal repertorio romano. E’ da
notare che la religione cristiana ha le proprie radici nella vicenda storica del Cristo e trae da quella
la propria origine temporale; perciò l’arte paleocristiana ha potuto facilmente trovare nella civiltà
figurativa romana dopo Diocleziano, che riflette la concezione assoluta dello stato e rende evidenti
le prerogative divine dell’imperatore, i mezzi linguistici atti ad esprimere, in forme autonome e
sufficienti, i nuovi contenuti ideali del messaggio evangelico. Si è già accennato al carattere
particolare dell’arte romana dopo Costantino, che manifesta un progressivo passaggio dalla
“rappresentazione” continua dei fatti storici ad una “presentazione” di singoli accadimenti con
valore assoluto, quasi simbolico. Si direbbe che il “tempo”, condizione permanente dell’arte
romana, abbia assunto, dal IV sec. in poi, periodi sempre più dilatati, fino a coincidere con l’idea
cristiana dell’eternità. I centri più importanti dell’arte paleocristiana sono Roma, Milano,
Ravenna, che anche in sede politica assumono particolare rilievo nei tempi travagliati della
decadenza dell’Impero d’Occidente e delle “invasioni barbariche fino al VII sec
ARCHITETTURE A ROMA E A MILANO
A Roma, vicino alle basiliche costantiniane, di cui ci è pervenuto soltanto il ricordo (S. Pietro in
Vaticano, S. Paolo fuori le mura, S. Giovanni in Laterano), vanno menzionate S. Maria Maggiore,
S. Sabina, il Mausoleo di S. Costanza, il Battistero Lateranense e la Chiesa di S. Stefano Rotondo,
che presentano uno sviluppo basilicale o una pianta centrale. L’uno e l’altro schema, pur
derivando da modelli romani, presentano significati spaziali nuovi in relazione ai valori religiosi di
cui sono espressione. Anche nella scultura e nei mosaici si nota un adattamento dei mezzi
figurativi ai nuovi temi religiosi, che vanno definendosi man mano in iconografie caratteristiche.
Milano , sotto la guida spirituale di S. Ambrogio, conosce un periodo artistico di singolare
splendore. Basterà ricordare la grande Basilica di S. Lorenzo, risalente al 350, che nel suo
impianto centrale costituisce uno degli esempi più suggestivi dell’arte paleocristiana occidentale.
Originariamente doveva essere tutta rivestita di mosaici, e forse proprio di qui si mossero, dopo il
402, i maestri mosaicisti che iniziarono, alla corte di Onorio, la decorazione delle chiese ravennati.
IL CENTRO DI RAVENNA
Certamente Ravenna, come centro artistico paleocristiano ci ha tramandato il più ricco complesso
di architetture, sculture e mosaici che sia dato trovare. Capitale dell’Impero di Occidente dopo la
morte di Teodosio, fino alla deposizione di Romolo Augustolo (476), la città adriatica ebbe una
grande importanza politica. Dopo la dominazione di Teodorico, fu poi il centro dell’Esarcato
bizantino. Sorsero così il Mausoleo di Galla Placidia, piccolo aureo scrigno illuminato dal
suggestivo splendore dei suoi notturni mosaici; i battisteri di Neone e degli Ariani, fino alle grandi
basiliche di S. Apollinare Nuovo, di S. Vitale e di S. Apollinare in Classe, dove i grandi spazi
luminosi accolgono la polifonia armoniosa delle decorazioni musive. Come tappeti preziosi, i
pannelli con le sacre immagini adornano le superfici murarie, togliendo a queste ogni senso
plastico e creando l’atmosfera solenne del cerimoniale bizantino.
BASILICA DI SAN VITALE
L’architetto di San Vitale mostra di conoscere profondamente i mezzi espressivi dell’architettura
della tarda romanità. Il suo genio si manifesta nell’alleggerimento delle masse, in un’ulteriore
riduzione dei blocchi plastici, con un suggestivo effetto di polifonia. L’interpretazione pittorica
dello spazio interno della basilica non si limita alla sontuosa decorazione musiva, ma passa nella
realizzazione coloristica dei capitelli, dei rilievi e dei marmi decorativi.
Anno 547: il vescovo Massimiano consacra la Basilica, la cui costruzione, iniziata dopo la morte
di Teodorico (526) sotto il governo filobizantino di Amalasunta e su iniziativa di Ecclesio, è
portata successivamente a termine dopo il 450 per volontà di Giustiniano. La pianta di San Vitale,
come struttura, ricorda edifici a pianta centrale del periodo tardoromano, dalla Minerva Medica al
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Mausoleo di S. costanza a Roma,e tuttavia significa una successiva elaborazione poetica di quegli
stessi valori dello spazio. In un grande ottagono, preceduto originariamente da un nartece e da un
quadriportico, è inscritto un ottagono minore, che si apre, su ciascun lato, con un’esedra; in
direzione opposta ad una delle entrate si sviluppa il profondo presbiterio absidato, ai cui lati sono
la protesi e il diaconico. L’apparato esterno è costituito da un’ampia e semplice stesura di pannelli
murari, contrassegnati da lesene che s’ispessiscono agli angoli, assumendo l’evidenza di
membrature in tensione. Scrupolosamente lineare e geometrico l’involucro murario, l’interno si
apre ad una singolare molteplicità di percorsi visivi di straordinario effetto fantastico.
Otto alti pilastri sono congiunti da esedre, divisi in due ordini da trifore sovrapposte: il
deambulatorio e il matroneo si svolgono tra il vano centrale in luce e il muro perimetrale. Le
pareti traforate delle esedre, alleggerite dal gioco della luce e dei marmi policromi, perdono
consistenza: ogni singolo elemento architettonico, pilastri, colonne, archi, capitelli, colto e definito
nella sua individualità, vibra nello spazio armonioso, come puro elemento figurativo, liberato da
ogni determinazione funzionale..
L’ARTE DELL’ALTO MEDIOEVO
Anno 568: I Longobardi scendono in Italia. 662: Maometto inizia l’era Musulmana (Egira).
726-42: lotta fra il Papato e Bisanzio, che vieta il culto delle immagini (iconoclastia).
800: Carlo Magno è incoronato Imperatore a Roma. 827: primo sbarco musulmano in Sicilia e
conquista araba dell’isola. 962: Ottone I di Sassonia incoronato a Roma. 998: Ottone III si
stabilisce a Roma per governare l’Italia. 1000: i Veneziani conquistano la Dalmazia.
La fine dell’Impero romano in Occidente, nel 476 d. C., dissolse il regime politico unitario della
penisola italiana, ma lasciò sopravvivere la cultura tardoromana. Essa trovò a Roma, Milano e
Ravenna i suoi centri maggiori. Con le successive invasioni dei popoli viciniori, che i Romani
chiamavano “barbari”, si ebbe la sovrapposizione delle loro diverse culture a quella già radicata
in Italia. Il periodo artistico dell’Alto Medioevo comincia con la invasione dei Longobardi nel
568, seguiti nel secolo IX dai Franchi e nel X dai Sassoni. Esso termina verso il 1000, quando già
si possono notare i primi segni della formazione di un linguaggio autonomo nella penisola italica.
ARTE LONGOBARDA
L’incontro delle culture germaniche con la tradizione tardoromana riesce estremamente
stimolante, specie dove i “barbari” recano con sé elementi di tradizioni extraeuropee, fondate
persino sulla millenaria arte dell’estremo Oriente. Così i Longobardi introducono il particolare
tipo di decorazione “ a intreccio”, che avvolge con inestricabili legature, animali, elementi
vegetali, motivi astratti. La linea è l’elemento fondamentale di tale decorazione, specialmente
nelle oreficerie e nelle sculture a bassorilievo, di cui restano sarcofagi e altari, specie nella pianura
lombarda e nel Friuli. Contemporaneamente, allo stile longobardo si affiancano forme irlandesi,
penetrate attraverso i monasteri, specie nella miniatura o in affreschi, di cui alcuni sopravvivono
nella Val Venosta, con particolari effetti ritmici, ricchi di forza espressiva. Essi contrastano però
con altre tendenze più classicheggianti, che troviamo in Lombardia a Castelseprio, e nell’Italia del
Sud, aperta a influenze dirette dell’arte di Bisanzio. In monasteri della Puglia e della Campania,
si sviluppa poi una particolare figurazione, che sembra mescolare le diverse influenze nordiche e
classicheggianti: è la cosiddetta arte “benedettina”, spesso drammaticamente espressiva, come nei
famosi affreschi di Sant’Angelo in Formis.
IL PERIODO CAROLINGIO
Restaurato l’impero di Occidente nell’anno 800, Carlo Magno dà grande impulso alla cultura,
tanto che si può esattamente parlare di una “rinascenza” carolingia. Scuole di palazzo, centri
culturali, monasteri attivissimi irradiano il loro influsso dalle città franche e germaniche, tra cui
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primeggiano Reims ed Aquisgrana. La rinascenza carolingia , per promuovere un vasto
movimento culturale nei paesi franchi e germanici, non poteva che volgersi con rinnovato
interesse alla tradizione classica, i cui riflessi le giungevano anche per la mediazione della cultura
irlandese: non per nulla uno dei dotti consiglieri della corte di Carlo Magno fu il monaco irlandese
Alcuino. Il periodo carolingio segna una rinascita anche in Italia di cultura classicheggiante, per la
ripresa di intensi contatti con Bisanzio. Ciò appare chiaro nei codici miniati dalle attivissime
scuole germaniche, e nell’architettura, ispirata, come ad Aquisgrana e in Lombardia, a piante
accentrate tardoromane. Un sapore “barbarico” è conservato nella oreficeria, che lascia famosi
capolavori nel tesoro di Monza e nell’altare d’oro a Sant’Ambrogio. Le correnti germaniche si
fanno risentire più forti nel successivo periodo di dominazione ottoniana, e danno luogo al nascere
di un’arte germogliata su quella romana, ma originale nelle espressioni: chiamata perciò appunto
“romanica”. I suoi capolavori fioriranno dopo il 1000, nella pianura lombarda, da Galliano a
Sant’Ambrogio di Milano e alle altre grandi cattedrali della Valle Padana.
CASTELSEPRIO
Gli affreschi di Castelseprio hanno importanza fondamentale non solo per lo studio della
tradizione tardoromana in Italia, ma per identificare anche i caratteri dell’arte del popolo
longobardo, in relazione ancora all’influsso bizantino e alla successiva rinascita carolingia. Essi
sono quindi un elemento chiave per comprendere il periodo meno conosciuto dell’Alto Medio
Evo.
Nel 1948 il mondo degli studi medioevali fu messo a rumore per la rivelazione di una eccezionale
scoperta: gli affreschi della chiesetta di Santa Maria Foris Portas a Castelseprio, presso Varese. Si
squarciava d’un tratto il velo di silenzio che aveva fino allora coperto molti secoli di storia
figurativa nel nostro paese, dalla caduta dell’Impero romano all’epoca carolingia. Le regioni del
Nord, dominate dai Longobardi e poi conquistate dai successori di Carlo Magno, rivelavano per la
prima volta il segreto della loro cultura pittorica.
La serie di affreschi con la Vita di Gesù, che decorano l’abside della cappella, ha suscitato grandi
polemiche fra gli studiosi per la sua datazione, da collocarsi appunto fra la invasione longobarda
(sec. VII) e la rinascita di classicismo dell’epoca carolingia (sec: IX-X). Di certo, il misterioso
artista (che si è anche supposto fosse un monaco vagante, di cultura siriaca) dimostra di conoscere
bene gli esempi della pittura tardoromana, fatta di tocchi illusionistici, con forti accentuazioni di
luce. Tanto più stupefacente è quindi la sua presenza in una zona assai modesta, per il lungo
silenzio medievale, e semmai legata, come appare dalle sculture contemporanee, alle forme
stilizzate e piuttosto astratte della tradizione orientaleggiante.
Il monumento artistico di Castelseprio sta comunque a provare che anche nel Nord Italia era vivo,
o comunque stava rinascendo, un movimento ispirato a quelle fonti romane, cui si dovrà, attorno
all’anno Mille, la rinascita della nostra arte nazionale.
L’ARTE ROMANICA
Anno 1001: cacciata di Ottone III da Roma e inizio dell’età dei Comuni. 1072: conquista
normanna della Sicilia. 1077: Gregorio VII umilia l’Imperatore Enrico IV a Canossa.
1096: inizio della prima Crociata. 1176: vittoria dei Comuni italiani contro il Barbarossa a
Legnano. 1194: Enrico VI di Svevia conquista la Sicilia. 1204: i Crociati conquistano
Costantinopoli. 1223: San Francesco fonda l’ordine dei Francescani. 1265: nasce a Firenze
Dante Alighieri,
Attorno al mille possiamo individuare l’origine di un’arte italiana medioevale con caratteristiche
di autonomia. Essa appare l’evoluzione delle forme tardoromane, integrate dalla vitalità creativa
“barbarica”, ed assume il nome di arte “romanica”, in analogia alle consimili formazioni culturali
nate nelle antiche province romane, dalla Spagna alla Gallia e ai Balcani. Caratteristiche dell’arte
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romanica sono: lo spirito “popolare”, che conferma la sua derivazione dal basso latino; il
naturalismo nelle pitture e nelle sculture, che assume aspetti più reali e narrativi; la rude potenza
espressiva delle forme architettoniche; le grandiose figurazioni scultorie, a fresco o a mosaico, che
narrano le opere e i giorni dell’uomo.
LE CATTEDRALI LOMBARDE
Come si è detto, l’arte romanica non è soltanto un fenomeno italiano, ma si sviluppa in tutte le
aree civili di origine tardoromana. Uno dei suoi comprensori più importanti è senza dubbio la
pianura Padana, solcata da vie di pellegrinaggi che portano in Francia e in Spagna, arricchita dalla
favorevole congiuntura economica dell’età dei Comuni. Le prime cattedrali sono appunto
espressioni di questo benessere: ecco Sant’Ambrogio a Milano, seguita da San Michele a Pavia,
dal Duomo di Modena e da quelli di Parma, Piacenza, Ferrara. Venezia, isola bizantina entro un
territorio romanico occidentale, fonde in San Marco le diverse influenze, creando un capolavoro
unico. Sulle facciate, sui capitelli e gli amboni delle nuove chiese fioriscono le sculture, che con
Viligelmo a Modena raggiungono caratteri di altissima poesia. Numerosissimo lo stuolo dei
seguaci, che si spingono fino in Toscana, nelle Puglie, in Italia meridionale, spesso contrastati
dalle locali forme bizantineggianti, sempre più auliche e idealizzate. La conquista normanna in
Sicilia offre la possibilità di nuove costruzioni specie a Palermo, spesso sensibili a influenze arabe,
e decorate da mosaici dapprima grecizzanti, poi ispirati a una più realistica scuola locale (cappella
Palatina).
ARTE DEL DUECENTO
Il Duecento accentua la formazione dell’arte nuova. Le relazioni commerciali, intense soprattutto
verso Ovest con la Francia e verso Est con i paesi dell’Oriente mediterraneo, creano nuove
occasioni di esperienze agli artisti in ogni campo. Benedetto Antélami reca dalla Provenza i primi
esempi di una rinnovata scultura, raffinatamente elegante, e forme architettoniche più slanciate,
con archi a sesto acuto. Siamo così agli inizi dell’arte che sarà chiamata “gotica”, nata per logica
evoluzione dal ceppo romanico. In Toscana trionfa la pittura a mosaico e soprattutto su tavola, e i
nuovi artisti, come Giunta, Coppo e Cimabue, sembrano superare l’aulico ricordo delle forme
bizantine, per toccare immagini più drammatiche, tese ed umane, ormai aperte ad interessi
realistici e naturali. Ormai in quasi tutta la penisola si parla e si scrive in “volgare italico”, e sono
prossimi i tempi di Dante e di Giotto.
BASILICA DI S. AMBROGIO
Nel corso dell’Alto Medioevo, l’arte italiana aveva ritrovato un suo carattere unitario. Di
quest’arte, che si chiamò “romanica”, per analogia con le lingue e letterature romanze dell’Europa
neolatina, le manifestazioni più importanti sono le grandiose cattedrali, che vengono sorgendo
lungo la valle del Po a partire dal secolo XI. Loro caratteristica comune è la potenza espressiva
impressa dalle strutture alle masse murarie, per cui gli spazi interni assumono un significato
plastico.
Attorno al 950 sono databili l’abside e il presbiterio della basilica di Sant’Ambrogio, prototipo
della architettura romanica lombarda. Nel 1098, una lapide, murata sulla facciata, ricorda la
istituzione della festa dei Santi Gervasio e Protasio: la grande costruzione era quindi
probabilmente finita. Di fronte alla facciata sorse anche un quadriportico, mentre al posto della
prima campata, vicino al presbiterio, veniva innalzato un “tiburio” ottagonale, che sarà poi tipico
dell’architettura lombarda. Sotto al presbiterio è posta la “cripta”, a un livello inferiore, sostenuta
da numerose arcatelle minori.
Non c’è dubbio che Sant’Ambrogio concluda un periodo di formazione della architettura
lombarda, durato più secoli. Ma l’importanza di quest’opera sta nella unità stilistica, che sembra
fondere ormai i singoli ritrovati tecnici, creando un vasto spazio articolato, sotto le possenti
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campate della navata maggiore, chiuse in alto dalle volte “a crociera”, che saranno poi tipiche di
tutte le costruzioni consimili nel secolo successivo. Anche la luminosità dell’interno assume, nella
nuova struttura, un significato particolare. Al posto della chiarità diffusa e statica della basilica di
tipo bizantineggiante, ecco ora il gioco animatissimo della luce, che scorre lungo la navata
maggiore, si spegne nelle ombre delle minori, sottolinea la spinta massiccia degli archi,
alleggerisce la struttura delle pareti, là dove si osservano le aperture dei “matronei” al piano
superiore.
Partecipano a questa vitalità formale le innumeri sculture a rilievo sui capitelli, lungo le cornici,
nei pulpiti e nel ciborio dell’altar maggiore: capolavori di un’arte plastica sempre tesa, scattante,
ricca di valori simbolici nelle favolose rappresentazioni di animali e di intrecci decorativi.
I MOSAICI DI SAN MARCO
Sebbene si debba ravvisarvi l’opera di numerosi artisti, e la esecuzione si dilunghi per circa un
secolo, i mosaici marciani medievali hanno una singolare unità stilistica. Venezia, giunta in
ritardo nel campo dell’arte romanica, si crea rapidamente una lingua figurativa, cogliendo da
Ravenna il gusto del colore, e dall’espressionismo nordico e bizantino provinciale il segno
incisivo e la tensione plastica, che suggeriscono il movimento.
La Basilica di San Marco è un capolavoro secolare, ma può ricondursi, nella sua forma originaria,
a un modello costantinopolitano: la chiesa dei Dodici Apostoli. Fu consacrata nel 1096, e subito
rivestita di mosaici, secondo una tradizione che da Bisanzio e da Ravenna era giunta fino a
Torcello e a Venezia.
Poche tracce rimangono della prima decorazione, che fu fatta sotto il Doge Domenico Selvo
(1071-85): forse le appartengono gli Apostoli e la Madonna del portale interno, e i Santi
dell’Abside. Questi mosaici mostrano le due fondamentali correnti seguendo le quali trae inizio la
pittura veneziana: la tradizione paleocristiana ravennate, splendidamente cromatica, e le forme più
plastiche dello stile monumentale bizantino di provincia.
Dopo un incendio del 1106, che distrusse le cupole, si ritardò la nuova decorazione a mosaico fino
al 1156. I mosaici principali di questo secondo ciclo sono quelli della cupola della Pentecoste e
dell’Ascensione, e gli arconi con le Storie di Cristo e la Vita di Maria. Gli artisti veneziani vi
dimostrano una notevole autonomia, con caratteristiche accentuazioni lineari, di effetto simile ai
rilievi della scultura romanica.
Col duecento si apre il terzo e maggiore periodo dei mosaici marciani, con l’Orazione nell’Orto e
l’arcone della Passione. Il disegno e il colore di acuta vivacità rientrano ormai nel più tipico
espressionismo romanico. Faranno seguito i mosaici dell’atrio, fra il 1240 e il 1280 circa, che
vanno allentando le forme tesissime del periodo centrale, verso uno stile coloristicamente più
raffinato, dai sottili linearismi che già preludono al Gotico. Un altro capolavoro di questo periodo
è il mosaico del Giudizio Universale a Torcello, databile al principio del sec. XIII.
L’ARTE GOTICA
Anno 1250: morte di Federico II. 1258: Manfredi viene incoronato re di Sicilia. 1261: caduta
dell’impero latino di Costantinopoli. 1266: Carlo d’Angiò viene incoronato a Roma re di Sicilia.
1265: nasce a Firenze Dante Alighieri. 1285-1314: regno di Filippo IV, detto il Bello, che
afferma la sua sovranità su quasi tutto il territorio francese. 1294: sale al seggio pontificio
Bonifacio VIII . Lotte tra Bonifacio VIII e Filippo il Bello. 1309: Clemente V fissa la residenza
della curia papale ad Avignone. La cattività avignonese dura fino al 1377. 1311: Enrico VII
viene incoronato in Sant’Ambrogio a Milano. Passaggio dai Comuni alle Signorie. 1348-1353:
Boccaccio scrive il Decamerone. 1374: muore Francesco Petrarca. 1378-1381: guerra detta di
Chioggia tra Venezia e Genova.
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Con la parola “gotico” gli uomini del Rinascimento italiano hanno inteso spregiativamente
indicare le manifestazioni artistiche del Basso Medioevo, che, a partire dal XII sec., fiorirono
prima in Francia, quindi in ogni altra contrada europea: Gotico, cioè barbarico. Oggi, a questo
termine noi diamo un significato tutto diverso, e intendiamo qualificare i prodotti di una visione
artistica affermatasi con intendimenti e finalità diversi da paese a paese, per alcuni secoli, e
corrispondente ad una delle stagioni più luminose della civiltà occidentale. La premessa dell’arte
gotica è certamente reperibile nell’esperienza romanica, anzi questa ne costituisce, per così dire, la
struttura linguistica fondamentale. I caratteri più evidenti sono una rigorosa struttura logica, quale
si manifesta nelle soluzioni architettoniche dei grandi spazi delle cattedrali; una raffinata, preziosa
eleganza formale, che investe ogni singolo prodotto artistico, dalla pagina miniata all’arazzo,
dall’avorio scolpito al monile, dagli smalti policromi all’abbigliamento; una spiccata tendenza
all’unità delle forme artistiche, per cui pittura e scultura sono intese come parte integrante
dell’architettura.
