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Università degli Studi di Sassari
DIPARTIMENTO DI SCIENZE ZOOTECNICHE Corso di laurea in Scienze Zootecniche
APPUNTI DEL CORSO DI ZOOTECNICA GENERALE
prof. Giuseppe Pulina Se una cosa difficile continua a restare difficile, vuol dire che non si è studiato abbastanza Sassari, anno accademico 2003-2004
1. I SISTEMI ZOOTECNICI
Le modalità con cui è esercitata la pratica dell�allevamento animale sono diverse, ma tutte
riconducibili ad un�idea di sistema zootecnico.
Con il termine sistema zootecnico intendiamo l�organizzazione delle singole parti costituenti in
termini di entità che lo compongono e che ne rappresentano le variabili di stato (ambiente fisico,
animali, produzioni, mezzi tecnici impiegati, lavoro, capitali), e delle loro relazioni che ne
rappresentano le funzioni (transiti di energia, di materiali e di informazioni.
Tentare un approccio tassonomico per definire le categorie nelle quali i sistemi zootecnici possono
essere classificati è certamente un�impresa ardua, anche perchè le aree di confine fra un sistema e
l�altro sono aleatorie ed i criteri in base ai quali formuliamo la classificazione sono talora arbitrari.
Tuttavia una ripartizione in classi è necessaria per consentire un approccio globale per quanto
possibile univoco al problema della comprensione delle varie facies in cui si articola questa attività
produttiva fondamentale nel campo del comparto agricolo, agroalimentare ed ambientale.
Possiamo effettuare la classificazione dei sistemi zootecnici secondo questi quattro criteri guida:
1) produttività e legame con la base territoriale agricola dal quale dipende il rifornimento degli
alimenti zootecnici impiegati nel ciclo produttivo;
2) specializzazione aziendale e livello produttivo degli animali;
3) grado di organizzazione interna;
4) aspetti socio-economici.
Per quanto riguarda il primo criterio (produttività e legame con la base territoriale), l�allevamento
animale può dipendere in toto, parzialmente oppure essere slegato dalla base territoriale di
riferimento per la produzione degli alimenti. Tale base territoriale, inoltre, può essere a sua volta
classificata in funzionedella produttività nel senso che su di essa sono presenti colture o superfici
foraggere ad alto, medio oppure basso livello produttivo. Nel caso in cui tutti gli alimenti impiegati
siano acquisiti dall�esterno, gli allevamenti prendono il nome di imprese senza terra.
La produttività delle colture foraggere zootecniche è legata alla fertilità del suolo, alle condizioni
ambientali, agli interventi tecnici quali l�irrigazione, la concimazione, le lavorazioni, la difesa dalle
malerbe e dai parassiti. Un indicatore indiretto di produttività è fornito dal carico animale
mantenibile che rappresenta il numero di capi (normalmente espressi in unità convenzionali o in kg
di peso corporeo mantenuto) per unità di superficie (normalmente l�ettaro) in condizioni ordinarie
(ovvero in un�annata media). E� ovvio che tale carico deve essere calcolato esclusivamente sulle
risorse foraggere aziendali, con l�esclusione degli alimenti acquisiti dall�esterno. E� comunque da
tenere presente che gli animali occupano una base territoriale virtuale in quanto gli alimenti che
consumano sono, in ogni caso, derivati dalla coltivazione di una porzione di terreno appartenente
alla stessa azienda nella quale essi sono allevati oppure in aziende lontane (a volte dislocate in altri
continenti). In sintesi, la quantità di alimenti provenienti dalla azienda in cui risiede l�allevamento
rapportata al consumo complessivo di alimenti su base annuale (tutto espresso in termini di energia
o di sostanza secca) costituisce l�indice di autoapprovvigionamento.
Ad esempio: consideriamo un allevamento bovino nel quale sia effettuato il finissaggio dei vitelloni
dai 200 ai 600 kg di peso corporeo (vitellone pesante) in 300 giorni. La consistenza è di 1000 capi
ed il consumo complessivo di sostanza secca è stimato in 2.400 tonnellate all�anno. La base
foraggera aziendale è costituita dalla coltivazione di mais da insilamento a maturazione cerosa e la
produzione di tale coltura è di 15 tonnellate di sostanza secca per ettaro. La razione è mediamente
costituita da ¾ di silomais e da ¼ da concentrati (a loro volta costituiti dall�80% da granella di
mais e dal 20% da farina di estrazione di soia) acquistati dal mercato (grado di
autoapprovvigionamento = 75%) . I consumi complessivi sono pertanto di 1.800 tonnellate di
silomais, 480 tonnellate di granella di mais e di 120 tonnellate di farina di estrazione di soia. Il
carico aziendale si distribuisce in 1.800/15 = 120 ettari di mais necessari per
l�approvvigionamento ed è pari a 1000/120 = 8,33 animali per ettaro. Se però consideriamo che i
concentrati sono acquistati dall�esterno e che la resa media del mais da granella è di 8 t/ha di
sostanza secca, dobbiamo aggiungere 480/8 = 60 ha di mais da granella; se infine consideriamo
una produzione di soia pari a 5 t/ha di sostanza secca dobbiamo ulteriormente aggiungere 24 ha di
soia. La superficie virtuale (somma di tutte le superfici che hanno contribuito alla produzione degli
alimenti consumati duramte l�anno) è allora di 204 ettari ed il relativo carico è di 4,9 vitelloni per
ha. Nonostante sia molto utile il calcolo della superficie virtuale, soprattutto nel caso in cui il
nostro oggetto di studio non iil singolo allevamento, ma una porzione territoriale più vasta (un
bacino montano, un comprensorio irriguo, una regione), normalmente si fa riferimento al carico
aziendale.
Per quanto riguarda il secondo criterio (specializzazione aziendale e livello produttivo degli
animali) dobbiamo innanzitutto distinguere le aziende specializzate, ossia quelle nelle quali è
allevata una sola specie animale normalmente con un solo indirizzo produttivo (ad esempio, nel
caso dei bovini produzione di latte oppure di carne; in quello degli ovini, produzione di latte, di
carne o di lana, in quello dei suini produzione di carne o di riproduttori, ecc..) da quelle miste nelle
quali sono presenti più specie; il livello produttivo, riferito alla media della popolazione per quel
carattere ,e normalmente espresso in termini percentuali, individua la posizione nella quale si
colloca l�azienda rispetto alla produttività della popolazione di riferimento.
Ad esempio, consideriamo un allevamento di vacche della razza Frisona Italiana che abbia una
media produttiva di 9.200 kg di latte per capo. Si tratta di un allevamento specializzato (sola specie
bovina), ad indirizzo esclusivo per la produzione del latte con un livello produttivo buono in quanto
è superiore alla media della popolazione (8.500 kg) dell�8,2%. Se nello stesso allevamento venisse
praticato anche l�ingrassamento dei vitelli eccedenti la quota di rimonta, allora avremo un
indirizzo produttivo misto.
Per quanto riguarda il terzo criterio (grado di organizzazione interna) possiamo distinguere le
imprese zootecniche in base al livello delle tecnologie impiegate. Possiamo allora classificare gli
allevamenti dotati di elevato livello tecnologico (uso dell�inseminazione strumentale, diagnosi di
gravidanza, computerizzazione di alcune operazione, elevato livello di meccanizzazione), da quelli
a medio o a basso livello tecnologico nei quali sono adottate mediamente oppure episodicamente
tecniche avanzate di produzione. Questo criterio fa riferimento non soltanto all�impiego di mezzi
tecnici dotati di alta tecnologia, ma anche alle modalità di rilevazione e di elaborazione dei dati
aziendali. Questo punto è cruciale in quanto l�azienda zootecnica è quella che, nel settore agricolo,
produce la maggior mole di dati e la capacità di raccoglierli ed elaborarli in tempo reale è di
importanza fondamentale affinchè l�imprenditore possa prendere tempestivamente le decisioni
tecniche e gestionali sulla conduzione dell�impresa. Ad esempio: un allevamento di suini per la produzione del suino magro è normalmente ad elevato
livello tecnologico in quanto impiega le soluzioni tecniche più recenti per restare competitivo sul
mercato (raccolta ed elaborazione informatizzata dei dati, massimo livello di meccanizzazione e di
organizzazione del lavoro, monitoraggio continuo del ciclo produttivo, sistemi di riproduzione
ottimizzati). Per contro, un allevamento di bovini rustici allo stato brado è normalmente dotato si
soluzioni tecniche di basso livello, di solito tradizionali, con uno schema di organizzazione molto
semplice.
Per quanto riguarda il quarto criterio (aspetti socio-economici) possiamo classificare gli allevamenti
in funzione del contesto sociale ed economico in cui essi sono collocati. Il tipo di impresa ed i suoi
collegamenti con il mercato nazionale o internazionale, sia per la vendita dei prodotti che per
l�approvvigionamento di mezzi tecnici e di capitali, sono rilevanti ai fini della sua collocazione nel
contesto produttivo. Questo criterio è particolarmente importante nelle condizioni dei paesi in via di
sviluppo nei quali alcune forme di allevamento sono praticate non ai fini produttivi ma con la
finalità di tesaurizzazione del capitale bestiame.
Resta valido un principio orientatore secondo cui la competizione fra le imprese in .regime di
concorrenza porta ad un aumento di intensità produttiva al fine di ridurre il costo unitario di
produzione. Viceversa, il costo unitario può anche essere ridotto con un abbassamento del grado di
impiego dei fattori produttivi: tale concetto è uno dei perni della politica dell�Unione Europea per
gli anni 2000-2006 (contenuta nella cosiddetta Agenda 2000, reg. 1257-1260/99) ed è indicata con
il termine di estensivizzazione. In particolare l�estensivizzazione proposta dalla PAC (Politica
Agricola Comunitaria) tende a ridurre il carico unitario (espresso in Unità Bovine Adulte UBA, una
misura standardizzata della consistenza animale) e a utilizzare la risorsa foraggera disponibile in
modo sub-ottimale. Sulla base dei criteri sopraddetti possiamo allora classificare grossolanamente gli allevamenti in quattro tipi di sistema
produttivo a seconda dell�intensità con cui sono impiegati i fattori della produzione (terra, lavoro, capitale,
organizzazione).
1) Intensivo. Questo sistema di allevamento è di norma specializzato, con un unico indirizzo
produttivo principale (ed eventualmente uno secondario come nel caso in cui si produca latte,
ma si vendano anche gli animali per il ristallo = ingrassamento o per la macellazione), ad
elevato livello produttivo, con alta tecnologia e ben calato in un ambiente imprenditoriale
maturo e ampiamente collegato. Uno degli indicatori più utilizzati per il grado di intensità di una
impresa è il rapporto fra il costo del lavoro e il fatturato definito come indice costo del lavoro
(ICL). In questo caso l�ICL è compreso fra il 20 e il 30% ed il maggior onere di costo è
rappresentato normalmente dall�alimentazione. Rientrano in questa categoria le aziende di
allevamento senza terra di suini, di avicoli e di conigli senza terra, nelle quali l�intero
ammontare degli alimenti è acquisita dal mercato; i centri di ingrassamento dei vitelloni; gli
allevamenti di vacche, pecore e capre da latte nei quali sussistano le condizioni di elevato
impiego di tecnologie, alta produzione unitaria delle colture praticate, alto livello produttivo
degli animali e buon contesto sociale ed economico. Gli animali sono in genere mantenuti in
stabulazione permanente.
2) Semintensivo. In questo sistema di allevamento i fattori della produzione sono impiegati ad un
livello inferiore rispetto al precedente. Gli animali sono mantenuti in stabulazione
semipermanente e l�ICL è compreso fra il 30 ed il 40%. Appartengono a questa categoria gli
allevamenti di bovine da latte in cui è praticato anche il pascolamento, i nuovi sistemi di
allevamenti avicoli �a terra� e suini �plein air�, i sistemi semistabulati di allevamento degli
ovini e dei caprini da latte (parziale ricorso al pascolamento).
3) Semiestensivo. Questo sistema di allevamento è normalmente praticato con ampio ricorso al
pascolamento, ma con alcune scelte tecniche per quanto attiene alla mungitura meccanica, alla
tecnica di riproduzione e all�integrazione alimentare. Rientrano in questa categoria gli
allevamenti ovini da latte e da carne di buon livello produttivo, gli allevamenti bovini
all�alpeggio, gli allevamenti bovini rustici nei quali sia praticato l�incrocio industriale e il primo
magronaggio dei vitelli, l�allevamento dei suini come complemento. Si tratta solitamente di
allevamenti misti, con livello produttivo medio-basso e con un ICL compreso fra il 40 ed il
50%.
4) Estensivo. Si tratta di un sistema di allevamento in cui tutti i fattori della produzione sono
utilizzati al livello minimo. Il ricovero degli animali è inesistente oppure saltuario. la risorsa
alimentare largamente prevalente o esclusiva è il pascolo, l�indirizzo produttivo è di solito
misto, i carichi unitari sono piuttosto bassi. E� il tipico sistema di allevamento degli ovini da
lana e da carne, dei bovini rustici, dei caprini e dei suini allo stato brado. Occorre precisare,
comunque, che in alcuni casi, come ad esempio nell�allevamento degli ovini da lana australiano
e neozelandese, che il livello tecnologico degli allevamenti è piuttosto elevato anche in presenza
degli altri criteri che farebbero propendere per una classificazione del tipo estensivo. Questo
sistema di allevamento è diffusissimo o addirittura esclusivo in vaste aree dei paese in via di
sviluppo, ma è frequente anche in quelle zone dei paesi sviluppati non diversamente
valorizzabili con altre forme di attività zootecnica. E� invalso da qualche tempo indicare questo
tipo di allevamento come �marginale�; in realtà, secondo la teoria economica, le imprese
marginali sono quelle che chiudono il bilancio senza alcun profitto. Il termine economico è stato
perciò traslato ed adattato ad una situazione territoriale caratterizzata da forti limiti sotto il
profilo della morfologia, della fertilità dei suoli, del clima e delle infrastrutture: tali aree sono
attualmente indicate col temine di aree marginali e gli allevamenti che vi si praticano sono
comunemente indicati come allevamenti marginali. Pur non concordando con questa
attribuzione, riconosco che un termine che si radica nell�uso è efficiente per la comunicazione.
Consiglio comunque, ove possibile, di evitarne l�impiego.
2. RICHIAMI DI FISIOLOGIA DELLA DIGESTIONE
MICROBICA E CENNNI SULL�INGESTIONE E SUL
COMPORTAMENTO ALIMENTARE
2.1. PREMESSA
In tutte le specie zootecniche la digestione microbica gioca un ruolo più o meno importante
nell�utilizzazione nutritiva degli alimenti.
Nel canale digerente di tutti gli animali, infatti, è sempre presente una certa attività microbica, di
gran lunga più importante nelle specie erbivore, meno un quelle onnivore e marginale in quelle
carnivore.
L�attività dei microbi nelle specie erbivore è indispensabile. I microorganismi alberganti nel
digerente infatti:
1) consentono l�attacco e la degradazione della parete della cellula vegetale (fibra), la cui
composizione non la renderebbe digeribile in quanto il corredo enzimatico degli animali non è
dotato di enzimi capaci di attaccare i carboidrati strutturali (emicellulose, cellulosa);
2) producono acidi grassi volatili (AGV) utilizzati dall�animale nel proprio metabolismo;
3) sintetizzano proteine ad elevato valore biologico;
4) sintetizzano vitamine del gruppo B.
Per quanto riguarda il sito nel quale si concentra l�attività microbica, possiamo avere tre possibilità:
1) prepeptica, cioè anteriormente alla digestione gastrica (ruminanti e pseudoruminanti);
2) postpeptica, cioè posteriormente alla digestione gastrica (equidi);
3) interpeptica, cioè intermedia alla digestione gastrica (ciecotrofi = conigli).
Nel primo caso la fermentazione degli alimenti avviene in un sacco prestomacale (rumine, come per
i bovini, o pseudorumine, come per i camelidi) ed è accompagnato da una masticazione secondaria
rispetto a quella ingestiva. Il grosso delle sostanze nutritive sono utilizzate in questa sede (circa il
70%) e la digestione gastrica riguarda prevalentemente le proteine. Questa soluzione evolutiva
consente la migliore utilizzazione della fibra e dell�azoto non proteico (vedi dopo), ma la non
ottimale utilizzazione dei carboidrati di riserva (CNS = carboidrati non strutturali, quali zuccheri
semplici e amido).
Nel secondo caso la digestione della fibra avviene nel grosso colon, cioè dopo che gli amidi e le
proteine sono state soggette alla digestione gastrica e intestinale. Questa soluzione evolutiva
consente la migliore utilizzazione dei CNS, ma una minore degradazione della fibra rispetto a
quella precedente. Infatti,se in presenza di alimenti poveri (ricchi in fibra e poveri in CNS), gli
equidi devono ingerire una quantità decisamente superiore rispetto ai ruminanti per trarne la stessa
quantità di energia.
Nel terzo caso, infine, la digestione microbica avviene nel grosso colon con la produzione di una
particolare forma di digesta detta ciecotrofo. Il ciecotrofo si presenta come una pallottola
mucillaginosa, in stato di fermentazione, di odore pungente; queste digesta sono emesse dall�ano
del coniglio (o della lepre) , reingerite e quindi ridigerite nello stomaco e nell�intestino tenue. Alla
fine di tale processo avviene l�espulsione delle feci vere (praticamente inodori) per via anale. La
ciecotrofia è il sistema digestivo degli animali erbivori dotato di massima efficienza. I componenti
degli alimenti digeribili per via enzimatica dall�animale sono infatti digeriti prima che inizi la
fermentazione microbica che attacca la fibra e i composti non digeriti con la produzione di AGV; la
seconda digestione gastro-intestinale serve per digerire i prodotti non volatili ottenuti dalla
fermentazione microbica.
Fra i tre tipi quello di gran lunga più importante nelle scienze zootecniche è il primo in quanto è il
sistema tipico di digestione dei ruminanti che comprendono la parte più rilevante delle specie
allevate: i bovini, i bufalini, i caprini e gli ovini. Di seguito esamineremo brevemente alcuni aspetti
della ruminazione e delle fermentazioni microbiche ruminali.
2.2. RITENZIONE DEGLI ALIMENTI NEL RUMINE- RUOLO DELLA MASTICAZIONE
2.2.1 Il contenuto del rumine
Nel rumine-reticolo è presente in continuazione una massa alimentare fibrosa in corso di
fermentazione che rappresenta all�incirca i ¾ del contenuto digestivo totale e dall�8 al 17% del peso
corporeo (PC) totale dell�animale, in funzione del tipo della razione somministrata. Tale quantità è
superiore agli 80 kg in una vacca da latte di 600 kg di PC ed i 100 kg nella vacca Charolaise
alimentata con fieno. L�acqua rappresenta l�80-90% del contenuto fresco del rumine e le pareti
cellulari (CS = carboidrati strutturali determinati analiticamente dalla fibra al digerente neutro =
NDF) più dell�80% del contenuto secco.
Il rumine è approvvigionato durante 5-8 ore al giorno con gli alimenti che vengono ingeriti in una
dozzina di pasti. Gli animali al pascolo effettuano due grandi pasti, uno all�alba e l�altro alla sera;
tale comportamento è stato osservato anche con animali in stabulazione, sia fissa che libera, ed i
pasti coincidono con le due somministrazioni giornaliere. Il contenuto ruminale si accresce durante i
pasti ed arriva al massimo, di solito, durante il grande pasto della sera.
L�acqua è apportata dagli alimenti, dall�abbeverata e, soprattutto, dalla saliva che è secreta sia
continuamente (ghiandole parotidi) che in abbondanza nel corso dell�ingestione e della ruminazione
(ghiandole sottolinguali): la quantità è di circa 150 litri al giorno nel bovino adulto e di circa 10 litri
negli ovini adulti. La saliva è leggermente alcalina (pH 8,2) e ricca in sostanze tampone
(bicarbonati e fosfati) che contribuiscono al mantenimento della reazione del mezzo ruminale in un
ambito assai stretto(da 6,2 a 6,5). Il contenuto ruminale è inoltre molto ben condizionato nei
riguardi della temperatura ( quella corporea dell�animale) e dell�anaerobiosi: infatti, l�efficienza
delle fermentazioni è massima in totale assenza di ossigeno, con temperatura costante, con un pH
subacido e con un sistema dotato in continuo sia dell�alimentazione che della rimozione dei prodotti
della fermentazione.
Figura 1.1 � Rappresentaione schematica della stratificazione dei componenti del contenuto del
rumine.
Il contenuto ruminale è rimescolato in permanenza attraverso dei circuiti obbligatori attivati da circa
2500 contrazioni giornaliere che percorrono la parete ruminale, i pilastri e le pliche di separazione
fra i diversi sacchi. Le contrazioni principali, dette primarie, partono dal reticolo (durata 4 secondi)
al ritmo di 1,5 circa al minuto durante i pasti e di uno al minuto nel restante tempo. Esse si dirigono
verso la parte posteriore dell�organo e sono spesso seguite da delle contrazioni secondarie le quali
partono dal fondo del sacco ventrale e si dirigono in senso opposto verso la parte anteriore dello
stesso.
Il flusso di alimenti e di liquidi implica lo svuotamento del rumine; gli alimenti scompaiono per due
vie:
GAS Particelle grossolane Particelle fini
1. La distribuzione quasi totale dei tessuti e delle pareti non lignificate da parte della microflora
albergante accompagnata dall�evacuazione dei prodotti terminali della loro fermentazione
(assorbimento degli AGV ed eruttazione della CO2 e del metano);
2. L�evacuazione verso valle attraverso l�orifizio reticolo-omasale (ORO) delle particelle fibrose
non degradate, essenzialmente costituite da tessuti lignificati, , accompagnate dalla massa
batterica in fermentazione ( invero gli alimenti che realmente digerisce il ruminante sono
rappresentati dai prodotti che lasciano il rumine indigeriti � il cosiddetto escape ruminale � e
dai corpi dei batteri e dei protozoi che albergano nel rumine e che hanno colonizzato le
particelle alimentari o che nuotano liberamente nel fluido ruminale).
La dimensione di questo orifizio è piccola, ma varia in maniera ciclica; esso si dilata
improvvisamente alla fine della contrazione del reticolo e forma un�apertura ellittica lunga 4 cm e
larga 1 cm al massimo nei grossi bovini. E� durante questo periodo di apertura dell�orifizio, che si
ripete per circa 1600 volte al giorno, che si effettua l�evacuazione del contenuto ruminale. Questo
particolare dell�orifizio reticolo-omasale, in combinazione con gli altri meccanismi della
frantumazione degli alimenti per mezzo della masticazione mericica, fa in modo che oltrepassino
questa soglia soltanto le particelle di dimensione inferiore agli 1-2 mm negli ovini e 2-4 mm nei
bovini. Nella stragrande maggioranza le particelle presenti nell�omaso hanno una dimensione non
superiore al millimetro; esse non subiranno una ulteriore riduzione di dimensione nel corso della
successiva digestione.
2.2.2 Circuito di frantumazione degli alimenti: ruolo della ruminazione
I ruminanti masticano gli alimenti nel corso dell�ingestione (masticazione ingestiva) con una
velocità che è 2 volte più elevata nei piccoli ruminanti (125-150 movimenti manddibolari per
minuto negli ovini) rispetto ai bovini (70-80 movimenti).
Il tempo di masticazione richiesto per kg di sostanza secca è basso per gli alimenti concentrati in
quanto essi sono stati macinati più o meno finemente nel corso della preparazione. Esso è tanto più
lungo per i foraggi quanto questi sono più fibrosi: circa 30 minuti per un buon fieno, oltre 60 minuti
per una paglia, 20 minuti per l�insilato di mais contro 5-10 minuti per i concentrati, nel caso della
vacca da latte
La masticazione ingestiva riduce gli alimenti in un insieme di particelle di dimensione e di forma
estremamente variabili, da un minimo di 1 mm ad un massimo di 4-5 cm. Le piccole particelle (<1
mm) rappresentano circa il 15% della sostanza secca dei foraggi coriacei e intorno alla metà nei
foraggi teneri.
Tabella 1.1 Valore dell�indice di fibrosità degli alimenti
(da Sudweeks et al., 1980)
Alimento Tempo di masticazione per
kg di s.s. in minuti Fieni e paglie Medica �chopped� 44,3 Farina disidratata medica 36,9 Medica lunga 61,5 Medica pellettata 36,9 Fieno misto finemente macinato e pellettato 13,19 Fieno misto buona qualità 87,105 Fieno misto media qualità 103,109 Paglia di avena 160,0 Paglia di avena finemente macinata e pellettata 18,0 Sottoprodotti Seme di cotone 30,1 Insilati Medica taglio corto 22,3 Medica taglio medio 26,0 Medica taglio grossolano 66,1 Mais taglio corto 40,0 Mais taglio medio 59,6 Sorgo 67,3 Erba silo 99-120 Grano 68,9 Cereali e altri concentrati Farina orzo 15,0 Concentrati pellettati 12,0 Farina di mais 5,1 Farina di avena 2,0 Farine di estrazione 6,0 Altri ingredienti Minerali 0 Melasso 0 Urea 0
I frammenti alimentari originatisi da questa masticazione ingeriti con un fiotto di saliva
costituiscono il bolo alimentare. Essi sono energicamente sospinti verso la porzione caudale del
rumine dalle contrazioni del reticolo quale sia la loro dimensione, e sono costretti ad immergersi
nella massa fibrosa presente nell�organo. Tale immersione è tanto più rapida quanto più piccoli, più
densi e più idrofori sono i frammenti; essa è più rapida per i concentrati e più lenta per i foraggi
secchi. Il contenuto ruminale alimentare con razioni costituite da foraggi secchi, è nettamente
stratificato: sotto una cupola di gas, si ha uno strato di particelle di foraggi più grandi e leggeri; nel
sacco ventrale si ha invece un contenuto più fluido con particelle più piccole e più dense.
Poco dopo la fine di un pasto, solitamente da 5 a 15 minuti, per l�animale inizia un periodo di
ruminazione che è la successione di cicli la cui durata è di circa 1 minuto. Ciascun ciclo inizia con
una contrazione supplementare del reticolo, che precede la sua contrazione primaria di qualche
secondo. Un bolo (50-80 gr nell�ovino e 600-1000 gr nel bovino) derivante del contenuto del
reticolo o del sacco craniale del rumine, è aspirato dall�esofago e rimonta fino alla bocca (bolo
mericico) . Se il bolo è troppo grosso, la parte eccedente è reingerita ed il rimanente subisce una
intensa masticazione (masticazione mericica) che è effettuata con 40-60 movimenti di mandibola al
minuto nei bovini e 80-100 negli ovini. In tal modo, le grosse particelle sono ridotte di dimensione e
trasformate in piccole particelle (<1mm). Con razioni normali a base di foraggi la ruminazione
occupa più tempo dell�ingestione e si effettua in un numero maggiore di periodi; la quantità di
sostanza secca così masticata al giorno nel corso della ruminazione è 2 o 3 volte superiore a quella
ingerita.