LE CATTEDRALI GOTICHE
Così le grandiose cattedrali e gli edifici civili dei secoli XII-XV, in quasi tutta l’Europa,
raccolgono in sé tutti gli elementi costitutivi della visione gotica, dallo spazio architettato alle
decorazioni plastiche e pittoriche; sono cioè una specie di “summa”, caso per caso, della cultura
figurativa di quel determinato centro e di quel particolare momento storico. Questa stretta
relazione tra pittura, scultura e architettura è tipica di una civiltà collettiva come è quella del Basso
Medioevo, soprattutto nelle regioni del Nord-Europa. Usualmente si pensa che il verticalismo,
evidente carattere dell’arte gotica, abbia una motivazione mistica; e non v’è dubbio che lo spazio
chiesastico sia sentito in questo periodo con particolare intensità religiosa; non va peraltro
dimenticato che, soprattutto nel XIV secolo, va affermandosi uno spirito borghese non alieno dal
considerare con vivo interesse gli aspetti di una vita mondana e piacevole quale si esprimeva nelle
civiltà comunale.
DA ANTELAMI AD ARNOLFO
L’arte gotica pertanto, avendo uno sviluppo ininterrotto di più secoli, presenta una eccezionale
molteplicità di aspetti e di significati: dal sacro al profano, dal logico-matematico della struttura al
decorativo più fantasioso, dalla complessità intenzionale di un capolettera su di un rotolo miniato,
alla lucida elementarità di una planimetria urbana.
In Italia, dai primi decenni del ‘200, l’arte gotica viene adattata alle strutture persistentemente
classiche della nostra civiltà. Le abbazie e le cattedrali conservano una spazialità compatta ancora
romanica, anche se vengono impiegati l’arco acuto e l’ogiva; così gli scultori, da B. Antelami a
Nicola Pisano fino ad Arnolfo, pur accogliendo in misura diversa la lezione transalpina, hanno
della forma un senso monumentale ed autonomo. Non diversamente i pittori, da Duccio di
Boninsegna ai Lorenzetti, da Giotto a Vitale bolognese, da Giovannino De’ Grassi a Gentile da
Fabriano, usando come Dante, Petrarca e Boccaccio il “volgare”, danno l’avvio ad una lingua
artistica italiana, cui sarà delegato il profondo rinnovamento della nuova concezione formale nel
Quattrocento.
BENEDETTO ANTELAMI
La visione artistica di Benedetto Antelami accoglie l’antica tradizione lombarda altomedievale e
promuove, ad un tempo, l’aggiornamento del linguaggio romanico con gli influssi classicheggianti
del gusto provenzale e della nuova, acuta sensibilità del gotico francese. Il suo mondo poetico,
vario e molteplice per la ricchezza dei sentimenti, lascia intravedere la comparsa di un delicato
soffio di umanità, che darà poi vita all’arte del Duecento nelle regioni dell’Italia del Nord.
1178: è questa la prima data relativa ad una biografia di Benedetto Antelami ed è l’artista stesso
che ce la comunica nella scritta corrente sotto il fregio niellato della Deposizione parmense: “nel
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febbraio 1178 si è rivelato uno scultore; questo scultore è Benedetto, detto l’Antelami”. Il
cognome Antelami deriva, con ogni probabilità, dal nome della Valle d’Intelvi, nota per le
corporazioni di architetti che ne trassero origine. Benedetto giunge forse a Parma da Genova, città
aperta ad influenze provenzali; anzi è da pensare che l’artista si sia formato, durante la sua prima
giovinezza, in qualche cantiere di Provenza. Solo nel 1196 Benedetto ricompare a Parma per dar
inizio al Battistero. Durante i 15 anni intercorrenti tra le due opere, l’artista è assente dalla scena
italiana, e molto probabilmente si reca nella Francia del Nord, dove viene a contatto con la cultura
gotica d’oltralpe.
La sua attività a Parma dura fino al 1216, e in questi stessi anni, che coincidono con la maturità
dell’artista, va ricordato il suo lavoro di completamento della Cattedrale di Fidenza, iniziata
intorno al 1180-1190. L’ultima fase dell’attività di questo straordinario creatore è documentata
dalle sculture dell’Abbazia di S. Andrea di Vercelli, databili intorno al 1219 (anno di fondazione
della chiesa). Ma è anche supponibile, sulla base di talune osservazioni stilistiche, che l’Antelami
abbia provveduto alla progettazione dell’intera Abbazia vercellese. Architetto e scultore,
Benedetto Antelami è una delle personalità di più alto rilievo nel momento di trapasso dell’arte
romanica italiana alla nuova cultura gotica di origine franco-provenzale. Ignoti sono il luogo e la
data della morte, avvenuta verso il 1230.
CATTEDRALE DI CHARTRES
L’anonimo architetto di Chartres mostra di possedere il rigore intellettuale di un grande teologo
del medioevo: ogni singolo elemento architettonico è considerato come una premessa o un
riscontro destinati a reggere una dimostrazione conclusiva, perfetta e inoppugnabile come la
verità. Eppure , tanta lucida intelligenza, attraverso l’atmosfera irreale delle vetrate, giunge a
significati altamente umani, così che la grande casa di Dio è anche il luogo d’incontro e di sosta
per tutta una comunità
1194: un incendio distrugge l’antica chiesa fatta erigere dal vescovo Fulberto, in onore della
Vergine. Di questa prima fabbrica vengono incorporate nella nuova costruzione la grande cripta e
la facciata occidentale con le due torri e il famoso “portale reale”. La ricostruzione, eseguita
secondo la tecnica più avanzata e gli esempi di Saint Denis, di Sens, dell’Ile de France,si protrae
durante tutta la prima metà del sec. XIII. La consacrazione della cattedrale avviene il 24 ottobre
1260. E’ una delle più suggestive e grandiose cattedrali di Francia, dove per la prima volta i
matronei di origine romanica vengono sostituiti dagli archi rampanti: l’arte gotica giunge con
questa fabbrica alla piena maturità espressiva.
Lo spazio romanico, delimitato da forti murature connesse secondo legamenti rigidi (volte
semplici e a crociera), di significato plastico, si apre a valori dinamici di straordinaria potenza.
L’arco a sesto acuto, la volta sorretta da una crociera ogivale, i contrafforti e l’arco rampante sono
gli elementi che consentono la nuova visione luminosa di questo spazio di Chartres. Ma al di là
delle tecniche, un nuovo spirito si manifesta: le strutture vengono considerate come gli elementi
logici di un sillogismo scolastico. Le nervature, i pilastri, i contrafforti s’incontrano ad altezze
vertiginose nei punti precisi di equilibrio: le murature scompaiono e lasciano il posto a pareti di
vetro policromo, attraverso cui la luce filtra creando un’atmosfera assolutamente irreale degna
della città di Dio; le sculture accompagnano con le loro storie sacre, come attraverso le pagine
miniate di una Bibbia, il progresso dell’anima del fedele verso il suo Creatore.
GIOVANNI PISANO
Spirito medievale, Giovanni ha della vita una visione contrastata e dolorosa. I suoi personaggi
sono scolpiti con un impeto creativo irrefrenabile: il gesto, la mimica, la violenza dei movimenti
nei corpi e nelle vesti, tutto è espressivo di una concitazione altamente drammatica. Solo alla fine
della sua attività, Giovanni pare ritrovare un inatteso equilibrio tra sentimento e ragione.
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1248 c.: nasce a Pisa Giovanni, figlio di Nicola, artista di larghissima fama, che aveva riportato la
scultura italiana a una classica solennità. La formazione artistica di Giovanni avviene nella
bottega del padre: giovanetto, collabora ai pulpiti scolpiti di Pisa e di Siena. Ma la sua prima
opera, la piccola Madonna in avorio di Pisa, annuncia una tendenza opposta a quella di Nicola,
dimostrando vivo interesse per l’arte gotica di derivazione francese.
Tale orientamento è pure manifesto nelle parti della Fontana di Perugia, firmata assieme a Nicola
nel 1278, che raffigurano immagini di Santi, di Profeti e di Città, poste attorno alla vasca
superiore. Solo qualche anno dopo però la visione artistica di Giovanni giunge a completezza in
un’opera indipendente, con le statue destinate alla Facciata del Duomo di Siena (1284-1296). Un
generoso impeto espressivo scaturisce dalle figure bibliche, che appaiono colte in momenti
d’intensa vita sentimentale. Lasciata Siena, dopo una parentesi pisana, Giovanni lavora, tra il
1298 e il 1301, al Pulpito della chiesa di S. Andrea di Pistoia. Qui, l’artista fa vibrare le note più
alte e commosse della propria fantasia poetica: libero ad un tempo dagli influssi classicheggianti
del padre e dagli schemi gotici francesi, crea un mondo originale di drammatica vitalità, e si pone
come una delle espressioni più alte dell’arte europea. Subito dopo, nel Pulpito del Duomo di Pisa
(1302-1310) Giovanni pare acquietare la propria tumultuosa visione in una più distesa
composizione architettonica delle singole scene. A un linguaggio immediato e violento, viene così
sostituendosi, nell’ultima fase dell’arte di Giovanni, un’intensa meditazione dei sentimenti umani.
Tra le ultime opere vanno ricordati i resti del Monumento funebre a Margherita di Lussemburgo
(1313) e la Madonna della cintola del Duomo di Prato. Muore, con ogni probabilità, a Siena nel
1317.
GIOTTO
Il realismo di Giotto non riguarda la natura quanto l’uomo, inteso come protagonista di una
vicenda spirituale, il cui estremo destino è la salvazione o la morte. Pittore del Medioevo, ha
inteso lo spazio come elemento necessario ad accogliere le singole azioni umane, con un
sentimento altamente drammatico della responsabilità individuale. Nelle sue espressioni più alte, i
problemi della forma plastica, i rapporti architettonici fra le figure, il nuovo senso della natura e
dell’uomo si fondono in un linguaggio di toccante modernità.
1267 c.: Giotto di Bondone nasce a Firenze e presto s’impone come pittore su tutti i
contemporanei, così da suggerire a Dante la famosa terzina del canto XI del Purgatorio:
Credette Cimabue nella pittura
tener lo campo e ora ha Giotto il grido,
sì che la fama di colui oscura.
La sua prima attività è rilevabile a partire dal 1296 nella Basilica di Assisi, dove avevano già
operato, pochi anni prima, Cimabue e i Maestri romani. Giotto si pone in quest’opera, il cui tema
è la leggenda di San Francesco, il problema di una nuova rappresentazione dello spazio,
richiamandosi alla scultura pisana contemporanea.
Dopo Assisi , Giotto si reca a Roma per il Giubileo del 1300. Il contatto con questo ambiente
artistico induce il Maestro toscano ad arricchire il proprio colore di una più intensa e pura
luminosità, che costituisce la caratteristica formale delle opere del suo secondo periodo: gli
Affreschi della Cappella degli Scrovegni a Padova. Tra il 1304 e il 1306, Giotto infatti raffigura
in 39 grandi riquadri la vita di Gioachino e Anna, la vita di Maria, la vita di Gesù e, sulla parte
sopra la porta, il Giudizio Universale. Il grandioso ciclo padovano mostra a quale complessità di
significati poetici sia ormai giunta la visione di Giotto: ogni sentimento umano trova il proprio
esatto registro formale, dai toni lirici della Fuga in Egitto, all’intensa drammaticità del Compianto.
Dopo gli Scrovegni, Giotto opera a Firenze con gli affreschi della Cappella Bardi e Peruzzi in S.
Croce e successivamente a Napoli e a Milano, dove peraltro le sue opere sono andate perdute;
resta,quasi testamento poetico di questo sommo pittore spaziale,, un’opera architettonica: il
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Campanile di S. Maria del Fiore, iniziato nel 1334 e completato più tardi dal Talenti. Muore a
Firenze nel 1337.
SIMONE MARTINI
Gotico elegantissimo nella composizione d’immagine, nella stesura preziosa del colore, nella
ritmica definizione di ogni singola strofe lineare, Simone, sia che affronti un tema sacro o svolga
un argomento profano, sconfina sempre nella favola dorata, dove la realtà è rivissuta e riproposta
nei termini astratti e assoluti della memoria poetica. Non a caso Petrarca scrive dell’arte di
Simone:
…l’opra fu ben di quelle che nel cielo
si ponno immaginare, non qui tra noi,
ove le membra fanno all’alma velo.
Anno 1284 c.: Simone nasce a Siena, dove fiorisce una scuola pittorica, che, sotto la guida di
Duccio di Boninsegna, gode di larghissima rinomanza. La città toscana è divenuta nella seconda
metà del sec. XIII un centro di cultura cosmopolita, dove giungono i prodotti artistici di Francia e
dell’estremo Oriente (arazzi, avori, rotoli miniati gotici, ceramiche e stoffe cinesi). Nel 1315
Simone firma la sua prima grande opera, la Maestà del Palazzo Pubblico di Siena, nella quale, se è
ancora evidente l’interesse del giovane artista per lo stile prezioso del grande Duccio, non
mancano accenti di una diversa e più alta qualità poetica. Nel 1317 Simone è attivo alla corte
angioina di Napoli, nel ’19 a Pisa, nel ’20 a Siena, e tra il ’23 e il ’26 ad Assisi per gli Affreschi
della Cappella di S. Martino nella basilica francescana. In questi anni, l’artista mostra di
allontanarsi progressivamente dall’eleganza stilistica fine a se stessa, tipica dell’ambiente di
Duccio, per accedere, sulla base di suggerimenti tratti dall’opera di Giovanni Pisano e di Giotto,
ad un senso più immediato della realtà. Narratore disinvolto e curioso, non manca di accogliere,
in ritmi poetici squisiti, fatti e personaggi storici, come nell’Affresco del 1328 per il Palazzo
Pubblico di Siena, dove Guidoriccio da Fogliano è raffigurato in passeggiata trionfale verso i
castelli conquistati. Non diversamente, Simone può comporre in ritmi perfetti, nel 1333, l’evento
sacro dell’Annunciazione degli Uffizi. Dopo il ’40, Simone si reca ad Avignone, alla corte papale,
dove incontra Francesco Petrarca. Purtroppo le sue pitture avignonesi, che ebbero largo influsso
sull’arte francese, sono andate perdute. Muore nella città provenzale nel 1344.
IL PRIMO RINASCIMENTO IN ITALIA
Anno 1412: la Sicilia si unisce al Regno d’Aragona. Lotte tra il Papato e i Principati. 1434:
Cosimo de’ Medici Signore di Firenze. 1442: Alfonso d’Aragona Signore di Napoli.
1450:Francesco Sforza Duca di Milano. 1453: Maometto conquista Costantinopoli. 1462:
Giovanni Gutenberg inventa la stampa a caratteri mobili. 1469: Signoria di Lorenzo il Magnifico
a Firenze. 1475: il Poliziano pubblica le Stanze. 1492: Cristoforo Colombo scopre l’America.
1494: discesa in Italia di Carlo VIII.
“Rinascimento” è il termine usato dagli scrittori d’arte del Cinquecento, per contrapporre il
periodo storico di cui essi facevano parte, ai pretesi “secoli oscuri” del Medioevo. La storiografia
artistica infatti ignora deliberatamente gli aspetti creativi di quell’epoca, ritenuta irrimediabilmente
lontana dalla tradizione classica. Si voleva invero alludere, con quel termine, al rinascere di uno
stile classicistico, ispirato all’antichità romana, di nuovo al centro del più alto interesse tra gli
uomini di cultura.
ARTE DEL PRIMO RINASCIMENTO
Noi sappiamo comunque che anche il Medioevo ebbe altissime manifestazioni d’arte, e rifiutiamo
quindi ogni significato dispregiativo verso il passato, insito nel termine “Rinascimento”. Quello
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che in verità muta, col principio del Quattrocento, è la concezione del mondo, e la valutazione
della posizione spirituale dell’uomo. La sete di conoscenza razionale, il risorto interesse per la
natura, che vede i fenomeni fisici nella loro realtà, portano anche nelle arti ad una impostazione
estetica del tutto nuova. Il primo risultato di questa filosofia sarà la teoria prospettica, che colloca
l’uomo al centro dell’universo sensibile. Firenze, favorita da un regime liberale e illuminata da
uomini di eccezionale intelletto, vede le prime realizzazioni delle teorie rinascimentali. Le
architetture del Brunelleschi, fra cui spicca la cupola di Santa Maria del Fiore, sono la sintesi delle
possibilità conoscitive e creatrici dell’uomo del Rinascimento, che tocca le più suggestive
espressioni figurative nelle sculture di Donatello e negli affreschi di Masaccio.
DIFFUSIONE DEL RINASCIMENTO
Da Firenze, verso la metà del Quattrocento, la visione rinascimentale passa in tutta la penisola.
Mentre Venezia e Verona raccolgono gli ultimi echi del Gotico internazionale, a Padova soggiorna
Donatello e nasce una vera scuola rinnovata sotto la guida del Mantegna. Da questa dipende
anche lo sviluppo dei Veneziani della seconda metà del ‘400, tra cui Giovanni Bellini e il
Carpaccio. A Ferrara, i pittori della corte estense, fra cui Tura, Cossa, De Roberti, realizzano una
versione drammatica ed espressiva dei motivi toscani, mentre l’architetto Rossetti rinnova
modernamente la città. In Lombardia, attraverso il Mantegna stesso, la pittura prende nuove
vie,mentre nell’architettura si annuncia, dopo le teorie idealistiche del Filarete , il genio classico
del Bramante.
La seconda generazione toscana del Quattrocento riunisce altre personalità artistiche di primissimo
rango: dall’architetto Leon Battista Alberti, rinnovatore dell’umanesimo classico a Firenze, a
Rimini e a Mantova; fino al favoloso prospettico Paolo Uccello, e al plastico Andrea del
Castagno. Alla fine, Piero della Francesca realizzerà la sintesi della forma plastica toscana con il
colore atmosferico, nei suoi affreschi permeati di luce, ispirati ad una solenne, ieratica concezione
del mondo e dell’umanità. Antonello da Messina, genio isolato come il Laurana, ne trarrà
ispirazione. Verso la fine del Quattrocento, il Rinascimento toscano si esprime nello stile colto
delle opere del Verrocchio e del Pollaiolo, contemporanee alle pitture del Botticelli;
parallelamente, una generazione di architetti, dai Da Majano ai Sangallo, sviluppa la lezione
spaziale del Brunelleschi.
FILIPPO BRUNELLESCHI
L’organizzazione dello spazio proposta dal Brunelleschi, secondo principi razionali, determina il
sorgere di una nuova visione artistica, espressione anticipatrice di quel rigore di ricerca e di
verifica che anima tutto il pensiero umanistico. Con l’opera architettonica di questo artista si
chiude per l’Italia la stagione dell’arte gotica e ha inizio la prima fase della civiltà rinascimentale.
1377: nasce a Firenze Filippo Brunelleschi e viene, ragazzo, avviato all’arte dell’orafo. Gli inizi
della sua attività indipendente sono documentati da quattro statue per l’altare di San Jacopo di
Pistoia, degli ultimissimi anni del ‘300. Poco dopo, Brunelleschi si presenta al concorso per i
rilievi della seconda porta del Battistero di San Giovanni con la formella raffigurante il Sacrificio
di Isacco. Gli viene preferito il Ghiberti, la cui arte appare più rispettosa della tradizione gotica.
Dal 1402, data del concorso, al 1418, il Brunelleschi compie numerosi viaggi a Roma per studiare
le antichità classiche, interviene ripetutamente nell’Opera di Santa Maria del Fiore, frequenta il
matematico Paolo dal Pozzo Toscanelli, esegue, alla fine, il Cristo crocifisso di Santa Maria
Novella. Nel 1418 Brunelleschi partecipa al concorso per la Cupola di S. Maria del Fiore, e gli
viene affidato, congiuntamente al Ghiberti, l’arduo incarico dell’opera. Inizia così l’attività di
Brunelleschi architetto, le cui prime tappe sono: l’Ospedale degli Innocenti (1419-1424), la
Basilica di San Lorenzo e l’annessa Sagrestia Vecchia (1423-1428). In queste sue opere, l’artista
esprime una visione spaziale, formalmente risolta come pura immagine lineare, seguendo i
principi della geometria piana. Qualche anno appresso, con la Cappella de’ Pazzi (1429-1430),
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forse accogliendo suggerimenti dell’ambiente artistico più avanzato (Masaccio), Brunelleschi si
propone una soluzione plastica dello spazio. Tale ricerca è condotta innanzi con la Lanterna della
cupola (1436), con le Esedre (1438) di S. Maria del Fiore e soprattutto con il capolavoro della
maturità, la Chiesa di S. Spirito (1432: progetto; 1444 inizio dell’esecuzione). Muore a Firenze
nel 1446.
DONATELLO
Conoscitore dei modelli classici antichi e dei principi teorici della prospettiva, Donatello avverte
che la sola sorgente della propria ispirazione poetica è l’anima umana, con le sue sofferenze e le
sue speranze. Riesce pertanto a significare, in termini di alta poesia, un drammatico “umanesimo”
figurativo, che trova precipua espressione nella sua visione plastica, immersa in una luce
drammatica e sofferta.
1386: nasce a Firenze Donatello. Nel 1403 il suo nome compare per la prima volta tra gli aiuti
della bottega di Lorenzo Ghiberti, impegnato nella porta bronzea del Battistero. Amico del
Brunelleschi, a trent’anni ha maturato un’ampia e approfondita esperienza plastica, il cui più alto
risultato è raggiunto nel S. Giorgio (1416) per Orsammichele. Con quest’opera si conclude
l’attività giovanile di Donatello, che,attraverso la prospettiva, dà ordine allo spazio dell’immagine,
secondo una qualificazione geometrica delle forme. Nel decennio successivo, la visione
donatelliana si arricchisce di accenti umani, come è dato di osservare nel Busto di S. Rossore,
della chiesa di S. Giovanni dei Cavalieri a Pisa, e nei due profeti Geremia e Abacuc per il
Campanile del Duomo fiorentino.
Da questo momento la principale protagonista della spazialità donatelliana è la luce, in cui le
forme plastiche si pongono secondo le necessità dettate dalla fantasia poetica dell’artista. Si
vedano a questo proposito i rilievi bronzei per il Fonte battesimale di Siena (1423-29), eseguiti
con la collaborazione di Michelozzo. Verso il 1432 Donatello si reca a Roma, e successivamente,
tornato a Firenze, esegue una serie importante di opere, tra cui vanno particolarmente ricordate: la
Cantoria del Museo dell’Opera del Duomo , il Pulpito esterno del Duomo di Prato,
l’Annunciazione di S. Croce, la decorazione e le due Porte bronzee della Sagrestia Vecchia di S.