E� dunque la masticazione mericica che gioca un ruolo principale nella frantumazione delle
particelle alimentari e nel loro tempo di ritenzione ruminale. Con la riduzione della taglia e
l�aumento della densità e la perdita delle parti degradabili le particelle hanno una probabilità sempre
maggiore di sfuggire alla massa fibrosa, di immergersi verso il sacco ventrale e di guadagnare la
parte inferiore di quello craniale da cui sono sospinte verso orifizio reticolo omasale.
Figura 1.2 � Circuito delle particelle alimentari nel rumine.
= ORO (orifizio reticolo omasale) = movimenti parti leggere = movimenti parti pesanti
La masticazione mericica permette lo svuotamento del rumine che è necessario per un suo
successivo riempimento. Tuttavia la sua efficacia è accresciuta dalle fermentazioni ruminali che
rendono meno resistenti le pareti cellulari e privano le particelle della frazione degradabile.
2. 2.3 Tempi di masticazione, tempi di ritenzione, ingombro e ingeribilità.
I tessuti più resistenti alla masticazione, nel corso della ruminazione come dell�ingestione, sono
quelli lignificati: lo sclerenchima ed i vasi legnosi. Essi costituiscono l�ossatura della pianta,
soprattutto del fusto del quale assicurano la rigidità. La loro proporzione si accresce nel corso dello
sviluppo della pianta a spese del tessuto vivo e la lignificazione si può estendere dal fusto agli altri
tessuti.
Il risultato è che per kg di sostanza secca ingerita si ha un aumento simultaneo:
• del tempo di ingestione;
• del tempo di ruminazione, accentuato dal fatto che la popolazione microbica, che è alimentata
meno bene per effetto della diminuzione del contenuto cellulare costituito dal CS e proteine,
degrada più lentamente la parete cellulare;
• del tempo di ritenzione medio delle particelle nel rumine in quanto è fondamentalmente
dipendente dal tempo di ruminazione;
• dell�effetto di ingombro esercitato dalla razione in quanto questo è prodotto dalla proporzione
delle particelle non degradabili per il loro tempo di ritenzione, che aumentano entrambi;
• del peso del contenuto ruminale espresso in tal quale ed ancora di più in sostanza secca.
Il tempo dedicato alla ruminazione non è mai superiore alle 11 ore al giorno; quando è vicino a tale
valore può ridursi il tempo di ingestione in quanto il tempo totale di masticazione(ingestione +
ruminazione) non può eccedere le 18 ore al giorno a causa dell�affaticamento dei muscoli
masticatori e delle altre esigenze dell�animale.
Il tempo di ritenzione ruminale (MRT = medium retention time) esprime (in ore) la permanenza
media di una determinata classe di particelle, o del liquido compresi i suoi soluti, nel rumine. Il
ricambio delle parti solide e dei liquidi presenti nel rumine prende il nome di turnover ruminale. I
MRT dei solidi è superiore a quello dei liquidi ; esso è maggiore nei bovini rispetto ai piccoli
ruminanti per i solidi, mentre quello dei liquidi è pressoché uguale fra le specie. Il MRT dei solidi
rispetto ai liquidi è di circa 3 volte nei bovini e di 1,6-1,7 volte nei piccoli ruminanti.
Da quanto abbiamo detto in precedenza risulta chiaro che il MRT dipende sia dalle dimensioni che
dal peso specifico delle particelle alimentari. L�influenza del peso specifico è rilevabile nel grafico
allegato in cui è possibile notare che al crescere della densità relativa (g/ml) il MRT si riduce: ciò
significa che le particelle più pesanti hanno maggiore probabilità di affondare nel rumine e di
depositarsi sul fondo dal quale poi sono sospinte nel reticolo per passare oltre; la dimensione è
anche essa rilevante ai fini del MRT: il grafico successivo, infatti, mostra l�effetto combinato della
densità e della dimensione delle particelle. E� facile notare la riduzione del MRT con l�aumento
della densità, ma con MRT sempre maggiore a parità di peso con particelle più grandi.
Figura 1.3 - Tempo di ritenzione ruminale medio per liquidi e solidi in vacche, pecore e capre.
2.3 LE FERMENTAZIONI MICROBICHE
2.3.1 La micropopolazione ruminale.
Nel rumine è presente una imponente massa di microorganismi appartenenti ai gruppi dei batteri,
dei protozoi e dei funghi. La maggio parte di essi è anaerobio stretto, ma sono anche presenti delle
specie e dei ceppi aerobi facoltativi che hanno il compito di assorbire l�ossigeno che penetra nel
rumine con gli alimenti e quello che filtra dalla parete dell�organo.
I microorganismi, di solito flagellati o dotati di ciglia mobili per nuotare nel liquido ruminale,
colonizzano i frammenti di alimento che si trovano immersi nella massa in fermentazione.
La concentrazione batterica e quella protozoaria si riducono al crescere della dimensione del
microorganismo. Per tale motivo, la massa netta dei microorganismi, espressa in milligrammi per
millilitro di liquido ruminale, è massima agli estremi delle dimensioni delle cellule.
0
5
10
15
20
25
30
liquidi solidi
Tem
po d
i rite
nzio
ne ru
min
ale
(h)
vaccapecoracapra
Fra la popolazione microbica ruminale intercorrono gli stessi rapporti che è possibile registrare in
qualsiasi sistema vivente: abbiamo, oltre che l�indifferenza, la competizione per il substrato, il
parassitismo, la predazione, la cooperazione, la sequenzialità. Quest�ultimo caso, in cui un prodotto
della fermentazione di una specie batterica è indispensabile per la sopravvivenza di una o più
specie, é il più comune�
I batteri, come già detto, sono il gruppo più numeroso e ponderalmente preponderante della
micropopolazione ruminale. Il loro compito è quello di colonizzare le particelle di piante ingerite
dall�animale, attaccarle con esoenzimi, solubilizzare i CS e fermentarli fino ad AGV, attaccare le
proteine alimentari e l�azoto non proteico (NPN) per risintetizzare le proteine del loro corpo,
sintetizzare le vitamine del gruppo B.
I protozoi hanno un ruolo non ancora ben definito nel quadro delle fermentazioni del rumine. La
loro azione di predazione nei confronti dei batteri li rende capaci di accrescere il valore biologico
delle proteine che dal rumine passano alla digestione gastrica (il VB delle proteine dei protozoi è
superiore a quello delle proteine del batteri); sono capaci di inglobare sia batteri in fase di
fermentazione attiva, ma anche frazioni del contenuto ruminale, e favorire così la fermentazione.
I funghi anaerobi presenti nel rumine possono essere sia parassiti dei protozoi ciliati che saprofiti
dei tessuti vegetali. Questi ultimi sembra che giochino un ruolo importante nell�aumentare le
disponibilità dei contenuti intracellulari delle cellule vegetali per azione meccanica o enzimatica,
anche per mezzo della solubilizzazione di parte della lignina (che non sarà poi digerita comunque).
Ai funghi è riconosciuto anche un ruolo sinergico con i batteri nella produzione del metano.
Figura 1.4 � Schema della popolazione microbica del rumine.
Rappresentazione della popolazione batterica nel rumine dei bovini. I batteri si trovano nel fluido ruminale, sulle particelle alimentari, e attaccate all�epitelio ruminale, dal quale le cellule distali cadono nel fluido. Sono mostrati i batteri aderenti al tessuto in relazione all�urea e all�ossigeno che si diffondono attraverso la parete dell�organo, e verso le cellule epiteliali distali, le quali comprendono il loro substrato nutritivo.
2.3.2. Le fermentazioni
I batteri del rumine colonizzano i substrati costituiti dagli alimenti e si accrescono.
Figura 1.5 - Microfotografia dei batteri ruinali che colonizzano una particella di alimento
L�accrescimento della popolazione necessita di energia, che è ottenuta dalla fermentazione dei
carboidrati, e di proteine che sono ottenute a partire dalle sostanze azotate. I lipidi, a causa della
mancanza di ossigeno, non possono essere impiegati dai batteri come fonte energetica. Tuttavia i
grassi sono utilizzati per la costruzione della membrana cellulare batterica e gli acidi grassi insaturi
(che rappresentano la gran parte dei costituenti dei lipidi vegetali) sono saturati dai batteri in quanto
sono per loro tossici.
Le fermentazioni sui carboidrati.
La degradazione ruminale dei carboidrati inizia con l�attacco da parte dei batteri dei principali CS
(cellulose ed emicellulose) e CNS (amidi e zuccheri semplici) con enzimi extracellulari. Tale
attacco porta alla formazione direttamente di glucosio (cellulosa, amidi) o di fruttosio (pectine,
emicellulose, pentosani, fruttosani). Le cellule animali hanno una grande affinità per il glucosio in
quanto presentano meccanismi per inglobarlo; le cellule della parete del rumine si sono evolute nel
senso che sono impermeabili al glucosio in modo tale da non sottrarlo al liquido ruminale e rendere
possibile la successiva utilizzazione da parte dei batteri.
Terminata la fase extracellulare, i monosaccaridi sono assorbiti dai batteri che li impiegano per il
proprio metabolismo. La prima fase metabolica dei batteri consiste nella demolizione del fruttosio
1-6 DI_P (6 atomi di carbonio= 6C) fino ad acido piruvico (3C , si hanno 2 moli di piruvato per
ogni mole di monosaccaride fermentato). L�acido piruvico è pertanto l�intermediario della
fermentazione.
Ora, se il ceppo (o i ceppi) batterico sta fermentando la cellulosa, o gli altri componenti della fibra
(normalmente tali batteri sono chiamati cellulosolitici e fermentano bene ad un pH superiore a 6,1),
la fisiologia di tali batteri prevede la produzione terminale di acido acetico (CH3-COOH = 2C), di
anidride carbonica e di acido formico (CHOOH). L�acido formico fornisce a sua volta il substrato di
fermentazione per una classe di batteri importantissimi per il mantenimento della reazione del
mezzo nei sistemi anaerobici: i metanobatteri. I batteri metanogeni li possiamo considerare dei veri
e propri archeobatteri in quanto sono giunti a noi dalla notte dei tempi, da quando cioè la vita sulla
terra era di tipo riducente anzichè ossidativo. Si stima che questi batteri abbiano la stessa struttura
dei loro progenitori di 3 miliardi di anni or sono. Il loro compito è quello di ossidare l�idrogeno che
si libera abbondantemente nel corso delle fermentazioni con il carbonio per produrre metano (CH4),
con un meccanismo che possiamo considerare come analogo alla fosforilazione ossidativa degli
organismi aerobici: in questo caso il metano rappresenta l�analogo dell�acqua dei sistemi aerobi. In
definitiva, l�attacco a una mole di esoso (6C) che deriva dalla degradazione dei carboidrati della
parete cellulare (CS), porta alla produzione di 2 moli di acido acetico (2 x 2C = 4C), ad una mole di
metano (1C) ed a una mole di anidride carbonica (1C). Il guadagno energetico per ciascuna mole di
esoso fermentato per questa via è di 4 ATP (1 per la glicolisi + 1 per la produzione di acetato, per
mole di piruvato, essendoci 2 moli di piruvato per ogni mole di glucosio che entra nella catena).
Il butirrato (CH3-CH2-CH2-COOH = 4C) è prodotto dai batteri butirrici particolarmente attivi ad
un pH compreso fra il 6,3 e il 5,5 con una via iniziale molto simile a quella dei batteri acetici. Il
prodotto finale però non è l�acetato in quanto quest�ultimo è attivato ad ecetil_COA e, attraverso la
β-condensazione (o la via alternativa del malonato) , condensato in acido butirrico (2C + 2C = 4C).
Anche in questo caso, per mole di esoso fermentato abbiamo la produzione di una mole di metano
ed una mole di anidride carbonica. Il bilancio definitivo per mole di esoso è pertanto di una mole di
butirrato (4C) + una mole di metano (1C) + una mole di CO2 (1C), con un guadagno energetico di 3
ATP (2 nella glicolisi ed 1 nella butirrogenesi).
I batteri che attaccano i substrati costituiti da CNS sono normalmente chiamati amilolitici ed hanno
un pH ottimale di azione compreso fra 6 e 5. La loro attività fermentativa porta alla produzione di
acido propionico (CH3-CH-COOH = 3C) che, fra i 3 AGV, è quello meno forte (pKa 4,87 rispetto
ad un valore di 4,82 per il butirrico e di 4,75 per l�acetico). Da una mole di esoso si ottengono 2
moli di propionato: in questa reazione non si ha perdita di materia ne di energia, in quanto non si
perde carbonio ne sotto forma di CO2 ne sotto forma di CH4. Tale via fermentativa fornisce un
bilancio dell�ATP dovuto solamente alla glicolisi (2 ATP), ma ha il grande vantaggio di scaricare
(ossidare) i sistemi di trasporto dell�idrogeno (NAD+, FAD+) che, in ambiente riducente come
quello anaerobico, sono normalmente carichi (ridotti = NADH-H+; NADPH-H+).
Un quadro riassuntivo delle fermentazioni ruminali è riportato di seguito: si parte da 5 moli di
carboidrati vegetali (30 C) per arrivare ad un rapporto molare fra i tre AGV tipico (67:22:11) nel
caso di razioni medie: 6C sono trasformati in acetato; 2C in propionato; 1C in butirrato; 4C in
metano; 6C in CO2; il bilancio dell�ATP è di 16 moli (3,2 per mole di esoso fermentato).
(30 atomi di C) 6 ATP 6 ADP 4 FRUTOSIO 6 P + FRUTTOSIO 1,6 DI P 4 ATP 4 ADP 4 FRUTTOSIO 1,6 DI P 10 TRIOSO P 10 NAD+ 20 ADP 10 NADH + H+ 20 ATP 10 PIRUVATO 8 CO2 2 SUCCINATO 8 (2H)
8NAD+ 8 NADH + H+
8 ACETIL CoA MALONIL CoA 6 ADP ATP ADP 6 ATP 2 PROPIONATO 6 ACETATO BUTIRRATO Bilancio dell�ATP per mole di esoso digerito: + 3,2 moli
CARBOIDRATI VEGETALI
6 CO2 + 2 CH4
Una particolare fermentazione è quella che si sviluppa per opera dei batteri lattici. Poichè la loro
attività si sviluppa in maniera tanto maggiore quanto minore è il pH e poichè il loro prodotto finale
(acido lattico) è un acido organico molto più forte degli AGV (pKa 3,86), se le razioni sono ricche
di zuccheri solubili, l�azione dei lattici è esaltata, il pH è influenzato dalla loro presenza e se non si
rimuove la causa (uso dei tamponi, riduzione dell�apporto di zuccheri semplici), l�acido lattico si
accumula nel rumine causando la riduzione dell�attività degli altri batteri fino alla loro scomparsa.
Questa descritta è l�eziologia della acidosi lattica, una delle forme di disturbo digestivo più
importanti e fastidiose per i ruminanti.
Figura 1.6 - Proporzioni molari di acidi grassi volatili e di acido lattico, in funzione della acidità (pH) del liquido ruminale.
Le fermentazioni sui substrati azotati
Le proteine ed i composti azotati non proteici (NPN) contenuti nella razione subiscono profonde
modificazioni ad opera della micropopolazione ruminale. Questa degrada più facilmente le proteine
solubili nel liquido ruminale (sieroalbumine, proteine della soia, ovoalbumine, ecc..) e l�NPN
rispetto alle proteine insolubili (glutamine, prolamina, ecc..).
Le proteine degradabili (solubili ed insolubili) e l�NPN danno origine ad un pool di azoto
fermentescibile che, attraverso prodotti intermedi (ammoniaca, peptidi e aminoacidi), è utilizzato
dai microorganismi per la sintesi delle proteine cellulari (proteina grezza microbica). L�azoto
ammoniacale, in presenza di una adeguata fonte energetica rappresentata dall�ATP derivante dalla
fermentazione dei carboidrati, è pertanto organicato dai batteri (prevalentemente da quelli
cellulosolitici) e trasformato in proteine: questa possibilità di organicazione dell�azoto, comune al
regno vegetale, pone i ruminanti nelle condizioni di fornire all�uomo alimenti di alto valore
biologico (latte e carne a partire da composti azotati di basso valore biologico (sostanze azotate
vegetali) o addirittura a partire dall�azoto inorganico. In tal senso i ruminanti sono �realmente� non
competitivi con l�uomo per le fonti alimentari, e ciò è particolarmente importante nei sistemi
agricolo-zootecnici dei paesi in via di sviluppo.
Nel caso in cui l�NH4 fosse in eccesso rispetto alla disponibilità di ATP (oppure l�ATP fosse in
difetto rispetto alla disponibilità azotata), la quota ammoniacale in eccesso filtra la parete del
rumine, arriva al fegato in cui è trasformata in urea (l�ammoniaca è tossica) che è eliminata per via
renale oppure riciclata per via salivare; il riciclo dell�urea per questa via è una importantissimo
meccanismo di risparmio di azoto nel caso di animali che si alimentano con foraggi molto poveri in
sostanza azotate (paglie, sottoprodotti poveri, stoppie di pascolo, ecc..).
Le proteine alimentari non degradate nel rumine (che rappresentano l�escape ruminale proteico) più
le proteine dei batteri che colonizzano le digesta o il liquido ruminale che oltrepassano l�ostio
reticolo-omasale, rappresentano l�entità di proteine realmente a disposizione dell�animale per la
digestione successiva.
Figura 1.7 -Schema dell�utilizzazione della proteina ed e dell�azoto non proteico (NPN).
2.4 L�INGESTIONE ALIMENTARE
L�ingestione alimentare è la quantità (espressa in sostanza secca) di un determinato alimento (o
razione) che un determinato animale è in grado di assumere ad libitum nell�arco di 24 ore.
Tale parametro può essere espresso in termini assoluti (kg di s.s.) e allora la chiamiamo ingestione,
in termini relativi (in % del peso corporeo dell�animale), allora la chiamiamo livello di ingestione,
oppure ancora in termini relativi ad un determinato alimento di riferimento (normalmente l�erba) e
allora la chiamiamo capacità di ingestione.
Ad esempio: se la pecorella Pasqualina che pesa 40 kg ingerisce in un giorno 2,2 kg di sostanza
secca di una determinata razione, la sua ingestione è di 2,2, il suo livello di ingestione è del 5,5%
(2,2:40 x 100) e, posto che la razione abbia una ingeribiltà di 1,1 volte l�erba di riferimento, la sua
capacità di ingestione è pari a 2 unità di ingombro (l�erba di riferimento ha una capacità di
ingombro = 1 per kg di s.s.).
In tutti gli animali (ruminanti e non) l�ingestione alimentare dipende:
- dall�animale (specie, mole, stato di ingrassamento, gestazione);
- dall�alimento (composizione chimica, aspetto fisico, appetibilità);
- dalle modalità di distribuzione e presentazione (management);
- dal clima;
- dalla conduzione dell�allevamento (presenza di altri animali, sanità, ecc..).
Tale fenomeno, particolarmente importante in quanto limita la possibilità di ingerire principi
nutritivi e, quindi, la produzione degli animali, è regolato dai centri della sazietà e da quelli della
fame che sono collocati nell�ipotalamo.
Restando al caso dei ruminanti, questi centri agiscono come un interruttore nel senso che quando il
centro è orientato verso la fame il comportamento dell�animale è orientato verso la ricerca e
l�ingestione dell�alimento e, viceversa, quando questo è orientato verso la sazietà, l�animale smette
di alimentarsi. Il centro è influenzato da recettori meccanici che si trovano nelle pareti del rumine
che, percependo lo stato di replezione dell�organo, intervengono con l�interruzione o l�inizio
dell�alimentazione, e da recettori metabolici, collocati nel fegato o nell�intestino, che monitorano
l�entità di metaboliti in circolazione. L�ampiezza del segnali di fame/sazietà (Is) è pertanto
condizionato sia dal grado di distensione del rumine (S) che dalla concentrazione ematica dei
metaboliti (C), nonchè dalla numerosità dei recettori fisici (Ns) e chimici (Nc) secondo la relazione
studiata da Conrad e altri:
Is = (S x Ns) ± (C x Nc).
La digeribilità degli alimenti influenza la loro ingestione in quanto tanto più rapidamente un
alimento è degradato nel rumine tanto più rapidamente scompare per lasciare il posto ad un nuovo
alimento. Con alimenti a bassa digeribilità prevalgono gli stimoli legati al grado di replezione
ruminale, mentre mano a mano che cresce la digeribilità, iniziano a entrare in gioco i vincoli
all�ingestione di tipo metabolico. La figura allegata mostra come l�ingestione in vacche da latte
aumenti all�aumentare della digeribilità delle razioni fino ad un massimo del 67% (limite di
funzionamento del controllo fisico dell�ingestione) oltre il quale l�ingestione cala per azione del
controllo metabolico. Poichè la digeribilità delle razioni è legata al contenuto in pareti cellulari ed in
proteina, è ovvio che esista una relazione inversa fra ingestione e contenuto in CS della razione ed
un rapporto diretto fra ingestione e concentrazione proteica (vedi figura allegata). Nel primo caso
l�aumento del contenuto in fibra riduce la digeribilità e aumenta i tempi i MRT; nel secondo caso,
l�aumento di disponibilità azotata consente ai micoorganismi di riprodursi con maggiore efficienza
e quindi di attaccare la fibra con superiore efficacia. In entrambi i casi la velocità di svuotamento
del rumine aumenta con conseguente più frequente rilascio dei recettori dello stato di distensione
delle pareti e quindi più frequente segnale di fame all�ipotalamo.
Figura 1.8 - Alcune vie ritenute essere coinvolte nel controllo dell�ingestione ( Ac., acetico; GH, ormone della crescita; glu�n, glucagone; Ins., insulina; Lac, acido lattico) (Forbes, 1980)
2.5 IL COMPORTAMENTO ALIMENTARE DEI POLIGASTRICI
La più importante differenza fra le diverse specie ruminanti deriva dal rapporto allometrico noto per
tutti i mammiferi fra apparato digerente e massa corporea e fabbisogni energetici e massa corporea:
il primo mostra un esponente per il peso corporeo di 0,94, o di 1,0 secondo Demment e Van Soest ,
mentre per il secondo tale esponente è lo 0,75 della famosa legge di Kleiber. Ciò in pratica significa
che: a) i piccoli ruminanti (PR) hanno una massa corporea 10-12 volte inferiore a quella dei grandi
ruminanti (GR); b) ambedue presentano un volume totale dell�apparato digerente che varia in
maniera proporzionale al peso corporeo e che mediamente rappresenta il 13%-18% di questo; c) i
fabbisogni nutritivi di mantenimento (ovvero quelli legati al metabolismo basale ed alle attività
spontanee dell�animale) sono meno che proporzionali al peso corporeo essendo infatti legati al
cosiddetto peso metabolico (PM = peso corporeo0,75), per cui i grandi ruminanti (bovini, bufali)
tendono ad avere un maggiore volume di apparato digerente per unità di fabbisogni energetici di
mantenimento che non i piccoli ruminanti (ovini, caprini, caprioli, ecc..). Ci sono importanti
implicazioni pratiche legate alle differenze nella capacità digestiva. Per compensare la loro bassa
capacità digestiva e per soddisfare i loro fabbisogni i piccoli ruminanti devono aumentare la velocità
di transito degli alimenti nel rumine ed avere livelli di ingestione più elevati dei grandi ruminanti.
Questo comporta, nei piccoli ruminanti, una riduzione dei tempi di ritenzione ruminale ed una più
bassa digeribilità delle frazioni a lenta fermentazione (soprattutto fibra), che viene però compensata
da maggiori ingestioni giornaliere di sostanze digeribili.
Altre differenze anatomiche riguardano:
- il rapporto fra volume ruminale e volume dell�apparato digerente nel suo complesso. I GR
hanno normalmente un intestino tenue relativamente più piccolo dei PR e pertanto sono in grado
di digerire con minore efficienza gli amidi che eventualmente �scappassero� (escape ruminale)
dal rumine non fermentati. In altre parole, gli ovini e i caprini hanno una efficienza nella
digestione degli amidi superiore a quella dei bovini per effetto di una maggiore quota di intestino
in cui può avere sede la digestione enzimatica;
- la dimensione delle ghiandole parotidi che è molto maggiore nei PR rispetto ai grandi in
quanto nei primi hanno anche la funzione di produrre sostanza in grado di tamponare gli
alcaloidi (sostanze aromatiche che hanno funzione di difesa nelle piante e che riducono la
digeribilità dei principi nutritivi del foraggio) presenti nei foraggi di cui si alimentano (fronde di
alberi e di cespugli, particolari specie erbacee);
- la mobilità del labbro superiore di PR rispetto ai GR e la possibilità dei primi di esplorare con
più efficacia lo spazio tridimensionale (i caprini ad esempio possono rizzarsi sugli arti posteriori
per pascolare le fronde dei cespugli e degli alberi.
Le conseguenze di queste differenza antomo-fisiologica fra PR e GR sono che i primi rispetto ai
secondi:
a) devono avere livelli di ingestione più alti per soddisfare i loro fabbisogni di mantenimento
cui consegue una maggiore velocità di transito ed una minore digeribilità della fibra;
b) tendono ad essere più selettivi;
c) sono più influenzati nell�ingestione alimentare dalla quantità e dalla dimensione della fibra degli
alimenti;
d) devono spendere più tempo per ingerire e ruminare ciascun kg di alimento;
e) tendono ad avere una maggiore digeribilità delle granelle e delle razioni ricche di energia.
Sulla base di queste differenze anatomo-fisiologiche, i ruminanti sono stati classificati in 3
categorie:
1) i concentrate selectors, a cui appartengono le specie che vivono nei boschi (cervi, daini, ecc..) e
che selezionano diete molto ricche in principi nutritivi e povere in fibra, ma con elevate
concentrazioni di alcaloidi;
2) i grazers, a cui appartengono i bovini e i bufalini che pascolano esclusivamente (o quasi) le erbe
e che mal si adattano ad utilizzare le fronde degli alberi e dei cespugli
3) gli intermediate feeders, a cui appartengono i caprini e gli ovini che hanno un comportamento
intermedio, ma più simile ai selectors i caprini e ai grazers gli ovini.
2.6 CENNI DI METABOLISMO (con particolare riguardo ai poligastrici)
Il metabolismo energetico degli animali erbivori differisce da quello degli onnivori (e dei granivori
quali gli avicoli) in quanto i nutritivi che derivano dalla digestione sono costituiti nel primo caso
prevalentemente da acidi grassi volatili e nel secondo da glucosio (e lipidi).
Il glucosio gioca un ruolo essenziale nel metabolismo di tutti gli animali: esso è il precursore del
lattosio nel latte, è il nutritivo per eccellenza del tessuto nervoso in particolare di quello cerebrale, è
il nutriente che la madre utilizza per alimentare il feto. La differenza fondamentale fra poligastrici
(e parzialmente anche erbivori monogastrici e ciecotrofi) e monogastrici (onnivori e granivori)
risiede nel fatto che nei primi i polisaccaridi strutturali (carboidrati strutturali = CS) e quelli di
riserva (CNS) sono degradati prevalentemente nel rumine con la produzione dei 3AGV, mentre nei
secondi il glucosio deriva in massima parte dalla digestione intestinale degli amidi.
Nei ruminanti il metabolismo energetico finale è sostenuto direttamente dall�acetato (e dal beta-
idrossi-butirrato di origine ruminale, che entra nel ciclo Krebs direttamente, mentre nei
monogastrici tale funzione è assolta dal glucosio che produce acetato (in realtà acetil_COA)
attraverso la glicolisi.
I poligastrici, per i quali soltanto una quota limitata di glucosio proviene dalla digestione degli
amidi (in effetti, soltanto l�escape ruminale di amido è digerito nell�intestino), sintetizzano glucosio
nel fegato a partire dal principalmente da propionato, ma anche dagli aminoacidi neoglucogenetici e
dal glicerolo che deriva dall�idrolisi dei lipidi.
Per motivi didattici possiamo distinguere il metabolismo in assorbitivo e in postassorbitivo: nel
primo, che avviene nelle ore successive ai pasti, prevalgono i processi anabolici in quanto i nutritivi
assorbiti a livello ruminale e intestinale sono in elevata concentrazione; nel secondo, lontano dai
pasti, prevalgono i processi catabolici.
In effetti, nel caso dei ruminanti operare questa distinzione è quasi impossibile in quanto la messa di
alimenti in fermentazione continua nel rumine assicura un continuo rifornimento di metaboliti;
purtuttavia, in alcune circostanze la domanda metabolica dovuta alla produzione (ad esempio,
animali con elevata produzione di latte; fase finale della gestazione), può essere eccedente rispetto
all�apporto di nutritivi con la razione alimentare assunta dagli animali. Parleremo pertanto di
bilancio metabolico positivo (in cui gli apporti dal digerente superano la domanda metabolica per il
mantenimento e la produzione) e di bilancio metabolico negativo (in caso contrario).
2.6.1 Bilancio metabolico positivo
In questo stato i flussi sono orientati dall�apparato digerente al fegato (vero intermediario del
metabolismo) e dal fegato ai tessuti periferici.
I principali metaboliti derivanti dalla digestione (aminoacidi, acetato-butirrato, propionato) sono
trasferiti dalla vena porta al fegato. L�acetato non è trattenuto dal fegato e passa nella circolazione
generale. Esso è captato dai tessuti periferici e inserito direttamente nel ciclo di Krebs per la
produzione di energia. Può anche essere utilizzato dal tessuto adiposo per la produzione di acidi
grassi attraverso la beta-condensazione o il ciclo del malonato. Gli acidi grassi sono poi esterificati
con glicerina e depositati sotto forma di lipidi nel tessuto stesso. Il butirrato (in realtà l�acido
butirrico filtra la parete del rumine ed è trasformato in beta-idrossi-butirrato) segue lo stesso destino
in quanto nei tessuti è idrolizzato ad acetato.
Il propionato è trattenuto dal fegato che, attraverso la gluconeogenesi, lo converte in glucosio.
Questo metabolita è rilasciato dal fegato ed è impiegato per la nutrizione del tessuto nervoso, per la
produzione del latte (ricordiamo che la quantità di latte è funzione del lattosio sintetizzato dalla
mammella) e per la nutrizione del feto. Esso è anche indispensabile per la sintesi dei grassi nel
tessuto adiposo in quanto fornisce la glicerina necessaria per l�esterificazione degli acidi grassi. Il
glucosio è usato anche per fornire il substrato energetico per la contrazione muscolare anaerobia: in
questo caso è catabolizzato a lattato che ritorna la fegato per essere ritrasformato in glucosio (ciclo
di Cori). Il glucosio può essere, in piccola parte, accumulato nel fegato e nei muscoli sotto forma di
glicogeno; l�eventuale quota eccedente è convertita in grasso principalmente nel tessuto adiposo o
negli adipociti presenti negli altri tessuti.
Gli aminoacidi, infine, subiscono nel fegato la transaminazione per la sintesi degli AA non
essenziali (quelli essenziali sono apportati dalla razione); nel caso dei ruminanti però il concetto di
AA essenziale è molto vago, in quanto il valore biologico delle proteine di cui è composta la
micropopolazione ruminale è elevato, per cui questi animali non hanno, di fatto, delle vere e proprie
esigenze in AA. Gli AA rilasciati dal fegato sono captati dai tessuti per il turnover proteico, per la
deposizione delle proteine (durante l�accrescimento) e per la produzione (ad es. proteine del latte).
Una quota di AA può essere impiegata nel fegato per la sintesi di glucosio (AA glucogenetici).
2.6.2 Bilancio metabolico negativo
In questo stato i flussi sono orientati dai tessuti (eccetto il nervoso) al fegato.
Da diagramma allegato è possibile notare che tutte le frecce convergono verso la sintesi di glucosio:
uno sbilanciamento energetico significa, pertanto, una carenza metabolica di glucosio (considerate
che una vacca che produce 45 kg di latte al giorno, elimina sotto forma di lattosio 2,25 kg di
glucosio) e l�intero organismo è impegnato a tamponare questa domanda.
la domanda iniziale di glucosio può essere soddisfatta con la riconversione del suo polimero, il
glicogeno, che era stato depositato nel fegato e nei muscoli. L�entità di glicogeno così disponibile è
però molto bassa ( in realtà il glicogeno serve a tamponare le situazione di grave emergenza, come
una improvvisa caduta della glicemia o la necessità di energia per i muscoli per una fuga) per la
domanda energetica di rivolge al tessuto di elezione per l�accumulo: il tessuto adiposo.
Sfortunatamente l�acetato e gli acidi grassi a più lunga catena non possono essere utilizzati per la
produzione di glucosio (si veda a proposito il riquadro inferiore dell�ultima figura allegata: la
freccia che porta da piruvato a acetil_COA è unidirezionale). Esiste una sorta di limite metabolico:
tutti i composti C3 (acido propionico, glicerolo, ecc.) possono essere utilizzati per la
gluconeogenesi; i composti C2 o i loro polimeri (C4, C6, ecc..) invece non sono impiegabili per
questo scopo. Il risultato è che dall�idrolilsi dei trigliceridi del tessuto adiposo può essere utilizzata
per la produzione di glucosio soltanto la glicerina. La forte richiesta di energia ( in realtà di
glucosio) porta però alla mobilizzazione degli AG dal tessuto adiposo: questi, arrivati nel fegato
sotto forma di AG non esterificati (NEFA = not estrified fatti acid) , non possono essere utilizzati
nella gluconeogenesi e pertanto sono captati dai mitocondri per la produzione di ATP e, la quota in
eccesso, è eliminata dal fegato sotto forma di corpi chetonici (aceto-acetato, betaibrossibutirrato).
Se la richiesta di glucosio è imponente e il rifornimento alimentare di propionato insufficiente
(razioni povere in amidi; livello di ingestione basso), il fegato inizia a produrre una quantità
notevole di corpi chetonici che sono utilizzati dai tessuti per fini energetici, ma che sono anche
eliminati dall'animale con l�expirium e con le urine; questa perdite netta di energia aumenta lo
sbilanciamento energetico e. se non si mette rimedio con la somministrazione di razioni più
adeguate, si può incorrere in una sindrome dismetabolica nota come CHETOSI che dalla forma
subclinica (cioè senza sintomi evidenti) può sfociare in conclamata e mettere a repentaglio anche la
vita dell�animale (le produzioni sicuramente). Questa dismetabolia è più frequente: a) nella vacca da
latte nelle prime settimane di lattazione, per la nota disincronia fra il massimo livello produttivo
(che si verifica intorno alle 6 settimane), ed il massimo livello di ingestione (che si verifica intorno
ai 3 mesi); b) nelle pecore, nelle ultime settimane di gestazione soprattutto con gravidanze plurime,
quando la domanda di glucosio del feto è alta e l�ingestione alimentare è limitata proprio dalla
presenza del feto. Il diagramma allegato mostra, nella prima figura, la via della formazione del
betaidrosibuttirrato e, nella seconda figura, le modalità con cui i trigliceridi sono sintetizzati e
veicolati sotto forma di lipoproteine (fase anabolica) o utilizzati per la produzione di energia nel
mitocondrio (fase catabolica) con produzione di corpi chetonici.
Fra tutte le mobilizzazioni evidenziate dal diagramma, quella degli aminoacidi dai muscoli
interviene per ultima e porta alla perdita nella di massa corporea dell�animale (la variazione del
tessuto adiposo è, di solito, temporanea in quanto con buone condizioni alimentari il livello delle
riserve corporee è ristabilito).
In sintesi: un bilancio nutritivo positivo da la garanzia che l�energia in eccesso sia conservata sotto
forma di lipidi; uno negativo deve comunque assicurare una produzione di glucosio tale da far
fronte alla domanda delle funzioni vitali e produttive degli animali ed evitare un aumento dei corpi
chetonici circolanti.
2.6.3 Il ciclo dell�urea
L�ammoniaca prodotta in eccesso nel rumine nel corso delle fermentazioni (e lo ione ammonio
derivante dalla deaminazione degli AA) è rimossa dal sangue ad opera del fegato e trasformata in
urea. Tale funzione epatica è indispensabile in quanto l�NH3 è tossica, soprattutto per il tessuto
nervoso in quanto blocca l�ossalacetato (verso la reazione del 2-oxoglutarato) che è invece un
metabolita indispensabile per la respirazione.
In sintesi il ciclo dell�urea (detto anche dell�ornitina-citrullina) si svolge in parte entro il
mitocondrio dell�epatocita, in parte nel citoplasma; dal digramma allegato possiamo verificare che
dei 2 gruppi NH3 dell�urea, uno deriva dal glutammato ed uno dall�azoto ammoniacale che deve
essere smaltito. Ciò significa che per ogni mole di ammoniaca da smaltire una mole di gruppi
amminici è di origine endogena. Come è possibile osservare, tutta la reazione è fortemente
endoergonica: si consumano 4 moli di legami P per mole di urea sintetizzata, per cui un g di azoto
trasformato in urea ha un costo metabolico di 12.000 kcal.
In sintesi, nei casi in cui si abbia uno sbilanciamento fra apporti energetici e apporti proteici (sia in
termini quantitativi che in termini di cinetica di degradazione), oppure nel caso di forte domanda di
glucosio che comporta una elevata attività di deamminazione a carico degli AA neoglucogenetici,
l�ammoniaca prodotta nel rumine è convertita in urea dal fegato con un aggravio energetico
notevole. Basti pensare che 100 g di proteina grezza inutilizzata nel rumine sono equivalenti per una
pecora alla spesa energetica necessaria alla produzione di 200 g di latte.
3. GENETICA DI POPLAZIONE APPLICATA AL MIGLIORAMENTO DEGLI ANIMALI ZOOTECNICI 3.1 INTRODUZIONE La branca della zootecnica che tratta i metodi di riproduzione e di miglioramento si fonda sulle
attuali conoscenze della genetica. I fenomeni ereditario sono considerati non solo nel ristretto
quadro delle generazioni filiali (F1, prima generazione filiale; F2 seconda generazione filiale, ecc..),
ma sono ricompresi nel più vasto ambito delle popolazioni animali.
Per popolazione animale si intende un gruppo costituito da molti individui (tale che possiamo
approssimare le statistiche su esso calcolato ai valori asintotici per n→∞) appartenenti alla stessa
specie o, all�interno della stessa specie, alla stessa razza, definiti nel tempo, nello spazio e dai
caratteri oggetto di interesse zootecnico.
La genetica di popolazione, applicata alle scienze zootecniche, é una branca della genetica che
studia, con metodi matematici, statistici e sperimentali, le cause ed i meccanismi che determinano la
distribuzione e le variazioni dei genotipi al passare delle generazioni nonchè la dinamica delle
popolazioni e fornisce così un insieme di modelli teorici e di prove sperimentali capaci di chiarire il
processo di evoluzione della specie.
Se le forzanti agenti sul sistema popolazione, in grado di favorire alcuni genotipi a scapito di altri,
sono di origine naturale, siamo in presenza del fenomeno della �selezione naturale�, scoperto da
Charles Darwin e che oggi rappresenta il paradigma largamente accettato per spiegare il fenomeno
dell�evoluzione delle specie. Se la scelta degli individui é fatta dall�uomo, secondo criteri di
convenienza, la selezione é detta artificiale e si sovrappone, e a volte contrappone, a quella naturale.
Poichè gli zigoti derivano dall�unione di due gameti, maschile e femminile, e l�espressione genetica
è fondamentalmente il risultato della combinazione indipendente di due geni alleli (uno per
cromosoma paterno e materno), la comprensione dei meccanismi di combinazione genetica non può
prescindere dalla conoscenza dei principi della probabilità. Ne daremo ora un accenno sommario,
richiamando i concetti principali che utilizzeremo poi nella disciplina.
Il lancio ripetuto per numerosissime volte di una moneta (non truccata) porta ad ottenere un numero
equivalente di teste e di croci. Maggiore sono le ripetizioni, più tale equivalenza converge al limite
del 50% degli eventi. Da ciò deriva che la probabilità di tale evento (testa nella moneta) é data dal
rapporto fra l�evento stesso e la somma di tutti gli eventi possibili del fenomeno esaminato (questa é
la prima grossolana definizione di probabilità).
Nel caso di un dado (non truccato), vi sono 6 possibili eventi (le facce del dado) e, dopo un elevato
numero di lanci, ciascuna di esse sarà risultata con una frequenza che si avvicina ad 1/6: ne
deduciamo che la probabilità di ottenere una determinata faccia é di 1/6. Ancora, da un bussolotto
contenente 100 biglie, 20 verdi, 30 rosse e 50 bianche, compiamo numerose estrazioni di 10 biglie.
La frequenza media dei colori si avvicina al rapporto 0,2 verdi, 0,3 rosse e 0,5 bianche.
Definiamo allora la probabilità di determinato evento:
se un evento può avvenire in n modi egualmente possibili (equipotenti) che si escludono a vicenda
(mutualmente esclusivi), dei quali �a� possiede una certa proprietà �x�, la probabilità di ottenere
�x� é data dalla relazione:
p(x) = a/n
Nel caso in cui gli eventi non siano mutualmente esclusivi, ma siano indipendenti, la probabilità che
si verifichino entrambi é data dal prodotto delle singole probabilità:
p(x e y) = p(x) p(y)
Ad esempio, nel caso di due lanci di una moneta, la probabilità di ottenere due volte consecutive
�testa� é di 0,5 x 0,5 = 0,25; con tre lanci, la probabilità di ottenere tre �testa� in sequenza é di 0,5 x
0,5 x 0,5 = 0,125.
Un caso classico, fonte di sorpresa e di grandi discussioni, é il rapporto statistico dei sessi alla
nascita. Nella realtà, le famiglie in cui sono presenti 8-10 figli maschi (oppure femmine)
costituiscono un caso noto a tutti noi, ma non possiamo dire che sia un caso frequente. Come
sappiamo, il sesso é determinato all�atto della fecondazione dallo spermatozoo che può portare nel
proprio corredo aploide il solo cromosoma X o Y (questo negli artiodattili, mentre nel caso dei
volatili é il contrario), mentre l�oocita ha il solo cromosoma X. Poichè gli spermatozoi sono prodotti
in grande copia dal maschio (alcuni miliardi), moltissimi di questi si affollano intorno all�oocita
prima che solo uno di essi riesca a fecondarlo rendendo così praticamente uguale (50%) la
probabilità che questo evento sia operato indifferentemente da un tipo o dall�altro. Il rapporto dei
sessi alla nascita si avvicina, pertanto, al 50% (salvo fattori occasionali che possono generare delle
derive).
Se indichiamo con p la probabilità di ottenere un maschio e con q quella di ottenere una femmina,
avremo che p = 0,5 e q = 0,5, con p + q = 1.
Supponiamo che una vacca partorisca nella sua carriera riproduttiva 6 vitelli e vogliamo conoscere
quale sarà la ripartizione dei sessi dei nascituri. Intuitivamente potremo dire che avrà 3 vitelli e 3
vitelle, ma questa non é l�unica possibilità. Infatti potremo avere:
1. 6 femmine
2. 5 femmina + 1 maschio
3. 4 femmine + 2 maschi
4. 3 femmine + 3 maschi
5. 2 femmine + 4 maschi
6. 1 femmina + 5 maschi
7. 6 maschi.
Sempre intuitivamente, pensiamo che le probabilità degli eventi 3 e 5 sono uguali, inferiori a quelle
dell�evento 4 che dovrebbe essere la massima, e superiori a quelle degli eventi 2 e 1 e 6 e 7. E
abbiamo ragione! Ma quali sono queste probabilità? Ci viene incontro una vecchia conoscenza, lo
sviluppo del binomio
(p + q)n
i cui coefficienti possono essere calcolati con il �famoso� triangolo di Tartaglia
Nel nostro caso avremo che p = 0,5 (probabilità di ottenere maschi), q = 0,5 (probabilità di ottenere
femmine) e n = 6, per cui lo sviluppo del binomio é il seguente:
(p+q)6 = p6 + 6p5q + 15p4q2 + 20p3q3 + 15p2q4 + 6pq5 + q6
a cui corrispondono le seguenti probabilità (simmetriche) dei 7 eventi cercati:
1. 6 femmine 0,016
2. 5 femmina + 1 maschio 0,093
3. 4 femmine + 2 maschi 0,234
4. 3 femmine + 3 maschi 0,312
5. 2 femmine + 4 maschi 0,234
6. 1 femmina + 5 maschi 0,093
7. 6 maschi. 0,016
Dall�elenco si deduce che la probabilità di trovare un evento 7 oppure un evento 1 é molto bassa.
In pratica, in una stalla di 500 vacche di razza Bruna, le bovine capaci di ottenere una carriera
riproduttiva di 6 femmine (evento molto ricercato dagli allevatori, perchè le femmine costituiscono
la quota di rimonta della stalla, mentre i maschi sono quasi tutti �svenduti� per la macellazione)
sono: 500 x 0,016 = 7,8 ≈ 8!
La potenza del binomio vista più sopra da origine ad una distribuzione cosiddetta �binomiale� che,
per n→∞, si approssima alla distribuzione �normale� o curva Gaussiana.
3.2 SPECIE, RAZZE E POPOLAZIONI
Abbiamo detto che la genetica di popolazione studia la dinamica dei geni nella popolazioni con
l�ausilio di metodi matematico-statistici e sperimentali. Tuttavia, occorre operare una distinzione
fra popolazioni animali e popolazioni di geni.
Per popolazione animale intendiamo un insieme di individui la cui numerosità tende all�infinito (o é
talmente elevata da approssimare le statistiche a tale limite) capaci di riprodursi fra loro. La specie
può essere considerata una popolazione animale.
Per specie si intende un gruppo di organismi aventi in comune un numero rilevante di caratteri
morfologici, fisiologici ed ecologici, capaci di riprodursi fra loro generando prole illimitatamente
feconda.
Il concetto di razza deriva dall�osservazione che all�interno delle varie specie esiste un
polimorfismo (diversa modalità con cui si presenta un determinato carattere, ad esempio il colore
del mantello) più o meno rilevante per diversi caratteri. La definizione più semplice é quella che
considera la razza come un insieme di individui della stessa specie che si distinguono per
caratteristiche somatiche e funzionali proprie trasmissibili ai discendenti per eredità.
Questa definizione é stata completata con il concetto genetico di razza (gruppo di individui della
stessa specie, omozigoti rispetto a uno o più caratteri) dal concetto zootecnico secondo cui la razza
é una popolazione risultante dalla mescolanza di genotipi diversi, ma affini per espressione
fenotipica, per cui gli individui della stessa razza presentano un complesso di caratteri morfologixi,
fisiologici e funzionali simili e trasmissibili ereditariamente.
Oggi il concetto di razza é in via di veloce superamento in quanto inglobato da quello di
popolazione che, nella tassonomia classica era subordinato a quello di razza e definiva gruppi di
soggetti distinguibili dagli altri della stessa specie, ma non ancora dotati di caratteristiche definite. Il
termine oggi prevalente é quello di �gruppo genetico� che comprende un raggruppamento di
animali della stessa specie dotati di caratteristiche comuni differenziate rispetto alla media dei
caratteri di interesse zootecnico presenti nella specie a cui appartengono. Tuttavia., essendo il
concetto di razza zootecnica fortemente radicato nella pratica, continuiamo ad utilizzalo ben consci
delle limitazioni a cui é soggetta una tale rigida tassonomia.
Le razze zootecniche sono descritte generalmente in termini di medie statistiche dei caratteri
rispetto alle quali esse differiscono dalla specie o da altre razze della stessa specie. Questa
impostazione �biometrica� (= misurazioni applicate sul vivente) ha il pregio di stabilire degli
�standard� per mezzo dei quali gli individui di un determinato gruppo candidato a diventare razza
possono essere comparati fra di loro e con quelli appartenenti a una differente razza.
In termini genetici, le differenze fra le razze sono dovute ordinariamente a variazioni nelle
frequenze relative dei geni nelle varie popolazioni piuttosto che alla mancanza di certi geni
indeterminati individui e alla omozigosi dei geni stessi in altri gruppi di individui.
Le razze non sono un�entità statica, ma sono il frutto di un processo in continua evoluzione. La
formazione di una razza avviene quando la frequenza di un gene, o un gruppo di geni, diventa
leggermente diversa in un gruppo di animali rispetto alla popolazione di appartenenza (le cause
della variazione possono essere naturali oppure, come nelle specie zootecniche, artificiali). Se il
gruppo di individui con la frequenza variata é isolato rispetto al resto della popolazione, la
differenziazione genetica si accresce e si consolida rispetto alla restante popolazione sino a
giungere, talvolta, alla perdita di alcuni geni e alla fissazione dei loro alleli (vedi oltre per il
meccanismo).
Lo studio esauriente di una razza comprende la conoscenza:
1) dell�origine, che porta a verificare l�eventuale derivazione da razze preesistenti, la formazione
nel luogo in cui é allevata (e da cui normalmente prende il nome, es. la razza ovina Sarda dalla
Sardegna, la razza bovina Frisona dalla Frisia, ecc..) per cui può essere considerata autoctona, il
grado di selezione artificiale che ha subito, ecc.... La denominazione della razza può derivare
anche da caratteri morfologici salienti (Bruna nei bovini a causa del mantello bruno; Large
White nei suini, un quanto si trattava di un animale di grossa mole e con mantello chiaro)
oppure dai metodi di selezione applicati (Purosangue inglese, derivato dall�applicazione della
consanguineità);
2) dell�area di diffusione, per cui può essere classificata come razza locale (non é allevata
all�infuori dell�areale di origine), diffusa (é presente in altre aree limitrofe a quella di origine)
oppure cosmopolita (é presente in molte parti del continente o del mondo);
3) della consistenza, che può essere elevata (svariati milioni di capi), media (da qualche centinaia
di migliaia fino al milione di capi), bassa (alcune migliaia), o di reliqua (da poche centinaia a
pochi soggetti);
4) dei principali caratteri morfologici, costituiti da peso e mole dei due sessi e alle età tipiche, dal
mantello, dalle principali misure somatiche (altezza al garrese, lunghezza del tronco,
circonferenza toracica, ecc..), dalla presenza di corna o di altri caratteri di specie, ecc.
5) dei principali caratteri produttivi, costituiti da quantità e qualità delle produzioni, durata della
carriera produttiva e variabilità delle produzioni stesse intorno alla media della razza;
6) dei principali caratteri riproduttivi, costituiti dall�età al primo parto (per le femmine) e al
primo salto (per i maschi), dalla fertilità (% delle femmine gestanti nel corso dell�anno rispetto
alle femmine adulte), della prolificità (n. di nati per parto) e della fecondità (fertilità x prolificità
= n. di nati per femmina adulta e per anno).
Le razze degli animali zootecnici, pur potendosi considerare �pure� rispetto ad un numero assai
limitato di caratteri, costituiscono delle popolazioni che presentano nel loro seno un grado rilevante
di variabilità genetica e quindi una serie di genotipi diversi, benché affini sotto l�aspetto della
manifestazione dei caratteri fenotipici. Una razza-popolazione deve essere considerata come una
popolazione mendeliana di genotipi, o ancora meglio, di geni la cui distribuzione negli zigoti é
regolata dai due meccanismi della:
1) segregazione dei geni alla gametogenesi, e le conseguenti numerose combinazioni che si
ottengono negli individui eterozigoti che producono, come é noto, 2n classi di gameti, dove n é
il numero di geni presi in considerazione;
2) probabilità d incontro dei gameti alla fecondazione, che ovviamente dipende dalla frequenza
delle singole classi di gameti rispetto a tutti quelli prodotti nell�intera popolazione.
Nello studio teorico dei problemi attinenti alla distribuzione dei genotipi individuali, ai principi
mendeliani, si aggiunge il criterio probabilistico delle frequenze con le quali si verificano le unioni
fra gameti e si originano gli zigoti.
3.3 NUMEROSITA� DEI GENI E DEI GENOTIPI POSSIBILI
Le ricombinazioni dell�assetto cromosomico che si verificano al momento della gametogenesi
rappresentano una fonte notevole di variabilità. Sotto l�aspetto statistico, la produzione degli
spermatozoi e degli oociti é un vero e proprio campionamento che obbedisce alla regola di formare
un campione pari alla metà dell�assetto cromosomico individuale, nel quale sia compreso un
cromosoma per ogni coppia. Poichè i geni presenti in ciascun cromosoma sono numerosissimi
(diverse migliaia), é praticamente impossibile che ciascun paio abbia esattamente gli stessi geni (ad
es. AA, bb, cc, DD, EE, .....KK). La condizione media più probabile é quella di una prevalenza dei
loci eterozigoti su quelli omozigoti (ad es. Aa, BB, Cc, dd, ....Kk). Ne consegue che non si può
avere una vera eguaglianza fra il patrimonio genetico contenuto nei cromosomi i ciascun paio e
quindi, se n é il numero aploide dei cromosomi di una specie, il numero di classi di gameti portatori
di un patrimonio ereditario sostanzialmente diverso sarà pari a 2n, mentre il numero dei genotipi
possibili assommerà a 3n. Nel caso dei bovini, in cui n = 30, il numero di genotipi possibili é di 330
= 205.891.132.094.649, cifra di gran lunga superiore al numero di bovini passati, presenti e futuri
apparsi sulla terra. Possiamo quindi ragionevolmente affermare che, a meno che il numero degli
eterozigoti esistenti in una popolazione non sia molto limitato, il numero di individui che possono
differire nel patrimonio genetico é praticamente infinito.