Lorenzo. Dal 1443 al 1452 Donatello è a Padova, dove esegue l’Altare del Santo e la statua
equestre del Gattamelata. Le opere di questo periodo sono caratterizzate da un intenso sentimento
drammatico. Ritornato a Firenze, esegue la Maddalena del Battistero fiorentino, il Battista del
Duomo di Siena e gli undici bassorilievi bronzei dei due Pulpiti di San Lorenzo, estrema,
drammatica conclusione del suo itinerario poetico. Muore a Firenze nel 1466.
MASACCIO
Giotto, Brunelleschi, Donatello sono i termini della riflessione artistica del Masaccio. Al primo lo
avvicina la congenialità del sentimento, ai secondi l’ansia di una definizione concettuale dello
spazio. La visione che ha il Masaccio della natura e dell’uomo è governata da una legge sovrana,
che determina l’allogamento di ogni cosa nel mondo, secondo un principio universale di necessità.
1401: nasce a San Giovanni Valdarno Tommaso di Giovanni di Ser Guido, detto Masaccio.
Venuto adolescente a Firenze per essere avviato alla pittura, entra nella bottega di Masolino, suo
conterraneo, che gode di larghissima fama. Mostra peraltro di non accogliere i modi ancora
goticizzanti del maestro, per seguire invece, come riferisce il Vasari, l’esempio di Brunelleschi e
di Donatello. La Madonna e S. Anna, opera databile intorno al 1420, eseguita in collaborazione
con Masolino, testimonia chiaramente come il giovane pittore avanzasse soluzioni spaziali
audacissime, quando la scienza della prospettiva era ancora in fase di elaborazione. Dopo
quest’opera, poche sono le date certe della brevissima attività di Masaccio: nel ’22 appare iscritto
all’arte dei Medici e Speziali, nel ’24 alla Compagnia di San Luca, nel ’26 si pone l’unica sua
opera sicuramente documentata: il grande Polittico dei Carmelitani di Pisa, diviso e disperso nel
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Settecento. Nel ’27 esegue la Trinità per Santa Maria Novella a Firenze, e nell’agosto dello stesso
anno viene chiamato da Masolino, come aiuto indipendente, per portare a termine gli affreschi alla
Cappella Brancacci della Chiesa del Carmine. Rimane a Firenze fino all’autunno del ’28, quando
Masolino lo invita a Roma per collaborare con lui agli affreschi di S. Clemente. Grande fu il
dolore del Brunelleschi per l’immatura scomparsa dell’artista, che morì improvvisamente a Roma
nel 1428.
BEATO ANGELICO
L’arte dell’Angelico, nel suo tragitto verso una splendente astrazione dal reale, sia esso natura o
storia, perviene ad una suprema altezza fantastica, da cui resta escluso ogni decorativismo
tardogotico, ogni senso di gioco e di eleganza fine a se stessa. Anzi, straordinariamente impegnata
e figurativamente moderna, la visione dell’Angelico tende a riaffermare, di contro alla posizione
laica dell’Umanesino quattrocentesco, il primato tradizionale della teologia, come unica via della
conoscenza
1387: nasce a Firenze Fra Giovanni da Fiesole, detto il Beato Angelico. Secondo il Vasari i suoi
primi maestri furono lo Starnina e Lorenzo Monaco, pittori gotici internazionali. Da questa
notizia ha preso avvio l’interpretazione romantica dell’opera del Beato Angelico, intesa come
l’espressione di un animo ascetico e ancora medioevale. La critica più recente ha invece chiarito
l’importanza che anche per l’Angelico ha avuto l’alta lezione di Masaccio. Difatti , nelle prime
tavole del frate fiesolano è evidente un’esperienza prospettica, attinta a questa fonte, anche se le
intenzioni cui è volta sono di ordine religioso: si veda l’Annunciazione di Cortona, di poco
posteriore al 1430. Il coraggioso tentativo dell’Angelico consiste infatti in un ricupero del mondo
religioso medioevale espresso in termini pittorici assolutamente moderni; e pertanto non è più da
pensare a questo artista come ad un isolato o a un ritardatario nell’ambiente fiorentino, tutto
permeato di spiriti nuovi..
Dal 1440 al 1447 l’Angelico affresca le pareti del convento fiorentino di S. Marco. Negli anni
successivi è attivo a Orvieto (inizia la decorazione della Cappella di S. Brizio nel Duomo, portata
a termine dal Signorelli) e quindi a Roma in Vaticano, dove affresca la Cappella Niccolina con le
storie della Vita di S. Stefano e di San Lorenzo. In quest’ultimo ciclo riaffiora il ricordo di
Masaccio prospettico, e l’Angelico si palesa grande narratore religioso. Muore a Roma nel 1455.
PIERO DELLA FRANCESCA
Alla metà del Quattrocento la cultura artistica fiorentina è posta dinanzi ad una scelta alternativa
tra il “reale” della visione di Andrea del Castagno e il “trascendente” di Beato Angelico: la
genialità di Piero propone la sola possibile sintesi dell’uno e l’altro termine, trasferendo il dato
reale di natura nell’ambito luminoso di una elevata coscienza ideale. La prospettiva viene
vivificata dall’incontro della luce con il colore, realizzato in forma di splendida, incorruttibile
perfezione.
1420 c.: nasce a Borgo San Sepolcro Piero della Francesca. Da un documento del 1439
apprendiamo che il giovane artista dapprincipio è attivo a Firenze, nella chiesa di S. Egidio, al
seguito di Domenico Veneziano; nel 1442 risulta tra i consiglieri di San Sepolcro, dove comincia
la sua attività di pittore indipendente. La sua prima opera databile è la Madonna della
Misericordia (1445) dipinta per la sua città natale, dove sono racchiusi gli elementi primari del suo
universale linguaggio poetico. A questi stessi anni va ascritto anche il Battesimo di Cristo, in cui
è evidente il ricordo della luminosa pittura di Domenico. L’attività di Piero si svolge, dopo queste
date , in numerosi centri rinascimentali: a Ferrara tra il 1448 e il ’50, come ricorda il Vasari; a
Rimini presso i Malatesta, nel ’51; ad Arezzo, dove nella Chiesa di San Francesco dà inizio, verso
il ’52, al grandioso ciclo di affreschi con episodi tratti dalla Storia della Croce, impresa che lo
impegna fino al ’59. Nonostante l’opera aretina, Piero intrattiene rapporti con la corte urbinate di
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Guido da Montefeltro, per il quale dipinge verso il ’55 la Flagellazione di Cristo. Nel 1459 è a
Roma operante in Vaticano per desiderio di Pio II, e nel ’60 crea la famosissima Resurrezione di
Borgo San Sepolcro. Verso il 1465, durante un soggiorno urbinate, esegue il dittico con i ritratti
di Federico da Montefeltro e Battista Sforza, oggi agli Uffizi. Giunto alla vecchiaia, crea gli
ultimi capolavori: la Madonna di Senigallia, al Palazzo Ducale di Urbino, e la Madonna col
Bambino e Santi, a Brera, dove la sua solenne visione conosce accenti di una dolcissima intimità
familiare. Muore a Borgo San Sepolcro nel 1492.
SANDRO BOTTICELLI
Un equilibrio assoluto e altamente armonico fra sentimento fantastico e forma espressiva isola
ogni singola immagine. Ogni riferimento allo spazio circostante appare inutile, a tal punto le
sinuose figure create dalla fantasia botticelliana si distaccano dal paesaggio per fissarsi nella
perfezione autonoma della loro forma individuale.. L’ispirazione di questo altissimo artista si
concreta in un aristocratico distacco, espresso nella purezza ritmica della linea e nel timbro
cristallino di un colore smagliante e irreale.
1444: a Firenze nasce Sandro Botticelli. Le sue prime opere risalgono agli anni 1467-1470 e
denunciano una stretta parentela stilistica con il Lippi. In questo stesso momento il giovane
Sandro guarda con viva attenzione alla pittura gemmea e smagliante del Mantegna, di passaggio a
Firenze. I suoi interessi vanno inoltre alle botteghe del Pollaiolo e del Verrocchio: anzi, presso
quest’ultimo incontra Leonardo. Il carattere tipico e originario dell’arte botticelliana fin dai suoi
esordi è rappresentato da un personalissimo , accentuato linearismo, che si traduce in un alto
sentimento di indifferenza, quasi di distacco dell’immagine dallo spazio: di qui nasce la poesia
elegiaca del Botticelli.. Nel 1481, ormai celebre per talune opere medicee (la Primavera,
l’Adorazione dei Magi, anni 1478-80), lascia Firenze assieme a Cosimo Rosselli ,Domenico
Ghirlandaio e Pietro Perugino per raggiungere Roma, dove lavora ad affresco alla Cappella
Sistina. Ritorna a Firenze nel 1482, dove dà inizio al decennio più felice della propria attività
/Adorazione dei Magi di Washington, la Madonna del Magnificat degli Uffizi, Venere e Marte
della Galleria Nazionale di Londra, la Nascita di Venere degli Uffizi); successivamente, forse
anche in relazione agli accadimenti politici e religiosi della fine del secolo (1492: morte del
Magnifico; 1498: condanna del Savonarola), Botticelli trasforma profondamente la sua pittura. La
linea e il colore divengono vibranti ed accesi: un nuovo sentimento, più intenso ed animato, tocca
il vertice di una elaborazione formale, che precorre gli accenti del Manierismo cinquecentesco.
Muore a Firenze nel 1510.
ANDREA MANTEGNA
Promovendo il rinnovamento artistico veneto sulla metà del Quattrocento, il Mantegna propone
una visione tutta particolare del Rinascimento. Alla classica spiritualità dei Toscani, egli
sostituisce infatti una concezione erudita, quasi da archeologo, che lo spinge a rappresentare
immagini di intellettuale preziosità, quasi intagliate in materiali incorruttibili – marmo, smalti,
metallo. Particolare è la soluzione del mezzo cromatico, dal Mantegna indirizzato a espressioni di
pungente asprezza.
1431: nasce a Isola di Cartura Andrea Mantegna, e presto si trasferisce a Padova, centro del
movimento rinascimentale capeggiato dal Lippi, da Donatello e da Paolo Uccello. Frequenta la
bottega dello Squarcione , e si associa agli artisti che costituiscono la nuova generazione, cresciuta
all’ombra dei Toscani. Con uno di questi, il Pizolo, assume nel 1448 la decorazione della cappella
Ovetari agli Eremitani ( distrutta in parte nel 1944 da un bombardamento aereo), e completa un
ciclo di affreschi con le Storie di San Cristoforo e di San Giacomo, entro il 1455.
Intanto sposa Nicolosia, sorella di Giovanni Bellini, e frequenta l’ambiente veneziano, traendone
incentivo a un colorismo più brillante e prezioso. Il suo capolavoro maturo è la pala di San Zeno a
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Verona (1459), splendente repertorio di finezze cromatiche, entro una severa inquadratura
prospettica. Il successo gli vale la chiamata alla corte dei Gonzaga, a Mantova, dove, a partire dal
1460, esegue gli affreschi della Camera degli Sposi, terminati nel 1474. Nella sala di pianta
quadrata, il Mantegna spalanca illusionisticamente le pareti sopra visioni di paesaggi in
prospettiva, e disegna una loggia su cui appare tutta la famiglia del principe. Magistrale sapienza
tecnica e suggestiva preziosità di disegno si uniscono per darci un ritratto indimenticabile della
corte mantovana, di cui il Mantegna diviene il prestigioso illustratore. Le opere tarde, sullo scorcio
del secolo, mostrano il pittore nella crisi del naturalismo ormai affermato nell’arte veneta. Di
fronte all’esigenza di raffigurare la realtà nel paesaggio, nel ritratto e nella verità delle tinte, il
Mantegna sembra ancor più rifugiarsi nel suo mondo ideale di forme, di pura ed astratta bellezza:
abbiamo così i Trionfi per lo studiolo della Duchessa Isabella, ora al Louvre. Muore a Mantova
nel 1506.
COSME’ TURA
Cosmè Tura è il maggiore, della triade formata con Cossa e De Roberti, fra gli artisti che danno
vita ad una intensa stagione rinascimentale a Ferrara, nella seconda metà del Quattrocento. I suoi
personaggi allucinati, tesi in un rovello goticizzante, si valgono della cristallina purezza cromatica
di Piero della Francesca, unita alla incisività descrittiva dei Fiamminghi, anch’essi presenti a
Ferrara con Rogier van der Weyden.
1430 circa: nasce a Ferrara Cosmè Tura , figlio di un calzolaio. La sua prima attività è modesta:
nel 1452 dipinge il cimiero per il vincitore del Palio, decora un gonfalone per l’Arte dei sarti e
minia cassettine dorate. La mancanza di notizie fino al 1456 lo fa supporre assente da Ferrara:
forse fu a Padova, attratto dalla fama di quella scuola; infatti, al ritorno, mostra echi dello
Squarcione e atteggiamenti simili a quelli del Mantegna e degli altri giovani padovani. Intanto ,
entra al servizio della corte Estense, e prepara cartoni per arazzi e decorazioni per le feste di corte.
Nel castello di residenza Ducale, a Belfiore, si trovavano varie sue pitture, ma l’attività maggiore
sembra fosse sempre quella di modesto decoratore: nel 1462, fa una coperta da cavallo a gigli
d’oro, e inoltre le vesti da giostra del Duca Alberto Maria.
Più tardi aumenta la sua attività di pittore: dopo la cappella Sacrati di San Domenico, e la chiesetta
di Bereguardo, interviene nei grandiosi affreschi del palazzo di Schifanoia, di cui probabilmente è
l’ideatore, anche se non l’esecutore materiale (1469). Appartiene a questo periodo la Pietà
(Venezia, Museo Correr), capolavoro di intensa drammaticità, seguita dalle portelle d’organo del
Duomo di Ferrara (1469). Un viaggio a Venezia gli apre probabilmente nuove visioni di
Composizione pittorica, i cui frutti sono evidenti nell’altare del Vescovo Roverella, ora diviso fra
la National Gallery di Londra, il Louvre e altri Musei.
Nominato pittore di corte nel 1471, compie molti ritratti dei personaggi Estensi, quasi tutti perduti.
Le ultime opere, come il Beato Giacomo di Modena o la Pietà di Vienna, conservano una qualità
surreale in una struttura plastica sempre più tormentata, di metallica evidenza.
Muore a Ferrara nel 1495.
GIOVANNI BELLINI
Giovanni Bellini è il maggior artista del primo Rinascimento veneto, sensibile a tutte le novità
della cultura pittorica quattrocentesca. Fu fedele a una visione nobilmente tradizionale, quasi
arcaica, eppur classica per coerente misura formale e umana. I suoi temi prediletti, dalle
Madonne col Bambino alle Sacre conversazioni, rivelano il suo animo nobilmente sereno.
Prendono le mosse da lui i maggiori artisti del Cinquecento, da Giorgione allo stesso Tiziano.
1430: nasce a Venezia Giovanni Bellini, figlio di Jacopo pittore. Anche suo fratello Gentile, di
poco più anziano, è pittore valentissimo di ritratti e cerimonie veneziane. Nel 1450 Giovanni
Bellini frequenta Padova, accanto al Mantegna, che frattanto aveva sposato sua sorella Nicolosia.
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Assume in tal modo lo spirito e le forme della Rinascenza toscana, armonizzandone le vivaci
novità con il tradizionale senso del colore veneziano. Le sue prime opere mostrano la
dipendenza dagli ideali padovani, e si avvicinano allo stile incisivo del Mantegna e al vigore
plastico di Donatello, pure attivo a Padova nella Basilica del Santo. Giunto a maturità, attorno al
1460, il Bellini esalta l’umanità dei suoi personaggi (Pietà di Brera) e cerca più larghi rapporti di
colore, secondo i suggerimenti prospettici di Piero della Francesca. Il “chiaroscuro” padovano si
viene così allentando, fino a permettergli, nella grande pala di Pesaro (c. 1474) una spaziosa
visione della natura, dipinta nei suoi colori reali, con impareggiabile dolcezza. Un tema
appassionante, cui il Bellini si dedica con continuità, è quello delle Madonne, ispirate ad una
penetrante umanità. Tra il 1480 e il ’90, realizza composizioni monumentali, come le pale di
San Giobbe e dei Frari. In altre opere, come la Trasfigurazione di Napoli, la pala di Murano o
l’Allegoria degli Uffizi, porta i suoi personaggi all’aperto, con voci e colori di georgica serenità.
Dopo il 1500, in concorrenza con Giorgione e Tiziano, il Bellini afferma la sua visione sfumata
e melodiosa nella pala di San Zaccaria (1505). Muore ottuagenario, venerato dai contemporanei,
a Venezia nel 1516.
L’ARTE DEL ‘400 E ‘500 IN EUROPA
Anno 1417: fine dello scisma papale di Avignone. 1453: Maometto conquista Costantinopoli.
1494: Carlo VIII scende in Italia. 1511: Lega Santa di Giulio II contro i Francesi. 1517:
Martin Lutero proclama le tesi protestanti contro la Chiesa di Roma. 1519: Magellano parte per
la scoperta del Pacifico. 1529: pace di Cambrai tra Francia e Impero. 1545: Concilio di Trento
e Controriforma. 1555: Carlo V concede libertà religiosa ai protestanti. 1559: pace di Chateau-
Cambresis: dominio spagnolo in Italia. 1571: vittoria di Lepanto contro i Turchi. 1598: Morte
di Filippo II e fine delle guerre di religione in Europa.
Nell’Europa artistica del Quattrocento, la persistenza delle forme goticheggianti è molto forte,
specie nei paesi germanici e in Francia, dove nascono ancora capolavori architettonici del valore
delle cattedrali di Ulm, di Rouen e di Tours (il cosiddetto gotico “fiammeggiante”). Si ispira alla
stessa tradizione la scultura, con i germanici Stoss e Riemenschneider, che prediligono il legno,
spesso colorato vivacemente. Nel campo della pittura, il secolo XV si apre con le miniature
delicatissime dei fratelli De Limbourg, che spingono la loro influenza in tutta Europa. Al nostro
Pisanello corrispondono i pittori dei “Libri d’Ore” francesi e fiamminghi, e i fantasiosi Maestri
dei “Giardini celesti” di Colonia. L’arazzeria di Arras e quella di Tornai creano in questi tempi i
loro capolavori, che illustrano leggende cavalleresche con favolose figurazioni.
L’ARTE FIAMMINGA
Col trasferimento del raffinato Duca di Borgogna, Filippo il Buono, da Digione a Bruges, si
pongono le premesse per la fioritura di un’arte fiamminga, tra le più alte in Europa. Nella stessa
Bruges, a Gand, a Lovanio, a Bruxelles sorgono scuole pittoriche, illustrate dai nomi dei fratelli
Van Eyck, di Rogier van der Weyden, del Bouts e di Petrus Christus, del Van der Goes. La loro
arte, fedele alla rappresentazione della realtà, si ispira all’umanesimo nordico, nobilmente
austero, espresso in forme coloristiche di eccezionale raffinatezza. Alla fine del Quattrocento, il
Memlinc e il David rinnovano il ritratto e la pittura di soggetti religiosi, mentre il Bosch già
sfiora le posizioni allucinate di un mondo che presto di aprirà all’eresia. Ancor più nobile e
austera la pittura francese, che ha nel Fouquet il suo genio, e si ispira ad una spiritualità intensa,
mossa da una specie di astrazione, che idealizza le forme.
IL RINASCIMENTO IN EUROPA
Verso il principio del Cinquecento, l’Umanesimo e il Rinascimento, che furono dapprima
fenomeni soltanto italiani, si vengono diffondendo in Europa. Anche l’invenzione della stampa
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favorisce l’ampliamento della cultura, e la conoscenza stessa delle forme artistiche si allarga per
mezzo delle incisioni.
L’influsso delle forme rinascimentali si fa così sentire ovunque, e tocca persino l’altissimo
mondo ideale del Dùrer, maestro di straordinario realismo. Importanza fondamentale per la
cultura Europea del Rinascimento vengono così ad assumere i suoi viaggi a Venezia e in Italia.
Mentre la maggior parte degli artisti è sottomessa alla ispirazione italiana, in Fiandra soltanto il
Brueghel mantiene una magica originalità, con le sue scene popolaresche e spiritate. Una
raffinata scuola, piena di manieristica eleganza, nasce poi in Francia, a Fontainebleau; e favolosi
castelli in stile rinascimentale sorgono ovunque, specie nell’Ile de France e lungo la Loira.
Il fulcro dell’attività artistica rimane comunque tra Firenze, Roma e Venezia:ma si preparano le
premesse per la rinascita di scuole nazionali, in Francia, in Fiandra e Paesi Bassi, nel secolo
successivo.
JAN VAN EYCK
Il mondo poetico di Jan van Eyck si fonda su un interesse per la realtà che supera il crudo
verismo medioevale, e prepara la libertà spirituale della Rinascenza. Ne sono strumenti la
calcolata evidenza rappresentativa della natura, e una tecnica inarrivabile. Il Van Eyck, tipica
figura di transizione, sembra così riassumere in sé l’ansia di verità e insieme il misticismo dei
Nordici, e segna una tappa indimenticabile nello sviluppo spirituale del suo tempo.
1390 circa: nasce, forse a Maastricht, Jan Van Eyck. Dal 1422 al 1425 è al servizio di Giovanni
di Baviera, all’Aja, per passare poi al seguito di Filippo il Buono duca di Borgogna, mecenate e
finissimo intenditore d’arte. Risiede a Lilla e a Tornai, e nel 1428 si reca in Portogallo in
occasione del matrimonio del Duca con la principessa Isabella. Ritrattista e pittore di pale
d’altare, abita dal 1432 a Bruges, dove compie il famoso polittico dell’Agnello Mistico per la
chiesa di San Bavone, dietro commissione del ricco mecenate Joos Vijd e di sua moglie Isabella
Borluut, effigiati come donatori. Nel 1434 si sposa ed ha un figlio, di cui il Duca stesso è
padrino.