Tuttavia, occorre tenere presente che, pur essendoci un gran numero di geni nel patrimonio
individuale, molti di essi hanno manifestazioni fenotipiche simili e additive (poligeni), altri
agiscono cooperando con geni maggiori nel determinare i singoli caratteri, molti infine non
possiedono manifestazioni visibili pur agendo sulla vitalità e fecondità degli animali. Possiamo
quindi affermare che a medesimi fenotipi possono corrispondere, e corrispondono nella realtà,
genotipi differenti, di cui alcuni omozigoti e la maggior parte eterozigoti. Questo aspetto
rappresenta un grosso ostacolo nel lavoro di miglioramento genetico delle razze, date le dificoltà
che si incontrano nell�identificare e nell�isolare quegli individui che, pur pregievoli per i loro
caratteri, sono anche geneticamente puri e perciò capaci di trasmettere ai discendenti le
caratteristiche desiderate.
3.4 LA FREQUENZA DEI GENI NELLE POPOLAZIONI ZOOTECNICHE
Immaginiamo una popolazione infinita (o estremamente numerosa) nella quale esistono due geni
alleli A e a e supponiamo che il numero dei gameti prodotti da ciascun individuo adulto sia lo
stesso. Ammettiamo ancora che non vi siano differenze nella fecondità, né nella sopravvivenza
degli individui, che gli accoppiamenti avvengano in maniera casuale e che il rapporto fra i sessi sia
del 50%. Queste condizioni (teoriche) sono denominate panmissia e le popolazioni animali che
ricadono sotto queste condizioni sono dette panmittiche.
In tali condizioni l�incontro fra spermatozoo e ovocellula é perfettamente casuale e poiché ogni
gamete é portatore di un solo allele (A oppure a) ne deriva che le probabilità di ottenere i tre
genotipi possibili (AA, Aa, aa) dipendono esclusivamente dalla frequenza dei due alleli nella
popolazione (e quindi nella massa dei gameti).
La frequenza di un gene in una popolazione é il rapporto fra i loci occupati dal gene e il numero
totale di loci disponibili
Se la frequenza dei due alleli é indicata con p(A) e q(a), tale che p+q=1, la distribuzione dei
genotipi nella popolazione sarà funzione della frequenza dei geni nella stessa. La percentuale dei
genotipi in funzione della frequenza del gene A nella popolazione é riportata nella figura 3.1.
Dall�analisi del grafo si evince che mentre in una popolazione può essere teoricamente ottenuta la
totale omozigosi, dominante o recessiva, con l�eliminazione dell�allele dominante o di quello
recessivo, la frequenza massima ottenibile del genotipo eterozigote é del 50%. Le variazioni delle
frequenze eterozigotiche, al cambiare di una unità di frequenza di un gene, sono inoltre inferiori a
quelle omozigotiche.
Nella tabella 3.1 é mostrato lo sviluppo numerico di tale affermazione
Figura 3.1 � Andamento della frequenza dei genotipi in una popolazione panmittica al variare dela frequenza di un allele.
0102030405060708090
100
0 0,2 0,4 0,6 0,8 1
Frequenza del gene A
% d
i gen
otip
i nel
la p
opol
azio
ne
AaAAaa
Tabella 3.1 - Percentuale dei vari genotipi nella popolazione al variare della frequenza del gene A
p(A) Aa% AA% aa% 0 0 0 100
0,05 9,5 0,25 90,250,1 18 1 81
0,15 25,5 2,25 72,250,2 32 4 64
0,25 37,5 6,25 56,250,3 42 9 49
0,35 45,5 12,25 42,250,4 48 16 36
0,45 49,5 20,25 30,250,5 50 25 25
0,55 49,5 30,25 20,250,6 48 36 16
0,65 45,5 42,25 12,250,7 42 49 9
0,75 37,5 56,25 6,250,8 32 64 4
0,85 25,5 72,25 2,250,9 18 81 1
0,95 9,5 90,25 0,251 0 100 0
La regola dello sviluppo binomiale de genotipi di una popolazione panmittica ssi estende anche a
due o più coppie di geni alleli indipendenti (cioé con associazione praticamente nulla). Se
indichiamo p(A), q(a), p1(B) e q1(b) le frequenze di due coppie indipendenti di geni, la distribuzione
dei genotipi nella generazione F1 é data dallo sviluppo della relazione
[p(A) + q(a)]2 x [p1(B) + q1(b)]2
In generale, la distribuzione statistica dei genotipi derivanti dalla libera combinazione di n paia di
geni alleli è un polinomio di ordine 2n della forma
[p(A) + q(a)]2 x [p1(B) + q1(b)]2 x [p2(C) + q2(c)]2 x ......... x [pn(K) + qn(k)]2
3.5 EQUILIBRIO GENETICO NELLE POPOLAZIONI ZOOTECNICHE
Una importante conseguenza della distribuzione binomiale dei genotipi venne scoperta
indipendentemente da due genetisti Hardy e Weinberg i quali studiarono la struttura dei genotipi e
la frequenza degli alleli nel passare da una generazione alla successiva nella popolazioni
panmittiche.
Nel 1908, i due studiosi supposero che in una popolazione panmittica fossero date delle frequanze
genotipiche, ad esempio 64% AA, 32%Aa e 4% aa. Poichè la frequenza zigotica è il quadrato di
quella gametica, possiamo ricavare facilmente quest�ultima
p(A) = √fAA = √0,64 = 0,80
q(a) = 1-0,80 = 0,20
cioé nella popolazione saranno prodotti l�80% dei gameti con il gene A e il 20% di gameti con
quello a. Tenute conto le caratteristiche della popolazione panmittica, la probabilità di incontro
dei gameti portatori dei due alleli sarà proporzionale alla frequenza, per cui si avrà nella
generazione successiva la distribuzione zigotica
0,82AA : 2x0,8A0,2a : 0,22a = 0,64AA : 0,32Aa : 0,04 aa
vale a dire, che la nuova generazione avrà esattamente la stessa composizione genetica della
generazione parentale.
La �legge di Hardy-Weinberg� afferma che, in condizioni di riproduzione casuale e in popolazioni
molto numerose (vicine alla panmissia teorica) la distribuzione dei genotipi e la frequenza dei geni
non subiscono alcuna modificazione con il passare delle generazioni. In altri termini, la
composizione genetica di una popolazione panmittica resta costante e non dipende che dalla
frequenza dei singoli geni.
Questa legge ovviamente non può essere valida in alcun caso, essendo le restrizioni poste alla
definizione di popolazione panmittica non realizzabili in nessuna delle popolazioni reali. Tuttavia, é
partendo da tale �assurdo� che é possibile confutare la legge a studiare i fattori che tendono a
modificare le frequenze zigotiche e gametiche al passare delle generazioni e, pertanto, a verificare
quantitativamente l�influenza di tali cause sul disequilibrio genetico registrabile in popolazioni
animali o in gruppi di individui da esse derivati.
3.6 APPLICAZIONI DELLA LEGGE DI H-W
La legge di Hardy-Weinberg é particolarmente utile nei seguenti 3 casi.
Frequenza genica un allele recessivo: se i genotipi della popolazione sono in equilibrio di H-W ,
l�allele cercato é ottenibile anche se non conosciamo la frequenza dei 3 genotipi con la equazione
q(a) = [f(aa)]1/2
Parimenti si può ottenere la proporzione della popolazione che é portatrice del gene recessivo
trovando la frequenza degli eterozigoti che é data da
f(Aa)/T = 2q(1-q), nell�intera popolazione e
Frequenza di portatori: può interessare la conoscenza dei portatori del gene recessivo all�interno
della popolazione normo-fenotipica. Tale frequenza é calcolata dalla relazione
f(Aa)/Norm. = 2q/(1+q), fra gli individui fenotipi dominanti
Test di equilibrio di H-W: con l�impiego di alcuni marcatori genetici é possibile calcolare la
frequenza dei geni in una popolazione parentale. Se la frequenza dei genotipi osservata nella F1 non
scosta in maniera significativa da quella teoricamente attesa, allora la popolazione é in equilibrio
genetico
3.7 CAUSE DI DISEQUILIBRIO GENETICO DELLE POPOLAZIONI ZOOTECNICHE
(ovvero, la legge di Hardy Weinberg non é valida, quasi, mai)
Le cause di ordine naturale o artificiale (cioè provocate dall�intervento dell�uomo) che allontanano
le popolazioni animali dalla staticità genetica sono numerose. La conseguenza é che la invariabilità
genetica della popolazione dovuta alla panmissia viene meno per cui le popolazioni si evolvono.
I fattori più importanti in grado di determinare la modificazione delle frequenze dei geni nelle
popolazioni sono:
a) le migrazione
b) le mutazioni
c) la deriva genetica
d) la selezione
e) i sistemi di accoppiamento
Analizziamo ora ciascuna di queste cause e le conseguente nell�evoluzione delle popolazioni
animali .
a. Migrazione.
Una popolazione animale ristretta (quale una razza zootecnica) non é mai isolata da altri gruppi di
animali della stessa specie. Il fenomeno della migrazione, importante causa di variazione delle
frequenze genetiche nelle popolazioni naturali, é sostituita nel caso degli animali zootecnici dal
commercio di soggetti che permette lo scambio di individui fra varie popolazioni. In tal modo le
due popolazioni (quella migrante e quella ricevente) sono mescolate e perdono, o guadagnano, un
certo numero di geni modificando in tal modo la frequenza allelica.
La nuova frequenza genetica q1 può essere quantificata con la relazione:
q1 = (1-m)q + mqx
in cui m é la frazione della popolazione scambiata , q é la frequenza del gene nella popolazione
originaria e qx è la frequenza del gene nella popolazione migrante .
Ad esempio, se fra due popolazioni di bovini é scambiato il 5% degli effettivi, (m = 0,05), la
frequenza di un gene nella popolazione originaria é di q = 0,5 e quella nella popolazione migrante
é qx = 0,3, la nuova frequenza del gene q1 é
q1 = (1-0,05)0,5 + 0,05x0,3 = 0,49
Se invece la frazione in uscita degli animali non é bilanciata da una eguale frazione in entrata,
occorre fare i conti con i geni che escono e con quelli che entrano.
Se nella popolazione originaria costituita da 1000 soggetti p(A) = 0,7 e in quella migrante nella
prima con 100 soggetti px(A) = 0,3, nuova frequenza dell�allele si ottiene con il seguente calcolo.
Genotipi della popolazione originaria = 490 AA; 420 Aa; 90 aa;genotipi nel gruppo immigrato
(considerato un campione casuale della popolazione di provenienza) = 9 AA; 42 Aa, 49 aa.
Nuovi genotipi nella nuova popolazione di 1100 individui = 499 AA; 462 Aa; 139 aa
Gameti A = 499 + 231= 730; a = 139+231 = 370
Frequenza gametica = p1 (A) = 730/1100 = 0,664 ; q1 (a) = 370/1100 = 0,336
b. Mutazioni
Le mutazioni sono delle variazioni del patrimonio genetico dovute a cause naturali (errori di
trascrizione nella replicazione del DNA, radioattività natrale, ecc., ) o artificiali (esposizione a
sostanze mutagene, radioattività artificiale) che portano a delle alterazioni nella frequenza dei geni
in una popolazione.
Noi considereremo solo le mutazioni che agiscono sulla struttura del gene tali che A1 →A2
Le mutazioni possono essere dirette, se il gene originale muta nel nuovo gene, oppure inverse se il
gene mutato torna, con lo stesso meccanismo, allo stato di gene originario. La velocità con cui le
mutazioni si compiono é detto tasso di mutazione, diretto (µ) e inverso (ν), calcolati dalla
frequenza con cui i nuovi geni compaiono nella generazione successiva.
In altre parole, se il gene A1 muta in A2 con una frequenza µ per ciascuna generazione (ossia µ é la
proporzione di tutti gli A1 che mutano in A2 da una generazione alla seguente) e se poniamo la
frequenza di questo gene nella popolazione parentale pari a p0, la frequenza del gene mutato A2
nella generazione successiva (q1) sarà data dalla somma della frequenza del gene nella generazione
parentale q1 = q0 + µp0, mentre la nuova frequenza del gene originale A1 é p1 = (p0 � µp0).
Le mutazioni sono un evento raro; il tasso di mutazione naturale é compreso fra µ= 1:10.000 �1:
1.000.000). Poichè i geni mutati sono in genere recessivi, occorrono alcune generazioni (o
popolazioni molto numerose) affinché possa comparire un genotipo omozigote recessivo e dare così
visibilità al gene.
Ad esempio, se il gene A1�colorazione del mantello� degli asinelli muta in quello recessivo
A2�albino� con un tasso di 1:50.000 da una generazione all�altra e la popolazione di asinelli
italiana é di 100.000 soggetti, ad ogni gametogenesi avremo che si formano 4 geni mutati. Infatti,
gli alleli sono 200.000 corrispondenti ad altrettante classi di gameti, per cui con µ=1/50.000=
0,00002, si hanno 0,00002 x 200.000= 4 gameti portatori del gene mutato. Se nella popolazione di
asinelli sono presenti 250 soggetti albini (quasi tutti locati all�Asinara) la frequenza del genotipo
albino (A2A2) nella popolazione originaria é di q2(A2A2) = 250/100.000 = 0,0025, per cui q0(A2) =
0,05 e p0(A1) 1 � 0,05 = 0,95. La nuova frequenza del gene mutato nella popolazione alla
successiva generazione é
q1(A2) = 0,05 + 0,95 x 0,00002 = 0,05002
per cui gli asinelli bianchi nella generazione F1 sono dati dalla relazione
[q1(A2A2)]2 x n. = 0,050022 x 100.000 = 0,00025052 x 100.000 = 250,2
cioè, la probabilità di ottenere un �ulteriore� asinello albino nella generazione successiva é
inferiore all�unità, per cui occorrono almeno cinque generazioni per maturare la possibilità di
ottenere almeno un altro asinello bianco nella popolazione.
Nel caso di mutazioni reciproche, si osserva un accumulo del gene mutato A2 nella popolazione se
il tasso di mutazione diretta é superiore a quello di mutazione inversa, cioè µ > ν; viceversa se µ <
ν.
In generale, nella popolazione le variazioni della frequenza del gene originale in presenza di
entrambi i sensi di mutazione é data dalla
∆p = µp0 - νq0
Riprendendo l�esempio precedente, se il tasso di mutazione inversa da albino e normale é di 10
volte inferiore a quello i mutazione diretta, cioè ν= 0,000002, la variazione della frequenza del
gene normale nella popolazione é
∆p = 0,00002x0,9842 � 0,000002x0,0158 = 0,00001965240
E� evidente che in questa relazione, mano a mano che il gene mutato si accumula nella popolazione,
la variazione della frequenza del gene originale diminuisce, in quanto aumenta la frequenza dei geni
mutati e si riduce quella dei geni originali. Con il passare delle generazioni questa progressione
tende a zero, ovvero all�equilibrio genetico anche per i mutanti e il punto di equilibrio si ottiene per
∆p = 0 , per cui
µp = νq ;
p/q = ν /µ;
poiché q= 1-p, possiamo sostituire p/(1-p) = ν /µ; da cui p = (ν- ν p) /µ; µp= ν- ν p; µp + ν p = ν da
cui si ricava le relazione per cui si ha l�equilibrio genetico
p = ν/ (µ + ν)
Nel nostro esempio, l�equilibrio genetico si raggiunge nella popolazione di asinelli quando la
frequenza del gene normale é
p(A1) = 0,000002/(0,00002+0,000002) = 0,0909
cioé quando i genotipi albini hanno una frequenza di 0,826446281, corrispondenti a 82.644
asinelli. Nella ipotesi che la popolazione di asinelli italiani si avvicini alla panmissia, occorreranno
oltre 35.000 generazioni affinché la frequenza del genotipi normale scenda a circa il 50% (ossia
che la popolazione sia costituita dal 25% di asinelli albini) e diverse centinaia di migliaia di
generazioni per raggiungere l�equilibrio genetico.
Figura 3.2 � Andamento del gene albino sottoposto a sola mutazione.
Con questo esempio possiamo apprezzare che le sol mutazioni che agiscono anche in popolazioni di
media dimensione hanno un effetto limitatissimo sulla frequenza dei geni.
c. Deriva genetica casuale (random genetic drift).
Alla gametogenesi avviene una estrazione casuale dei geni presenti nella popolazione. Maggiore é il
numero di soggetti che costituiscono la popolazione, più vicina sarà la probabilità che la frequenza
degli gametica degli alleli sia uguale a quella dei geni nella popolazione. In piccoli gruppi possono
però verificarsi delle discrepanze dovute alla limitatezza del numero degli individui. Questo
scostamento fra le frequenze teoriche e quelle effettivamente riscontrabili sulla base della
numerosità del campione é chiamata �deriva di campionamento� e, se il campionamento coinvolge i
geni della popolazione, prende il nome di �deriva genetica casuale�.
Riprendendo l�esempio precedente, la frequenza dell�allele �albino� nella popolazione di asini é
del 1,58% . Se però considero un gruppo di 100 animali estratti casualmente dalla popolazione
posso riscontrare una frequenza differente da quella della popolazione in quanto posso essermi
capitati animali con maggiore o minore frequenza del gene. Come abbiamo visto nel paragrafo 1,
Fequenza dei geni normale (A) e albino (a) nella popolazione di asini
0
0,2
0,4
0,6
0,8
1
1,2
0 10000 20000 30000 40000
Generazioni
Freq
uenz
a de
i gen
i
pAqa
via via che ci allontaniamo dalla frequenza teorica, la probabilità che un evento accada si riduce
esponenzialmente.
La misura dell�errore di campionamento che proviene dalla numerosità degli eventi esaminati é
misurata dalla �deviazione standard della probabilità� che é data dalla relazione
σ = √pq/2n
dove p + q =1 e n = numerosità degli eventi, nel nostro caso il gruppo di soggetti.
Nell�esempio precedente, con 100 asinelli la probabilità di ottenere una frequenza teorica del gene
albino A2 in un gruppo di 100 asinelli é data da
p(A2) = 0,05±(0,05·0,95/200)1/2 =0,0 5%±0,0154
il che significa che il ho il 68% di probabilità che la frequenza dell�allele recessivo del gruppo di
animali ricada nell�intervallo fra 3,46% e 6,54%. Se avessimo scelto un gruppo di 50 soggetti,
questo intervallo sarebbe stato (σ= 0,0218) di 2,82% e 7,18%. Ciò significa in soldoni che la
probabilità di ottenere soggetti con una frequenza del gene A2 q(A2) = 0,0718 é del 16,5% (il dato
si trova esattamente su media+ deviazione standard; poichè all�esterno dell�intervallo media±
diviazione standard ricade il 33% della popolazione di eventi, 33/2= 16,5 che rappresenta
l�ordinata della equazione di Gauss nel punto di ascissa media±d.s.).
Questa causa di variazione delle frequenza genetiche nei piccoli gruppi é particolarmente
importante nel caso di popolazioni animali a numerosità limitata o reliquie. Una quota rilevante del
patrimonio genetico può andare perduta esclusivamente a causa della deriva genetica casuale.
d. Selezione
La trattazione di questo paragrafo riprende gli esempi descritti dal collega Pagnacco (Genetica
applicata alle popolazioni animali, CittaStudiEdzioni, Milano, 1996).
Le frequenze dei geni nelle popolazioni e dei relativi caratteri ad esse associati possono essere
cambiati attraverso la selezione. Selezionare significa scegliere gli animali ai quali é permesso avere
dei discendenti. La selezione artificiale viene operata dall�uomo, il quale sceglie gli animali in
quanto portatori di un patrimonio genetico di interesse economico. La selezione naturale, la vera
grande forza agente sulle popolazioni e che secondo Darwin genera l�evoluzione, favorisce i
genotipi più adatti alle condizioni ambientali e sfavorisce i meno adatti. La sopravvivenza di un
gene in una popolazione sottoposta a selezione dipende dalla sua fitness , ossia dal suo adattamento
o capacità di lasciare discendenti. Con fitness si intende la proporzione del genotipo che si riproduce
rispetto agli altri genotipi. Fitness = 1 significa che quel genotipo si riproduce completamente, ossia
non é esercitata alcuna selezione nei suoi confronti. Fitness <1 significa che sul quel genotipo di
esercita una qualche selezione e nel caso limite del valore 0, quel determinato genotipo é totalmente
escluso dalla riproduzione.
Ad esempio, nei suini il gene per la sensibilità al gas alotano (H) é associato a forme patologiche
che compromettono la trasformazione delle carni in prodotti di salumeria. I soggetti sensibili
all�alotano (hh) sono riconoscibili a pertanto allontanati dall�allevamento; possono però restare
fra i riproduttori soggetti portatori (Hh) non riconoscibili. Supponiamo che in una popolazione in
equilibrio la frequenza degli omozigoti sia del 4%, per cui q(h)=0,2.
Avremo la seguente situazione
genotipo frequenze prima
della selezione fitness frequenze relative dopo la
selezione HH p2 = 0,64 1 p2 Hh 2pq = 0,32 1 2pq hh q2 = 0,04 0 0 Dopo l�intervento selettivo che escluderà completamente dalla riproduzione i soggetti sensibili
all�alotano (fitness del genotipo hh = 0), i geni h saranno meno frequenti nella popolazione: infatti
la frequenza di questo gene nella generazione successiva é data
q1 = ½ 2 pq/(1-q02) = q/(1 + q) = 0,1667
Qualora la selezione contro un gene recessivo sia protratta per n generazioni, la formula é
generalizzabile nella
qn = 0
0
1 nqq
+
Questa formula deriva dalla considerazione che se noi eliminiamo dalla popolazione gli omozigoti
recessivi hh, la proporzione della popolazione che si riproduce é 1- q02, per cui i geni h possono
derivare solo dai genotipi Hh nella proporzione di ½, per cui
q1 = ½ 2 pq/(1-q0
2) poiché p0 = 1 � q0, e 1-q0
2 = (1-q0)(1+q0) avremo che (1-q0) q0 q1 = ----------------- = q0 /(1+q0) (1-q0) (1+ q0) Nell�esempio dei suini sensibili al gas alotano, la frequenza del gene h con il passare delle
generazioni, nei casi di q0 = 0,9 oppure 0,5, é illustrata nel grafico e tabella seguenti:
Figura 3.3 � Andamento della frequenza del gene recessivo h sottoposto a selezione contro (fitness
del genotipo h =0)
Selezione contro gene recessivo
0,000
0,100
0,200
0,300
0,400
0,500
0 20 40 60 80 100 120
Gnerazioni
Freq
uenz
a ge
ne h
Tabella 3.2 � La frequenza del gene recessivo contro il quale si opera la selezione tende a diventare simile in poche generazioni. Generazione q0 = 0,9 q0 =0,5
0 0,900 0,500 1 0,474 0,333 2 0,321 0,250 3 0,243 0,200 4 0,196 0,167 5 0,164 0,143
10 0,090 0,083 50 0,020 0,019
100 0,010 0,010 1000 0,001 0,001
Dalla tabella e dal grafico é possibile comunque osservare che non é possibile eliminare
completamente il gene recessivo dalla popolazione.
Nel caso in cui sia possibile invece riconoscere l�eterozigote ed eliminarlo completamente, la
frequenza del gene recessivo nella popolazione dipenderà esclusivamente dal tasso di mutazione del
gene dominante in quello recessivo.
Nella pratica dell�allevamento comunque va considerato che non sempre é possibile l�eliminazione
di tutti gli omozigoti recessivi in relazione al mantenimento della dimensione della popolazione. Se
in un allevamento di 100 vacche, vi sono 50 individui aa che vorremo eliminare, non potremo
operare una tale selezione in quanto non sarebbe possibile mantenere una stabilità numerica della
stalla. Infatti, con una quota di rimonta annuale del 25% (ovvero, ogni anno mi servono 25
giovenche per rimpiazzare le vacche a fine carriera) e una fecondità della stalla del 80% (cioé ho 80
nuovi nati ogni anno di cui mediamente 40 maschi e 40 femmine) mi occorrono, 25 vitelle
nell�ipotesi di non perdere nessuna delle femmine nei 2 anni intercorrenti fra la nascita e il primo
parto. Le madri che daranno origine a tale rimonta sono 62,5 (62,5 x 0,8 = 50 nati di cui 25 maschi
e 25 femmine) e allora sarò costretto a destinare alla riproduzione, oltre le 50 vacche
fenotipicamente normali, anche 12,5 vacche con il genotipo recessivo aa. Poichè mantengo 12,5
vacche aa su 50, la pressione di selezione �s� su questo genotipo é di 12,5/50 = 0,25.
Pertanto, con pressione di selezione (s) intendiamo la proporzione di individui indesiderati che
siamo costretti a mantenere nella popolazione per preservarne la consistenza numerica. s= 0
significa pressione di selezione massima; s=1 é la minima.
In tal caso la frequenza del gene recessivo nella generazione successiva a quella in cui si é operata
la selezione é data dalla relazione
q0 (1 � sq0)
q1= ----------------------
1 � sq02
Nel nostro esempio della stalle di vacche s=0,25, q0(a)= 0,707 per cui q1 = 0,6651.
e. Sistemi di accoppiamento
La legge di Hardy-Weinberg presuppone per il mantenimento dell�equilibrio genetico fra le
generazioni, che la riproduzione sia totalmente libera e che gli accoppiamenti avvengano in modo
del tutto casuale. Se ne deduce che qualsiasi altro metodo di accoppiamento che si allontana dal
modello teorico provoca una variazione nella distribuzione dei genotipi e, pertanto, nella frequenza
dei geni.
I metodi di selezione possono essere distinti in 5 classi differenti che descriveremo nel dettaglio.
e.1. Accoppiamento casuale
E� impiegato in zootecnica quando gli animali prescelti sono fatti accoppiare fra di loro a caso,
senza alcun controllo particolare. Questo tipo di accoppiamento tende a mantenere stabile la
struttura genetica della popolazione, salvo variazioni casuali dovute al numero ristretto degli
individui che costituiscono il gruppo selezionato (vedi drift paragrafo 3.7c) oppure allo stabilirsi di
una parentela fra i componenti del gruppo (vedi paragrafo 3.9 sulle relazioni fra animali).
L�accoppiamento casuale non é in grado di fissare i geni desiderati, ma può essere utile per svelare
il patrimonio genetico di un riproduttore (ad esempio un toro) che abbia un numero sufficiente di
figli generati con un gruppo di femmine estratte a caso dalla popolazione.
e.2 Accoppiamento omeogamico
Per tale tipo di accoppiamento sono scelti individui geneticamente simili che, per definizione, sono
parenti e pertanto il metodo é indicato come accoppiamento fra consanguinei o consanguineità.
Questo tipo di accoppiamento porta ad una graduale diminuzione dei genotipi eterozigoti con un
conseguente aumento degli omozigoti.
e.3 Accoppiamento selettivo somatico
Consiste nel fare accoppiare animali simili nei caratteri somatici e funzionali. E� la forma
tradizionale di selezione zootecnica nella quale gli animali riproduttori sono scelti esclusivamente
sulla base di criteri morfologici e funzionali. Il risultato di questo tipo di selezione dipende in gran
parte dall�ereditabilità dei caratteri che sono stati presi come base per la scelta.
In generale si ottiene un aumento della rassomiglianza fra genitori e figli e fra discendenti di ogni
coppia, ma non si aumenta in modo apprezzabile la frequenza dei geni desiderati ne si giunge alla
produzione di un individuo omozigote.
Questo tipo di accoppiamento, praticato sistematicamente su tutti i componenti di una popolazione,
tende a produrre una progressiva differenziazione delle popolazione stessa in due tipi estremi
rispetto all�intensità del carattere selezionato e aumenta perciò la variabilità complessiva del
carattere.
e.4. Accoppiamento eterogamico
Questo tipo di riproduzione si basa sulla dissomiglianza genetica degli individui che sono destinati
alla riproduzione ed é conosciuto con il nome di incrocio. I prodotti che sono ottenuti dall�incrocio
sono geneticamente ibridi, cioè sono eterozigoti rispetto ad un numero maggiore di geni rispetto
alla media della popolazione di appartenenza. L�accoppiamento eterogamico compiuto in una razza-
popolazione, tende a produrre una certa uniformità genetica e somatica, ma non esercita alcuna
influenza apprezzabile sulla frequenza del geni.
L�incrocio intrarazziale (ad esempio fra linee pure di suini) o interazziale può essere molto
vantaggioso nel caso l�eterozigosi degli F1 determini un aumento di vigore e produttività (eterosi o
vigore degli ibridi).
e.5. Accoppiamento fra individui somaticamente diversi
Questo tipo di modalità riproduttiva é concettualmente l�opposto dell�accoppiamento somatico
selettivo. L�accoppiamento fra individui somaticamente diversi comporta una maggiore uniformità
negli F1 con una minore rassomiglianza fra genitori e figli.
In pratica, l�accoppiamento fra animali che differiscono fra loro notevolmente in determinate
caratteristiche morfologiche o funzionali, può essere utile per realizzare un tipo intermedio
desiderato o per compensare difetti ed inconvenienti presenti nei tipi estremi.
Geneticamente non si modifica apprezzabilmente la frequenza degli alleli, ma si aumenta
moderatamente quella degli eterozigoti nella popolazione.
3.8 QTL E GENI MAGGIORI (Macciotta N.P.P.)
Vediamo ora di approfondire uno degli aspetti più interessanti delle applicazioni della genetica
qualitativa o mendeliana ai caratteri di interesse zootecnico. Riprenderemo e approfondiremo alcuni
concetti già enunciati nei precedenti pargrafi e daremo alcuni esempi applicativi.
I caratteri produttivi di interesse zootecnico sono in gran parte quantitativi: la loro manifestazione è
cioè considerata come il risultato dell�azione di un grande numero di loci (poligeni) i cui effetti
molto piccoli (infinitesimi) si sommano dando luogo alla espressione fenotipica del carattere (ad
esempio la produzione del latte).
Questo modello teorico, che ha consentito di ottenere indubbi risultati sotto l�aspetto applicativo (i
metodi di stima del valore genetico degli animali si basano su di esso), fornisce comunque una
visione alquanto semplicistica del problema: sembra piuttosto difficile che tutti i geni che
influenzano la produzione del latte abbiano un�azione infinitesima, cioè che una sostituzione
allelica in uno di essi determini una variazione piccolissima nella quantità di latte prodotto. Una
ipotesi più realistica sembra quella che prevede l�esistenza sia di loci ad effetto infinitesimo, che
rappresentano la maggior parte, sia di altri che esercitano un�influenza tale da non poter passare
inosservata. Questi ultimi sono i cosiddetti QTL: la sigla deriva dalle iniziali delle parole inglesi
Quantitative (Quantitativo) Trait (Carattere) Locus, cioè locus che esercita un effetto su un carattere
quantitativo.
I QTLs, a loro volta, vengono distinti per convenzione in due gruppi:
Geni Maggiori, la cui presenza può essere evidenziata mediante l�uso dei dati fenotipici e delle
informazioni sulle parentele;
QTL veri e propri, per la cui individuazione non sono sufficienti i dati fenotipici e le informazioni
parentali, ma è necessario ricorrere all�uso dei marcatori genetici.
L�individuazione di QTL e di geni maggiori rappresenta un vantaggio per il miglioramento
genetico, sia in termini di migliore comprensione del determinismo genetico dei caratteri
quantitativi sia, soprattutto, in termini di miglioramento dell�efficienza degli schemi di selezione
(Selezione Assistita da marcatori), soprattutto nel caso di caratteri a bassa ereditabilità o che
possono essere misurati in un solo sesso.
a. Geni Maggiori
Un gene Maggiore, o gene ad effetto maggiore, è un gene allelico che esercita una influenza su un
carattere quantitativo; come detto in precedenza, l�effetto deve essere tale da poter essere
evidenziato con l�ausilio dei soli dati produttivi e delle informazioni sulle parentele.
Un esempio molto noto di gene maggiore è quello del Gene Booroola, identificato nella razza ovina
australiana Merinos, che influenza la prolificità. La Merinos, razza specializzata per la produzione
della lana, è caratterizzata da una modesta prolificità (valore medio pari a 1,2 nati per parto); esiste
però un ceppo, denominato appunto Booroola, che presenta valori medi di 2,5 nati/parto. La
differenza nella prolificità media tra Merinos normale (M) e Merinos Booroola (MB) è
ragguardevole e di non facile interpretazione; essa risulta ancor più sorprendente se si considera che
una delle proprietà fondamentali dei caratteri quantitativi è quella di presentare una variabilità
graduale (cioè continua), mentre in questo caso ci si trova chiaramente di fronte ad un netto divario
(cioè ad una variabilità discontinua). Ricordiamo (vedi cap. 4) che la prolificità, come gran parte dei
caratteri legati dalla sfera riproduttiva, presenta valori di ereditabilità piuttosto bassi (0,10-0,27) e
che conseguentemente è prevedibile un limitato progresso genetico ottenibile per via selettiva: nel
caso specifico va sottolineato invece che la MB è stata ottenuta dalla M mediante una selezione
attuata sulla sola linea femminile (i fratelli Sears, gli allevatori australiani che hanno creato la MB,
sceglievano per la riproduzione le femmine nate da parti gemellari mentre i maschi li prendevano
casualmente da allevamenti esterni: si pensi agli effetti sul progresso selettivo dei bovini da latte se
si scegliessero solamente le vacche e si prendessero a caso i tori, un disastro!). Con tale programma
selettivo, i notevoli risultati ottenuti non potevano essere solamente dovuti all�aumento della
frequenza degli alleli favorevoli in loci con un effetto piccolissimo sul carattere, ma l�unica
spiegazione possibile era quella di un graduale aumento della frequenza degli individui portatori di
un allele favorevole in un singolo locus ad effetto maggiore sulla prolificità.
Attualmente, si ritiene che al locus Booroola esistano almeno due alleli:
F, che determina una alta prolificità e che si ritrova con elevatissima frequenza nelle MB;
+, che determina una normale prolificità e che è largamente prevalente nella M.
La distinzione degli animali sulla base del loro genotipo è basata sui dati fenotipici, che consistono
non nel numero di nati per parto, bensì in un carattere ad esso fortemente correlato: il tasso di
ovulazione (TO), cioè il numero di cellule uovo che l�animale produce nel corso di un ciclo
sessuale. I tre genotipi possibili vengono così distinti:
FF pecore che hanno avuto nel corso della loro carriera riproduttiva almeno
un volta un TO≥5:
F+ pecore che hanno avuto nel corso della loro carriera riproduttiva almeno
una volta un TO≥3 ma mai superiore a 4:
++ pecore che nel corso della loro carriera riproduttiva non hanno mai avuto
TO>2.
L�effetto dell�allele F sulla prolificità è stato stimato pari ad 1 agnello per parto: cioè una pecora
con genotipo F+ produce in media 1 agnello in più per parto rispetto ad una con genotipo ++. Di
recente, grazie all�ausilio delle tecniche dell�ingegneria genetica, il gene Booroola è stato
localizzato sul cromosoma 6 della specie ovina. Va però messo in evidenza che non è stato
identificato il ruolo biochimico del gene Booroola, cioè non si conosce quale sia il prodotto diretto
della sua attività (un enzima, un ormone etc.); tale caratteristica è comune alla maggior parte dei
geni maggiori e QTL scoperti in campo zootecnico.
Il gene Booroola controlla una quota importante della variabilità genetica della prolificità nella MB;
il vantaggio selettivo che ne deriva può essere compreso considerando la storia della MB: i fratelli
Sears hanno selezionato, anche se inconsciamente, a favore dell�allele F ottenendo dei risultati in
termini di miglioramento genetico assolutamente non raggiungibili nel caso di un totale controllo
del carattere da parte di soli loci ad effetto infinitesimo.
Oltre al gene Booroola sono stati individuati altri geni maggiori che influenzano le produzioni
zootecniche:
- il gene Weaver, messo in evidenza nella razza Bovina Brown, che è responsabile di una malattia
che colpisce il sistema nervoso dei bovini, ma che influenza (sicuramente in maniera indiretta)
anche la quantità di latte prodotto;
- il gene dell�ipertrofia muscolare, evidenziato in alcune razze bovine da carne (Blu Belga,
Charolaise, Piemontese) che determina la presenza della cosiddetta �doppia coscia�, caratteristica
di pregio per gli animali destinati alla produzione della carne;
- il gene della caseina αs1 che, nei caprini, influenza il contenuto proteico del latte.
- il gene alotano, evidenziato nei suini, che influenza la qualità della carne.
b. Marcatori genetici
L�identificazione del gene Booroola è stata possibile grazie all�osservazione dei fenotipi (prolificità
o TO) e della trasmissione del carattere entro le famiglie (conoscenza dei rapporti di parentela). In
altri casi l�effetto del singolo locus, pur essendo di una certa entità (cioè non infinitesimale), non è
rilevabile in questo modo, ma bisogna ricorrere all�uso di marcatori genetici. Questo è il caso dei
QTL propriamente detti; prima di passare alla loro trattazione è necessario però chiarire il concetto
di marcatore genetico.
Se due geni si trovano molto vicini su un cromosoma, allora la possibilità che tra essi avvenga una
ricombinazione è piuttosto bassa. In questo caso i loci si dicono associati, cioè tra essi esiste quello
che in inglese si chiama linkage (in italiano associazione). Le combinazioni alleliche che si trovano
nei cromosomi parentali sono dette fasi di linkage. La conseguenza del linkage è che all�atto della
meiosi, la trasmissione degli alleli di due geni associati non avviene in maniera indipendente ma le
combinazione alleliche presenti nei cromosomi parentali le ritroviamo anche nei cromosmi presenti
nei gameti. Quando tra due geni esiste una stretto linkage, la seconda legge di Mendel
sull�assortimento indipendente degli alleli nei gameti non è più valida: si parla infatti di
disequilibrio di associazione (o di linkage).
Il linkage sta alla base dell�utilizzazione dei marcatori genetici. Spesso i geni oggetto di studio sono
di difficile identificazione: non si conosce quale realmente sia il gene che regola l�espressione del
carattere che stiamo studiando; oppure non è possibile determinare il genotipo degli animali sulla
base della manifestazione fenotipica del carattere; non si conosce la localizzazione cromosomica del
gene e così via. In questi casi lo studio del gene viene condotto indirettamente attraverso l�impiego
di un altro gene ad esso strettamente associato, cioè si ricorre all�uso di un marcatore genetico.
L�impiego di un marcatore genetico si basa sul fatto che, esistendo una forte associazione tra esso
ed il gene oggetto di studio, la segregazione degli alleli dei due loci non è indipendente (esiste il
disequilibrio di associazione): cioè se A e B sono due loci associati su un cromosoma, ciascuno con
due alleli (A1 e A2; B1 e B2), e il toro Gelsomino ha su un cromosoma la combinazione allelica A1
B1 e sul cromosoma omologo quella A2 B2, all�atto della formazione dei gameti l�allele A1 andrà a
finire nel nemasperma che contiene anche l�allele B1 (tranne il caso in cui si verifichino dei
fenomeni di crossing-over, tanto più rari quanto più i due geni sono vicini fra loro). In questo modo
i figli che hanno ereditato l�allele A1 da Gelsomino, avranno ricevuto anche l�allele B1. Lo stesso
discorso vale per A2 e B2
Quindi in questo caso è possibile conoscere l�allele presente al locus B sulla base dell�allele che è
presente al locus A; il locus A è un marcatore genetico del locus B. Va però tenuto ben presente il
fatto che se si considera un altro toro, non parente di Gelsomino, non è detto che anche in questo
animale l�allele A1 si trovi associato a quello B1 e l�A2 al B2. Cioè la fase di associazione allele
marcatore-allele gene di interesse cambia da famiglia a famiglia e, entro la stessa famiglia, può
cambiare con il passare delle generazioni (possibilità che si verifichino crossing over).
Sulla base di quanto detto in precedenza, possiamo definire un marcatore genetico come gene che
presenta le seguenti caratteristiche:
a) deve essere strettamente associato con il gene oggetto di studio, poiché più i due loci sono vicini,
minore è la probabilità che tra essi si verifichi una ricombinazione. I risultati di numerose prove
sperimentali indicano che la distanza massima tra marcatore genetico e gene non dovrebbe superare
i 20 cM;
b) deve presentare un elevato polimorfismo (cioè avere più alleli). Il polimorfismo consente di
stabilire l�origine di un allele: se l�allele portato da un individuo è presente nel padre e non nella
madre, ovviamente l�individuo lo avrà ricevuto dal padre. E� chiaro quindi che tanto maggiore sarà
il polimorfismo di un locus marcatore, tanto maggiore sarà la possibilità che i genitori abbiano
genotipo differente e maggiore sarà la probabilità di individuare l�origine dell�allele. Una delle
ragioni della grande diffusione dei marcatori a livello del DNA, ed in particolare dei microsatelliti,
deriva proprio dall�elevatissimo polimorfismo che essi presentano;
c) deve avere una sicura e facile identificazione genotipica. Cioè il genotipo al locus marcatore
deve essere facilmente ed inequivocabilmente determinato. Sino a qualche tempo fa tale
determinazione veniva fatta a livello fenotipico, ora grazie all�avvento dell�analisi genetica
molecolare, la determinazione del genotipo o tipizzazione, viene fatta a livello di DNA. Tra i
vantaggi di quest�ultima tecnica, va ricordato il fatto che essa consente di tipizzare gli animali
indipendentemente dalla manifestazione fenotipica del carattere e quindi il più precocemente
possibile;
d) deve avere un meccanismo ereditario di tipo mendeliano semplice, in modo che la
identificazione dell�origine degli alleli posseduti da un individuo sia il più agevole possibile.
Ovviamente, un marcatore codominante sarà più informativo di uno i cui alleli presentano fenomeni
di dominanza e recessività.
c. Genotipo del locus alotano nei suini
Questo esempio riprende in modo approfondito quello del paragrafo 7 relativo alla selezione contro
un gene recessivo.
Un caso paradigmatico di impiego di marcatore genetico per lo studio di un gene di interesse
economico è rappresentato dal caso del cosiddetto gene alotano. Nei suini è presente una patologia
nota come Ipertermia Maligna che determina una rapida modificazione post-mortem del tessuto
muscolare: le carni dei suini colpiti da questa sindrome si presentano pallide, soffici ed essudative
(carni PSE).
A livello biochimico, tali caratteristiche negative delle carni sono determinate da una glicolisi
muscolare troppo rapida con conseguente eccessivo abbassamento del pH del muscolo entro la
prima ora post mortem; l�interazione tra basso pH e ed elevata temperatura determina una
denaturazione delle proteine del muscolo con conseguenti scarsa capacità di ritenzione idrica,
colore pallido (per effetto dell�ossidazione del ferro del gruppo eme dell�emoglobina) ed una carne
eccessivamente molle. L�insorgenza di questa patologia è accentuata dalle situazioni di stress alle
quali possono essere sottoposti gli animali ad esempio nel trasporto dall�allevamento al macello, e
nelle diverse fasi della macellazione; infatti l�ipetermia maligna insieme con la sindrome PSE delle
carni vengono compresa nella più ampia sindrome suina dello stress (PSS). Le carni PSE
presentano delle caratteristiche qualitative piuttosto scadenti delle carni con conseguente danno
economico per il deprezzamento delle stesse. Per quanto riguarda la produzione della carne per il
consumo fresco (suino magro da macelleria), le carni PSE presentano, oltre ad un aspetto poco
attraente, anche delle maggiori perdite durante la fase di cottura ed una evidente stopposità all�atto
della masticazione. Nella produzione del suino pesante destinato alla trasformazione in insaccati, le
carni PSE comportano una riduzione delle rese in prosciutto cotto, mentre nella lavorazione del
prosciutto crudo comportano maggiori cali di stagionatura, una sapore più salato e difetti di colore.
Il locus responsabile di tale anomalia, denominato appunto gene alotano (Hal), può presentare due
alleli: uno dominante (N) che da luogo a carni normali, ed uno recessivo (n) che, se presente in
forma omozigote (nn), determina la presenza di carni PSE; gli eterozigoti Nn presentano
caratteristiche qualitative della carne comunque inferiori rispetto a quelle degli individui �sani�
(NN). La diffusione dell�allele recessivo pare sia stata favorita in maniera involontaria dalla
selezione che è stata operata nei suini a favore dell�aumento dei tagli magri nella carcassa in quanto
questa caratteristica pare sia associata alla sensibilità allo stress (e quindi all�allele n). I tre diversi
genotipi al locus Hal e le rispettive espressioni fenotipiche sono:
Genotipo Fenotipo
NN carni normali
Nn carni normali
nn carni PSE
La sindrome PSE può essere evidenziata nelle carni dopo la macellazione; il genotipo al locus Hal
può essere determinato anche sugli animali vivi, attraverso un test che consiste nel mettere a
contatto gli animali con il gas anestetico alotano (da cui deriva il nome del gene): gli animali nn, in
presenza del gas, hanno un comportamento particolare (spasmi muscolari, irrigidimento degli arti) e
possono essere pertanto scartati dalla riproduzione. Il test però non è in grado di individuare gli
eterozigoti Nn, che possiedono comunque l�allele n e possono trasmetterlo alla discendenza.
Pertanto è stato necessario ricorrere all�uso dei marcatori genetici. Il gene Hal si trova in un gruppo
di sintonia di cui fa parte anche il gene dell�enzima fosfoesoso isomerasi (PHI), enzima presente nei
globuli rossi, che può essere usato come marcatore genetico. Il genotipo degli animali al locus PHI,
che presenta due alleli (A e B) codominanti è facilmente determinabile mediante elettroforesi.
Nel caso dei loci Hal e PHI si stabilisce una associazione fra alleli che rimane fissa nelle
generazioni successive. Nella tabella 3.3 è riportato un esempio di previsione del genotipo alotano
attraverso l�impiego del marcatore genetico PHI e del test alotano in una famiglia di suini.
Tabella 3.3 - Previsione del genotipo alotano con l�uso del marcatore genetico PHI Test alotano Genotipo PHI Genotipo Hal Verro No test AB ? Scrofa No test AB ? Figli A Negativo AB NN o Nn B Positivo BB nn C Negativo AA NN o Nn D Negativo AB NN o Nn Il verro e la scrofa non sono stati sottoposti ad un test con l�alotano: tre figli (A,C.D) risultano
negativi (possono essere NN oppure Nn) ed uno positivo (B, sicuramente nn).
Come risalire al genotipo dei tre figli negativi e dei due genitori?
Nella terza colonna della tabella 2a è indicato il genotipo al locus PHI degli animali. Il figlio B, che
è l�unico di cui conosciamo con certezza il genotipo Hal è anche l�unico omozigote BB al locus
PHI; tutti gli altri sono eterozigoti AB. Allora, poiché i loci PHI e Hal sono associati e quindi le loro
combinazioni alleliche (aplotipi) si mantengono fisse e siccome B è nn nel locus Hal e BB nel locus
PHI, l�aplotipo Hal-PHI sarà nB; quindi, nella famiglia di suini che stiamo esaminando ogni volta
che nel locus Phi c�è l�allele B, nel locus Hal vi sarà l�allele n e, viceversa, A sarà associato ad N.
Una volta stabilita la fase di associazione tra gli alleli dei due loci è possibile ricostruire il genotipo
al locus Hal di tutti i componenti della famiglia (Tabella 3.4).
Tabella 3.4. Previsione del genotipo alotano con l�uso del marcatore genetico PHI Test alotano Genotipo PHI Genotipo Hal Verro no test AB Nn Scrofa no test AB Nn Figli A Negativo AB Nn B Positivo BB nn C Negativo AA NN D Negativo AB Nn Va sottolineato che la fase di associazione PHI-Hal (A-N e B-n) è valida solo per la famiglia
oggetto di studio e non può essere estesa a tutta la popolazione suina: se si ripetesse l�analisi in
un�altra famiglia si potrebbe trovare l�allele A di PHI associato con l�allele n di Hal. Inoltre,
condizione indispensabile per l�applicazione di tale analisi è che nella famiglia sia presente almeno
un componente positivo al test alotano.
Nel 1991 un equipe di studiosi canadesi ha evidenziato che l�ipertermia maligna è adovuta ad una
sostituzione di basi (C-T) nel nucleotide 1843 del gene CRC (Calcium Release Channel) che regola
il flusso di Calcio nel reticolo sarcoplasmatico del muscolo scheletrico relassociato ad l�ipertermia
maligna: la sostituzione delle basi determina una sostituzione aminoacidica in posizione 615 della
proteina (Arginina.-Cisteina) con una riduzione del flusso del Calcio. Il genotipo al locuc CRC oggi
viene pertanto determinato direttamente a livello del DNA mediante un�analisi condotta con la
tecnica della Reazione a Catena della Polimerasi (PCR) che permette l�identificazione precoce e
sicura (cioè distingue anche gli eterozigoti). Una recente indagine condotta con tale analisi su verri
di diverse razze suine allevato in Italia utilizzati in F.A. (Tabella 3.5) ha mostrato come nelle razze
Large White italiana e la Landrace italiana, tradizionalmente allevate in Italia per la produzione del
suino pesante razze e da anni selezionate per l�eliminazione alla sensibilità all�alotano (attraverso
l�impiego di tale test sui verri da impiegare in F.A.), la frequenza dell�allele n sia molto ridotta,
mentre in altre, come la Pietrain, che presentano delle caratteristiche eccezionali dal punto di vista
della muscolosità e della resa in tagli magri della carcassa, la situazione è completamente
rovesciata, con la stragrande prevalenza dell�allele n su quello N.
Tabella 3.5. Frequenze geniche del locus alotano (CRC) nelle razzze suine allevate in Italia (Russo et al., 1996) Razza Numero Frequenze alleliche N n Large White Italiana 257 0,967 0,033 Landrace Italiana 150 0,897 0,103 Duroc 154 0,929 0,071 Landrace Belga 44 0,023 0,977 Pietrain 37 0,027 0,973 Hampshire 20 1,000 0,000 Gene dell�ipertrofia muscolare (doppia coscia) nei bovini da carne Altro caso di gene ad effetto maggiore su caratteri di interesse zootecnico è quello del gene che
determina ipertrofia muscolare nei bovini, carattere noto come doppia coscia. Tale carattere si
manifesta in diverse razze bovine: la razza dove è stato maggiormente studiato è la Blu Belga; tra le
razze italiane esso è presente nella razza Piemontese e anche in quella Marchigiana. A livello
fenotipico, gli animali con il carattere doppia coscia, presentano:
a) una ipertrofia muscolare generalizzata di circa il 20%, mentre tutti gli altri organi sono di
dimensioni ridotte;
b) ) tessuto muscolare con contenuto adiposo ridotto sino al 40% ed anche minore contenuto di
tessuto connettivo, caratteri entrambi apprezzati dal consumatore;
c) ) indice di conversione alimentare inferiore del 9% rispetto alla norma.;
d) ) aumento delle distocie (+15%) a causa del maggiore peso alla nascita ed alla conformazione
dei vitelli.
Il gene responsabile del carattere della doppia coscia è un locus autosomale nel quale sono presenti
due alleli: uno normale (+) ed uno che determina l�ipertrofia muscolare (mh). Il tipo di rapporto che
esiste tra questi due alleli non è del tutto chiaro. In un primo momento si riteneva che l�allele mh
fosse recessivo e che pertanto gli animali con genotipo (+/+) e (+/mh) fossero normali mentre gli
animali (mh/mh) fossero quelli che manifestavano l�ipertrofia muscolare. In realtà una recente
ricerca condotta su bovini di razza Piemontese e su loro incroci, ha evidenziato che gli eterozigoti e
gli omozigoti +/+ non presentano differenze per quanto riguarda la difficoltà di parto mentre le
differenze esistono per il peso dei vitelli all nascita: gli animali +/+ pesavano kg 36,9, gli eterozigoti
kg 40,8 e gli omozigoti mh/mh 41,2. Pertanto l�eterozigote è in posizione intermedia tra i due
omozigoti anche se più spostato verso il genotipo mh/mh.
A livello genomico, il responsabile del carattere della doppia coscia è stato stato identificato nel
gene della miostatina (GDF8), un enzima che esercita una funzione di regolazione negativa sullo
sviluppo delle masse muscolari e che nel bovino è localizzato sul cromosoma 2. Le variazioni
genetiche che hanno causato la formazione dell�allele responsabile dell�ipertrofia muscolare non
sono le stesse nelle differenti razze. Nella razza Piemontese l�allele che determina la doppia coscia
è caratterizzato dalla mutazione alla posizione 938 del terzo esone, con una sostituzione di una
guanina con una adenina; tale sostituzione causa nella proteina una sostituzione alla posizione 313
di una tirosina con una cisteina, fatto che inattiva la funzionalità della proteina e quindi determina
l�ipertrofia muscolare. Nel caso invece della razza Blu Belga, c�è la delezione di una sequenza di
11 basi (819-829) nel terzo esone del gene della miostatina, che determina una prematura
interruzione nella fase di traduzione. Nella razza Marchigiana infine, gli individui ipertrofici
mostrano una sostituzione transversione Guanina � Timina in posizione 874, con conseguente
cambiamento di un codone che codificava l�acido glutammico in un codone di stop della
traduzione. Questa mutazione fa si che una parte della proteina ricca in cisteina (6 aa), e che
giocherebbe un ruolo importante nella struttura dell�enzima, non venga tradotta con conseguente
perdita dell�attività della proteina stessa.
d. QTL
Il primo esperimento in cui è stata evidenziata una associazione tra un locus marcatore ed un QTL è
stato quello condotto da Sax nel 1923 su due varietà di fagiolo (Phaseolus vulgaris) che differivano
sensibilmente per il peso e per la colorazione del seme; il primo rappresentava il carattere
quantitativo oggetto di studio, il secondo il marcatore. La varietà gialla, omozigote dominante (PP)
al locus responsabile della colorazione, presentava un peso medio dei semi di 48 centigrammi; la
varietà bianca, omozigote recessiva (pp), presentava un peso medio dei semi pari 48 cg. Incrociando
le due varietà Sax ottenne degli F1 ovviamente tutti eterozigoti Pp; incrociando gli F1 tra di loro
ottenne una F2 con i seguenti genotipi e peso dei semi
Genotipo marcatore PP Pp Pp
Peso semi (cg) 30.7 28.3 26.4
E� evidente che a ciascuna classe di genotipi al marcatore corrispondeva un diverso peso medio dei
semi; ciò fu interpretato come la prova dell�esistenza di una associazione tra il locus responsabile
della colorazione del seme e un QTL che influenzava il peso dei semi stessi. Per cui indicando con
A e a gli alleli del QTL che determina un peso superiore ed inferiore rispettivamente, i genotipi al
QTl sarebbero i seguenti:
Genotipo marcatore PP Pp pp
Genotipo QTL AA Aa aa
Peso semi (cg) 30.7 28.3 26.4
L�effetto di sostituzione allelica al QTL può essere stimato dalla relazione:
(peso semi PP - peso semi pp)/2 cioè (30.7-26.4)/2 = 2.15 g
Si noti che l�effetto risultava perfettamente di tipo additivo in quanto l�eterozigote Pp presentava un
peso intermedio rispetto a quello dei due omozigoti.