Attivissimo ritrattista, dipinge anche il Cardinale Albergati, legato papale presso il Duca, con
penetrante realismo. Di poco posteriore è il doppio ritratto dei coniugi Arnolfini, della Galleria
Nazionale di Londra, in cui la meticolosa cura per l’ambiente non impedisce che sia raggiunta
una poetica intimità di colore, in toni smorzati e raffinatissimi. Fra le varie rappresentazioni
della Madonna, le più famose sono quelle dell’Annunciazione ora a Washington (c. 1434), il
Trittico di Dresda (1435), e soprattutto la Madonna del Cancelliere Rolin del Louvre, con un
vasto paesaggio (c. 1436), e quella, intima e vibrante di colore, del canonico Van der Paele a
Bruges (1436). Con queste ultime opere il Van Eyck raggiunge una sempre più alta unità
stilistica ed armonia di colori, nella rappresentazione di un mondo idealmente perfetto, sereno, di
pace quasi sovrumana. Muore a Bruges nel 1441.
HIERONIMUS BOSCH
La discussa figura artistica del Bosch va senza dubbio collocata fra le più alte della storia
dell’arte nordica, anche per la singolare originalità della sua fantasia. Più che gli scherzi
demoniaci e le grottesche meraviglie raccontati dai suoi dipinti, ci emoziona soprattutto la sua
visione angosciata del mondo fiammingo, colto nel momento di acuta crisi, caratterizzata dal
contrasto fra l’indifferenza edonistica della borghesia cittadina e gli aneliti rigoristici del
moralismo medioevale.
Non si sa quasi nulla della vita di Hieronymus Bosch, il cui vero cognome era probabilmente van
Acken, ribattezzato dalla cittadina di S’Hertogenbosch, dove risiedette. Appartenne alla
Confraternita di Nostra Signora, una delle tante istituzioni religiose che si proposero di
contrastare la dissolutezza licenziosa della vita fiamminga. Fu probabilmente in contatto anche
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con sette eretiche, e si interessò di magia, come appare ad evidenza dalle sue pitture. La sua
attività si svolge a partire dal 1486, e supera di poco il principio del Cinquecento.
Pur dipingendo soggetti del tutto inusitati, il Bosch deve considerarsi strettamente legato allo
stile pittorico della tradizione fiamminga. La sua visione spaziale si avvicina a quella dei suoi
maggiori contemporanei, dal Memlinc al David,, e il colore si distende su vasti paesaggi con
delicatezza sfumata, nella tipica prospettiva aerea. Nel Giardino delle delizie del Prado, uno dei
suoi capolavori, il Bosch sembra riunire tutte le bizzarrie e la immaginazione della miniatura
medioevale, per creare una visione surrealistica, di una umanità gioiosa, trascinata al più sfrenato
divertimento ma stretta dall’indicibile angoscia della pazzia. Significati simbolici e grotteschi si
possono trovare nelle innumeri figurette mostruose, strani uccelli o pesci o animali con fattezze
umane: come a mortificare la carne in una misteriosa, ironica tregenda. Così appare anche nelle
Tentazioni di Sant’Antonio, e nelle Scene infernali o nel Paradiso del Palazzo Ducale di
Venezia. In queste ultime opere – verso il 1500 – il Bosch apprezza la luminosità dei colori
veneti e ravviva la sua tavolozza con sorprendenti intuizioni della verità naturale. Muore a
S’Hertogenbosch nel 1516.
ALBRECHT DURER
Il problema del Dùrer come artista è la rappresentazione e la conoscenza della realtà. Sia che
incida le fattezze di un volto, sia che descriva i mille particolari di un ampio paesaggio o i tenui
fili d’un ciuffo d’erbe, Dùrer è sempre risolutamente se stesso: acuto e analitico, ma
poeticamente libero da ogni imposizione, capace di toccare sempre un’altissima sintesi formale
che è messaggio congiunto di bellezza e di austerità.
1471: nasce a Norimberga Albrecht Dùrer. Suo padre, orefice, è il suo primo maestro, seguito
poi dall’incisore Michel Wolgemut. Gli interessi pittorici del Dùrer si orientano verso i
Fiamminghi, specie durante i viaggi giovanili, che lo portano a contatto con i seguaci del Van
Eyck e del Van der Weyden in Germania. Anche la lunga pratica di incisore e di illustratore di
libri, svolta a Norimberga e a Basilea, vale a nutrirlo di una formidabile tecnica realistica.
Sposa nel 1494 Agnes Frey a Norimberga, e poi parte per Venezia, dove si trattiene nelle
botteghe dei Vivarini e dei Bellini , conoscendo certamente anche le opere padovane del
Mantegna. E’ la esperienza decisiva per il giovane e geniale tedesco, e ne sono testimonianza i
primi capolavori grafici: l’Apocalisse (1498), la Passione e la Vita di Maria (1500): raccolte di
incisioni su legno che interpretano i tradizionali motivi religiosi, con spirito rinnovatore su una
forte impronta germanica.
Nelle pitture, che vengono allineandosi fra la fine del Quattrocento e il nuovo secolo (Madonna
di Washington, pala Paumgartner di Monaco, Adorazione dei Magi degli Uffizi) il Dùrer crea
figure ed ambienti di singolare verità descrittiva, realizzati in un segno fermo e netto; mentre,
dopo un secondo soggiorno a Venezia nel 1506-7, il suo colore si addolcisce, venendo a
prevalere quasi sul disegno lineare, pur sempre incisivo e dettagliato (Adamo ed Eva del Prado,
Trinità di Vienna, Apostoli di Monaco).
Moltissimi ritratti – da quello del padre agli Uffizi, fatto a 19 anni, agli autoritratti del Louvre,
del Prado, di Monaco – testimoniano la vena più autentica del Dùrer: un realismo sublimato a
perfezione formale e fatto poesia. Muore a Norimberga nel 1528.
PIETER BRUEGHEL
Nonostante il facile riferimento alla pittura del Bosch, tutto il mondo poetico del Brueghel si
muove su un piano diverso. All’angoscioso moralismo medioevale del primo, vengono ora a
sostituirsi l’umoristico giudizio, la critica stravagante, la grottesca caricatura. La grandezza del
Brueghel sta nel superamento di ogni atteggiamento rigoristico, per prendere contatto con una
natura che tutto riassume in sé, limite supremo di una panica partecipazione umana.
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1525-30:: nasce nella Campine del Brabante Pieter Brueghel, e si trasferisce giovinetto a
Bruxelles, alla scuola di Pieter Coecke. Più che darsi al generico stile rinascimentale
“italianeggiante”, che era di moda in quel tempo, segue la tradizione realistica fiamminga e
prepara illustrazioni per libri e disegni per stampe nella officina dei “Quattro Venti” di Anversa.
Neppure un lungo viaggio in Italia, nel 1552-53, lo persuade alla pittura monumentale, mentre
invece rimane emozionato dalla ricchezza del paesaggio meridionale, ricordato innumeri volte in
schizzi e disegni. Solo nel 1557 conosciamo il suo primo dipinto, un Paesaggio fluviale con
seminatore (collezione Stuyck di Anversa): l’ampia vallata è colta dall’alto, le figurette
contadinesche sono ridotte a insignificanti apparizioni, di fronte alla immensità grandiosa della
natura. L’innato realismo lo porta poi alla osservazione della vita popolare, che ritrae nelle
scene del Carnevale e Quaresima (1159, Museo di Vienna), o nella giostra turbinosa dei Proverbi
(1559, Museo van der Bergh di Anversa) e dei Giochi di Fanciulli (1560, Museo di Vienna).
Dopo aver sposato la figlia del Coecke nel 1563, si trasferisce da Anversa a Bruxelles, e dipinge
alcune opere di soggetto tradizionale, come il Trionfo della Morte (Prado), la Caduta degli
Angeli (Museo di Bruxelles), la Torre di Babele (1563, Museo di Vienna), l’Andata al Calvario
(1564, Museo di Vienna).
Pur rinnovando talvolta la vecchia iconografia, qui si dimostra spesso a disagio, mentre invece
ritrova la sua vena poetica nella serie delle Stagioni (Vienna e New York, Metropolitan) o nelle
Feste Nuziali. La sua visione della natura si fonda su una umanità autentica, osservata con
occhio serenamente comprensivo, amata con umiltà. Muore a Bruxelles nel 1569:
L’ARTE DEL CINQUECENTO IN ITALIA
Anno 1503: elezione del papa Giulio II. 1511: Lega Santa contro i Francesi 1516: L’Ariosto
pubblica L’Orlando Furioso. 1519: Carlo V Imperatore di Spagna, Paesi Bassi e Germania.
Guerre contro Francesco I sul suolo italiano. 1527: sacco di Roma da parte degli Imperiali.
1529: pace di Cambrai: Lombardia e Napoletano agli Spagnoli. 1574: Emanuele Filiberto
realizza l’indipendenza del Ducato di Savoia. 1575: il Tasso termina la Gerusalemme Liberata.
1577: disastroso incendio del Palazzo Ducale a Venezia.
Mentre la penisola italiana è teatro di continue guerre di supremazia fra la Francia e l’Impero
ispano-germanico, cui i Principati italiani e il Papato partecipano in complessi rovesciamenti di
situazioni politiche, gli artisti danno al Cinquecento una impronta grandiosa, realizzando tutte le
premesse della rivoluzione estetica rinascimentale, poste nel secolo precedente.
DA LEONARDO A MICHELANGELO
Dapprincipio, artisti toscani operanti nell’Italia del Nord, specie a Milano, come Bramante e
Leonardo, dominano il campo figurativo: essi si ispirano a una grandiosità classica
nell’architettura mentre approfondiscono il valore naturalistico e conoscitivo della pittura,
concepita come una geniale scienza del Bello. L’esperienza leonardesca sarà fondamentale per
Raffaello e Michelangelo, i due geni che fanno indimenticabili per l’arte gli anni del Papa Giulio
II e Leone X, con le creazioni delle stanze Vaticane e della Sistina. Roma papale è di guida
anche nel campo architettonico, con le opere del Sangallo e del Peruzzi.
Nell’Emilia, la lezione di Leonardo è rinnovata dal Correggio, creatore di una pittura
melodiosamente naturalistica e di suprema eleganza.
LA SCUOLA VENEZIANA
Intanto era venuta crescendo l’importanza della scuola veneziana, destinata a costituire, con
Roma, l’altro polo dell’attività artistica italiana del secolo. Già nei primi anni del Cinquecento,
Giorgione pone le basi di un vocabolario espressivo fondato sul puro “colore”. Dopo di lui,
Tiziano punta sulla vitalità drammatica dei personaggi: sono famosi i ritratti dei protagonisti
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dell’epoca, dall’Imperatore Carlo V a Filippo II, dal Papa Giulio II a Paolo III e a Francesco I:.
Tutta la città dei Dogi,capitale di uno stato ormai assurto a potenza europea, si arricchisce di
palazzi stupendi, valendosi di architetti come il Sansovino e il Sanmicheli. La seconda metà del
secolo vede estendersi ovunque in Italia una civiltà artistica di suprema raffinatezza, anche se
spesso resa accademica nella imitazione di Raffaello e di Michelangelo. Ne sono fautori gli
architetti Vasari e Ammannati a Firenze. A Roma, il Vignola già indica il passaggio alle forme
più elaborate del Barocco, mentre anche a Venezia si nota un più forte influsso della cultura
rinascimentale romana. Ma continua soprattutto a trionfare il colore veneziano con le opere del
Tintoretto, del Bassano, del Veronese. Numerose sono anche le ville nella campagna veneta, che
soprattutto il Palladio viene edificando con classico e sensibilissimo stile.
Prodotto della cultura veneta del tardo rinascimento è anche Domenico Teotocopuli, attivo
dapprincipio nella città delle lagune, celebre poi in Spagna con il soprannome di “El Greco”.
DONATO BRAMANTE
Col Bramante l’architettura del Rinascimento esce dalla fase del puro geometrismo
quattrocentesco, per realizzare le forme ideali di un “Bello”, che trova il suo parallelo soprattutto
nell’opera pittorica di Leonardo. Spesso astratte e profondamente intellettuali, le architetture del
Bramante mostrano la loro altezza poetica nella libertà del chiaroscuro, che le inserisce, come
oggetti di perfezione plastica inarrivabile, nell’ambiente naturale.
1444: nasce a Monte Asdruvaldo Donato Bramante, che nel 1477 firma gli affreschi del Palazzo
della Ragione di Bergamo. La sua formazione artistica va posta evidentemente nell’ambiente
urbinate, fra Piero della Francesca, Melozzo e il Laurana, arricchita da incontri con l’Alberti e il
Mantegna a Mantova. La maggior parte della sua prima attività si svolge a Milano, dove lascia
una imponente decorazione a fresco in casa di Panigarola (ora a Brera), con filosofi, armigeri e
cantori: figure dal piglio eroico, immerse in una luce cristallina, che ne esalta la monumentalità.
A partire dal 1482 si dedica principalmente all’architettura, ricostruendo San Satiro a Milano,
con impiego di mezzi illusionistici (come nel famoso presbiterio finto in prospettiva), e di una
ricca decorazione in cotto (sagrestia). Dopo un intervento nel Duomo di Pavia, costruisce a
Milano l’abside di Santa Maria delle Grazie (1497), capolavoro di decorazione raffinata in
terracotta, e annuncio di prossimi sviluppi spaziali della sua architettura, per le forme ampie e
scenografiche dell’interno.
Nel 1499 Bramante è a Roma, dove trova, nell’ambiente classico, l’avvio a forme plasticamente
monumentali. Il primo lavoro nel chiostro di Santa Maria della Pace già offre la misura di
questa riscoperta classicità; mentre annuncia il capolavoro di San Pietro in Montorio, iniziato
nel 1503, in forme centrali che arieggiano antichi modelli. Nel 1506 Papa Giulio II lo incarica
della costruzione del nuovo San Pietro, che Bramante concepisce come un grandioso sistema
cupolare, inserito su una pianta a croce greca. Nei palazzi vaticani riordina il giardino del
Belvedere, di cui ci resta il grandioso nicchiane terminale. Muore a Roma nel 1514.
RAFFAELLO
Facile all’apparenza, per la immediatezza affettuosa delle immagini, che però rispondono sempre
ad un principio di perfezione intellettuale e formale, Raffaello è in realtà poeta raffinato, di
interessi culturali e spirituali vastissimi. Nella breve vita, viene a contatto con i maggiori geni
del Rinascimento, superando ogni suggerimento in una esperienza personalissima. Spirito
unificatore, Raffaello è così uno degli interpreti esemplari del Rinascimento italiano.
1483: nasce a Urbino Raffaello, figlio del pittore Giovanni Santi. Orfano a undici anni, impara
l’arte nella bottega paterna. I suoi maestri furono Timoteo Viti , esperto nella pittura emiliana, e
il Perugino,, ma più che tutto agì in lui l’ambiente raffinato della corte di Urbino, memore
dell’opera di Piero della Francesca e del Laurana. Il contatto col Perugino – documentato dallo
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Sposalizio della Vergine di Brera – è intenso ma breve, e il passaggio a Firenze, avvenuto nel
1504, segna una tappa decisiva per l’artista, posto a contatto con Leonardo e con Michelangelo.
E’ qui che Raffaello dà la misura della sua grandezza, interpretando in modo personalissimo le
conquiste dei due maestri, e volgendo la monumentalità dell’uno e il colore elaboratissimo
dell’altro a una resa quanto mai immediata dei valori spirituali ed umani. Prova ne sono le
numerose Madonne, dipinte in questo periodo, tra cui quella del Granduca e quella del
Cardellino di Firenze, quella del Belvedere di Vienna, quella detta “la Bella Giardiniera” del
Louvre.. L’interesse psicologico ed umano di Raffaello lo porta anche al ritratto, in cui presto
eccelle su tutti: famosi quelli di Angelo e Maddalena Doni, a Pitti. Nel 1508 Raffaello è a Roma,
chiamato dal papa Giulio II, per il quale decora a fresco le Stanze del palazzo Vaticano. Le
grandiose composizioni con la Disputa del Sacramento, la Scuola d’Atene, la Cacciata di
Eliodoro, la Messa di Bolsena, la Liberazione di San Pietro, compiute entro il 1514,
documentano la originalità dello spirito di Raffaello, vero interprete della estetica rinascimentale.
Negli ultimi anni, prendono eccezionale rilievo alcuni ritratti, come quelli del nuovo Papa Leone
X degli Uffizi, o il Baldassar Castiglione del Louvre , colti nella pienezza morale della loro
umanità, e realizzati con una tavolozza polifonica di suprema bellezza. Prefetto delle antichità, si
occupa anche degli scavi vaticani, e partecipa ai lavori per la costruzione di San Pietro,
sostituendo il Bramante. Muore a Roma nel 1520.
LEONARDO
La figura di Leonardo, nella storia della cultura e dell’arte del Rinascimento, è tra quelle
fondamentali. Nei più diversi ambienti, esercita infatti una funzione rivoluzionaria rispetto alle
concezioni tradizionali dell’arte, non più intesa come riproduzione della natura, ma come la
stessa creazione del Bello. A tal uopo si vale di un eccezionale metodo di ricerca, che gli
permette di penetrare in tutti gli aspetti della natura, con l’aiuto inimitabile del disegno pittorico
e della osservazione scientifica.
1452: nasce a Vinci Leonardo di Ser Pietro e si trasferisce presto nella vicina Firenze, dove
entra nell’ambiente del Verrocchio. Giovanissimo, prende viva parte alla vita artistica e impone
la sua acuta intelligenza conoscitiva, dedicandosi soprattutto allo studio del paesaggio. Subito
favorito dal successo, dipinge varie Madonne e ritratti, con meditata lentezza,sperimentando
tecniche diverse, che spesso danno esiti infelici.. La Adorazione dei Magi, dipinta nel 1481 per i
frati di San Donato a Scopeto, è la prova di questa inesausta ricerca, ed è lasciata interrotta.
Nello stesso periodo Leonardo approfondisce studi di biologia, fisica, filosofia, e musica
avvicinandosi pressocchè ad ogni aspetto della conoscenza umana: vero esempio, in ciò, di
genio universale dell’Età del Rinascimento.
Nel 1482 si reca a Milano, compiendo per Ludovico il Moro varie opere di ingegneria militare,
di idraulica, di bonifica e di architettura. Appartengono a questo periodo la Vergine delle
Rocce,, capolavoro della visione analitica della natura, e il famosissimo Cenacolo di Santa Maria
delle Grazie (1495-97), irreparabilmente compromesso dall’uso della tempera sull’intonaco,
invece del “buon fresco”. Nel 1500 è chiamato a Venezia dalla Repubblica e progetta
sottomarini e altri ingegnosi strumenti bellici. Suoi sono anche i primi studi sul volo umano e
sul principio dell’elicottero.
Chiamato a Firenze nel 1502, inizia la Battaglia d’Anghiari in Palazzo Vecchio, che rimane
incompiuta ed è presto perduta, pur suscitando entusiasmo nei contemporanei. Tornato a
Milano, dopo un breve soggiorno a Roma, si trasferisce nel castello di Cloux, presso Amboise in
Francia, recando con sé pochissimi quadri, tra cui il San Giovannino, la famosa Gioconda, e
forse la tavola con la Vergine, Gesù e Sant’Anna, ora al Louvre. La tecnica raffinatissima gli
permette di completare queste opere con eccezionale evidenza realistica, quasi una misteriosa
“evocazione” di figure umane nello spazio colorato della natura. Muore a Cloux nel 1516.
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MICHELANGELO
Scultore,pittore, architetto, Michelangelo si pone al centro del periodo più drammatico della
civiltà rinascimentale. Dapprima, legato agli ideali quattrocenteschi, ammira l’antichità classica,
che gli appare modello di bellezza. Poi distrugge quei suoi stessi miti, imponendo una nuova
visione artistica e filosofica, chiusa in un monologo solitario, agitata da una insoddisfazione
perenne per i limiti della materia, che si esprime nelle numerose opere “non finite”, e perciò
spesso tragicamente sofferte.
1475: nasce a Caprese Michelangelo Buonarroti; allievo nella bottega del Ghirlandaio a Firenze
nel 1488. A quattordici anni frequenta i Giardini Medicei e la società colta degli amici di
Lorenzo il Magnifico. Le sue prime opere sono di scultura, tratte da modelli classici, ma aperte
ai più moderni suggerimenti dei grandi scultori toscani, da Giovanni Pisano a Jacopo della
Quercia. Trasferitosi a Roma nel 1498, scolpisce la Pietà di San Pietro, prima affermazione della
sua potenza drammatica ed umana.
Tornato a Firenze ormai famoso, compie in un unico blocco gigantesco il David. Una giuria di
geni, fra cui Leonardo, Botticelli e il Sangallo ne decreta il collocamento di fronte a palazzo
Vecchio in Firenze. Frattanto, sollecitato dall’esempio di Leonardo,Michelangelo dipinge la
Sacra Famiglia degli Uffizi (1503-4), splendido documento di un modo di figurare del tutto
originale, dove la stessa pittura assume valore di simbolo plastico.
Nel 1505 Giulio II lo chiama a Roma, dove poi, dal 1508 al ’12 compirà la volta della Sistina.
In seguito, si dedica alla realizzazione della tomba di Giulio II, mai terminata, di cui ci restano le
statue dei Prigioni e il Mosè. Nel 1520 ritorna a Firenze, e innalza la Sagrestia Nuova di San
Lorenzo con le tombe Medicee e le famose sculture del Giorno e della Notte, l’Aurora e il
Crepuscolo.
Torna a Roma nel 1536, per completare la Sistina con l’affresco del Giudizio Universale:
grandiosa composizione piena di movimento, drammaticità espressiva e terribile furore umano.
La vocazione dell’architetto lo riprende in quell’epoca tarda, con la piazza del Campidoglio e la
cupola di San Pietro (1547). Le ultime opere sono però ancora di scultura, tra cui la Pietà di
Santa Maria del Fiore. Muore quasi d’improvviso, mentre lavora alla Pietà Rondanini, a Roma,
nel 1564.
CORREGGIO
Correggio raggiunge non a caso la sua massima fama nella elegante e raffinata stagione del
Settecento europeo. Egli volge infatti i tradizionali temi dell’umanesimo in sapidi epigrammi di
ellenistica eleganza, che furono poi soprattutto apprezzati dalla cultura illuministica. Anche la
libertà del suo linguaggio compositivo, realizzato in una spazialità dinamica, già indica
evoluzioni successive al Rinascimento.
1489(?): nasce a Correggio Antonio Allegri, che prende poi il soprannome dal luogo d’origine.
Nella formazione fra Mantova, Ferrara e Bologna, risente dapprima della particolare atmosfera
figurativa di quelle città, nel primo Cinquecento. Influenze della grande pittura ferrarese del
Quattrocento e venete, si mescolano a quella fondamentale del Mantegna, sicchè le prime opere
ne ricordano spesso la composizione equilibrata ed il colorismo pungente, un po’ acidulo.