La ricerca dei QTL nelle specie animali di interesse zootecnico si presenta più complessa e difficile:
il principio fondamentale è lo stesso, cioè bisogna raggruppare gli animali in base all�allele
marcatore posseduto e poi vedere se i due gruppi così costituiti differiscono tra loro nel carattere
produttivo oggetto di studio; per ovvi motivi di ordine economico e tecnico però non è proponibile
un approccio tipo quello visto in precedenza. Se si vuole ricercare, ad esempio, un eventuale QTL
con effetto sulla produzione di latte nella razza ovina Sarda non è pensabile di costruirsi una
popolazione ad hoc attraverso un piano di incroci come quello attuato da Sax (ci vorrebbe troppo
tempo ed i costi sarebbero pazzeschi), ma la popolazione ovina Sarda deve essere analizzata così
come è; ciò comporta, rispetto al lavoro di Sax, un maggiore sforzo soprattutto nella fase di
elaborazione dei dati. L�analisi inoltre va condotta, come nel caso del gene Hal, entro le singole
famiglie.
Ad esempio, noi abbiamo l�Ariete Tommaso che è eterozigote ad un locus marcatore A (Tommaso
è A1A2); separiamo le figlie di Tommaso (poniamo 60) sulla base dell�allele marcatore che hanno
ereditato dal padre, in un gruppo tutte quelle che hanno A1 e nell�altro quelle che hanno A2, e
confrontiamo le medie produttive dei due diversi gruppi. Se le medie dei due gruppi,
opportunamente corrette per i principali fattori zootecnici che influenzano la produzione (ordine di
parto, tipo di parto etc.), sono diverse in maniera statisticamente significativa possiamo concludere
che entro la famiglia di Tommaso è associato al locus A un qualcosa (forse un QTL) che influenza
la produzione del latte. Le elaborazioni statistiche che vengono realmente svolte per evidenziare la
presenza del QTL sono estremamente complesse; inoltre, una condizione essenziale è che si possa
determinare con esattezza l�allele marcatore che ciascuna figlia ha ereditato dal padre.
Numerose ricerche sono in atto per la individuazione di QTL in diverse specie di interesse
zootecnico (bovini, ovini, suini, polli). Uno studio condotto recentemente su bovini da latte dal
Gruppo del Prof. Georges negli Stati Uniti, ha evidenziato la presenza di QTL che influenzano la
produzione quantitativa di latte, con effetti di sostituzione allelica che possono portare a differenze
nella produzione di latte pari ad oltre 300 chilogrammi per lattazione.
e. Prospettive.
Le recenti acquisizioni sui Geni Maggiori e QTL aprono indubbiamente nuove e allettanti
prospettive per il miglioramento genetico; è necessaria però una attenta valutazione tecnica ed
economica del problema. La ricerca di QTL in una popolazione di bovini da latte, ad esempio,
comporta la necessità di disporre oltre che dei dati relativi alle produzioni ed alle parentele
(operazioni di routine nei programmi selettivi imperniati sulle prove di progenie quali quelli dei
bovini da latte) anche del genotipo degli animali ai loci che fungono da marcatori genetici, con
conseguente aumento del costo complessivo di attuazione del programma selettivo stesso. Di
conseguenza , gli incrementi di progresso genetico ottenibili con schemi di selezione che utilizzano
i QTL (schemi MAS= Selezione Assistita da Marcatori) debbono essere mesi a confronto con il
relativo l�aumento dei costi. Al giorno d�oggi il confronto sarebbe probabilmente a sfavore
dell�utilizzo dei QTL, per lo meno in schemi selettivi quali quelli utilizzati per i bovini da latte, sia
per gli elevati costi delle analisi sia per la complessità delle elaborazioni; è prevedibile però che in
un futuro non troppo lontano, in considerazione del fatto che i criteri generali della selezione
animale sembrano spostarsi verso schemi caratterizzati dall�aumento della velocità del
miglioramento genetico (schemi �giovanili�) piuttosto che verso quelli che prediligono l�aumento
dell�accuratezza (i cosiddetti �schemi convenzionali�), tale situazione possa essere ribaltata.
3.9 LE RELAZIONI DI PARENTELA FRA GLI ANIMALI
Gli animali parenti hanno un corredo genetico simile e l�accoppiamento fra di loro (inincrocio o
accoppiamento omeogamico) produce una progenie che ha una frazione di omozigosi più elevata
delle media della popolazione. Viceversa l�accoppiamento di animali con corredi cromosomici
molto diversi (esincrocio o accoppiamento eterogamico) da origine a figli con un grado di
eterozigosi superiore a quello medio della popolazione a cui essi appartengono.
La conoscenza del grado di parentela fra due individui è perciò importante in zootecnica da un lato
per l�applicazione dei sistemi di valutazione genetica dei candidati alla selezione, dall�altro per le
tecniche riproduttive dell�incrocio e della consanguineità.
In questo capitolo apprenderemo le modalità di calcolo dei coefficienti di parentela e di
consanguineità e faremo un breve accenno ai metodi di accoppiamento fra animali parenti.
a. La relazione di parentela
Gli animali di una popolazione zootecnica hanno una frazione di geni in comune, ma due animali
parenti fra di loro presentano una frazione addizionale di geni uguali nel loro corredo genetico. Nel
senso comune due individui sono considerati parenti quando hanno un ascendente in comune per
cui la frazione addizionale di geni comuni dipende dalla distanza, espressa in atti fecondativi (o
generazioni), che li separa dall�antenato comune. I gradi di parentela esprimono la probabilità che
due individui abbiano un gene in comune ed è intuitivo il fatto che parenti lontani siano coloro la
cui probabilità di avere geni comuni è più bassa.
La parentela è calcolata, sia in zootecnica che in tribunale per dirimere le controversie in materia di
eredità, in linea diretta ed in linea collaterale: la prima è quella che separa �direttamente� un
individuo dal suo ascendente (genitore, nonno, bisnonno); la seconda è quella che separa due
individui che hanno un ascendente comune. I gradi di parentela sono il numero di atti fecondativi
intercorrenti fra gli individui in considerazione e poiché per ogni passaggio la probabilità che sia
trasmesso un gene è del 50%, essi sono misurati da un coefficiente espresso in frazioni di unità.
Esempio. Consideriamo questa struttura familiare
A→B→C
↓
D
↓
E
in cui le frecce indicano gli atti fecondativi che separano gli individui. Il grado di parentela fra A e
B (genitore/figlio) in linea diretta è di primo grado ed il suo coefficiente è 0,5 in quanto la
probabilità che essi abbiano un gene in comune è del 50%; quella fra A e C (nonno/nipote) è
sempre diretta, ma di 2° grado ed il suo coefficiente è di 0,25 (0,5 x 0,5). La parentela in linea
collaterale fra C e E si computa in base agli atti fecondativi che separano i due individui che, nel
nostro caso, sono 4, per cui la parentela è di 4° grado ed il suo coefficiente è 0,0625.
I gruppi di individui parenti fra di loro prendono, in zootecnica, diverse denominazioni in base
all�entità della parentela che li contraddistingue.
La famiglia è un gruppo di individui discendenti da antenati comuni; poiché però il corredo
genetico ereditato da questi antenati comuni si dimezza con il passare delle generazioni, il concetto
di famiglia si perde rapidamente.
La linea è un insieme di animali caratterizzati da elevata consanguineità ottenuta con accoppiamenti
fra individui parenti; la creazione di linee parentali, di largo impiego nel miglioramento genetico dei
vegetali, è utilizzata in zootecnica in alcune specie quali i suini e i conigli in cui esse sono sfruttate
per l�incrocio con l�ottenimento dei cosiddetti ibridi commerciali.
Il ceppo è un gruppo di animali abbastanza numeroso appartenenti ad una razza in cui gli
accoppiamenti all�interno del gruppo si sono verificati, per varie cause, con una frequenza superiore
a quelli del resto della razza. Ad esempio, nella razza bovina Frisona si riconoscono, oltre al ceppo
originario olandese, i ceppi tedesco, britannico, italiano, ecc., che si sono originati per il fatto che
all�interno dei confini degli stati (ed in alcuni casi anche di regioni geografiche molto limitate)
esiste una maggiore facilità di scambio dei riproduttori per ragioni linguistiche; un fatto analogo
avviene anche nel caso dei matrimoni (donne e buoi dei paesi tuoi).
b. Il coefficiente di parentela R
Il coefficiente di parentela fra due animali A e B (RAB) è uguale alla frazione media di geni comuni
che coppie di animali con la stessa relazione di parentela di A e B possiedono in più rispettoalla
frazione media di geni comuni fra due individui qualsiasi della popolazione. Come abbiamo
illustrato nell�esempio, il calcolo del coefficiente di parentela è piuttosto facile se gli animali sono
collegati in linea diretta, ma di complica un po' se essi sono collegati in linea collaterale, soprattutto
se essi hanno più di un ascendente comune.
La conoscenza della struttura degli ascendenti, che per gli uomini è detta albero genealogico, nelle
specie zootecniche è chiamata genealogia o pedigree. Essa è normalmente riportata con i nomi (o
con le matricole) degli ascendenti dell�animale in oggetto.
Esempio. Vediamo come può essere riportata la genealogia di Telemaco, ronzino baio del figlio di
Don Chisciotte (della Mancia).
(Nonno P) (Nonna P) (Nonno M) (Nonna P)
Arconte (a) Geronzia(b) Fiorellino(e) Maga Magò(f)
(Padre) (Madre)
Fritto Misto(c) Sailor Moon(g)
TELEMACO (x)
e quella di Paride, mezzo fratello (suo malgrado) di Telemaco;
(Padre) (Madre)
Fritto Misto (c) Biancaneve (h)
PARIDE(y)
calcoliamo il coefficiente di parentela fra Maga Magò e Telemaco Rfx e notiamo come esso sia la
risultante del prodotto fra i coefficienti di parentela fra Maga Magò e Sailor Moon (Rfg) e di quelli
fra Sailor Moon e Telemaco (Rgx) = 0,5 x 0,5 = 0,25. Anche il coefficiente di parentela fra Paride e
Telemaco è di 0,25.
In generale, il coefficiente di parentela fra due individui X e Y in linea diretta separati da n
generazioni è calcolato con
[1] Rxy = 0,5n;
quello in linea collaterale è ottenuto dal prodotto dei coefficienti calcolati in linea diretta.
Esempio (continua) Poniamo che vogliamo calcolare la parentela fra Paride e Galla Placidia (z)
sua sorella piena (cioè anche essa figlia di Fritto Misto e di Biancaneve); in questo casi i parenti
comuni sono 2, per cui il coefficiente di parentela è la somma dei singoli coefficienti calcolati per
via paterna e per via materna Ryz = 0,25 + 0,25 = 0,5: il grado di parentela tra fratelli pieni (non
gemelli omozigoti che è l�unico caso negli animali in cui il coefficiente di parentela è 1) è perciò
uguale a quello intercorrente fra un genitore ed un figlio.
In generale se X e Y sono imparentati tramite più ascendenti comuni, il coefficiente di parentela è
calcolato con la relazione
[2] Rxy = Σ 0,5n(a)
in cui la sommatoria è estesa a tutti gli ascendenti comuni per ciascuno dei quali sono calcolate il
numero di generazioni per via diretta.
c. La consanguineità
Un animale è detto inincrociato (o consanguineo) quando esiste una relazione di parentela fra il
padre e la madre; gli accoppiamenti fra animali parenti sono detti accoppiamenti in inincrocio o in
consanguineità.
L�effetto della consanguineità è l�aumento di loci omozigoti nell�individuo inincrociato rispetto alla
media della popolazione. La probabilità che un individuo x abbia un locus omozigote è calcolata dal
coefficiente di consanguineità Fx e dipende dalla parentela fra i genitori Rcg. secondo la relazione
[3] Fx = 0,5 Rcg.
Notiamo subito (e ricordiamo bene) che il coefficiente di consanguineità è riferito ad un singolo
animale, mentre quello di parentela a due animali.
Esempio. Poniamo che nell�esempio precedente colui che ha trascritto il nome dei genitori di
Sailor Moon fosse leggermente ubriaco (capita..) e, una volta smaltita la sbornia, abbia accertato
che il padre di Sailor non era Fiorellino, bensì Arconte. A questo punto Sailor Moon e Fritto misto
risultano parenti (mezzi fratelli) con un coefficiente di parentela di 0,25. Il coefficiente di
consanguineità di Telemaco è allora 0,5 x 0,25 = 0,125, il che significa che la sua probabilità di
avere geni omozigoti rispetto al grado di omozigosi media della popolazione di ronzini della
Mancia è superiore del 12,5%.
Analogamente al coefficiente di parentela, il coefficiente di consanguineità può essere calcolato
direttamente dal pedigree dell�animale con la formula
[3] Fx = Σ 0,5n(a) + 1
dove la sommatoria è estesa a tutti gli ascendenti comuni (del padre e della madre di x) ed n è il
numero di frecce che collegano ,nel diagramma familiare, il padre e la madre attraverso tale
ascendente.
Qualora anche gli ascendenti di un animale siano essi stessi consanguinei, occorre tenere conto di
ciò nel calcolo del coefficiente che diventa
[4] Fx = Σ 0,5n(a)+1 (1 + Fa)
dove Fa sono i coefficienti di consanguineità degli ascendenti comuni al padre ed alla madre di x.
d. L�impiego dell�inincrocio e dell�esincrocio in zootecnica
Secondo Grasselli, la conoscenza sulle relazioni di parentela fra gli animali è sfruttata, nell�ambito
del miglioramento genetico degli animali zootecnici, non solo per aumentare il numero di
informazioni fenotipiche utilizzabili nella stima del valore genetico di un individuo, ma anche per la
costruzione di veri e propri schemi di selezione che utilizzino adeguatamente i vantaggi derivanti
dall�omozigosi oppure quelli dell�eterozigosi per alcuni caratteri produttivi. Di norma la
consanguineità provoca effetti depressivi sull�espressione del carattere mentre l�eterozigosi ne
esalta l�espressione per effetto del meccanismo che nei vegetali prende il nome di vigore ibrido.
Le conseguenze negative dell�inincrocio per l�uomo e per gli animali sono note da molto tempo;
Darwin scriveva che �le conseguenze dell�accoppiamento fra parenti sono la riduzione di statura, la
perdita di robustezza costituzionale e di fertilità, talvolta accompagnate dalla tendenza alle
malformazioni�.
Poiché la consanguineità comporta l�aumento della frazione di loci omozigoti rispetto alla media
della popolazione, non dovremo notare differenze, nel caso di caratteri quantitativi, fra individui
consanguinei e non a causa della stessa frazione di geni positivi e negativi che diventa omozigote. I
caratteri legati alla vitalità dell�individuo non sono normalmente di tipo additivo (dominanza,
sovradominanza, ecc..) l�individuo eterozigote ha espressioni fenotipiche superiori rispetto a quello
omozigote.
Vi sono geni recessivi che sono responsabili di malformazioni, alcune addirittura letali, che si
esprimono soltanto allo stato omozigote. La loro ricerca e l�eliminazione dei riproduttori portatori,
che pur vitali e fertili, sono in grado di trasmettere il carattere negativo alla discendenza, costituisce
uno degli strumenti concreti in mano alla selezione per contenere il diffondersi dei geni indesiderati.
Le tecniche di monitoraggio per tali geni fanno ricorso all�accoppiamento dei maschi candidati alla
selezione con le femmine sicuramente portatrici oppure con le proprie figlie; il responso
dell�indagine è del tipo �ad esclusione� e riporta la probabilità che l�animale testato possa essere
portatore del gene indesiderato.
Poiché la consanguineità deprime in particolare la vitalità dell�individuo, gli animali inincrociati
presentano in generale la depressione delle produzioni, evidente soprattutto nel caso in cui essi
siano posti in condizioni ambientali difficili.
La tabella seguente riporta gli effetti della consanguineità sui caratteri produttivi e riproduttivi delle
principali specie zootecniche (da Piechner, pubblicato su Chapman).
Specie e carattere Cambiamento per
ogni 1% di F (in % sulla media)
Bovini produzione di latte -0,5 tasso di concepimento -1,26 peso alla nascita -0,70 peso a 6 mesi -0,44 peso a 12 mesi -0,16 incremento postsvezzamento -0,20 efficienza di conversione alimentare -0,32 spermatozoi/eiaculato -0,50 Suini numero nati vivi (figliata consanguinea) -0,28 numero svezzati � -0,73 numero nati vivi (madri consanguinee) -0,70 numero svezzati � -0,46 peso della nidiata alla nascita -0,50 incremento ponderale giornaliero -0,42 Ovini produzione di latte -0,26 peso corporeo all�anno di età -0,22 peso del vello -0,70 Polli fertilità -0,04 produzione di uova -0,38 taglia -0,20 L�esincrocio è una tecnica che consente l�aumento del grado di eterozigosi negli animali che ne
derivano i quali presentano, rispetto alla popolazione, di norma una robustezza costituzionale
superiore che si riflette, in alcuni casi, in una performance produttiva superiore a quella che
deriverebbe dalla media delle prestazioni paterne e materne. Il fenomeno dell�eterosi da cui ciò
deriva, detto anche lussureggiamento degli ibridi, negli animali non è di norma così evidente come
nei vegetali.
Al contrario che per inincrocio, non esiste un coefficiente che misuri il grado di eterosi, poiché una
tale definizione comporterebbe la completa conoscenza del genotipo della popolazione da cui sono
estratti gli individui da accoppiare. Il grado di eterosi si misura allora semplicemente con la
superiorità della media dei fenotipi rispetto a quella delle popolazioni da cui derivano i genitori.
Esempio. Poniamo di voler calcolare il grado di eterosi eventualmente esistente nell�incrocio fra le
razze bovine Limousine (razza da carne francese) e Sarda (razza rustica isolana) e di disporre dei
dati degli accrescimenti medi misurati sulle sue popolazioni che sono di kg 1,350 nella prima e kg
0,740 nella seconda. Se sono fatti accoppiare casualmente individui delle due razze (e di norma
nella realtà avviene così) e si misurano gli accrescimenti in condizioni analoghe a quelle utilizzate
per il rilievo dei dati parentali, la media di tali dati, risultata di kg 1,120), può essere confrontata
nel seguente modo:
media parentale = (1,350 + 740)/2 = 1,045
media filiale = 1,120
effetto di eterosi = +0,075
sempre che i dati siano stati raccolti correttamente.
L�eterosi è sfruttata in molti sistemi di produzione animale, particolarmente in suinicoltura ed in
avicoltura: nel primo caso si assiste normalmente all�incrocio fra razze diverse (molto utilizzato è
quello fra Large White x Landrace, Pietrain x Large White) oppure fra linee diverse della stessa
razza; nel secondo caso si utilizzano schemi selettivi che fanno ricorso quasi esclusivamente
all�incrocio fra linee. Questa tecnica prevede la creazione di linee inincrociate fortemente
selezionate (grand parents) che sono incrociate fra loro con l�ottenimento dei cosiddetti parents i
quali forniranno i prodotti finali da impiegare nella produzione. Lo schema di selezione è detto a
due, tre, quattro (o più) linee in funzione del numero di linee che entrano nella costituzione del
soggetto definitivo.
La tecnica riproduttiva che sfrutta l�eterosi è, in pratica, detta incrocio ed indica l�accoppiamento di
animali della stessa specie geneticamente molto diversi; questa denominazione di norma è
utilizzata nel caso dell�impiego di due razza; la riproduzione entro la razza (o entro la linea) è
invece chiamata accoppiamento. Pertanto, un toro di razza Charolaise ed una vacca di razza
Modicana sono incrociati fra di loro; due soggetti di razza ovina Sarda sono accoppiati fra loro.
Fra i diversi tipi di incrocio, possiamo ricordare:
a) l�incrocio industriale che si effettua, nella produzione della carne, fra due razze differenti per
l�ottenimento di un prodotto (detto F1 = 1a generazione filiale) da destinare completamente alla
macellazione; questa tecnica è detta industriale in quanto i prodotti ottenuti sono caratterizzati da
grande uniformità morfologica quasi come i manufatti industriali;
b) l�incrocio di sostituzione che si attua qualora con la razza A si voglia assorbire gradualmente
quella B; il caso classico è quello che, nel passato, ha portato la razza bovina Bruna a sostituire la
razza Sarda in molte plaghe della Sardegna;
c) l�incrocio continuo o ricorrente, in cui gli F1 sono accoppiati alternativamente con una delle due
razze di provenienza per mantenere il grado in insanguamento delle generazioni entro limiti
prefissati (37,5 - 66,5).
Epilogo
In un famoso film Alberto Sordi, che rimbrottava la moglie per non ricordo quale ragione, conclude
il litigio dicendole: �Sta �mpò zitta te che nun semo nanche parenti�.
Libri consigliati per il capitolo 3 Falconer D.S. e Mackay T.F.C., 1996, Introduction to quantitative genetics. 4a edizione. Longman, Essex. England. Pagnacco G., 1996, Genetica applicata alle produzioni animali. Città Studi Edizioni, Milano.
4. MODELLIZZAZIONE MATEMATICA NELLA
BIOLOGIA APPLICATA
4.1 Realtà e Modelli
Dare una definizione esauriente del concetto di modello è difficile in quanto, spesso, a questo
termine sono attribuiti significati diversi, oppure, con la medesima espressione -ad esempio
�modello matematico�- ci riferiamo a realtà del tutto eterogenee. Limitandoci al campo della
conoscenza scientifica, una tassonomia schematica dei significati più importanti che si attribuiscono
al termine modello deve comprendere almeno:
a) il modello logico, inteso come interpretazione semantica, o realizzazione, di un sistema di
assiomi tale che gli assiomi sono veri per questa interpretazione. Il modello, in questo senso, è
una entità non linguistica, la cui struttura logica è la stessa della teoria; è cioè isomorfo con la
teoria.
b) Il modello analogico, vale a dire una rappresentazione fisica tridimensionale di un oggetto o di
un sistema. E� utile in quanto mostra i rapporti esistenti fra le parti costitutive del sistema.
Rientrano in questa categoria modelli come i planetari, i circuiti elettrici che vengono adottati
come modelli di sistemi acustici, i modelli meccanici dell�etere di Kelvin e, in genere, anche i
grafici. Tutti questi modelli hanno in comune il fatto di essere rappresentazioni basate su un
isomorfismo fra le leggi che governano i due processi. Una sottospecie di modello analogico è
il modello proporzionale, in cui è essenziale che i rapporti fra elementi corrispondenti restino
costanti.
c) Il modello immaginario. E� un insieme di assunzioni su un sistema, che ci mostrano ciò che il
sistema potrebbe essere se soddisfacesse certe condizioni che di fatto non soddisfa. Il modello
è qui inteso nella sua accezione di �come-se�. Ne sono esempi il modello di un mondo non
euclideo, elaborato da Poincarè, che ci mostra a cosa assomiglierebbe un mondo fisico che
soddisfacesse la geometria di Lobacevskij; oppure il modello del campo magnetico proposto
da Maxwell, che mostrava come il campo sarebbe nel caso fosse completamente meccanico,
ma non affermava che in effetti lo fosse.
d) Il modello teorico. E� un insieme di assunzioni su un sistema, che lo descrive attribuendogli
una struttura interna, per cui molte delle sue proprietà vengono spiegate riferendosi a questa
struttura. Un esempio è il modello atomico di Bohr o il modello di punti materiali per la teoria
dei gas. Quando si parla di insieme di assunzioni, si vuole anche significare che questo
modello è diverso da un costrutto fisico, che può semmai essere usato per rappresentarlo. Tale
modello viene in genere identificato con la teoria, oppure è concepito come stadio intermedio
fra le osservazioni empiriche ed una teoria definitiva.
e) Il modello matematico. E� una traduzione in termini matematici di una teoria empirica, cioè
l�insieme di proposizioni matematiche che ha la stessa forma delle leggi di questa teoria; il
loro rapporto è di isomorfismo fra strutture.
Tutti i modelli sopraricordati svolgono una qualche funzione nello sviluppo della conoscenza
scientifica, ma il ruolo fondamentale � sia per quanto riguarda la crescita delle capacità esplicative e
del potere previsionale dei fenomeni oggetto della ricerca scientifica, sia per lo sviluppo delle
applicazioni tecnologiche della scienza contemporanea - spetta sicuramente alla famiglia dei
modelli teorici e, in particolare, al suo sottoinsieme costituito dai modelli matematici. E� questa la
ragione del processo accelerato di matematizzazione della scienza che, a partire dalla fisica, ha
interessato la chimica, la biologia pura e le varie biologie applicate, ma anche le cosiddette scienze
umane, dalla logica alla sociologia, dall�economia alla scienze dell�informazione.
La tassonomia di cui sopra, certamente non-esaustiva, è tuttavia sufficiente ad evidenziare due
proprietà essenziali che sono comuni a tutti i tipi di modello. La prima proprietà è che il settore
della realtà che fa da referente al modello, vale a dire la realtà modellizzata, è sempre un sistema.
Anche il termine sistema, come già il termine modello, non è privo di ambiguità; tuttavia, le
diverse accezioni in cui lo si impiega hanno in comune la connotazione minima secondo la quale
un sistema è costituito da diverse unità fra loro interconnesse in qualche modo. Vale a dire che si ha
un sistema se e solo se, dato un insieme di elementi qualunque, possono essere definiti uno o più
criteri che connettono fra loro tali elementi secondo determinate relazioni. Così, ad esempio,
l�insieme delle cellule di un organismo animale è certamente un sistema, mentre non lo è
l�aggregato dei granelli di sabbia di una spiaggia.
La seconda caratteristica comune a tutti i tipi di modello è che il modello è, necessariamente,
diverso dalla realtà modellizzata. Il primo passo nello sviluppo di un modello è sempre un processo
di astrazione, tramite il quale alcune proprietà e relazioni di un settore della realtà vengono isolate
come fondamentali mentre altri aspetti sono giudicati inessenziali, almeno riguardo al contesto
prescelto, e conseguentemente trascurati dal modello.
Ciò che si astrae come importante e ciò che invece si decide di ignorare può ovviamente variare da
modello a modello, ma il processo di astrazione in sé non ha nulla di arbitrario. Al contrario, si
tratta di un processo inevitabile, senza il quale non si dà conoscenza alcuna. Quale che sia il settore
della realtà considerato, infatti, esso è sempre estremamente � meglio infinitamente � complesso e
conseguentemente non rappresentabile e non conoscibile in tutti i suoi aspetti. La conoscenza non
inizia dal vedere bensì dal guardare la realtà, richiede cioè una decisione pregiudiziale su ciò che si
vuole conoscere.
Questa proprietà è all�origine di una sorta di contraddizione intrinseca nell�utilizzazione dei
modelli, che possiamo indicare come il paradosso della modellizzazione. Se è vero infatti che un
modello è �nel senso che deve essere- diverso dalla realtà, è però altrettanto vero, ovviamente, che
un modello è tanto più valido quanto più numerosi sono gli elementi della sua struttura che sono
invece isomorfi alla realtà modellizzata.
Migliorare un modello significa allora renderlo sempre più simile alla realtà ma, d�altra parte, se un
modello si complica oltre un certo limite, perde la sua capacità esplicativa ed ogni funzione
conoscitiva.
Questo paradosso era ben noto già agli studiosi dell��800. Lewis Carrol, l�autore di ALICE NEL
PAESE DELLE MERAVIGLIE che era anche un noto matematico, ci racconta, nel linguaggio della
favola, cosa succede quando si spinge all�estremo il paradosso dei modelli. Seguite questo dialogo:
�abbiamo effettivamente realizzato una mappa del paese, su una scala di un miglio a un miglio!�. �L�avete usata molto?� chiesi. �Finora non è mai stata diffusa� disse Mein Herr, �i contadini hanno avuto da ridire: sostengono che avrebbe ricoperto l�intero paese, occultando la luce del
sole! Così adesso usiamo l�intero paese come sua stessa mappa, e posso assicurarvi che funziona davvero bene�.
Einstein ricordava in questo modo la necessità di mantenere ferma la distanza fra modelli
matematici e realtà modellizzata:
�quando le leggi della matematica si riferiscono alla realtà, non sono certe, e quando sono certe non si riferiscono alla realtà�
Il paradosso dei modelli ha una conseguenza fondamentale, che riguarda il contenuto di verità dei
modelli stessi. La proprietà sopra ricordata, per cui un modello è sempre per alcuni aspetti simile
ma, per altri �infiniti- aspetti, diverso dalla realtà a cui si riferisce, mostra, per un verso, che il
medesimo settore della realtà può essere modellizzato in una infinità di modi diversi a seconda delle
proprietà e delle relazioni che, di volta in volta, si astraggono dalla realtà; ma, per l�altro, forza
anche alla conclusione, certamente non facile da accettare, onde un modello non può essere valutato
in base ad un criterio di verità, cioè di una sua corrispondenza o perfetta sovrapponibilità alla realtà
modellizzata. Un modello non è più vero o più falso di un altro; può essere più o meno valido, più o
meno utile o funzionale, più o meno proficuo od opportuno; ma interrogarsi sul suo contenuto di
verità non ha significato alcuno, almeno che non si voglia rispondere �ma la risposta può essere
pericolosa al livello del buon senso comune- che tutti i modelli sono egualmente falsi.
Recentemente una prestigiosa rivista di fisica teorica ha pubblicato una vignetta in cui era figurato il
buon Dio, con tanto di barba bianca, che comodamente seduto su una nuvola, dopo aver letto un
manuale di meccanica quantistica, non riesce a trattenere una fragorosa risata. Quale altro modo può
esprimere meglio l�abbandono da parte dei fisici teorici di ogni pretesa di descrivere con i loro
complicatissimi modelli matematici la realtà delle molecole, degli atomi, dei nuclei, dei quarcks, e
via dicendo? Eppure la meccanica quantistica funziona, basta pensare alle bombe nucleari!
La necessità di non pensare più a teorie e modelli in termini di verità è forse la pietra di inciampo
più dura e la ragione più fondamentale di contrasto fra quella che possiamo chiamare cultura
modellistica ed il paradigma culturale della biologia tradizionale.
Ma i paradossi, come gli esami, non finiscono mai! C�è anche chi, non senza ragione se ci si riflette
un attimo, si spinge ancora più a fondo e non si limita a rompere il legame funzionalità-verità , ma
ritiene che un modello possa essere valido e funzionale senza che lo si comprenda a fondo e senza
che si conoscano perfettamente le ragioni della sua funzionalità.
Consideriamo il brano seguente:
�Ci fu un tempo in cui i giornali dicevano che solo dodici persone capivano la teoria della relatività. Io non credo che questo tempo sia mai esistito. Ci può essere stato un momento in cui
solo una persona capiva, perchè egli era il solo uomo che ci aveva pensato, prima di scriverne. Ma dopo la lettura del suo lavoro, molte persone capirono la teoria della relatività, certamente più di
dodici. Invece io penso di poter affermare con sicurezza che assolutamente nessuno capisce la meccanica quantistica� .
Chi scrive queste cose non è un uomo della strada o una persona dotata di sola cultura umanistica,
nè un medico o un biologo; è Richard Feymann, uno dei più prestigiosi studiosi di meccanica
quantistica della seconda generazione.
Nel seguito di questo capitolo ci occuperemo prevalentemente dei modelli teorici e dei modelli
matematici, con qualche cenno alla modellizzazione analogica, dato il ruolo centrale che questo tipo
di modelli ha giocato e gioca nello sviluppo della conoscenza scientifica e della tecnologia
contemporanea. Il settore della realtà modellizzato, a cui faremo riferimento nella maggior parte
degli esempi, è quello tradizionalmente oggetto delle scienze zootecniche, ma i concetti generali ed
i metodi analizzati sono facilmente trasferibili ad altri ambiti della biologia pura ed applicata.
4.2 Modelli teorici e modelli matematici
I modelli teorici, comunemente noti come teorie, hanno la funzione primaria di accrescere la
conoscenza relativa ad ambiti specifici della realtà oggetto delle diverse scienze empiriche. Essi
sono costruiti come strutture di proprietà e di relazioni, espresse nei linguaggi specifici delle
discipline a cui appartengono.
I modelli matematici costituiscono, come si direbbe per l�appunto in matematica, un sottoinsieme
proprio dei modelli teorici, caratterizzato dal fatto che le proprietà e le relazioni di una teoria sono
espresse nel linguaggio, e seguono la logica, della matematica. Ciò equivale a dire che, mentre ci
sono molte teorie che non si possono tradurre in modelli matematici, al contrario tutti i modelli
matematici sono anche � o meglio prima- modelli teorici. Questa precisazione deve essere
considerata con attenzione, perchè da essa discendono conseguenze molto importanti per la pratica
della modellizzazione matematica, particolarmente in campo biologico.
Nelle discussioni sul ritardo del il processo di matematizzazione che ancora interessa vari settori
importanti delle scienze biologiche, si sente spesso obiettare, da parte di studiosi anche molto seri e
preparati ma formati alla cultura della biologia tradizionale, che la ragione di tale ritardo deve
essere cercata nella scarsa preparazione matematica della maggior parte dei ricercatori in questi
campi. Questa obiezione è però un comodo alibi, che cerca di coprire, più o meno consapevolmente,
un problema più profondo e molto più grave, vale a dire la carenza di riflessione teorica: gli ambiti
della biologia per i quali mancano i modelli matematici sono quelli in cui sono assenti teorie
esplicativa strutturate e coerenti.
Una decisiva prova a contrario dell�attendibilità di questa affermazione è la seguente. Tra i vari
settori coperti dalle scienze zootecniche, la disciplina della genetica quantitativa è l�unica altamente
matematizzata. Lo è tanto da aver innescato un meccanismo di feed-back, grazie al quale la
zootecnica può vantare il merito di aver fatto avanzare la conoscenza matematica in un campo di
grande interesse quale è la teoria dei cosiddetti modelli lineari misti. Ebbene, la genetica
quantitativa è l�unico settore delle scienze zootecniche che ha sviluppato autonomamente un
edificio teorico compatto ed articolato, ben fondato su una solida base concettuale, mentre altri
settori, non meno importanti della zootecnica, derivano i concetti essenziali dall�anatomia, dalla
fisiologia, dalla biochimica, e non sempre riescono a ricollocare tali concetti in una struttura teorica
originale e dotata di una sua autonoma coerenza interna.
Un�altra proprietà fondamentale accomuna tutti i modelli teorici e, di conseguenza, tutti i modelli
matematici. La potente funzione conoscitiva di questi modelli non si esplica con un rapporto im-
mediato della teoria al settore della realtà modellizzato. Il referente diretto di un modello teorico è
invece un insieme astratto di oggetti, come oggi si direbbe, virtuali, completamente definiti dalle
proprietà e relazioni in cui si articola la teoria. Il rapporto è pertanto mediato dalla teoria al sistema
oggettuale astratto e, infine, al mondo oggettuale empirico o reale. Tra il modello teorico ed i suoi
oggetti virtuali vige, evidentemente, una relazione di verità; mentre fra un modello teorico, o un
modello matematico, e la realtà il rapporto è, come si è già detto nel paragrafo precedente, di utilità
e di funzionalità.
Questa caratterizzazione dei modelli teorici, che si è affermata definitivamente negli ultimi
decenni con il notevole impulso dato allo sviluppo dei modelli matematici sempre più sofisticati
dalle enormi potenzialità di calcolo degli elaboratori elettronici, configura una vera e propria
rivoluzione nella concezione del realismo ingenuo che ha dominato il campo dell�epistemologia
dagli albori della scienza moderna fino ai primi decenni del novecento. Nessun teorico della
matematica applicata contemporanea potrebbe oggi condividere questo brano del SAGGIATORE di
Galileo, universalmente riconosciuto tra i padri fondatori della scienza moderna:
�La filosofia (scienza per Galileo) è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi, ma non si può intendere se prima non si impara ad intendere la lingua, a conoscere i caratteri, nei quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri sono triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto.�
Oggi siamo molto più modesti, non pretendiamo di conoscere il linguaggio in cui è scritta la
natura, anche per evitare che il Padreterno continui a ridere della nostra presunzione. Ci è
sufficiente che i nostri modellini funzionino �finchè funzionano -; che ci diano una spiegazione
sufficiente e credibile dei fenomeni che in un dato momento ci interessano, spiegazione sempre
provvisoria, sempre perfettibile, sempre rimovibile. Almeno in campo scientifico non siamo più
dogmatici, siamo diventato pragmatici e convenzionabili, non sosteniamo un modello perchè
crediamo che sia vero, ma perchè siamo d�accordo sulla sua proficuità e sulla utilità, per noi, dei
suoi prodotti.
4.3 Dentro la pratica della modellizzazione matematica
Come la famiglia dei modelli teorici comprende i due sottoinsiemi dei modelli matematici e delle
teorie che si lasciano tradurre in linguaggio matematico, così l�insieme dei modelli matematici è a
sua volta segmentato in diversi sottoinsiemi, che è fondamentale saper distinguere, non certo in
ossequio ad una qualche foga classificatoria, ma al fine di evitare equivoci o confusioni, che hanno
prodotto � e ancora producono- gravi conseguenze nella pratica della modellizzazione matematica.
Una prima differenziazione separa i cosiddetti modelli statici dai modelli dinamici.
I valori delle grandezze sviluppate nei modelli matematici sono sempre, in qualche modo e in
qualche scala, dipendenti dal tempo; ma non sempre un modello tematizza esplicitamente la
relazione fra le variabili che interessano e la variabile tempo. Ad esempio, uno studioso di
alimentazione potrebbe essere interessato a costruire un modello capace di collegare la quantità di
sostanza secca di erba (Y) ingerita da un gregge di pecore alla quantità di erba presente in campo
(X1), all�altezza dell�erba (X2), alle proporzione delle leguminose (X3), al contenuto in proteine (X4)
e a quello in fibra (X5) dell�erba. Il modello, se riesce, si presenterà nella forma del tipo:
Y = f(X1, X2, X3, X4, X5)
dove f è il simbolo corrente di funzione, cioè dell�equivalente matematico del concetto logico di
relazione o legame. E� ovvio che l�ingestione è un fenomeno che avviene nel tempo, ma l�interesse
del ricercatore non è indirizzato, in questo caso, all�evoluzione temporale dell�ingestione, bensì alla
sua dipendenza dai fattori detti sopra.
Ma i modelli statici più diffusi sono quelli che si utilizzano per indirizzare l�analisi statistica dei
campioni di informazioni sperimentali. Purtroppo l�ambito della statistica è il regno degli equivoci e
delle pessime interpretazioni! Non basterebbe un libro intero solo per elencare i gravi errori che si
riscontrano nelle applicazioni della statistica alle scienze biologiche. Ci limiteremo pertanto ad
evidenziare i due equivoci essenziali che maggiormente si legano alla caratterizzazione dei modelli
matematici che abbiamo sviluppato nei paragrafi precedenti. Il primo equivoco è che parecchi
ricercatori non paiono consapevoli del fatto che, quando sviluppano un�analisi statistica, si servono
di un modello matematico. Così non è affatto inverosimile la situazione di un ricercatore che,
elaborando i dati osservativi relativi all�altezza di un campione di esseri umani di età compresa fra
20 e 60 anni, con l�analisi della varianza comprendente il solo fattore sesso, affermi � io non ho
fatto uso di alcun modello; ho solamente verificato se il fattore sesso ha un�influenza nel
determinare l�altezza degli esseri umani, testando la significatività statistica della differenza fra
l�altezza media dei maschi e l�altezza media delle femmine presenti nel mio campione�.
Contemporaneamente egli, però, avrà scritto una relazione di questo tipo:
ijh� = µ + αi
la quale dice che l�altezza stimata ijh� del j-mo individuo di sesso i (i = 1 per i maschi e i = 2 per le
femmine) è data dalla somma della media generale µ
più il contributo specifico (α1 o α2) del sesso dell�individuo in esame. Ma questo è,
evidentemente, un modello matematico! Ignorando ciò, il nostro ricercatore ignorerà anche � ed è
questo il secondo ed ancor più grave errore � di aver adottato una teoria che, come tutte le teorie,
non si riferisce direttamente agli esseri umani del campione, ma ad un insieme di individui astratti,
definiti dalla proprietà onde tutti i maschi hanno la stessa altezza (µ + α1) e così tutte le femmine
(µ + α2). Un individuo reale invece ha un�altezza hij = ijh� + eij , dove il termine eij , che tanto per
aumentare la confusione si chiama normalmente errore, non è niente di di sbagliato, ma vuole solo
significare lo scarto irriducibile fra la previsione teorica e la realtà, scarto che, per definizione, nel
contesto definito dal modello non interessa ed è perciò lasciato al caso: è il residuo casuale del
modello.
Interrompiamo qui questa digressione sui modelli della statistica � ampiamente sviluppati in capitoli
specifici � accontentandoci di aver evidenziato che: a) ogni analisi statistica si sviluppa alla luce di
un modello matematico e b) i modelli statistici appartengono alla classe dei modelli matematici
statici.
E passiamo ai modelli dinamici, che trovano largo impiego nelle scienze biologiche pure ed
applicate, pur non essendo anche essi sempre compresi pienamente nè sempre utilizzati in modo
corretto.
Nella sua forma più semplice e più diffusa un modello dinamico si limita a rappresentare in termini
matematici l�evoluzione temporale di una o più grandezze ritenute essenziali per la descrizione del
fenomeno oggetto di studio. Il risultato della modellizzazione è allora, per ciascuna grandezza, una
funzione continua e regolare del tempo, vale a dire una funzione del tipo y = f(t), nella quale
compaiono, oltre al tempo, uno o più parametriche debbono essere determinati nei modi di cui
diremo. Se questo è il risultato, le informazioni sperimentali, cioè la realtà empirica a cui il modello
è riferito in modo più o meno diretto, costituiscono invece sempre un insieme finito e discreto y1, y2,
y3,....yn di valori della grandezza y rilevati nei tempi t1, t2, t3,....tn . Il modello sostituisce pertanto la
successione dei valori sperimentali, rappresentabile in un piano (y,t) da una nuvola di punti, con
una curva continua e regolare, immagine della funzione y = f(t). Immaginiamo, ad esempio, di aver
misurato dieci valori compresi nell�intervallo di crescita di una popolazione naturale, e che tali
valori siano rappresentati dai dieci punti della figura 1.
0
20
40
60
80
100
Tempo (Scala arbitraria)
W (s
cala
arb
itrar
ia)
Figura 4.1 - Crescita esponenziale della numerosità della popolazione
La curva continua che passa attraverso la nuvola di punti è sicuramente un buon modello
matematico del processo di accrescimento. Essa costituisce la rappresentazione grafica di una
funzione esponenziale crescente del tipo:
W(t) =W0 ekt [1]
la quale contiene due parametri W0 e k, il cui significato, rispetto al fenomeno modellizzato, è di
semplice e fondamentale interpretazione. Il parametro W0 indica, infatti, il valore iniziale, al tempo t
= 0, della grandezza W(t) numerosità della popolazione al tempo t, mentre il parametro k è il
cosiddetto tasso relativo di accrescimento, cioè l�accrescimento nell�unità di tempo = dW/dt, riferito
al valore di W; vale a dire:
k = 1/W * dW/dt [2]
I modelli matematici di questo tipo sono noti come modelli dinamici empirici, o descrittivi, perchè
� si dice � la loro funzione conoscitiva non va oltre una descrizione in termini matematici del
fenomeno studiato. In particolare i modelli empirici non ambiscono a comprendere le ragioni dei
processi evolutivi che rappresentano, cioè non penetrano nel meccanismo o nei meccanismi che
stanno all�origine degli andamenti temporali delle variabili espresse in funzione del tempo e che,
per questo tipo di modelli, rimangono al livello di scatole nere (black box models è infatti un altro
termine che comunemente denota i modelli empirici; Figura 4.2).
Sistema reale
Modello
Figura 4. 2 � I modelli descrittivi imitano il sistema con l�uso diinput e output (da Bossel, modificata).
Questa caratterizzazione deve, però, essere considerata con mol
necessario evitare di dare alla qualificazione di �modello descrit
fondamento teorico o quello di un riferimento immediato alla re
in cui la successione discreta dei dati sperimentali è costituita da
= f(t), si afferma una concezione teorica molto forte, secondo la
dell�evoluzione temporale della grandezza in esame è del tipo co
rimanda a qualche meccanismo, più o meno profondo, di regola
Inoltre, il riferimento immediato del modello non è l�insieme de
l�insieme dei valori stimati y� = f(t) che, come accade in tutti i m
più volte, differiscono dai valori misurati, di una quantità più o m
solitamente indicata come �residuo o errore casuale�, non spieg
non trascurabile contenuto teorico generale, rimane tuttavia il fa
empirico non è sviluppare una teoria specifica sui meccanismi p
input
osservazioni
input
relazioni matematiche che legano
ta cautela. In particolare è
tivo� il significato di un�assenza di
altà empirica. Infatti, nel momento
l grafico di una funzione analitica Y
quale la componente essenziale
ntinuo e regolare, cioè del tipo che
zione e controllo del fenomeno.
i valori sperimentali y, bensì
odelli e come abbiamo ricordato
eno grande y - y� = Σ ,
ata dal modello. Malgrado questo
tto che costruire un modello
rofondi che stanno all�origine della
output
output
regressione e correlazione
particolare evoluzione temporale rappresentata dalla funzione � o dalle funzioni- che esso
suggerisce.
I modelli matematici che, invece, si pongono esplicitamente questo ulteriore compito di
esplicazione sono detti del tipo meccanico, o esplicativo o white box, nella misura che penetrano � o
tentano di penetrare � ed illuminano le scatole nere del sistema di regolazione e di controllo dei
processi evolutivi superficiali modellizzati al livello empirico (Figura 4.3).
Sistema reale
Modello
Figura 4.3 � I modelli esplicativi rappresentano la struttura essenziale del sistema (da Bossel, modificata). Ritorniamo all�esempio della dinamica di una popolazione naturale, la cui numerosità varia nel
tempo con un andamento la cui componente continua e regolare è rappresentata dalla funzione
esponenziale [1]. Il meccanismo più elementare di regolazione del numero di individui in una
popolazione isolata, in assenza di processi migratori, è costituito dalle nascite e dalle morti, i cui
tassi rispettivi b e d, possono essere combinati nel tasso di crescita k = b � d, positivo se il tasso di
natalità è maggiore del tasso di mortalità, negativo nel caso contrario. Possiamo allora scrivere:
dW/dt = kW [3]
input
output input
output
La relazione [3] appartiene alla famiglia delle equazioni differenziali e configura un particolare
modello meccanico di dinamica delle popolazioni naturali nella misura che traduce in termini
matematici, una concezione teorica del meccanismo regolatore della numerosità di una popolazione.
Nel linguaggio corrente tale asserzione suonerebbe così: la variazione del numero degli individui
nell�unità di tempo (dW/dt) si spiega con gli individui che, nell�unità di tempo, nascono a cui si
sottraggono quelli che muoiono. Sia il numero dei nuovi nati che quello dei morti sono
proporzionali al numero di individui presenti al tempo t (dW/dt = bW � dW = (b-d)W = kW).
La soluzione dell�equazione differenziale [3] o, come si dice in gergo matematico, la sua
integrazione, sfocia per l�appunto in una funzione esponenziale del tipo [1], attinta dalla
modellizzazione empirica delle informazioni sperimentali originarie.
A questo punto il cerchio può essere chiuso, nel senso che siamo autorizzati a dire che la nostra
popolazione evolve secondo una legge di crescita esponenziale, in forza di un meccanismo
regolatore della numerosità che, nella sua essenza, si riduce ai fenomeni biologici più elementari
della riproduzione e della morte.
Il percorso logico che abbiamo seguito in questo esempio, dalle informazioni sperimentali al
modello empirico-descrittivo al modello meccanico-esplicativo, pur essendo il più diffuso nella
pratica, non è tuttavia obbligatorio. Altrettanto, se non più proficuo, può rivelarsi in certe situazioni
il percorso inverso che muove da una teoria � che funge da ipotesi teorica � arriva alla sua
traduzione in termini matematici, prosegue con il modello descrittivo, cioè con lo sviluppo di una o
più funzioni continue e regolari compatibili con il modello meccanico, e infine verifica se esistono
insiemi di dati sperimentali che si adattano in buona misura a tali funzioni. Se, e quando, il
percorso è completato con successo, l�ipotesi teorica di partenza diventa una teoria verificata dove,
come al solito e con buona pace dell�etimologia, verificata non significa accertata come vera, bensì
riconosciuta come utile.
Esemplifichiamo questo secondo percorso logico rimanendo nell�ambito delle popolazioni naturali.
Ipotizziamo un meccanismo di regolazione della numerosità, tale che i fenomeni biologici
elementari delle nascita e della morte siano, a loro volta, controllati da quella che gli ecologi
chiamano capacità di sostentamento (carring capacity) dell�ambiente, nel senso che, quando il
numero degli individui = Wt è molto inferiore al numero massimo = Wf che l�ambiente può
agevolmente sostenere, la popolazione nel complesso tende a crescere rapidamente; mentre, a mano
a mano che la numerosità si avvicina al massimo tollerato dall�ambiente, il tasso di crescita rallenta
fino ad azzerarsi. La traduzione matematica di questa ipotesi teorica è nuovamente un�equazione
differenziale che assume la forma:
dW/dt = k (Wf - W) [4]
Integrando l�equazione [4] si ottiene una funzione continua e regolare del tipo:
W(t) = Wf (1 - e-kt) [5]
la cui rappresentazione grafica è la curva ad andamento asintotico riportata nella figura 4.4.
0
0,2
0,4
0,6
0,8
1
Tempo (Scala arbitraria)
W (s
cala
arb
itrar
ia)
Figura 4.4 - Crescita esponenziale asintotica
Poichè non è affatto difficile trovare popolazioni naturali, soprattutto fra quelle capaci di darsi una
qualche organizzazione sociale, che evolvono in modi simili a questo, concluderemo che il
meccanismo regolatore ipotizzato può essere annoverato fra i modelli matematici dotati di potere
esplicativo, nell�ambito della dinamica delle popolazioni.
Un po� per ragioni di completezza, ma soprattutto al fine di illustrare la flessibilità caratteristica
della modellizzazione matematica, vale a dire la possibilità di articolare ed arricchire un modello
originario che appaia troppo elementare ed astratto fino a renderlo il più possibile isomorfo alle
situazioni reali più diffuse, consideriamo sempre in riguardo alla dinamica delle popolazioni
animali, il seguente modello meccanico:
dW/dt = kW (Wf - W) [6]
La concezione teorica espressa dell�equazione differenziale, non più lineare, dovrebbe risultare
immediatamente chiara. Essa afferma che la variazione della numerosità è controllata da un
meccanismo che risulta dalla combinazione dei due processi elementari suggeriti dai due modelli
precedenti; vale a dire che il tasso di accrescimento è proporzionale, per un verso, al numero degli
individui presenti e, per l�altro, alla distanza di tale numero dalla carring capacity dell�ambiente.
L�integrale generale dell�equazione [6] è la ben nota funzione logistica:
W W WW W W e
f
fkt=
+ − −
0
0 0( ) [7]
la cui rappresentazione grafica è la curva sigmoide della figura 4.5.
0
0,2
0,4
0,6
0,8
1
Tempo (Scala arbitraria)
W (s
cala
arb
itrar
ia)
Figura 4.5 - Crescita di tipo logistico
L�importanza di questa funzione, non solo riguardo alla dinamica delle popolazioni naturali, ma in
generale nella modellizzazione empirica di tutti i processi di accrescimento, non ha bisogno di
ulteriori commenti.
Non sempre i modelli matematici che si utilizzano nella pratica, in riferimento ad un ambito
specifico della realtà ed in una situazione altrettanto specifica di sviluppo delle conoscenze, possono
essere classificati sotto l�una o l�altra categoria, dei modelli descrittivi e dei modelli esplicativi.