La esperienza decisiva è il contatto con l’opera di Leonardo, interpretata con una tavolozza
teneramente sfumata, che leva dalla penombra dolci figure di Madonne, Sacre Famiglie,
Adorazioni di Pastori e Magi. La religiosità del Correggio ha però carattere idillico, intimamente
famigliare, e presto si risolve in una particolare attenzione alla natura. Basterà ricordare certe
famose figurazioni, come la Zingarella di Napoli, o la Madonna adorante degli Uffizi.
Nel 1518 il Correggio compie la volta della camera della Badessa del convento di San Paolo a
Parma: una festa di immagini fresche e sonore, inserite con ritmico brio entro la decorazione
vegetale di un pergolato, che, nel suo realismo, va ben oltre gli esempi del Mantegna a Mantova
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e di Leonardo a Milano, certamente presenti all’artista. Dopo il ’20, mostra contatti con
Michelangelo e Raffaello, specie nella decorazione di San Giovanni Evangelista e del Duomo, in
cui la luce si fa protagonista, animando il vorticoso movimento delle figure.
Negli ultimi anni, verso il 1530, tenta composizioni di straordinaria vivacità, come la Madonna
col San Gerolamo di Parma o la notturna Adorazione dei Pastori di Dresda. Torna spesso anche
alle tele di soggetto profano, con la Danae della Galleria Borghese, l’Antiope del Louvre, la
Leda di Berlino: capolavori di smagliante ricchezza cromatica, soffusi di sorridente dolcezza.
Muore a Correggio nel 1534.
GIORGIONE
Caposcuola della prima generazione cinquecentesca veneta, Giorgione porta a compimento le
anticipazioni di Giovanni Bellini, per la conquista di un linguaggio di puro colore. Aperto alla
contemplazione della natura, amico di filosofi, letterati e musicisti, Giorgione impersona gli
ideali del Rinascimento, preparando la via ai maggiori rappresentanti della pittura veneta, primo
fra tutti Tiziano.
1476: nasce a Castelfranco, presso Treviso, Giorgio, detto Giorgione per la grande statura.
Pochissimi documenti ricordano il suo arrivo ancor giovane a Venezia, dove comincia a
dedicarsi alla pittura, mostrandosi anche abilissimo nel suonare e cantare. Fa parte della giovane
generazione di poeti, filosofi, collezionisti illuminati, che sul primo Cinquecento sostennero la
nuova visione spirituale del Rinascimento. Per primo, nella Venezia di Giovanni Bellini e di
Carpaccio, si dedica quasi interamente ad opere “da cavalletto”, in piccole misure, destinate ad
un pubblico raffinato. I suoi ritratti, come quello di Berlino,sono presto famosi per la sottile
penetrazione psicologica e la finezza dell’esecuzione, tanto da poter competere con le opere dei
maestri fiamminghi.. Nelle poche pitture d’altare si ispira al Bellini, e talvolta al Carpaccio,
assumendone soprattutto la libertà pittorica e un colorismo sfumato in delicate tonalità.
Ricordiamo la pala di Castelfranco, in cui la visione della natura è squisitamente lirica, e giunge
a realizzare un mondo poetico in cui le figure umane e le cose si fondono in una pensosa
malinconia.
Verso la fine della brevissima vita, Giorgione sembra volgersi a figurazioni in cui il paesaggio
assume valore di protagonista, per la immediata evocazione del colore. Sono famosi i suoi
soggetti della Tempesta, dei Tre Filosofi, della Venere, tutti bilanciati fra l’interesse del primo
piano con le figure umane, e l’ambiente liricamente sognato. Negli ultimi due anni, Giorgione
ha per scolaro Tiziano, cui trasmette il suo senso cromatico melodioso e profondo, collaborando
agli affreschi del Fondaco dei Tedeschi, oggi quasi interamente perduti. Muore di peste a
Venezia , nel 1510.
TIZIANO
Per quasi tre quarti di secolo, Tiziano domina la scena della pittura veneziana. La lunga vita,
infatti, lo porta ad aprire la sua attività col Bellini e il Giorgione, per chiuderla quando già i suoi
stessi seguaci, nel tardo Cinquecento, avevano largamente raggiunto la maturità. Eppure la sua
opera dimostra una invincibile unità stilistica e una costante altezza di poesia: per sua mano, il
colorismo veneziano approfondisce i propri mezzi espressivi, fissando il carattere distintivo di
tutta una scuola.
1490 (?) nasce a Pieve di Cadore Tiziano Vecellio, e presto si trasferisce a Venezia. E’ dapprima
nella bottega del Bellini, per affiancarsi poi al pittore più geniale del suo tempo: Giorgione. Non
ancora ventenne nel 1508, decora con lui a fresco il Fondaco dei Tedeschi, e ne ricava maggior
lode dello stesso maestro. In quell’epoca, altre pitture di Tiziano sono talmente vicine a
Giorgione, da esser confuse: ricordiamo il famoso Concerto campestre del Louvre e gli affreschi
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della Scuola del Santo a Padova, capolavori di una personalità che ormai ha superato la
idealizzata visione “ umanistica”, per cogliere con spirito prepotente la natura reale.
Col secondo decennio del cinquecento la concezione sentimentale del personaggio umano si
allarga ancora e nascono solenni figure di “eroi”. Ricordiamo alcuni famosi ritratti, e l’Assunta,
seguita dalla pala Pesaro della chiesa dei Frari a Venezia. E’ tutto il vocabolario espressivo della
pittura veneta che si rinnova, e non fanno meraviglia le lodi che accompagnano l’opera di
Tiziano, pubblicamente confrontata a quella di Raffaello e di Michelangelo.
Le sue opere mature, come i ritratti della Bella, la Maddalena, l’Inglese e i Duchi di Urbino a
Pitti, Francesco I di Francia al Louvre, Carlo V al Prado, mostrano una grande libertà di tocco
pittorico, sempre più arditamente libero da ogni limite del “disegno”, come veniva inteso dai
Toscani e dai Romani. Anzi, la crisi contro il plasticismo toscano culmina quando Tiziano,
verso il 1545, va a Roma: la sua Danae di Napoli, dipinta allora, suscita insieme l’ammirazione
e i rimbrotti di Michelangelo, che ne loda il colore, rammaricandosi però che “ a Venezia non si
imparasse da principio a disegnare”. Quello che al grande Toscano sembrava un difetto, era
però la forza di Tiziano, proteso sino alla fine a realizzare opere sempre più libere nella forma
pittorica. Muore di peste a Venezia, nel 1576.
ANDREA PALLADIO
Mentre l’arte veneta pone in crisi gli ideali estetici del Rinascimento Toscano, il Palladio
sembra riproporre una visione di limpida classicità. Il suo è un atteggiamento intellettuale teso a
interpretare il mondo delle forme antiche con una acuta, critica spiritualità, che lascia largo
margine alla fantasia poetica per l’affermazione di un nuovo modello di ideale armonia.
1508: nasce a Padova Andrea Palladio, figlio di un mugnaio. A dodici anni è collocato al lavoro
presso uno scalpellino; fugge a Vicenza, ma è costretto a ritornare presso la bottega del padrone.
Nel 1524 torna definitivamente a Vicenza, dove svolge per oltre un decennio una modesta
attività di marmista. La fortuna viene nel 1537, per merito dell’umanista Gian Giorgio Trissino,
che lo impiega nella costruzione della sua villa a Cricoli, e poi lo porta con sé a Roma, nel 1541.
Palladio ne torna esaltato dalla grandezza delle architetture classiche, e con un bagaglio
ricchissimo di disegni, che utilizza nella realizzazione della sua prima architettura a Vicenza: il
maestoso quadriportico a due piani, che riveste l’antica Basilica. E’ subito evidente che un
calore pittorico veneto anima le strutture classiche, e dona loro nuovo respiro di attualità.
Nelle successive opere, palazzi e ville vicentine, e nella campagna veneta, il Palladio appare
sempre più libero, inserendo schemi classici entro l’aperta dolcezza coloristica del paesaggio,
come nelle famose ville della Malcontenta e nella Rotonda di Vicenza. A Venezia, fra il ’60 e il
’70, lavora nella chiesa di S: Giorgio, seguita nel 1572 dal Redentore, vero capolavoro del suo
linguaggio luminoso e riposato.
Dopo i restauri del Palazzo Ducale, che frattanto era bruciato, torna a Vicenza, dove compie
l’ultima opera, il Teatro Olimpico, adattando in un ristretto ambiente gli schemi monumentali dei
teatri romani all’aperto. Così, fino alla fine, si mostra fedele alla interpretazione pittoresca della
classicità, che doveva dare un carattere permanente alla successiva architettura veneta. Muore a
Venezia nel 1580.
TINTORETTO
Jacopo Tintoretto rappresenta – forse suo malgrado – l’antagonista di Tiziano. Più giovane di
una generazione, è sensibile ai richiami anticlassici del manierismo emiliano e michelangiolesco.
Si sottrae così all’imperio del colore veneziano, sostituendovi un dinamico linguaggio
chiaroscurale, di luci ed ombre violente. Sono suoi protagonisti prediletti le folle anonime e
credenti, che egli sa inserire in uno spazio animato e drammatico.
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1518: nasce a Venezia Jacopo Robusti, chiamato, dalla professione del padre, Tintoretto. I
biografi raccontano che, giovanissimo, fosse scacciato per gelosia dalla bottega di Tiziano. Ma
certamente, i suoi maestri vanno cercati fra i fautori del Manierismo, dal Parmigianino a
Michelangelo, dal Pordenone a Bonifacio. Più che tutto, la rappresentazione plastica della forma
in movimento sembra interessare il giovane artista, di cui son note le disavventure iniziali, forse
fomentate dalla gelosia di Tiziano.
Nel 1548, con il Miracolo dello schiavo, compiuto per la Scuola di San Marco ed accettato per
l’intervento del famoso critico Pietro Aretino, Tintoretto – a soli trent’anni – può dirsi affermato.
Il suo linguaggio, ancora vivacemente cromatico, è però fondamentalmente inteso alla
esaltazione plastica delle forme, sicchè venne facile l’accusa di imitazione michelangiolesca.
Ma Tintoretto mostra presto, con le Tre Storie di San Marco (oggi alle Gallerie di Venezia e a
Brera), dipinte verso il 1560, che il suo dinamismo plastico era un modo per conquistare la più
libera disposizione del colore, animato da una luce sempre più irreale, artificiosamente diretta
dallo stesso artista sui punti focali della composizione. Si vedano a questo proposito il San
Giorgio di Londra o la Susanna di Vienna.
La grande avventura del Tintoretto è la decorazione della Scuola grande di San Rocco, condotta
in circa vent’anni, con straordinaria altezza di raggiungimenti poetici. Dalla Crocifissione del
1564, alle storie della Bibbia e del Vangelo del salone superiore (1576-81), fino a quelle ultime
del salone terreno (1583-87), il luminismo dal Tintoretto si fa sempre più essenziale. L’animata
espressione del movimento già indica la vicina stagione del Barocco. Muore a Venezia nel 1594.
VERONESE
A differenza di quella dei suoi contemporanei Tiziano e Tintoretto, la pittura di Paolo Veronese
assume le forme di un luminoso decorativismo. Le sue placide stesure cromatiche, che si
imbevono di luce solare, sono distese con festosa facilità su pareti di ville patrizie e su tele, nel
palazzo dei Dogi o in chiese grandiose: quasi un esaltante commento alla gioia di vivere della
Venezia cinquecentesca.
1528 (?): nasce a Verona Paolo Caliari, detto poi il Veronese. Educato nella città natale, in un
ambiente che si ispirava al manierismo romano ed emiliano, Paolo giunge a Venezia verso il
1551. Subito si fa notare per il fresco colorismo e i timbri argentei della tavolozza, specie nelle
pitture della chiesa di San Sebastiano. Le sue figure mostrano una olimpica serenità, e i colori
sono di una luminosità gioiosa: così Paolo rinnova il gusto veneziano, adusato al denso e
drammatico linguaggio tizianesco, e si sottrae anche alle ricerche plastiche che tanto interessano
il Tintoretto. Attorno al 1560, collabora con il Palladio nella villa Maser, adornando le stanze di
affreschi, che aprono illusionisticamente le pareti sul chiaro paesaggio. Alcune famose Cene
documentano la sua opera in vari monasteri e chiese veneziane e della provincia: e ricordiamo la
Cena in casa di Levi delle Gallerie, e quella del Louvre, con in primo piano un “quartetto” di
suonatori che ritrae lo stesso Veronese, Tiziano, Tintoretto e Jacopo Bassano.
Dopo l’incendio del Palazzo Ducale di Venezia, nel 1575 è chiamato a rifare il soffitto della sala
del Collegio. In questo, che è il suo capolavoro, Paolo colloca una serie di tele allegoriche,
creando una mitologia di immagini fresche e luminose, tali da chiudere trionfalmente il secolo
d’oro della pittura veneziana.
Le Allegorie dipinte per l’imperatore Rodolfo II (1576-84), ora alle Gallerie di Venezia e nelle
collezioni Frick e del Metropolitan di New York, offrono l’ultimo esempio della sua raffinata
classicità. Le opere estreme rivelano una sensibilità nuova a problemi di luce crepuscolare e
patetica. Muore a Venezia nel 1588.
EL GRECO
Il Greco, nativo di Candia e largamente operante in Spagna, si è formato negli ambienti artistici
di Venezia e di Roma: ciò ne giustifica l’inserimento nel contesto della pittura italiana. Attivo
nell’inquieta stagione della crisi manieristica, partecipa degli ideali del Rinascimento, e vede
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nascere le nuove forme barocche. Ispirandosi ai grandi veneziani ne trasforma la visione
sontuosamente coloristica in una sintesi drammatica di colore e segno, irreale come un sogno,
espressiva soprattutto là dove perde il contatto con la realtà delle cose. La sua è una pittura
misticamente esaltata, specchio delle angosce religiose del suo tempo.
1541: nasce a Candia Domenico Teotocopuli, chiamato poi “ el Greco”. Probabilmente verso il
1560 si trasferisce a Venezia, dove opera per una decina d’anni nell’ambiente dei fabbricanti di
icone (“madonnari”), ma guarda ai più grandi artisti, e frequenta la bottega di Tiziano. Nel 1569
va a Roma per un breve soggiorno, che gli permette di vedere Michelangelo, della cui potenza
plastica certamente si entusiasma. E’ probabile che poi sia ritornato a Venezia, per passare di lì
definitivamente in Spagna.
Nel 1577 prende dimora a Toledo, fino a pochi anni prima capitale della Spagna, e si inserisce
nella società più colta, tra cui brillano letterati come il Cervantes, Lope de Vega e il Gongora;
dipinge per le chiese, fa ritratti e raggiunge un successo incontrastato. L’ambiente toledano,
acceso di un forte misticismo controriformistico, è affine alla sua vocazione figurativa, anche se
le prime opere, come l’Assunta di Chicago (1577) e la sepoltura del Conte Orgaz della chiesa di
San Tomaso (1586) ricordano ancora il pastoso colorismo di Tiziano e le dinamiche strutture
tintorettesche.
Le qualità di ritrattista del Greco emergono poi in modo singolare, con caratterizzazioni
allucinate, che sembrano trasformare i personaggi in simboli spirituali, di un lancinante
misticismo. Sono degli anni tra il 1590 e il 1600 certi ritratti, come quello di un Gentiluomo del
Prado, il Cardinal Guevara del Metropolitan o il San Gerolamo della collezione Frick.
Le ultime opere, nel Seicento, rivelano la distruzione della visione rinascimentale dello spazio,
portando le figure sul primo piano, rovesciate in una sorta di visione cubistica in cui il colore
assume effetti surreali. Sono questi gli ultimi capolavori, con l’Assunzione di Toledo (c:1610) e
l’Orazione nell’Orto (N. Gallery di Londra). Muore a Toledo nel 1614.
L’ARTE DEL SEICENTO
Anno 1606: scomunica di Paolo V contro Venezia. Lotte in Europa fra Cattolici e Protestanti.
1613: Claudio Monteverdi eletto Maestro di Cappella a Venezia. 1616: muore William
ShaKespeare. Il Cervantes pubblica il Don Chisciotte . 1618 guerra dei trent’anni fra Austria e
l’Impero. 1632: Galileo Galilei pubblica il “ Dialogo sopra i massimi sistemi”. 1642: lotta fra
la corona inglese e i puritani di Cromwell. 1647: rivolta di Masaniello a Napoli. Pubblicazione
dei “Pensieri” di Pascal. 1661: inizio del regno di Luigi XIV, il Re Sole. Newton scopre la
gravitazione universale. 1697: dopo dieci anni di guerre antifrancesi, la pace di Rijswick
riconosce la neutralità dell’Italia.
L’arte del Seicento, specialmente in Italia, è stata lungamente sottovalutata, sotto l’accusa di
essere “barocca”, cioè degenerata rispetto a quella del Rinascimento. Le si è attribuita la taccia
di essere stata sforzata ad esprimere forme bizzarre, spropositamente decorative, retoricamente
stupefacenti, tal quali apparivano le manifestazioni di una certa minore letteratura, che
effettivamente caratterizzava il secolo.
IL BAROCCO
Oggi è noto che il termine “barocco” non deve essere inteso soltanto negativamente, ma che anzi
esso rappresenta il momento di svincolo dalla stessa Rinascenza. E non si può dimenticare che il
Seicento è anche il secolo dei grandi architetti romani, come il Bernini e il Borromini, della
“Scienza moderna” di Galileo, del Caravaggio e di Rembrandt, del classicismo di Poussin e della
grandiosa Versailles del Re Sole.
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Già negli ultimi decenni del Cinquecento si erano spenti, fra Venezia e Roma, gli estremi
bagliori di grandezza del “secolo d’oro”. Subentravano così dei modesti accademici,
confondendo la tradizione più alta in forme eclettiche e mediocri. Né certo la situazione politica
ed economica dell’Italia e della stessa Europa, travolta quasi ovunque da guerre fratricide e
invasa da pestilenze e miseria, favorivano il rinnovamento e la nascita di un’arte nuova. Pure, al
principio del Seicento, risorge autorevolmente la Roma dei Papi, che si dà un nuovo volto
architettonico, con l’opera del Bernini e del Borromini, Anche nel campo della pittura, da un
lato si rielabora la tradizione cinquecentesca attraverso la riforma dei Carracci; dall’altro il
Caravaggio stupisce con il suo realismo solitario, ed indica nuove vie alla pittura di soggetti
borghesi, che prevarrà poi nella seconda metà del secolo, specialmente nei paesi del Nord.
IL SEICENTO EUROPEO
Non si sottraggono a questa preminenza romana i maggiori artisti di ogni paese d’Europa. Molti
tra questi frequentano anzi il nostro paese, traendo dall’arte del primo Seicento e
dall’ammirazione dei grandi cinquecentisti incentivo a nuove e più moderne espressioni.
Rubens è a Roma al principio del secolo, ed è certamente toccato dalla visione del realismo
caravaggesco, così come lo spagnolo Velàzquez lo è da Tiziano; e, attraverso i pittori viaggianti,
lo stesso Rembrandt ha relazione precisa con l’arte italiana.
Anche gli altri ambienti italiani risentono delle esperienze rinnovatrici romane. Nell’Italia
meridionale, sarà il caravaggismo che ispirerà le forze più giovani, dal Battistello al Ribera, fino
al Preti e a Luca Giordano. A Venezia, attraverso la forza della rivoluzione espressiva di pittori
caravaggeschi o fiammingheggianti, gli artisti locali sapranno ritrovare le fonti autentiche della
tradizione del colore. Nell’Italia del Nord, lo sviluppo dell’arte seicentesca avviene
indipendentemente dalle forze che operano nei grandi centri dell’Emilia, di Roma e di Napoli.
Questa autonomia è particolarmente evidente nell’arte lombarda, legata alla tradizione
quattrocentesca della luce naturale.
Nel suo complesso, l’arte del Seicento esprime il sentimento della nuova classe mercantile, che
viene a imporsi nel quadro della vita economica europea, specie nei paesi nordici; mentre in
Italia e specialmente a Roma la magnificenza dei Papi e delle grandi famiglie ne esaltano
soprattutto i caratteri grandiosamente decorativi. Tutti insieme, i diversi ambienti preparano il
trionfo delle nuove, festose forme del primo Settecento, che continuerà, portandolo a raffinata
perfezione, il tardobarocco nel Rococò.
CARAVAGGIO
Alla fine dei manierismi tardorinascimentali, il Caravaggio imposta una visione rivoluzionaria
della pittura, restituendola a nuova libertà. Sono gli stessi anni della speculazione filosofica e
scientifica di Galileo, fondata sullo sperimentalismo: anche la “realtà” caravaggesca, infranti gli
abusati paradigmi accademici, riflette una tormentata vicenda umana, fatta di drammatici dubbi e
di angosciose esigenze morali, tesa alla ricerca della “verità”.
1573: nasce a Caravaggio Michelangelo Merisi, che prende poi il soprannome dal luogo
d’origine. Dopo una prima formazione in Lombardia, dove lo interessano soprattutto i
bergamaschi e i bresciani., come il Lotto, il Moretto e il Savoldo, si trasferisce a Roma verso il
1590. L’ambiente accademico dei postmichelangioleschi lo respinge. Ridotto alla fame, non
cede alle imposizioni dell’accademismo, ma insiste a dipingere soggetti polemici, come il Cesto
di frutti della Ambrosiana, oppure popolani che offrono frutta, o che si lasciano morsicare da
ramarri, o si fanno leggere la mano da zingari, o giocano a carte nelle osterie. Spesso si tratta di
vere e proprie “nature morte”, contemplate in schemi perfetti, con un colore vitreo e fermo, che
indaga la materia nella sua fredda realtà.
La sua dichiarazione, che è buon artista solo “chi sa imitare le cose naturali”, ci apre uno
spiraglio sui suoi programmi estetici. Nonostante questa aperta sfida alla maniera idealizzata
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della produzione corrente, il Caravaggio non tarda a farsi largo, con opere commissionate dalle
chiese. Ecco nel 1592 il corpulento San Matteo a San Luigi dei Francesi, esposto fra proteste
perché “non aveva decoro”. Lo seguono la Vocazione di Matteo e il Martirio del Santo (verso il
1598). Sono capolavori drammaticamente mossi nella luce e vibranti di una profonda verità.