Succede spesso che un modello realizzi un compromesso fra queste due categorie, si presenti cioè
come una sorta di gray box model, per certi aspetti empirico, per altri meccanico. Ciò accade, in
particolare, per quegli ambiti della realtà per i quali è possibile tematizzare una successione in
profondità di livelli diversi di organizzazione, come è il caso, ad esempio, del sistema allevamento
dal cui livello si può far partire la serie (France & Thornley, 1984):
livello descrizione del livello
i + 1 allevamento i animale i � 1 organi
i � 2 tessuti i � 3 cellule In generale, i modellizzatori empirici formulano le equazioni ad un dato livello di organizzazione
sulla base dei dati ricavati a quello stesso livello. Pertanto, i dati ottenuti a livello di allevamento (i
+1) sono utilizzati per la descrizione del comportamento del sistema allevamento e non per quello
del sistema animale (livello i) ne tantomeno per quello del sistema organo ( livello i � 1). Viceversa,
le equazione ottenute ad un livello inferiore possono essere combinate fra di loro in un modello
semiempirico sviluppato a uno o più livelli superiori. Ad esempio, un modello di azienda può
essere costruito dall�assemblaggio di molte equazioni costruite al livello animale ed il livello
animale può a sua volta derivare dalla riunione di più modelli ottenuti al livello di organi.
Chiudiamo questo paragrafo cercando di dare una risposta all�interrogativo fondamentale che, a
questo punto, necessariamente si apre. Immaginiamo di aver sviluppato un modello con una
componente empirica ed una componente esplicativa, per un complesso di fenomeni che riteniamo
utile descrivere e comprendere in termini matematici. Come giudicheremo il risultato del nostro
lavoro? Quali sono i criteri a cui si deve fare riferimento per formulare un giudizio di merito
obiettivo su un modello matematico? La risposta a questo punto discende logicamente da tutto ciò
che abbiamo detto finora sul rapporto fra modelli e realtà, è molto semplice e deve essere formulata
in modo netto e deciso, anche se può lasciare in molti un senso di insoddisfazione: non esistono
criteri obiettivi per la valutazione delle bontà di un modello matematico, sia esso empirico o
meccanico; un modello è funzionale o proficuo se la comunità scientifica nel suo complesso lo
accoglie e lo utilizza; è inutile nel caso contrario. Ma un modello che è inutilizzato oggi, potrà
essere ripreso fra dieci anni; mentre una teoria che oggi va per la maggiore potrà, fra qualche anno,
essere completamente dimenticata.
Tuttavia, se ciò che si deve fare rimane necessariamente indefinito, è invece possibile e doveroso
dire ciò che non si deve fare per valutare la bontà di un modello. In estrema sintesi: non si deve fare
quanto sembra ovvio fare. Consideriamo il caso di due o più modelli a prevalente componente
empirica, sviluppati allo scopo di descrivere in termini matematici l�evoluzione temporale della
stessa grandezza, a partire da un insieme discreto di informazioni sperimentali. L�idea più ovvia è
quella di confrontare i modelli in competizione sulla base della loro diversa capacità di adattamento
ai dati sperimentali per poi scegliere, come migliore, la funzione che consente l�adattamento
maggiore, o lo scarto minore, rispetto alla realtà modellizzata. La teoria della regressione suggerisce
varie tecniche per valutare quantitativamente l�adattamento di una funzione continua ad una nuvola
di punti. Un criterio assi diffuso è il famigerato R2. Maggiore è l�R2 migliore è la capacità di
adattamento. Eppure scegliere fra più funzioni in competizione quella per cui l�R2 è più elevato può
essere un grave errore. Torniamo un attimo ai diversi patterns per i processi di accrescimento.
Immaginiamo una grandezza che evolve con andamento di tipo logistico, ma tale che i dati
sperimentali siano addensati nella parte prossima all�asintoto con solo qualche valore rilevato nella
fase iniziale e in vicinanza del punto di inflessione. Può bene accadere che la funzione esponenziale
asintotica [5] si adatti all�insieme di informazioni sperimentali meglio della curva logistica.
Analogo è il caso dei modelli a prevalente componente meccanica. Poichè lo scopo essenziale di
questi modelli è la comprensione dei meccanismi che regolano il fenomeno in esame, il
suggerimento più ovvio è quello di privilegiare i modelli che tengono conto del maggior numero di
dettagli, o meglio che si adattano alla complessità di qualsivoglia sistema regolatore naturale.
Anche questo criterio, se lo si adotta in maniera dogmatica, può portare a conseguenze disastrose.
Accade frequentemente, infatti, che più si complica un modello meccanico, più aleatoria diventa la
sua risposta, che risulta controllata dal dettaglio rappresentato in modo più impreciso.
Infine, si rischia di dimenticare il requisito più cogente della modellizzazione matematica e, più in
generale, della elaborazione teorica: le teorie hanno bisogno di tempo; un modello che appare
inizialmente ultra-schematico ed astratto, deve avere il tempo per dimostrare la sua flessibilità, la
sua capacità di articolarsi gradualmente, di correggersi, di complicarsi e di ristrutturarsi.
Nessuna delle teorie che attualmente accettiamo, nei diversi campi della ricerca scientifica, starebbe
ancora in piedi se, nella sua fase embrionale, la si fosse sottoposta al criterio dell'abbondanza dei
dettagli.
4.4 alcune applicazioni della modellizzazione ad un settore della biologia applicata: le scienze
zootecniche
La modellizzazione matematica dinamica, sia del tipo empirico che meccanico, si è sviluppata in
direzioni particolarmente interessanti nel campo della zootecnica, data l�intrinseca complessità del
sistema animale e la necessità che ne consegue di utilizzare strumenti di calcolo sofisticati e capaci
di fornire risposte adeguate in tempi brevi.
In questo capitolo sarà brevemente illustrato il problema degli strumenti da impiegare nella
modellizzazione computerizzata e saranno forniti alcuni esempi di modelli dinamici e statici.
4.4.1. Gli strumenti della modellizzazione
I modelli più interessanti, nelle applicazioni al settore zootecnico, sono sviluppati con l�ausilio di
elaboratori elettronici con l�impiego di softwares che, a seconda del tipo di modello elaborato,
possono essere continui o discontinui.
I softwares discontinui, per le loro caratteristiche intrinseche, non possono che accertare soluzioni
(punti) che individuano i risultati realizzabili date determinate scelte, ma non permettono di trovare
il risultato ottimo in assoluto né tutti i risultati possibili contemporaneamente e non consentono
quindi la simulazione completa e continua del processo.
Il prodotto della simulazione è rappresentato, in questo caso, da un insieme di soluzioni
nell�ambito delle quali può essere scelta quella più idonea per il raggiungimento degli obiettivi
preposti.
I modelli di questo tipo sono prevalentemente realizzati con l�utilizzo di una classe di programmi,
i cosiddetti fogli elettronici o spreadsheets, di larga diffusione e di facile utilizzazione anche da
parte di utenti non esperti nell�uso dell�informatica.
La realizzazione del modello presuppone la conoscenza approfondita della realtà operativa da
simulare, ma l�uso dei fogli elettronici non richiede particolari competenze in informatica.
La costruzione del modello avviene con l�inserimento all�interno del foglio, della serie desiderata
di relazioni tra celle o blocchi di celle: il compito dell�utilizzatore si riduce all�inserimento dei dati
nelle caselle predisposte, ed il software rende i risultati immediatamente disponibili.
Nel caso dei softwares continui, le informazioni riguardanti la struttura generale di un sistema
dinamico possono essere trasformate in un modello matematico caratterizzato da un certo numero di
equazioni. Le relazioni fra le variabili di stato, però, possono anche essere vantaggiosamente
rappresentate in un modo diverso, strettamente legato alla potenza di calcolo e alle capacità grafiche
dell�elaborazione elettronica, che realizza una originale e proficua combinazione dei modelli
matematici e della modellizzazione analogica. La grande utilità di questo metodo di lavoro si deve
al fatto che esso non richiede la scrittura di formule anche se durante lo sviluppo di modelli
complessi, sono spesso necessarie numerose e ripetute modifiche dell�architettura del modello.
Un programma molto diffuso che lavora in questo modo è il software STELLA® della High
Performance System (Hanover - USA) in cui la notazione utilizzata è quella del metodo detto dei
sistemi dinamici di Forrester (1961, 1968) basati su un linguaggio di simulazione denominato
DYNAMO (BOSSEL, 1994). La componente analogica consiste nella rappresentazione del sistema
simulato in termini idraulici in cui i flussi esprimono i ritmi di cambiamento del livello dei serbatoi
rappresentanti le variabili di stato (figura 4.6).
variabili di stato
variabili intermedie
stato
tasso
parametro
a
ab
b Figura 4.6. Principali notazioni grafiche usate dal programma STELLA.
Questi flussi, in entrata o in uscita, sono regolati da valvole la cui taratura è a sua volta regolata da
manometri (graficamente indicati con circonferenze ad esse legati da frecce). I flussi sono
rappresentati da frecce con linea doppia (tale linea doppia rappresenta il tubo all�interno del quale
scorre il liquido, cioè il flusso di variazione della variabile di stato, in una direzione indicata dalla
freccia: in entrata al serbatoio per indicare aumento del valore della variabile di stato, in uscita per
la diminuzione), le influenze da frecce con linea singola o connettori. I diagrammi di STELLA
mostrano contemporaneamente i due diversi processi relativi alle variazioni (positive o negative)
dei valori delle variabili di stato sotto forma di flussi ed ai fattori responsabili di queste variazioni.
La costruzione di un modello con STELLA inizia con la rappresentazione del diagramma di struttura
del sistema. Per ogni serbatoio (indicato da un rettangolo) e per il ritmo di variazione ad esso
associato, il programma crea una equazione generica che deve essere completata dai valori relativi
alla condizione iniziale della variabile di stato (un numero) e dell�entità della variazione del flusso
(un numero o una relazione fra più variabili). Da ultimo è necessario stabilire la durata del tempo di
simulazione. Il risultato della simulazione può essere visualizzato sia sotto forma di tabella che di
grafico. I risultati di diverse simulazioni possono essere combinati in un unico grafico comparativo
che rende così più immediatamente visibile l�influenza della variazione del valore di un parametro
sul comportamento del modello.
Nella figura 4.7 è riportata la notazione utilizzata da STELLA per rappresentare un diagramma di
flusso relativo ad un fenomeno di tipo esponenziale semplice.
La doppia freccia di cui è dotato in questo caso il tubo indica che il flusso di variazione della
variabile di stato può essere in aumento o in diminuzione; il connettore che collega il serbatoio al
manometro rende conto del fatto che l�accrescimento è, istante per istante, proporzionale al valore
del suo contenuto; il valore iniziale del flusso è determinato dal circolo collegato al manometro dal
connettore.
W
k
dWdt
Figura 4. 7 - Esempio della rappresentazione di STELLA riportante un fenomeno esponenziale semplice.
4.4.2 LA MODELLIZZAZIONE DELLA PRODUZIONE DEL LATTE
La produzione del latte
Il fenomeno della produzione del latte è, probabilmente, una delle più interessanti manifestazioni
naturali sia sotto l�aspetto speculativo perché è espressione di un meccanismo biologico altamente
complesso, sia sotto quello pratico-applicativo poichè anche noi, in quanto mammiferi, ne siamo
intimamente partecipi. Il latte dei ruminanti domestici (ma in certe zone anche degli equidi e dei
camelidi) rappresenta inoltre uno degli alimenti principali per vasti strati della popolazione
mondiale.
La produzione quantitativa di latte considerata interspecificamente per gli ungulati (ordine al quale
appartengono i ruminanti), se espressa in energia (E0 in kcal/d), è legata allometricamente al peso
corporeo della madre (W in kg) secondo la relazione (Mepham, 1987):
E0 = 176 W0,731
il cui valore dell�esponente non è significativamente differente da quello della cosiddetta legge di
Kleiber (metabolismo basale = k * (peso corporeo)3/4 ) in quanto l�output energetico sotto forma di
latte è, ovviamente, fortemente correlato al metabolismo materno. Se si prende per riferimento il
valore di k = 70,5 calcolato da Benedict (cit. da Calder, 1996), si può notare che l�output
energetico di un animale che allatta è di 2,5 volte il suo fabbisogno metabolico basale.
Il latte è secreto dalla mammella, un organo di elevata complessità intimamente raccordato con la
restante parte dell�organismo animale. La massa della mammella (Mm) è allometricamente legata a
quella corporea dell�animale (W) secondo la relazione (Handwell e Pearker, 1977):
Mm = 0,045 W0,819
il cui maggior valore dell�esponente rispetto a quello dell�equazione [1] è spiegabile con la
necessità che mammelle più grandi abbiano una maggiore quantità di tessuto di sostegno rispetto al
tessuto secretorio (Calder, 1996).
La lattazione è un processo fisiologico caratterizzato da sintesi e secrezione, oltrechè dalla
filtrazione attiva e passiva dal sangue, di composti organici e inorganici e di acqua da parte di
cellule epiteliali specializzate della ghiandola mammaria. Queste cellule, di forma cuboide con
orientamento polarizzato, sono disposte in strutture sferiche (alveoli) con lume centrale all�interno
del quale è secreto il latte. La struttura secretoria subisce una sostanziale modificazione nel corso
della lattazione: ad una fase di rapida attivazione cellulare, che inizia durante la gestazione e
prosegue con ritmo decrescente per la prima fase della lattazione, segue una di più o meno lenta
regressione (rimodellamento cellulare) che si conclude con la cessazione della lattazione (Hurley,
1989). Quest�ultimo evento riveste un�importanza biologica fondamentale in quanto consente lo
svezzamento del neonato e la possibilità di riorientare le risorse alimentari a disposizione della
madre verso una nuova gestazione.
La quantità di latte prodotto (LP) da una ghiandola mammaria, in una determinata fase della
lattazione, dipende dal numero di cellule secretrici attive (nC) e dall�efficienza di sintesi di ciascuna
cellula (h) per cui:
LP = h nC
I meccanismi di evoluzione e rimodellamento cellulare incidono direttamente su nC e pertanto
danno origine, a parità di animale in cui l�efficienza secretiva h è prioritariamente determinata
geneticamente, ad una evoluzione produttiva nel corso della lattazione nota come curva di
lattazione. Tali meccanismi sono governati: a) per via locale, ossia nel caso in cui la mammella
non sia svuotata dalla poppata oppure dalla mungitura (questi meccanismi hanno l�importanza
evolutiva di salvaguardare la potenzialità riproduttiva materna nel caso in cui questa perda uno o
più figli), dal Fattore Autocrino di Secrezione FIL (Peaker e Wilde, 1996), dai fattori
proinfiammatori (Colditz, cit. da Davis et al., 1999), dalla distensione alveolare e dal flusso
sanguigno nella mammella; b) per via generale, cioè in lattazioni che decorrono normalmente, dal
sistema enzimatico plasmina/plasminogeno (Pulina et al., 1996) e dall�apoptosi cellulare (Hurley,
1999).
La descrizione dell�evoluzione temporale della produzione di latte nei ruminanti domestici
rappresenta una delle più importanti applicazioni della modellistica matematica al settore delle
scienze zootecniche. La causa sta nel fatto che la lattazione è il principale fenomeno che si verifica
nelle aziende specializzate per la produzione del latte e che la previsione del suo andamento è di
grande rilevanza sia sotto l�aspetto della conduzione (al livello di produzione sono legati gran parte
degli input aziendali) che sotto quello del miglioramento genetico (una accurata descrizione della
lattazione è indispensabile per la stima del fenotipo in quanto sono normalmente disponibili soltanto
alcuni dati produttivi per ciascun capo in lattazione) (Olori et al., 1999). La lattazione rappresenta
infine un buon esempio di approccio sia empirico che meccanico al problema della modellizzazione
dinamica.
I modelli empirici della curva di lattazione
Nel 1927 Gaines propose per i bovini la seguente equazione che rappresenta uno dei primi
tentativi di stima della produzione lattea in funzione del tempo:
yi = K e-hi [8]
dove yi rappresenta la produzione media giornaliera di latte dello i-esimo rilievo; K è la produzione
iniziale (per i = 0) ed h è il ritmo di diminuzione della produzione giornaliera nell�unità di tempo.
Questo modello però presenta un difetto di fondo in quanto la rappresentazione della curva di
lattazione è effettuata tramite una funzione esponenziale decrescente che non può essere adatta alla
descrizione della curva di lattazione tipica della bovina il cui andamento è rapidamente crescente
nelle prime settimane, raggiunge un picco e quindi decresce gradualmente fino all�asciutta (figura
4.8).
010203040
Tempo (Scala arbitraria)
Prod
uzio
ne d
i lat
te Ym
tm
tf
Figura 4.8 - Curva di lattazione tipica di bovine da latte (Ym produzione al picco di lattazione che
si verifica al tempo tm; tf durata della lattazione)
La fase iniziale crescente, seppur breve, riveste una grande importanza e quindi non può essere
trascurata poiché è capace di influenzare l�andamento successivo della lattazione.
Un ulteriore tentativo di rappresentazione in termini matematici della curva di lattazione completa
delle bovine ha portato, nei primi anni �60 (Vusicic e Bacic, citato da Cappio-Borlino et al., 1989),
alla seguente forma modificata del modello di Gaines:
yi = Kie-hi [9]
in cui yi è la produzione di latte nell�intervallo temporale i-esimo, e K ed h sono dei parametri il
cui valore dipende dai dati sperimentali e ai quali però non si adatta in modo del tutto soddisfacente.
Nedler nel 1966 propose la seguente equazione polinomiale inversa che ha mostrato un migliore
adattamento ai rilievi produttivi rispetto alla [14]:
y(t) = t(b0 + b1t + b2 t2)-1 [10]
in cui y(t) è la produzione lattea giornaliera media relativa al rilievo al tempo (t), e b0, b1 e b2 sono
dei parametri che consentono di ricostruire l�intera curva di lattazione.
L�anno successivo, Wood (1967) propose di descrivere la lattazione con una funzione gamma
modificata che rappresenta il modello di tipo empirico attualmente più noto e diffuso:
y(t) = a tbexp(-ct) [11]
in cui y(t) è la produzione giornaliera media al tempo (t) ed a, b e c sono parametri con valore
positivo che caratterizzano la forma della curva di lattazione.
Il procedimento di adattamento del modello di Wood ai dati sperimentali, allo scopo di stimare i
valori ottimali dei parametri è, di solito, condotto sulla base di uno dei due metodi seguenti:
- con il primo metodo si procede ad una trasformazione logaritmica della funzione [16] in seguito
alla quale si ottiene :
log y (t) = log a + b log t - ct [12]
la quale consente di stimare i parametri con un metodo di regressione lineare multipla di log y su
log t e su t (ponendo log y = Y; log a = A; log t = X1; t = X2, si ottiene l�equazione Y = A + bX1 +
cX2 il cui adattamento ai dati sperimentali è ottenuto con il metodo dei minimi quadrati);
- con il secondo metodo si mantiene il modello nella sua forma originaria che, essendo non
lineare nei parametri, presuppone il ricorso ad una tecnica di regressione non lineare (molti dei
software di statistica in commercio contengono ottime routine di regressione non lineare).
Qualunque sia il metodo utilizzato, il modello di Wood conserva il pregio di consentire una facile
relazione dei suoi parametri con i tratti caratteristici delle curve di lattazione; l�analisi della
funzione da infatti i seguenti risultati:
1) la derivata rispetto al tempo dell� equazione di Wood assume la seguente forma:
dy / dt = (b - ct) Y / t [13]
che permette una prima stima approssimata dei parametri con le seguenti relazioni:
c = r (tf + tm) / (tf - tm) [14]
b = c tm [15]
a = ym (c / b)b e-b [16]
in cui: r è la velocità specifica media di riduzione della produzione di latte nell�intervallo fra il
tempo del picco tm ed il tempo di asciugamento tf; ym è la produzione massima di latte; b è una
misura del ritmo di incremento produttivo fino al picco di lattazione; c è una misura del ritmo di
decremento produttivo dopo il picco; ln a è il logaritmo naturale della produzione iniziale che
fornisce una sorta di coefficiente di scala dell�intera produzione;
2) i valori dei parametri a, b e c possono essere combinati fra loro per arrivare ad una stima:
i) della persistenza s, data dalla relazione
s = - (b + 1)ln c; [17]
ii) della distanza tm del picco dal parto, che deriva dalla relazione
tm = b/c; [18]
iii) dell�entità del picco stesso ym, che deriva dalla relazione
ym = a (b/c)b e-b . [19]
Il modello di Wood si è rivelato idoneo per la descrizione della curva di lattazione dei bovini in
quasi tutti gli ambienti produttivi della specie ed è risultato in grado di rappresentare, con una buona
approssimazione, anche quella dei caprini e degli ovini soprattutto delle razze da carne e da lana
(Tabella 4.1)
Tabella 4.1 - Parametri delle curve di lattazione di diverse specie adattate all�equazione di Wood (1967).
Specie a b c Autore
Bovini 3,74 0,20 0,04 Wood (1969)
Ovini da carne 1,06 0,32 0,02 Torres-H & Hohenboken (1980)
Ovini da latte 1,05 0,19 0,04 Cappio-Borlino et al. (1989)
Caprini 0,84 0,23 0,01 Mukundan & Bhat (1983)
Esso è stato correntemente utilizzato anche per rappresentare l�andamento temporale della
concentrazione dei principali costituenti del latte (grasso, proteine, caseina, ecc..); in questo caso,
essendo quest�ultimo normalmente speculare a quello della produzione del latte, il parametro c
assume segno positivo.
Nel caso degli ovini da latte, l�andamento caratteristico della curva di lattazione presenta alcune
peculiarità che il modello di Wood non tiene in considerazione per cui il problema specifico risulta
di gran lunga più interessante di quanto non lo sia la constatazione della molteplicità dei fattori di
perturbazione che ne nascondono parzialmente l�andamento regolare. Quando l�equazione [16]
viene adattata alle curve di lattazione individuali di un campione di pecore da latte, succede
abitualmente che, in un numero non trascurabile di casi (30-50%), alcuni parametri si portino al di
fuori del range dei valori consentiti, cioè di quei valori per i quali la funzione conserva un chiaro
significato biologico. Il caso più tipico è quello del parametro b, che la relazione [20] collega al
valore del tempo tm, in cui si verifica il picco di lattazione, e che, nei casi suddetti, assume segno
negativo. Evidentemente, un valore negativo del tempo non ha alcun significato. Si potrebbe dire
che le curve con b negativo sono in effetti prive del picco di lattazione; ma questa affermazione non
è corretta perché, se è vero che in alcuni casi il segno negativo della stima di b si accompagna ad un
andamento della produzione lattea che si contrae alla sola fase decrescente, in altri casi una fase di
produzione crescente continua ad essere presente, anche se contenuta in un intervallo di tempo
molto ristretto e quindi con andamento quasi impulsivo. Alcuni softwares di regressione, lineare e
non lineare, offrono un'opzione che permette di predefinire i limiti della variabilità consentita agli
stimatori. Utilizzare questa opzione per imporre condizioni restrittive (del tipo b>0) è una scelta
matematicamente corretta, ma completamente fuorviante sotto l'aspetto interpretativo: l�analisi del
fenomeno richiede invece che sia tratta la conclusione più radicale, con il riconoscimento esplicito
che l�equazione di Wood - come qualunque altro modello empirico della curva di lattazione
standard della vacca da latte - non è applicabile alle curve di lattazione delle pecore in un 30-50%
dei casi. A questo punto una soluzione possibile è quella di cercare una funzione specifica per le
curve che non presentano apparentemente picco di lattazione. Cappio e colleghi (1995) hanno
percorso questa strada ed hanno suggerito una modifica esponenziale dell�equazione di Wood del
tipo y(t) = atbexp(-ct) che possiede la proprietà di arrampicarsi al picco di lattazione, anche quando
questo è raggiunto in maniera quasi impulsiva; altri ricercatori hanno successivamente confermato
la buona adattabilità di tale modello alle curve che non presentano picco di lattazione. Tuttavia,
fermarsi a questa soluzione equivale ad ammettere, non solo che la produzione lattea delle pecore
può evolvere nel tempo secondo due forme diverse, ma anche - affermazione assai più impegnativa
sotto l�aspetto sia matematico che biologico - che le due forme della curva di lattazione debbono
essere pensate come reciprocamente irriducibili.
I modelli meccanici della curva di lattazione
Una descrizione più adeguata del fenomeno della lattazione, può essere raggiunta con il ricorso ai
modelli meccanici, i quali però spesso manifestano in pratica una certa complessità legata sia
all�eccessivo numero di variabili, che alla loro difficile determinazione.
Un approccio ridotto, adattato da Cappio-Borlino e colleghi (1997) agli ovini da latte, é quello
bicompartimentale. Questo modello, la cui capacità di descrivere in modo empirico la curva di
lattazione era già nota da tempo (Brody, 1945), non stima il numero reale di cellule secretirci, ma
la produzione da esse ottenuta nell�ipotesi semplificatoria che il tasso di secrezione lattea sia
costante per tutte le cellule e per tutte le fasi della lattazione (ad esempio, la produzione di 1,5 litri
di latte al giorno equivale a 1500 cellule nell�ipotesi che ciascuna di esse secerna 1 g di latte al dì).
La mammella è considerata come un sistema a due compartimenti, il primo con q1 cellule
indifferenziate, il secondo con q2 cellule differenziate dalle quali dipende la produzione di latte.
Il modello bicompartimentale può essere agevolmente rappresentato con un diagramma di flusso
costruito in ambiente STELLA , in cui le variabili di stato sono rappresentate da due serbatoi, i ritmi
di variazione da cerchi contenenti le relazioni matematiche che li legano alle variabili di stato ed i
trasferimenti da manometri che misurano il flusso. I serbatoi della figura seguente rappresentano
rispettivamente le cellule differenziate (q2) e quelle indifferenziate (q1), mentre i cerchi
rappresentano il ritmo di differenziazione (k1) e quello di inattivazione (k2).
?
cellule indifferenziate
?
cellule differenziate
?
flusso di differenziazione
?
flusso di inattivazione
?
tasso di differenziazione?
tasso di inatttivazione
Figura 4.9 - Il diagramma di flusso del modello bicompartimentale della mammella (i punti interrogativi evidenziano che non è stato inserito il valore dei parametri).
Le equazione differenziali che descrivono il flusso compartimentale sono:
dq dt k qdq dt k q k q
1 1 1
2 1 1 2 2
//
= −= −
[32]
Questo sistema di equazioni è equivalente alla seguente equazione differenziale di secondo ordine:
d2q2 / dt2 + (k1 + k2) dq2 / dt + k1k2q2 = 0 [33]
il cui integrale generale assume la forma che segue:
q t B e B ek t k t2 1 2
1 2( ) = +− − [34]
dove B1 + B2 = Q2; B1 (k1 - k2) / k1 = Q1. Le grandezze Q1 e Q2 sono i valori iniziali dei parametri
q1 e q2 rispettivamente, cioè rappresentano l�entità delle cellule indifferenziate e di quelle
differenziate all�inizio della lattazione.
I valori assunti dai parametri del modello nei bovini e negli ovini sono riportati in tabella 4.3.
Tabella 4.3 � Valori dei parametri del modello bicompartimentale della curva di lattazione (Ferguson & Boston, 1993; Cappio-Borlino et al., 1997).
Specie Q1 Q2 k1 k2
Bovini 6420 8493 0,162 0,034
Ovini 6912 1500 0,067 0,163
BIBLIOGRAFIA CITATA NEL CAP. 4
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