Dopo il 1601 dipinge a Santa Maria del Popolo le tele di San Pietro e San Paolo; nel 1606 la
Morte di Maria (Louvre), ancora una volta respinta dai committenti di Santa Maria della Scala.
Violento nella vita come nell’arte, è costretto a fuggire a Napoli dopo una rissa. Dipinge qui nel
1606 le Opere di Misericordia, con tragici significati e colori sempre più scuriti dalla dinamica
delle luci; fugge poi a Malta e a Messina, inseguito da sicari, per terminare malato e solo la vita,
a Porto d’Ercole, nel 1610.
GIAN LORENZO BERNINI
Maestro originalissimo, il Bernini esprime in forme caratteristiche la “maniera barocca”
nell’architettura e nella scultura: grandiosità decorativa , immenso repertorio fantastico,
suggestivo sperimentalismo sentimentale. Gli fa difetto forse una ferma struttura spirituale,
sicchè il suo virtuosismo talvolta è privo di calore umano.
1598: nasce a Napoli Gian Lorenzo Bernini e a soli otto anni segue il padre trasferitosi a Roma.
Assai precoce, a vent’anni è già entrato nelle grazie del “cardinal nepote” Scipione Borghese,
protettore degli artisti, e ne decora la villa sul Pincio. Scolpisce nel 1623 il David, suo primo
capolavoro, suscitando meraviglia per la animatissima dinamica, già prepotentemente “barocca”.
L’Apollo e Dafne (1624) accentua la ricerca di effetti pittoreschi, pur sempre contenuti da un
verismo impressionante e da una solenne composizione, assunta dalla scultura classica.
Nel 1624 inizia la sua attività di architetto, con l’altare di San Pietro, concepito come una grande
costruzione scenografica. Finisce poi il palazzo dei Barberini per la famiglia del Papa Urbano
VIII, suo protettore. Alla sua morte ritorna alla scultura, e compie nel 1646 l’altare di Santa
Maria della Vittoria a Roma, che può considerarsi il suo capolavoro: le figure sembrano librarsi
nell’aria, in un trionfo di forme plastiche, realizzato con i mezzi della più straordinaria
scenografia teatrale. Il virtuosismo retorico di queste opere mature ispira anche le famose
fontane, disposte in vari punti di Roma, da quella del Tritone a quella monumentale e
macchinosa dei Fiumi a Piazza Navona.
Nel 1656 inizia, per il nuovo Papa Alessandro VII, il portico di Piazza San Pietro, cingendola
con un quadruplice cerchio di colonne, capolavoro di effetto plastico e scenografico. Le ultime
opere sono all’insegna del “colossale”, come il Costantino a cavallo dell’atrio di San Pietro
(1670), mentre nei dieci Angeli che illustrano il dramma della Passione sul Ponte Sant’Angelo
(1670) riprende i temi più virtuosistici della plastica barocca. Muore a Roma nel 1680.
FRANCESCO BORROMINI
Il Borromini rivela l’interiore tormento di una ricerca intellettualistica che mira alle soluzioni più
raffinate ed estrose, esaltando il valore delle materie costruttive e degli elementi architettonici,
subordinati ad effetti di luce e di disegno. Condannato ad una attività modesta, e limitato nella
considerazione popolare dalla presenza invadente del Bernini, il Borromini trova degna
consacrazione artistica soltanto dopo la morte. Sullo scorcio del secolo, e nel Settecento le sue
opere divengono infatti il modello più imitato, diffondendosi in tutta Europa.
1599: nasce a Bissone Francesco Castelli, poi detto Borromini. Per qualche anno lavora nel
Milanese come scultore, poi nel 1614 viene a Roma, chiamato dal Maderno, lombardo come lui.
Sotto la sua direzione lavora per lunghi anni, a San Pietro e a palazzo Barberini, in forma
pressoché anonima, facendosi una straordinaria esperienza di disegnatore architettonico e di
intagliatore di marmi. Nel 1628-32 collabora col Bernini al completamento di palazzo Barberini,
dove compie la stupefacente scala elicoidale.
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A differenza del Bernini, che rimane sempre scultore anche quando crea architetture, il
Borromini cerca le soluzioni più raffinate ed astratte, in relazione alle possibilità delle materie
costruttive. Nell’Oratorio dei Filippini (1637-42), ad esempio, incurva la facciata, per dare
rilievo con la modulazione della luce agli elementi funzionali e insieme ornamentali dei pilastri e
delle cornici. Nella successiva Chiesa delle Quattro Fontane (1641), risolve con grazia ed
eleganza minuziosa il chiostrino e la navata.
Fra il 1642 e il ’60 lavora alla chiesa di Sant’Ivo, arricchendola della torre ricca di campaniletti e
di imprevisti giochi decorativi. Molti altri lavori di ripristino e di adattamento tengono
impegnato il Borromini nei suoi ultimi anni, a San Giovanni Laterano, Sant’Agnese, al palazzo
di Propaganda Fide e a S. Andrea delle Fratte.
Ultima opera, la facciata di San Carlo alle Quattro Fontane, tesa a nuovi effetti pittoreschi nel
gioco di luci contrapposte. Dopo aver bruciati gli ultimi disegni, tormentato da incertezze e
difficoltà, il Borromini mette tragicamente fine ai suoi giorni, a Roma, nel 1667.
PETER PAUL RUBENS
Figlio della Fiandra cattolica e italianizzante, il Rubens è uno dei protagonisti dell’arte barocca
nel Nord Europa. Contrapponendosi alla cultura borghese e intimistica dell’Olanda protestante,
esalta le forme più decorative e spettacolari della tradizione italiana e le muta in uno stile fastoso,
caldamente vitale, che formerà la base artistica di molte scuole pittoriche europee fra il Sei e il
Settecento.
1577: nasce a Siegen in Germania Peter Paul Rubens, da padre aristocratico, esule dalle Fiandre
per sospetti politici. Nel 1587 ritorna con la madre ad Anversa e nel 1590 entra come paggio
nella casa della principessa de Ligne-Arenberg, perfezionando la sua educazione. Studia pittura
con vari maestri, tra cui il Voenius, educato nella tradizione romana. Nel 1600 il Rubens parte
per l’Italia, dove si trattiene lunghi anni, fra Venezia, Mantova, Genova, Firenze, Roma,
arricchendo la sua cultura sugli esempi della grande tradizione rinascimentale. Ha anche modo di
ammirare a Roma le opere del Caravaggio e frequenta i suoi numerosi seguaci nordici.
Ritornato ad Anversa, nel 1608, sposa Isabella Brandt, e diviene rapidamente famoso,
dipingendo per il Duomo della città le grandi tele della Erezione della Croce e della
Deposizione. Presto lo circondano molti allievi, tra cui alcuni destinati a divenire famosi, come il
Jordaens, lo Snyders e il Van Dyck.
L’arte del Rubens risponde mirabilmente alle richieste della società nobile e dei committenti
religiosi del suo paese,con una maniera decorativa capace di fondere la retorica con la più felice
grandiosità: una ricchezza festosa che si ispira alla bellezza della natura. Diventa così
felicissimo ritrattista, e si ricordano i suoi autoritratti con Isabella Brandt (Firenze e Monaco).
La carriera di Rubens ha anche intervalli diplomatici, con missioni all’estero per la Infanta
Isabella. Nel 1621 ha l’incarico di decorare le sale del nuovo palazzo del Luxembourg a Parigi;
nel 1626 muore la moglie; dal 1630 al ’32 dipinge i soffitti di Whitehall di Londra: una attività
travolgente, senza un attimo di sosta, che impegna numerosi collaboratori. Risposatosi con Elena
Fourment nel 1630, si ritira a vivere nel castello di Steen, senza rallentare la sua prodigiosa
attività. Muore ad Anversa nel 1640.
DIEGO VELAZQUEZ
La grandezza del Velàzquez non è tanto nella straordinaria tecnica e neppure nella eccezionale
capacità di rendere nel ritratto lo spirito del personaggio e il suo ambiente. Ancor più alta appare
la condizione poetica del suo operare, se si considera la suprema immediatezza della sua
pennellata: di un colorismo fatto di sfumature, capace di evocare effetti pressoché indicibili di
verità naturale e di lirica trasfigurazione degli oggetti.
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1599: nasce a Siviglia Diego Rodriguez de Silva, più noto poi con il cognome della madre,
Geromina Velàzquez. A venti anni, sposata la figlia del suo maestro, Pacheco, è già famoso e si
trasferisce a Madrid. Nel 1623, compiuto uno splendido ritratto del Re Filippo IV, ne diviene il
pittore ufficiale.
Le prime opere sono per lo più scene popolari e nature morte (chiamate in Spagna “bodegones”),
di un realismo impregnato di lontane influenze caravaggesche. Con questo atteggiamento, il
Velàzquez sembra reagire alla tradizione accademica che si era venuta formando dopo la morte
del Greco.
Ma, sollecitato dal Rubens, eccolo nel 1629 in viaggio per l’Italia: Venezia, con Tiziano e
Tintoretto, poi Ferrara e Roma lo entusiasmano. Al ritorno, i ritratti a cavallo del Re e dei
principi della corte, o i dipinti storici come la Resa di Breda (Prado), rivelano la maturazione del
suo stile, ormai ricco di finissime variazioni di colore, e sempre più penetrante nel ritratto.
Una serie famosa, dipinta fra il 1636 e il ’40, ricorda i buffoni e i nani di corte: capolavori di
verità spesso umanamente dolorosa.
I numerosi impegni di corte, dove è nominato Maresciallo di palazzo, non gli impediscono un
secondo viaggio in Italia, nel 1649-50. Sosta così a Venezia, e vi acquista per la corte opere di
Tintoretto e del Veronese. Dipinge sempre meno, con una sorta di aristocratico distacco, ma le
ultime opere, come i ritratti delle bimbe reali (Las Meninas) o le Filatrici del Prado, sorprendono
per la straordinaria immediatezza cromatica. Muore a Madrid nel 1660.
REMBRANDT
Rembrandt è il più appassionato e geniale poeta dell’Olanda seicentesca, e va inquadrato nel
clima moralmente rigoroso del protestantesimo. In una vita tormentata, che conosce il massimo
della gloria, ma anche la solitudine e la miseria, Rembrandt svincola il suo stile figurativo dalla
tradizione, per realizzare un acuto e sensibilissimo strumento di indagine, rivolto alla più intima
verità umana.
1606. nasce a Leida, figlio di un mugnaio, Rembrandt Harmentz van Rijn.. Dopo aver
frequentato la Università, si dedica alla pittura, ed è scolaro dello Swanenburg e di Pieter
Lastman. Riceve una educazione italianeggiante, che appare nelle prime opere, dal colorismo
squillante e molto contrappuntato (Cristo in Emaus di Parigi, Ritratto della madre di
Amsterdam). Si stabilisce nel 1631 ad Amsterdam, dove sposa Saskia van Uilemburgh, e dipinge
numerose tele e ritratti, raggiungendo una grande notorietà e un certo benessere economico.
Colleziona stampe e disegni antichi, e oggetti singolari, che spesso riproduce nelle sue tele, in
brillanti particolari, dove il colore si fa dorato e prezioso. Nasce così il famoso “chiaroscuro”
rembrandtiano, che immerge le immagini in una atmosfera quasi irreale, dove la luce
smaterializza gli oggetti.
La pratica della incisione e una straordinaria vocazione grafica lo rendono sempre più penetrante
nella struttura disegnativa, mentre gli oggetti umani, colti nella loro essenzialità più spirituale, si
allineano in una ininterrotta galleria. Spesso il suo tema preferito è l’Autoritratto: ed è l’unico
Artista di cui se ne contino più di cento. Tra i quadri più famosi di questo periodo centrale, va
ricordata la Lezione di Anatomia dell’Aia (1632). Lo seguono le tavole della Passione di
Monaco (1633), immerse in una drammatica luminosità, fino al famoso ritratto collettivo della
Compagnia del Capitano Cocq, chiamato popolarmente la “Ronda di notte “. Dopo questo
grande capolavoro, il Rembrandt è vittima di una crescente incomprensione, che lo porta,
attraverso disgraziate vicende famigliari, alla solitudine e alla miseria. Perduta Saskia nel 1642,
si risposa, ma rimane nuovamente solo nel 1662 e la sua stessa casa è venduta all’incanto. Muore
ad Amsterdam nel 1669.
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L’ARTE DEL SETTECENTO
Anno 1701: inizia la guerra di successione spagnola; lega antifrancese. Pietro il Grande fonda
Pietroburgo. 1720:: dopo lunga guerra, la Spagna è estromessa dall’Italia e sostituita
dall’Austria. 1725: G.B.Vico pubblica la “Scienza Nuova”. 1740: Federico II Re di Prussia.
1748: pace di Aquisgrana. Il Regno delle Due Sicilie ai Borboni. 1750: Carlo Goldoni inizia la
pubblicazione delle Commedie. Muore Johannes Sebastian Bach. 1751: Pubblicazione
dell’”Encyclopédie” in Francia. 1765: Watt inventa la macchina a vapore. 1781: Kant
pubblica la “Critica della Ragion Pura”. 1789: Giorgio Washington Presidente degli Stati Uniti.
Presa della Bastiglia a Parigi e inizio della Rivoluzione francese. 1797: Napoleone in Italia.
Fine della Repubblica di Venezia. 1800: esecuzione della I Sinfonia di Beethoven.
Caratteristiche del Settecento sono una grande complessità e ricchezza di espressioni, nei diversi
paesi d’Europa, ma specialmente in Francia, a Venezia e in Inghilterra, ove l’arte figurativa
trova campo favorevole al più grande sviluppo. In linea generale, il secolo può essere
considerato in due parti distinte: la prima, che occupa i decenni iniziali, è l’epoca dell’Arcadia e
del Rococò, e vede i suoi trionfi figurativi nella Parigi di Luigi XV e a Venezia; la seconda parte
si fonda sul razionalismo illuminista, da Diderot a Voltaire e a Rousseau, e sul classicismo
teorizzato dal Winckelmann.
IL ROCOCO’
Il primo Settecento vede affermarsi in architettura, in scultura e in pittura, gli aspetti più raffinati
dello stile barocco, che furono chiamati in Francia “rococò” (da “rocaille”, cioè la fantasiosa
decorazione a rocce artificiali nei giardini, venuta di moda in quel tempo). Il Rococò ispira le
architetture dello Juvara in Piemonte, e trionfa nell’ornamento, prediligendo le iperboliche
decorazioni a cartocci, a trofei, gli arabeschi e le cineserie. Nel campo della pittura, i maggiori
esempi sono quelli del Watteau in Francia; ma non è facile stabilire se la precedenza non spetti
addirittura ai pittori veneziani, come il Ricci e il Pellegrini, seguiti poi da Gian Antonio Guardi e
dal Tiepolo, che portano in tutta Europa le loro opere, scintillanti di festosa felicità.
LA PITTURA DELLA REALTA’
Verso la metà del secolo prevale la pittura di ritratto, con gli inglesi Hogarth e Gainsborough e il
veneziano Pietro Longhi. La realtà diviene il principale oggetto dell’attenzione dell’artista, e si
sostituisce alle mitologie decorative del secolo precedente. Pittori come Chardin traggono dalla
osservazione del vero più umile e penetrante, il motivo più alto della loro poesia.
Il Canaletto e Francesco Guardi prendono invece a soggetto delle loro tele soprattutto Venezia,
fatta quasi simbolo di bellezza e di perfezione formale, con i suoi canali, le quiete lagune, le
brulicanti regate di gondole. La loro pittura diviene famosa in tutta Europa, e si diffonde anche
attraverso le traduzioni della incisione, che ne rende popolari i soggetti. Si sviluppa infine l’arte
neoclassica, volta a contrastare la leziosa felicità del Barocco e del Rococò, per sostituirvi un
ideale del Bello ricalcato sugli esemplari della classicità greca e romana. Le sculture del
Canova, le pitture del Mengs e le decorazioni ispirate allo stile di Pompei e di Ercolano, la
statuaria bellezza delle figurazioni del francese David sono tra le maggiori conquiste dell’arte
alla fine del Settecento. Una posizione particolare assume l’attività incisoria del Piranesi, che
illustra tutte le architetture e le antichità di Roma in serie stupende di acquaforti, di intensa
drammaticità.
Ormai si preannuncia il superamento della contrapposizione fra Rococò e Neoclassicismo, in
forme che si possono ben definire romantiche, per la loro aperta partecipazione, volta a
rappresentare spesso i sentimenti umani attraverso il ritratto. Sullo scorcio del secolo comincia
infatti ad operare in Spagna il Goya, da cui dipenderà molta parte dello sviluppo figurativo del
secolo successivo, primo ormai dell’età contemporanea.
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ANTOINE WATTEAU
In una attività di neppure venti anni, il Watteau dà l’avvio al trionfale secolo diciottesimo in
Francia. La sua poetica, che risolve la diatriba seicentesca fra i classicisti seguaci del Poussin e i
barocchi Rubensiani, propone tutta la tematica di una pittura che si adegua alla nuova società,
bilanciata fra un’aristocrazia raffinata e una illuminata borghesia.
1684: nasce a Valenciennes Antoine Watteau, da povera famiglia, e fin da giovane soffre per la
debole costituzione e per malattie. A diciotto anni è a Parigi, dove si lega ad un gruppo di pittori
fiamminghi, facendo copie per i piccoli mercanti d’arte. La sua fortuna inizia nell’”atelier” dei
Mariette, grandi stampatori e raccoglitori di cose d’arte. Vi incontra artisti famosi, attori di
teatro, disegnatori di mode, e si orienta verso una cultura raffinata, sensibile alle esigenze del
tempo. Dal 1703 al 1707 lavora col Gillot, famoso per i ritratti di attori, e poi con Claude
Audran, grande decoratore di castelli e di dimore signorili. Per lui, dipinge spiritosi pannelli e
cineserie, giochi di animali, intrecci di fiori nei castelli di Meudon e della Muette.
Ospite dell’Audran a Parigi, scopre nel salone del Luxembourg le pitture del Rubens e ne è
entusiasmato: da questo momento, la sua tavolozza si accende di intensa luminosità, mentre i
soggetti si fanno sempre più originali, e riguardano soprattutto la vita elegante, le feste, i
personaggi del teatro e della moda. Dopo qualche incertezza, la società artistica parigina lo
accoglie con entusiasmo, e ne fa il suo idolo. Entra nel 1712 all’Accademia, e la sua pittura
incarna veramente lo spirito del tempo, nella felice euforia della Reggenza di Filippo d’Orlèans,
amico delle arti, circondato da una schiera di raffinati cortigiani.
Nel 1715 entra in amicizia con il famoso collezionista Pierre Crozat, che gli mette a disposizione
i suoi tesori artistici: scopre così, specie attraverso i disegni, anche gli italiani, come Raffaello e
Correggio, Parmigianino e Paolo Veronese. Il suo capolavoro di questi anni è il Ritorno da Citera
del Louvre (1717). Poco dopo però, consumato dalla tisi, muore immaturatamente a Nogent, nel
1721.
GIAN BATTISTA TIEPOLO
Nell’epoca del Rococò, il Tiepolo diviene quasi il simbolo della grande pittura. Spiritualmente, è
vicino ai drammi di Metastasio e alla musica dei Veneziani, da Marcello a Galoppi, fino a
Vivaldi. Egli interpreta in termini figurativi la vena grandiosa e decorativa del secolo, con una
serie di affreschi e di tele nelle chiese e nei palazzi di tutta Europa. Rievocando la solare
classicità veneziana, il Tiepolo realizza un linguaggio pittorico di festosa luminosità.
1696: nasce a Venezia Gian Battista Tiepolo da una famiglia di marinai. Suo primo maestro è il
Piazzetta, che gli trasmette l’esperienza della grande pittura decorativa emiliana. Verso il 1725,
il Tiepolo ci dà i primi affreschi, agli Scalzi e a palazzo Sandi. Al passaggio verso una forma
decorativa prossima ai modi del Rococò lo spinge anche la visione delle opere di Sebastiano
Ricci e del Pellegrini, celebri in Europa. Nel 1726 lavora a Udine, per l’arcivescovo Dolfin.
Ormai famoso, lo troviamo poi a Milano in palazzo Dugnani (1731), a Bergamo nella cappella
Colleoni (1733) e ancora a Milano a palazzo Clerici (1740): affreschi di ampio respiro, che
traggono ispirazione direttamente dalla grande pittura cinquecentesca, eleggendo a modello
Paolo Veronese. A Venezia compie ai Carmini (1739-44) il soffitto con la Vergine del Carmelo,
in un altissimo canto luminoso. A palazzo Labia e poi a Wùrzburg, nella Residenza del
Vescovo-Principe, crea i suoi più alti capolavori ad affresco, decorando vastissime superfici con
inesausta felicità cromatica, aiutato anche dai figli Domenico e Lorenzo (1750-53).
Verso la vecchiaia, mostra inalterata la sua carica vitale nei soffitti di Cà Rezzonico e della Villa
di Stra (1762). Una parentesi elegiaca, con tonalità più raffinate, quasi melanconiche di colore,
la troviamo nella villa Valmarana a Vicenza (1757). Nel 1762 si trasferisce in Spagna per
decorare il palazzo Reale. Vi incontra le prime ostilità, mosse dal neoclassicismo ormai
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dominante, e si chiude in opere da cavalletto e in disegni rapidi ed espressivi. Muore a Madrid,
nel 1770.
CANALETTO
La eccezionale poetica del Cataletto si può sintetizzare in una assoluta fedeltà al vero, sublimata
da una felicità creativa che va oltre gli stessi limiti oggettivi e diviene pura contemplazione. Il
suo tema principale è la topografia veneziana, fatta di prospettive scenografiche e di infiniti
giochi di riflessi, fra i monumenti e l’acqua che li accoglie e li commenta luminosamente.
Eppure l’immagine poetica che ne risulta è nuova, e testimonia una volontà di indagine
figurativa che si fa sempre poesia.
1697: nasce a Venezia; il suo vero nome è Antonio Canal. Come il padre,si dedica dapprima alla
scenografia. Dopo un viaggio a Roma, ove ha modo di conoscere i paesaggisti fiamminghi e
olandesi, passa interamente alla pittura di vedute, cioè alla rappresentazione topograficamente
esatta del paesaggio urbano.
Venezia, dove ritorna poco dopo il 1720, gli offre un soggetto insuperabile, con le sue
prospettive, i suoi fantastici monumenti, le vivaci macchiette. Vinta presto la rivalità del
Carlevaris, che dipingeva analoghi soggetti, il Canaletto diviene il dominatore incontrastato del
campo, e svolge una attività intensissima. Sono del periodo 1725-30 intere serie di pitture, che
illustrano il Canal Grande e i luoghi più caratteristici della città (collezioni di Windsor, del Duca
di Bedford e Harvey in Inghilterra). Presto esse diventano popolari attraverso le stampe del
Vicentini (1735-42).
Tramite il console a Venezia – Joseph Smith – la principale clientela del Canaletto è quella dei
nobili inglesi, che vogliono riportare nei loro castelli il ricordo della incantevole città delle
lagune. Non c’è nulla infatti di più esatto delle riproduzioni offerte dal pittore, disegnate anche
con l’ausilio di un apparecchio a riflessione (“camera ottica”), ma nello stesso tempo ravvivate
da una inesausta brillantezza cromatica. Nel 1741-43 compie anche una serie di incisioni
all’acquaforte, di soggetti veneziani e della prossima terraferma, che hanno grande diffusione.
Nel 1746, chiamato dagli amici inglesi, parte per Londra, dove si trattiene dipingendo quasi
ininterrottamente per circa 8 anni. Tornato a Venezia, continua la sua attività, con un tocco
sempre più leggero, a puntolini luminosi, che accorda la fedeltà riproduttiva alla sensibile
interpretazione del paesaggio veneziano. Muore a Venezia nel 1768.
FRANCESCO GUARDI
Francesco Guardi è l’ultimo grande artista del Settecento. La sua attività tocca infatti i limiti del
nuovo secolo, e sarà particolarmente compresa solo dopo l’avvento degli impressionisti. In
realtà, egli interpreta l’estrema voce del colore veneziano, creando un toccante “paesaggio
sentimentale”, in cui la città vive tutte le ore della sua estrema stagione, dalle animate feste
popolari alle malinconiche solitudini della laguna.
1712: nasce a Venezia Francesco Guardi. Suo padre, pittore,si era da poco trasferito a Venezia
con la famiglia, proveniente da Vienna. Francesco incominciò presto a lavorare, alla scuola del
fratello maggiore Gian Antonio, ma quella attività volta interamente alla pittura decorativa nel
genere “Rococò”, non gli riuscì congeniale. Le poche pitture di figura che infatti ci restano, di
Francesco, sono opere alquanto pesanti, create per contrapposizioni violente di luce e d’ombra,
in un disegno nervoso, esagitato.
Probabilmente in coincidenza con la partenza del Canaletto per l’Inghilterra, Francesco può
cominciare a dedicarsi alle vedute veneziane. Dapprima lo vediamo chiaramente ispirato al
Canaletto, nella Piazza San Marco di Londra, o nella veduta di San Giovanni e Paolo del Louvre;
poi man mano la luce assume un particolare valore fantastico.
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Nel periodo più tardo, il Guardi passa al “capriccio”, in cui ritrae colonne classiche, archi e
rovine in aperti paesaggi lagunari, dove il colore arido e scintillante ha come un sapore di salso,
sotto cieli pieni di nubi strappate e di vento. Nel 1783, per incarico della Repubblica, ricorda la
visita dei Conti del Nord, in una serie di tele che illustrano i fatti salienti del loro soggiorno a
Venezia; le ultime opere sono per lo più vedute di piccole dimensioni, capricci, e numerosissimi
disegni, in cui la grafia di tocco evoca purissime suggestioni di luce.
In complesso Francesco Guardi ebbe scarsa fortuna in vita, e i suoi quadri furono apprezzati
soltanto dagli stranieri, come sostituti di quelli, più ricercati, del Canaletto. Servì piuttosto la
classe borghese , che non la Chiesa e il patriziato. Muore quasi ignorato a Venezia, nel 1793.
L’ARTE DELL’OTTOCENTO
Anno 1800:Napoleone viene eletto primo console. 1804: Napoleone viene incoronato
imperatore. 1810: Madame di Staèl pubblica il suo libro sulla Germania. 1815: Napoleone
viene sconfitto definitivamente a Waterloo. Si riunisce il Congresso di Vienna che segna la
restaurazione in Europa. 1820: movimenti rivoluzionari in Europa. 1830: Rivoluzione a Parigi
contro Carlo X e elezione al trono di Francia di Luigi Filippo. 1848:moti liberali in Italia.
Pubblicazione del Manifesto di Carlo Marx. 1859: seconda guerra di indipendenza italiana.
1861: Unità italiana. 1870: caduta di Napoleone III e proclamazione dell’impero germanico.
Annessione di Roma al Regno d’Italia. 1901: muore Giuseppe Verdi.
L’Ottocento europeo è un secolo di vasti rinnovamenti spirituali e ideologici che si riflettono ad
un tempo nei fatti politico-sociali e nei linguaggi artistici. Così, agli anni dell’Impero
napoleonico corrisponde lo stile neoclassico, che discendendo dalle opere di artisti come
Canova, David e Ingres investe ogni aspetto del costume. Per altro, non è da pensare che i modi
razionali di questo linguaggio artistico siano i soli, perché, come avviene per la letteratura, nello
stesso periodo di tempo le istanze romantiche affermano una nuova visione del mondo,
anteponendo ad ogni altro valore quelli del sentimento. Al culto erudito dell’antichità classica
viene a contrapporsi un amore appassionato per il Medioevo e il favoloso Oriente, con
conseguenze determinanti per le arti figurative.
L’IMPRESSIONISMO
Da Turner, pittore inglese di eccezionale talento, che pare anticipare talune soluzioni che saranno
proprie degli Impressionisti, a Corot e a Daumier, che in modi tanto diversi significano una
partecipazione diretta del sentimento, fino al grande Delacroix, l’arte pone in primo piano con le
sue passioni, i suoi slanci e le sue cadute, quell’uomo nuovo che Goya, all’inizio del secolo,
aveva con tanto acuta drammaticità presentato alla ribalta della storia europea. In pittura, la
polemica tra neoclassici e romantici si schematizza nel contrasto tra sostenitori del disegno e
fautori del colore, tra coloro che preferiscono Ingres e quelli che sostengono il primato di
Delacroix. Appena oltrepassata la metà del secolo, dopo una breve, rilevante parentesi
naturalistica, che si svolge all’insegna di Millet e di Courbet, l’Impressionismo apre una nuova
stagione delle arti figurative in Europa. La problematica di questo gruppo di pittori attivi a Parigi
tra il ’70 e l’86 non è precisabile nei termini rigorosi di una poetica: il “ plein air”, cioè il
cogliere la luce direttamente nell’ambiente, non è un fatto nuovo; nuova è l’intenzione con cui il
pittore impressionista si accosta alla realtà naturale, per riportarla nell’ambito della sua visione
soggettiva. L’Impressionismo rappresenta la liquidazione di ogni residuo classicistico e per
quanto sia espressione della borghesia più colta ed avanzata d’Europa, è destinato ad avviare la
grande avventura delle avanguardie artistiche, fondamentalmente antiborghesi ed anarcoidi.
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I MACCHIAIOLI
Comincia poi con il movimento impressionistico quel processo di revisione critica delle
possibilità espressive nei linguaggi figurativi, che caratterizza i movimenti europei dei primi
decenni nel Novecento. Tale atteggiamento, che investe decisamente la pittura, ha riscontri
meno evidenti nell’architettura e nella scultura. L’architettura attraversa, dopo la fase
neoclassica, una lunga crisi eclettica con variazioni neogotiche o di un classicismo accademico,
da cui si salvano solo alcune correnti che danno l’avvio ad una concezione non esornativa
dell’architettura e vengono giustamente oggi considerate precorritrici dell’arte moderna: si allude
alle “Arts and Crafts” inglesi e all’”Art nouveau”: In Italia, in parallelo con l’Impressionismo
troviamo i Macchiaioli, che pur presentando con questo alcune consonanze apparenti, si
concentrano sull’uso del colore inteso come “macchia”, peraltro intesa in appoggio a una forma
disegnativa di estrazione ancora classicistica. Le influenze dell’Impressionismo si vedono
nell’opera plastica di Rodin e di Medardo Rosso, le maggiori personalità nel campo della
scultura.
ANTONIO CANOVA
Artista inquieto, il Canova passa dai modi eleganti e disinvolti dell’esperienza giovanile,
sviluppatasi nell’ambiente “rococò” della Venezia tardosettecentesca, al “bello ideale” della
teorica neoclassica di moda a Roma. Eppure, nonostante la limitazione formale cui obbliga la
propria fantasia poetica nel periodo della maturità,, il Canova tocca risultati di una mobile e
quasi ambigua sensibilità anche in molte opere di intonazione classica, mostrando la propria
originaria natura pittorica di ascendenza veneta.
1757: nasce a Possagno Antonio Canova. Ragazzo, giunge a Venezia per frequentare
l’Accademia di Belle Arti al Fonteghetto della Farina, dove insegnano Pietro e Alessandro
Longhi, Giacomo Guarana, Michelangelo e Gregorio Morlaiter .Ma l’artista che più interessa al
Canova, nel periodo della sua formazione, è lo scultore Bernardi-Torretti. Di questi anni
Venezia, rispetto a Roma dove il Neoclassicismo trionfa con il Winckelmann e il Mengs, resta
un ambiente artistico legato al gusto “rococò”. Unici centri di orientamento classicistico: la
Galleria del patrizio Filippo Farsetti, dove sono raccolte molte copie di opere greco-romane, e la
scuola di Architettura di Tommaso Temanza. Gli inizi del Canova pertanto rientrano nell’ambito
di una cultura tardosettecentesca: si vedano l’Orfeo e Euridice del Museo Correr di Venezia e
l’Apollo delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, offerto nel 1779 al collegio dei suoi
Maestri in cambio della nomina ad accademico, e ancora i Ritratti di Don Amadei del Seminario
Patriarcale di Venezia e del Doge Paolo Renier del Museo Civico di Padova, desunti
formalmente da Alessandro Longhi e da Gian Maria Morlaiter. Nel 1781 Canova si stabilisce a
Roma, dove con il Monumento a Clemente XIV dei SS. Apostoli e, qualche anno dopo, con il
Monumento a Clemente XIII in S. Pietro, tocca la notorietà. Nei primi anni dell’Ottocento, lo
scultore veneto, ormai orientato verso i principi neoclassici dal Milizia e dal Quatremére de
Quincy, diviene uno degli artisti ufficiali del periodo napoleonico. Basterà ricordare il Ritratto
di Paolina Borghese o il Busto di Angela Pascoli del Museo Civico di Treviso. Nonostante
l’adesione formale al Neoclassicismo, Canova non rinuncia, nelle sue opere più alte, ad una
sensibilità scoperta e acutissima, che riversa soprattutto nei disegni e nei bozzetti. Muore a
Venezia nel 1822.
FRANCISCO GOYA
La pittura di Goya, fatta di luci folgorate e di improvvisi, allucinati silenzi, è la più vivida,
drammatica protesta contro ogni formula e convenzione del suo tempo, sia sociale che estetica;
la estrema fioritura settecentesca, così come la nuova moda neoclassica vengono travolte dalla
visione violenta e diretta di questo genio rivoluzionario, che, proclamando la libertà dell’arte,
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anticipa in termini personalissimi la sensibilità romantica e segna gli inizi dell’avventura
fantastica e conoscitiva dell’uomo contemporaneo.
1746: a Fuendetodos, piccolo villaggio vicino a Saragozza, nasce Francisco de Goya y
Lucientes. Iniziato alla pittura da un modesto pittore, José Luzàn, tenta, senza successo, di
entrare nel 1763 all’Accademia di Madrid. Nel 1770 Goya si reca a Roma e l’anno dopo, a
Parma, ottiene il primo riconoscimento ufficiale in un concorso di pittura. Ritorna in Spagna e
nel 1775 viene incaricato dalla Manifattura Reale di Santa Barbara di Madrid di una serie di
cartoni per arazzi, alla cui elaborazione attende con varie interruzioni fino al 1791. Nel 1780
viene accolto all’Accademia madrilena e, grazie alla protezione del ministro Jovellanos, entra
nell’ambiente aristocratico della capitale, che mostra vivo interesse per i suoi ritratti eloquenti ed
incisivi. Nel 1789 Carlo IV sancisce ufficialmente il successo di Goya, nominandolo suo pittore
di Camera. Questo periodo sereno viene improvvisamente interrotto da una violenta malattia nel
1792, da cui Goya esce stremato nel fisico e completamente sordo. Colpito da una grave crisi
spirituale, egli capovolge i termini della sua visione: dall’ambigua, anche se critica
rappresentazione della vita spensierata e felice della società madrilena, passa a una concezione
drammatica e pessimistica dell’esistenza, espressa nelle incisioni dei “ Capricci”. La situazione
politica spagnola frattanto precipita: a Carlo IV succede brevemente Ferdinando VII, quindi
segue il regno di Giuseppe Bonaparte. La tragedia di questi anni di violenza e di guerra viene
descritta da Goya nelle incisioni I disastri della guerra e nei due celebri quadri Il due di maggio
e Il tre di maggio, eseguiti nel 1814, quando Ferdinando VII risale sul trono di Spagna. Goya,
alla restaurazione, si ritira in solitudine e sulle pareti della sua casa di periferia lascia il
documento più alto e ossessivo della sua drammatica visione: la serie stupenda delle “pitture
nere”. Nel 1824 abbandona la Spagna, temendo la persecuzione reale che si accanisce contro gli
spiriti liberali, e si rifugia a Bordeaux, dove muore, dopo aver ritrovato un ultimo, insperato
periodo di serenità, nel 1828.
JEAN DOMINIQUE INGRES
Ingres è stato erroneamente contrapposto al romantico Delacroix, come l’alfiere del
Neoclassicismo. In realtà, il suo “purismo” si discosta egualmente dalla violenza coloristica della
pittura romantica, come dalle forme fredde ed erudite di David. Egli ricerca infatti, con
eccezionale originalità figurativa, un’espressione contenuta e quasi sublimata nel ritmo serrato e
severo della frase grafica e coloristica, toccando effetti di un personalissimo “esprit de finesse”.
1780: nasce a Montauban il pittore Ingres. Dopo aver iniziati gli studi artistici all’Accademia di
Tolosa, si reca nel 1797 a Parigi, dove viene accolto nello studio di David, il grande pittore
neoclassico. Nel 1806 ottiene la borsa di studio per un soggiorno a Roma, e qui esegue copie da
maestri antichi e da Raffaello in particolare, portando avanti la propria ricerca nella direzione di
una sempre più alta armonia compositiva e di una più rarefatta purezza formale. Terminato il
quadriennio della borsa, decide di aprire il proprio studio in via Gregoriana e intrattiene rapporti
con l’ambiente francese di Roma, ottenendo numerose commissioni di ritratti. Per incarico del
generale Miollis, governatore della città, decora Villa Aldobrandini e la camera imperiale di
Palazzo del Quirinale. Successivamente si porta a Napoli, invitato da Carolina Murat e dopo la
caduta di Napoleone, seguendo le affettuose insistenze dell’amico scultore, Lorenzo Bartolini,
sosta a Firenze tra il ’20 e il ’24. In questo momento, soprattutto in occasione del suo grande
quadro il Voto di Luigi XIII per la Cattedrale di Montauban, ottiene finalmente il pieno
successo: Carlo X lo decora della Legion d’onore. Nel 1834 lascia Parigi, dove aveva ricoperto
posti di grande rilievo nel mondo artistico, e assume l’incarico di direttore dell’Accademia di
Francia a Roma. Rientra a Parigi nel 1841, accoltovi trionfalmente per aver portato l’Accademia
a grande prestigio; gli vengono affidate opere eccezionali come l’Apoteosi di Napoleone I nel
palazzo municipale di Parigi. Muore a Parigi nel 1867.
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EUGENE DELACROIX
Storie bibliche e avvenimenti contemporanei, Oriente favoloso e mondo occidentale accendono
di luci appassionate il sentimento fantastico di Delacroix. Artista di formidabile istinto, si
oppone alla fredda ricerca neoclassica con la violenza aggressiva di un colore ansioso e
allucinato , dettato quasi automaticamente dalla presenza, improvvisa e irripetibile, del fantasma
poetico.
1798: nasce a Charenton-Saint-Maurice, vicino a Parigi, Eugène Delacroix. Compiuti gli studi
classici, viene presentato da uno zio pittore a P. N. Guerin, artista dell’ambiente neoclassico e
scolaro di David, ma il giovane Eugène guarda a Gèricault, di cui frequenta lo studio, è assiduo
al Louvre, dove esegue esercizi di copia, studia Goya. Nel 1822 manda ai Salons la Barca di
Dante e nel ’24 i Massacri di Scio: le due opere, violentemente discusse, segnano l’entrata
ufficiale di Delacroix sulla scena artistica francese. Da quel momento egli diviene, per
l’opinione pubblica, l’anti-Ingres, il rappresentante massimo della pittura romantica. Nel 1825
risiede tre mesi in Inghilterra e studia Constable, quindi a Parigi stringe legami con l’ambiente
letterario e musicale: Stendhal e Mèrimèe, Dumas, Victor Hugo e Paganini. Nel 1832 compie il
viaggio più importante della sua vita: visita la Spagna e il Marocco. Questa esperienza,
letterariamente suggeritagli dagli interessi orientalisti propri della concezione romantica,
conferma in Delacroix i termini di una visione violenta, istintiva, dove l’amore, la morte, lo
slancio mistico, assumono un significato totale e quasi ossessivo.
Negli anni compresi tra il 1833 e il 1861 si dedica ai grandi cicli decorativi in pubblici edifici
come il Salone del Re, la Biblioteca di Palazzo Borbone, il soffitto centrale della Galleria
d’Apollo al Louvre, ma contemporaneamente esegue opere per amatori e scrive il suo famoso
diario. Nonostante i riconoscimenti ufficiali (gode dell’amicizia potente di Thiers,
dell’incondizionato appoggio di artisti come Baudelaire, Gorge Sand, Gautier e Chopin)
l’ambiente accademico gli resta avverso fino alla morte, che avviene a Parigi nel 1863.
EDOUARD MANET
A Manet Baudelaire riconosce: “un gusto deciso per la verità moderna”. Il giudizio è
acutissimo. Manet infatti si distingue dai romantici e dai realisti per aver individuato una nuova
verità pittorica del mondo delle cose, che può essere colta solo in maniera semplice e diretta.
Scrive Matisse: “Manet è stato il primo ad agire per riflessi e a semplificare così il mestiere del
pittore…esprimendo solo quello che toccava immediatamente i suoi sensi”.
1832: nasce a Parigi, da famiglia borghese, Edouard Manet. Nonostante la contrarietà del padre,
che lo voleva avvocato, entra nel 1850 nello studio dell’accademico Couture. Frequenta il
Louvre, dove esegue copie da Tiziano, Tintoretto, Velàzquez; studia attentamente Goya,
Delacroix e Courbet. Nel ’56, lasciato il Couture, comincia a frequentare l’ambiente letterario
più avanzato: nel ’58 si lega d’amicizia con C. Baudelaire, di cui avverte il genio poetico e
subisce l’influenza. Nel 1863, dopo essere stato rifiutato ai Salons ufficiali, espone al “Salon des
Refusès” il famoso quadro la Colazione sull’erba, che solleva uno scandalo immenso. Tacciato
di immoralità e di dilettantismo, conosce l’avversione della critica ufficiale e del pubblico
borghese. Nel 1865 Manet compie un viaggio in Spagna e l’anno dopo gli viene rifiutato al Salon
il Suonatore di piffero.. In questa occasione Emile Zola prende le difese dell’artista, che,
avvicinato al caffè Guerbois da un gruppo di giovani pittori antiaccademici – Monet, Pissarro,
Sisley, Bazille, Renoir -, diviene il capo dell’avanguardia impressionista. Nel 1872 il mercante
d’arte Durand-Ruel acquista un gruppo di tele di Manet: è il primo segno del successo. Nel ’74
non accetta di partecipare alla prima mostra degli Impressionisti da Nadar. Finalmente nel 1881
A. Proust, suo amico d’infanzia, divenuto ministro delle Belle Arti, gli fa conferire la Legion
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d’onore, e l’anno dopo, al Salon, con La primavera ottiene un successo incontrastato. Muore a
Parigi nel 1883.
PAUL CEZANNE
“Trattare la natura attraverso il cilindro, la sfera, il cono, il tutto messo in prospettiva…” sono
parole celebri di Cèzanne, che ci aiutano a capire la sua aspirazione ad organizzare la natura
secondo forme ideali, che ne trascendono l’aspetto immediato. Cèzanne va quindi oltre
l’Impressionismo e l’opera sua racchiude tutti i termini fondamentali di una nuova concezione
artistica che consente una sintesi rigorosa tra emozione e forma nello spazio.
1839: nasce a Aix-en Provence Paul Cèzanne. Di agiata famiglia borghese, viene avviato agli
studi classici al collegio Bourbon dove incontra Emile Zola. Nel 1861 entra, superate le
resistenze paterne, all’Accademia Svizzera a Parigi, ed incontra Guillarmin e Pissarro.
Frequenta il Louvre e il Salon. Negli anni successivi si lega al gruppo degli Impressionisti, ma il
suo particolare interesse lo porta a studiare Delacroix e Courbet. In questo periodo alterna il
soggiorno parigino a lunghe vacanze in Provenza. I suoi quadri vengono rifiutati ai Salons,
anche se riscuotono l’interesse di Manet. Nel 1870, durante la guerra franco-prussiana, si rifugia
all’Estaque vicino a Marsiglia, dove lavora intensamente. Nel 1873 risiede a Auvers-sur-Oise,
dove dipinge, sotto l’influenza di Pissarro, numerosi paesaggi tra i quali la “Casa
dell’impiccato”, e così, nonostante qualche opposizione, viene ammesso alla prima grande
mostra degli Impressionisti nel 1874. Nel 1878 si stacca dal gruppo degli Impressionisti e passa
da Parigi a Aix, a Melun, a Pointoise con Pissarro; torna poi all’Estaque, dove lo viene a visitare
Renoir. La sua ricerca, insistente e rigorosa, lo porta ad abbandonare la pittura d’impressione
per promuovere un ordine formale di intonazione geometrica. Nel 1886 viene attaccato
violentemente da Zola nell’Oeuvre: si rompe così un’amicizia di trent’anni con lo scrittore che lo
aveva sempre appoggiato e sostenuto nei momenti difficili. Nel 1892 soggiorna a Fontainebleau
e attraversa un periodo di grande felicità creativa (serie dei Giocatori di carte, delle Bagnanti,
della Montagna Santa Vittoria). Negli anni successivi la sua pittura comincia ad affermarsi in
Francia e all’estero, finchè nel 1904 la sua mostra personale al Salone d’Autunno ne segna il
trionfo. Muore nel 1906.
VINCENT VAN GOGH
L’arco dell’allucinata visione di Van Gogh è brevissimo, fulgido e arroventato come la sua vita.
Dopo l’esperienza impressionistica, in soli due anni, con una grande fiammata fantastica brucia,
nella solitudine assolata del Sud, ogni imprestito formale remoto o recente, e scrive furiosamente
sulle sue tele, in colori puri e accesi, il suo immenso e disperato amore per la vita.
1853: nasce a Zundert Vincent Van Gogh. Ragazzo, viene avviato dal padre, pastore evangelico,
alla carriera di mercante d’arte nell’azienda di uno zio, la Galleria Goupil, che aveva sedi in
diverse città europee. Nel ’76 improvvisamente lascia il posto della Galleria Goupil e comincia
una serie di esperienze diverse e tutte deludenti in Inghilterra e in Olanda. Affascinato da
idealità religiose e umanitarie, nel 1879 si reca nel desolato Borinage, dove, come predicatore
libero, vive la vita terribile dei minatori. E’ qui che finalmente scopre la sua autentica vocazione
di pittore e, abbandonata la predicazione, nel 1880 si reca a Bruxelles per studiare anatomia e
prospettiva. L’anno dopo, all’Aia, compie, sotto la guida del pittore Mauve, i primi tentativi
pittorici. Comincia così la sua disperata carriera artistica, tra amare delusioni e l’incomprensione
dei parenti, dei quali, il solo a soccorrerlo, con infinito amore, è il fratello Thèo. Dopo un
soggiorno a Neunen presso il padre, e uno ad Anversa, dove scopre le stampe giapponesi, si reca
nel 1886 finalmente a Parigi presso il fratello. Qui conosce gli impressionisti, si lega d’amicizia
con Pissarro, Seurat, Signac e Gauguin, frequenta l’ambiente culturale più avanzato. Questa
nuova e fondamentale esperienza lo porta a lasciare i colori scuri della pittura olandese e ad
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affrontare, secondo i principi impressionistici e divisionisti, la tecnica dei colori complementari
in paesaggi eseguiti direttamente “d’après-nature”. Nell’autunno del 1888 lascia Parigi per la
Provenza , piena di luce e di sole: e qui esplode la sua breve e splendida stagione creativa.
Risiede ad Arles, dove lo raggiunge Gauguin per qualche mese. Nella primavera del ’89, malato
di mente, viene ricoverato in clinica a Saint-Rèmy-de-Provence; l’anno dopo ad Auvers-sur
Oise, in casa del Dr. Gachet, si toglie la vita. Era il 27 Luglio 1890.
IL NOVECENTO
Anno 1900: Esposizione universale a Parigi. 1911-12: guerra italo-turca. 1912-13: guerre
balcaniche. 1914-18: prima guerra mondiale. 1917: rivoluzione Russa e fine dell’impero
Zarista. 1922: conquista del potere in Italia da parte dei Fascisti. 1929: grande crisi economica
mondiale. 1929: Patti lateranensi tra Italia e Santa Sede. 1933: Hitler conquista con violenza il
potere in Germania. Caduta della repubblica di Weimar e instaurazione della dittatura nazista.
1937-38: guerra civile in Spagna; caduta della Repubblica spagnola. 1939-45: seconda guerra
mondiale e sconfitta dei nazi-fascisti in Europa.
L’opinione molto diffusa che con l’arte del Novecento si attui una rivoluzione totale dei valori
tradizionali, appare ad un’attenta, critica indagine storica del tutto inconsistente. Infatti non si è
verificato nessun rivolgimento di valori, bensì una diversa significazione e rappresentazione
degli stessi eterni valori della poesia. Nella fase di trapasso tra l’Ottocento e il Novecento
troviamo solo una reazione all’Impressionismo, di cui sono stati protagonisti artisti come
Cèzanne, Van Gogh, Gauguin, Seurat, Maurice Denis. Allo stesso tempo, in architettura, figure
come quella di Morris, di O. Wagner, di Sullivan anticipano le soluzioni del Novecento.
I MOVIMENTI D’AVANGUARDIA
Agli inizi del Novecento in vari paesi europei si sviluppano i primi movimenti d’avanguardia: il
Fauvismo e il Cubismo in Francia, l’Espressionismo in Germania, il Futurismo in Italia. Tutte
queste poetiche, pur nei diversi esiti linguistici cui danno origine, hanno in comune un’istanza
anticlassica, la liquidazione più o meno radicale del tradizionale ossequio alla realtà,
un’esaltazione del principio di libertà creativa, un’acuta indagine delle possibilità espressive del
linguaggio figurativo nella ricerca di riproporne l’originaria, globale forza di comunicazione al di
là delle cristallizzazioni accademiche. Si assiste così ad un progressivo sviluppo semplificatore
che porta ad espressioni non più rappresentative di un qualunque aspetto della realtà, ma
significative della realtà intesa come condizione umana. La pittura e la scultura non presentano
più una netta distinzione di genere, ma divengono modi intercambiabili di una stessa concezione
visiva ed entrano in una relazione assai stretta con l’architettura. Anzi si può affermare che l’arte
della visione comprende ogni manifestazione figurativa, dal cinema, che è immagine in
movimento, al disegno industriale, che si propone di dare forma artistica ad una funzione pratica
e necessaria alla vita attuale.
L’ARTE CONTEMPORANEA
Una considerazione generale che riguarda ogni poetica che si è venuta succedendo nei primi
sessant’anni del Novecento, dal movimento dei Fauves all’arte programmata dei giorni nostri,
può essere così formulata: l’oggetto come dato di esperienza è posto in discussione da tutte le
correnti figurative; esso viene assunto dall’artista o come stimolo emozionale, o come dato da
conoscere e da ricostruire, o come equivalente analogico di una condizione di coscienza; in
sostanza l’artista moderno con l’opera sua ci presenta una nuova realtà, quella stessa
dell’immagine artistica, che entra nell’economia della natura a parità di titoli con ogni altro
aspetto della natura stessa. Peraltro, il criterio della qualificazione della validità artistica di un
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prodotto va posto nella individuazione di corrispondenza tra immagine e realtà formale: così
l’opera si afferma solo per le sue originarie e intrinseche prerogative di poesia.
AMEDEO MODIGLIANI
Il disegno lento ed armonioso, come la tramatura di un adagio musicale, si accompagna ad una
orchestrata modulazione del colore, che giunge ad una rara intensità espressiva attraverso il
contrappunto di vivide accensioni luminose e bruschi, inattesi spegnimenti. Così emergono dalle
tele di Modigliani le forme più delicate della bellezza, quietamente riportate dal piano della
memoria a quello visivo, in una distaccata contemplazione.
1884: nasce a Livorno Amedeo Modigliani. Interrotti gli studi classici a causa della sua gracile
salute, inizia un corso di pittura presso lo studio di Guglielmo Micheli, modesto continuatore del
Fattori. Dopo alcuni viaggi a Roma, a Napoli e a Capri, dove trascorre un periodo di
convalescenza, nel 1902 si reca a Firenze per iscriversi alla Scuola di Belle Arti. L’anno dopo si
trasferisce a Venezia e successivamente, nel 1906, a Parigi. Prende alloggio vicino al celebre
“bateau lavoir” di Picasso e Van Dongen e passa le sue giornate tra Montmartre e Montparnasse,
dove incontra l’anno dopo il mercante Paul Alexandre, che dimostra d’interessarsi alla sua
pittura. In questo stesso anno si iscrive alla Società degli Artisti Indipendenti con i quali
comincia ad esporre le sue prime opere. Nel 1909 conosce lo scultore Brancusi, che gli diviene
intimo amico, e lo spinge a provarsi nella scultura. Dopo un breve soggiorno in Toscana, rientra
a Parigi ed è presente nel 1910 al Salone degli Indipendenti, con sei quadri, e due anni dopo, al
Salone d’autunno con sette sculture. Nel 1914 incontra il poeta polacco Leopold Sborowski,
uomo fine e generoso, che da questo momento aiuterà l’artista nella sua difficile vita privata,
trattenendolo, al possibile, dagli eccessi dell’alcool e cercando in ogni modo di far conoscere le
sue straordinarie pitture. Nel 1917, la prima mostra personale di Modigliani alla Galleria Berte
Weill,, a Parigi non ottiene successo e determina l’intervento della polizia che rimuove dalle
vetrine alcuni quadri con i celebri nudi dell’artista, mentre due anni dopo alla Galleria Hill di
Londra lo Sborowski riesce finalmente a vendere qualche opera. Pare che questo modesto
successo porti un po’ di pace a Modigliani e alla sua compagna, Jeanne Hèbuterne, ma la vita
dissipata e la malferma salute portano l’artista a morte in Parigi nel gennaio del 1920.
HENRI MATISSE
Con Picasso, Matisse è il massimo protagonista della pittura europea della prima metà del
Novecento. Compiuta una prima esperienza figurativa attraverso le opere del passato, a capo
del movimento dei Fauves inaugura la sua visione fatta di luce e di smagliante colore. La sua è
una concezione ottimistica del mondo e della vita, tanto che tutta la sua opera è consacrata al
culto della bellezza, intesa ancora classicamente.
1869: nasce a Caveau-Cambrèsis Henri Matisse. Iscrittosi alla Facoltà di diritto a Parigi,
interrompe gli studi per tornare in provincia, dove s’impiega presso un ufficiale giudiziario. E’
all’età di ventun anni che, improvvisamente e per caso, si scopre pittore. Durante una
convalescenza, per passare il tempo comincia a disegnare con le matite colorate donategli dalla
madre. Trova così “una specie di paradiso”, quello che sarà il suo mondo prestigioso delle forme
e del colore. Nel 1891 torna a Parigi ed entra nell’Accademia Julian. Quattro anni dopo,
Moreau lo riceve nel suo studio, frequentato da giovani artisti, dove è ammesso, con molta
liberalità, che ognuno si esprima secondo le proprie esigenze e possibilità. Matisse frequenta
anche il Louvre ed entra in contatto con Rodin e il vecchio Pissarro. Verso la fine del secolo,
scopre il Mezzogiorno e risiede un anno in Corsica. Nei primissimi anni del Novecento conosce
Signac e Cross e ne adotta la tecnica puntinistica. Nel 1905, al Salon d’Automne, espone
insieme al Gruppo dei Fauves, di cui è il leader. La mostra è accolta con vivissimo scandalo.
L’anno dopo espone agli Indèpendants la celebre composizione “La joie de vivre”. Il colore è
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ormai divenuto il protagonista fondamentale dell’arte matissiana. Dal 1905 al 1914 compie
viaggi in Algeria, in Italia, in Germania, in Spagna, a Mosca e nel Marocco. Dal 1921 risiede
normalmente sulle rive del Mediterraneo nella felice, immensa luce del Mezzogiorno della
Francia. Dal 1948 al 1951 costruisce la Cappella dei domenicani di Vence, dove raggiunge la
sintesi di ogni sua ricerca artistica. Muore a Cimier nel 1954.
PAUL KLEE
Paul Klee, con il suo canto poetico e profetico, offre all’uomo contemporaneo avventurosi
itinerari in un nuovo mondo fantastico. Disegnatore acutissimo e pittore favoloso, considera
l’opera d’arte parte integrante della realtà. Infatti, è svelando il misterioso farsi della natura,
secondo Klee, che l’artista può giungere all’opera creativa. E così, immerso nella natura, Klee
coglie, con un penetrante occhio interiore, il ritmo misterioso della vita.
1879: nasce a Munchenbuchsee, vicino a Berna, Paul Klee. Figlio di un musicista di origine
bavarese, frequenta dal 1898 l’Accademia di Belle Arti di Monaco, compiendo alcuni viaggi in
Italia e in Francia. Nel 1908 viene in contatto con l’opera di Cèzanne, di Van Gogh e di Matisse
e in questo stesso anno espone a Monaco e a Berlino, con la Secessione. Nel 1911 s’incontra
con Kandinsky, Marc, Macke, con Arp e l’anno dopo partecipa alla seconda esposizione del
“Cavaliere Azzurro”. Nel 1914 si reca con Macke in Tunisia, dove raccoglie materiale per
alcuni paesaggi che sono sentiti e realizzati come opere astratte. E’ questa per Klee
un’esperienza fondamentale di ordine visivo e fantastico. Prima di questa data Klee aveva
soprattutto disegnato e dipinto soltanto degli acquarelli; è durante questo soggiorno che egli
scopre il colore. Nel suo Diario scrive: “Io e il colore siamo una cosa sola, sono pittore”. Dal
1921 al 1931 insegna al Bauhaus, prima a Weimar e dopo a Dessau. In questi anni compie
viaggi in Sicilia, in Corsica, in Bretagna e in Egitto. Nel 1929 espone a Berlino, e l’anno
successivo al Museo d’Arte moderna di New York. Nel 1931 insegna all’Accademia di
Dusseldorf, ma decisamente avverso al Nazismo, deve lasciare la Germania nel 1933 per
rifugiarsi in Svizzera, dove trascorre gli ultimi sette anni della sua vita nel lavoro e nella
meditazione. Muore a Muralto-Locarno, nel Canton Ticino, nel 1940.
GIORGIO MORANDI
Come nessun altro pittore, fatta eccezione per Klee, Morandi sa cogliere il senso profondamente
religioso della complessa vicenda spirituale dell’uomo di questo secolo. La pittura morandiana,
nella sua castità, coglie il segreto delle cose, che è espresso dal rapporto numerico, cioè
musicale, del colore e della forma, e diviene conoscenza e insieme contemplazione
dell’armoniosa e ferma realtà del suo mondo spirituale.
1890: nasce a Bologna, Giorgio Morandi. Dopo gli studi medi, entra all’Accademia di Belle Arti
nel 1907. Mostra subito vivo interesse per le manifestazioni artistiche francesi,
dall’Impressionismo al Fauvismo, che segue attraverso gli scritti del Pica e del Soffici. In questi
anni della sua formazione, Morandi studia soprattutto Cèzanne che ha occasione di conoscere
direttamente in una mostra di acquarelli alla “Seconda Esposizione della Secessione” a Roma,
nel 1914. Nel frattempo ha visitato le Biennali veneziane, dove ha incontrato l’opera di Renoir,
l’Esposizione Internazionale di Roma, dove ha potuto ammirare Monet, e soggiorna a Firenze,
fermandosi soprattutto dinnanzi alle opere di Giotto, Masaccio e di Paolo Uccello. Nel 1914
entra in contatto con i Futuristi; conosce Boccioni e Carrà ed espone per la prima volta a
Bologna assieme a Licini, Mario Baccelli, Vespignani e Pozzati. Non partecipa, per causa di
salute, alla guerra mondiale ’15-’18: in questi anni lavora intensamente, accostandosi alla
poetica dechirichiana della “Pittura Metafisica”, e partecipando con Raimondi alla rivista
bolognese “La Raccolta”. In questo stesso momento entra in contatto con Mario Broglio,
direttore della rivista “Valori Plastici”, e viene colpito soprattutto dalla pittura di Corot e
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Chardin. Negli anni successivi, mentre la generalità degli artisti italiani partecipa al movimento
del “Novecento”, Morandi mantiene una posizione isolata di altissima moralità artistica e civile.
Trascorre la sua vita tra Bologna e Grizzana, piccolo borgo della collina bolognese, dove lavora
intensamente. Muore a Bologna nel 1964.
ARTURO MARTINI
Cantore di storie antiche e modernissime, Arturo Martini rimane uno delle personalità più vive
dell’arte italiana della prima metà del Novecento. L’opera sua multiforme racchiude un
messaggio di alta e commossa poesia, che non rinuncia anche ad imprestiti dialettali , purchè
l’espressione sia diretta e toccante. Il suo linguaggio diventa universale e classico, per una sua
interiore, armoniosa misura.
1889: nasce a Treviso Arturo Martini. Nel 1907, dopo aver frequentato l’Accademia di Belle
Arti di Venezia, parte per Parigi, dove entra nell’ambiente dell’avanguardia europea. Rientrato
in Italia, riparte per Monaco e vi segue la scuola di Adolf von Hildebrand, da cui apprende i
principi del visibilismo, che lo orienteranno, nel secondo soggiorno parigino del 1911, verso la
scultura di Maillol, in posizione polemica verso Rodin. A Parigi ritorna ancora una volta nel
1914. In questi anni Martini entra in contatto anche con i Futuristi e in particolare con Boccioni
e con gli artisti di Cà Pesaro a Venezia, tra i quali il conterraneo Gino Rossi. Dopo la guerra, che
gli procurò sofferenze fisiche e spirituali, si avvicina al movimento di “Valori plastici”. E’ solo
dopo il 1930 che l’opera martiniana riscuote il consenso della critica, ottenendo il premio per la
scultura alla prima Quadriennale romana del ’31. Dopo questa data la sua fama si impone
rapidamente, tanto da essere chiamato alla cattedra di scultura dell’Accademia veneziana.
Spirito inquieto e ricercatore instancabile di forme, accoglie grandi commissioni pubbliche, e le
svolge con eccezionale libertà inventiva, riservando peraltro alla attività personale la parte più
segreta e duratura della propria ispirazione poetica. Negli ultimi anni, Martini, ritirato a
Venezia, conduce una spietata e amara indagine speculativa sulle possibilità espressive della
scultura. Sono gli anni della sua predicazione sulla “scultura lingua morta”, una proposizione
peraltro smentita dal continuo nascere di opere plastiche di straordinaria originalità. Fino alla
fine della vita, peraltro, Martini è tormentato dal dubbio che la scultura risenta troppo della sua
situazione entro la natura circostante,perdendo la sua autonomia. Muore a Milano nel 1947.
LE CORBUSIER
Pittore, architetto, urbanista e teorico, Le Corbusier ha pazientemente ricercato e proposto, per
oltre cinquant’anni, i termini funzionali e formali di una nuova architettura, dove l’uomo
contemporaneo, soverchiato dalla civiltà meccanica, possa vivere e operare in una dimensione
spirituale e fantastica di libertà, di dignità, di armonia.
1887: nasce a La-Chaux-de-Fonds, nella Svizzera francese, Charles-Edouard Janneret, che dal
nome di un suo avo assume lo pseudonimo di Le Corbusier. Alla scuola professionale del suo
paese, sotto la guida paziente di un oscuro maestro, l’Eplatenier, viene avviato all’incisione e alla
cesellatura degli orologi. Dal 1906 al 1909 compie numerosi viaggi di studio in Europa e visita
Adrianopoli, Istanbul, il Monte Athos, Atene e Pompei, riempiendo migliaia di fogli di appunti e
di disegni. Nel 1908 si reca a Parigi e entra nello studio di Perret, il grande costruttore e pioniere
delle opere in cemento. Nel 1914, Le Corbusier si reca in Germania dove frequenta lo studio di
Behrens, ed entra in contatto con il Werkbund. Nel 1920, rientrato a Parigi dopo cinque anni di
meditazione in Svizzera, fonda la rivista d’avanguardia “L’esprit nouveau”. Finalmente apre,
insieme al cugino Pierre Janneret, lo studio di Rue de Sèvres, 35, a Parigi. Questo studio
diventa uno dei centri più fervidi dell’architettura moderna e assume un’importanza mondiale;
qui Le Corbusier elabora il proprio pensiero architettonico, urbanistico e artistico, e scrive
decine di libri e di articoli; esegue centinaia di progetti, partecipa ai più importanti concorsi. La
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sua architettura propugna una nuova concezione abitativa e urbana, di cui massima protagonista
è la luce. Come urbanista, cura i piani per Parigi, Barcellona, Algeri, Stoccolma e Anversa.
Fonda il C.I.A.M. (Congressi di Architettura moderna) nel 1928; nel 1942, scrive la Carta di
Atene, che è il breviario dell’urbanistica contemporanea. Le sue ultime creazioni sono il Centro
di governo di Chandigar e il progetto per il nuovo Ospedale di Venezia. Muore a Cap Martin nel
1965.
PABLO PICASSO
Inesauribile inventore di forme, ha ripercorso tutta la storia dell’arte dai grafiti delle caverne
preistoriche ai giorni nostri, sperimentando tutto, riproponendo ogni volta il problema artistico in
termini assolutamente nuovi. Picasso è un genio, che, alla maniera di Einstein, ha aperto
all’uomo moderno un nuovo mondo di conoscenza e di immaginazione.
1881: nasce a Malaga, in Spagna, Pablo Picasso. Il nome Picasso è ripreso dalla madre, e
diviene il suo celebre pseudonimo. Viene iniziato prestissimo al disegno e frequenta scuole
artistiche a Malaga, Barcellona, Madrid rivelando immediatamente un talento eccezionale. Nel
‘900 viene a Parigi per alcuni mesi, dove ritorna definitivamente nel 1904 prendendo alloggio al
“bateau-lavoir”. Il suo studio diventa un centro culturale di enorme interesse: lo frequentano
Jacob, Jarry, Salmon, Reverdy, Apollinaire. In questo momento passa dal cosiddetto periodo
“blu” al periodo “rosa”. Intanto prova la scultura, conosce Matisse e forse tramite il caposcuola
dei Fauves s’interessa all’arte negra. Nel 1906-1910 comincia le “Demoiselles d’Avignon”.
Negli anni immediatamente successivi, legatosi d’amicizia con Braque e con Derain, dà vita al
movimento cubista. La sua opera geniale attira l’attenzione dei giovani artisti di tutta Europa e
il suo nome diviene sinonimo di modernità e di avanguardia. Durante la guerra ’14-’18, rimane
solo a Parigi; compie nel 1917 un viaggio in Italia e si dedica alla scenografia. Dopo il conflitto,
entra in contatto con i giovani poeti sperimentalisti e particolarmente con Eluard. La sua attività
di pittore, di scultore e d’incisore non conosce soste e limiti linguistici. Picasso compie un
geniale ricupero classico, ma insieme produce opere cubiste e surrealiste. Intanto sempre più
viva si fa la sua partecipazione alla vita politica dell’Europa. Decisamente orientato a sinistra, si
oppone al regime spagnolo di Franco. E’ anzi in mone di questa risoluta avversione che produce
quella che si può definire la sua opera più celebre e popolare: Guernica. La sua attività.
celebrata o denigrata, è pur sempre al centro di ogni discussione artistica moderna, anche
perché questo vitalissimo artista è ancora pronto a sorprendere il mondo con l’inesauribile
slancio della sua poetica fantasia.