Post on 22-Jan-2018
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Aceri alla giapponese
Testo e foto di Giulio Veronese
La storia di aceri che seguirà ha inizio nel Galles, terra presso-
ché ignara di questo nobile ceppo. (Eccezion fatta per Acer
campestre, l’unico nativo britannico, che da quelle parti com-
pone – insieme ad altri rustici compari come il nocciolo, l’evonimo, il
prugnolo selvatico, la rosa canina e, per la maggior parte, il bianco-
spino – quella trama ondeggiante di siepature che narra i campi di
Britannia come i bordi di Gertrude Jeckyll fanno per quei giardini.)
Ma sto già divagando. Nell’agosto del 2013 lavoravo ai giardini bo-
tanici del Galles, quando una mattina venne presentata una giovane
coppia giapponese che si sarebbe unita al nostro team per una bre-
ve esperienza lavorativa. Quando fu il mio turno di presentarmi e strin-
gere la mano (o fare l’inchino?) scoprii con stupore che il ragazzo par-
lava italiano. Si potrà immaginare il mio diletto all’idea di poter
esercitare la lingua madre in Galles, con un giapponese.
Nelle due settimane che seguirono, mi capitava di vedere quei due
esotici giardinieri arrampicarsi come ninja sugli alberi, equipaggiati
dei loro silenziosi stivaletti in gomma e lame affilatissime di acciaio.
Gli aceri a novembre nel tempio diKomyozen-ji, presso Dazaifu.
A fianco. Giardino interno.
Sopra. Giardino frontale, mirabileesempio di karesansui o giardinosecco.
Pagine successive.
La metamorfosi dei colori nelle fogliedi Acer palmatum. Il nome botanicosi deve a Carl Peter Thunberg,discepolo di Linneo e tra i primi adescrivere la flora nipponica.
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plari distinti, che nei corso dei secoli unirono i loro legni. Purtroppo re-
centemente gli alberi sono morti, ma i loro tronchi sono stati tenuti e
oggi sono considerati simbolo dell’amore coniugale, nonché terza ra-
gione di pellegrinaggio al tempio.
Quindi Takayuki mi ha portato presso la sede della sua compagnia di
giardinaggio, Dragon Gate (http://ryumonen.co.jp). Sono stato intro-
dotto al proprietario Ken Saitou e suo figlio Yasushi, che hanno da
subito mostrato una certa curiosità per la mia storia. Da parte mia,
ho domandato di poter vedere i loro lavori, tutti eseguiti in stile e se-
condo tecniche tradizionali. Presentendo comuni interessi e una na-
turale simpatia, abbiamo deciso di spostarci in giardino e metterci al
lavoro insieme. Con mio incontenuto tripudio, mi è stata data una cin-
tura con un set di lame e i mitici stivaletti ninja. Ero finalmente pronto
per potare gli aceri alla giapponese.
Ci siamo scaldati le mani potando qualche ortensia, con l’intenzione
di dar spazio agli aceri e renderli più leggibili. Le chiome sono state
poi liberate dall’intralcio e dal conflitto di alcuni rami di Pseudocydo-
nia sinensis e Eurya japonica. Diradati gli attori comprimari, i nobili
aceri beneficiavano ora del legittimo palcoscenico e potevano rice-
vere la potatura.
Ken era sul punto di darmi una lezione di giardinaggio e di stile che
non avrei dimenticato. Anche se il suo giapponese era filtrato dalla
traduzione di Takayuki, il tono stesso delle parole di Ken, pacato e
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La cauta scioltezza con la quale si muovevano sui rami pareva trat-
tenersi nel corpo delle piante sapientemente potate, ora fluttuanti
con grazia eterea nella luce. La mattina del loro ultimo giorno in Gal-
les, Takayuki ed Eiko furono salutati da tutto lo staff dei giardini bo-
tanici. Io abbracciai calorosamente il mio “gemello giapponese” e
scambiai le e-mail, ma senza troppa speranza di poterlo davvero
un giorno rivedere.
Tre anni più tardi stavo riempiendo due valigie per il Giappone, dove
mi attendeva un nuovo lavoro in un giardino a Fukuoka. Mi tornò in
mente il buon vecchio Takayuki. Scrissi subito una e-mail in inglese
con qualche parola giapponese buttata qua e là. La risposta - inutile
dire - arrivò in italiano. Takayuki era ancora nel settore e lavorava per
una compagnia di giardinaggio a Sendai, nel nord-est del paese. Ci
ripromettemmo di rivederci al più presto, e questa volta l’impressio-
ne era che la cosa sarebbe potuta accadere per davvero.
Dopo i primi mesi di soggiorno e acclimatamento giapponese, lo
scorso settembre sono finalmente volato a Sendai. Takayuki mi
aspettava all’uscita dell’aeroporto. Per prima cosa siamo andati in vi-
sita al tempio Gokurakuzan Saiho-ji, che in Giappone è meta di pel-
legrinaggio per un rotolo dell’Amidha Buddha e il tofu fritto. Io non ho
mancato di pagare il mio tributo ad entrambi, ma la mia personale ve-
nerazione si è rivolta alle vestigia di un albero defunto di Zelkova ser-
rata. Questo è un largo colosso formato dai monconi di due esem-
Sopra e a destra.
Aceri allo stato selvatico sullemontagne di Honyabakei, prefetturadi Oita. Altri interpreti dell’autunnogiapponese sono Ginkgo biloba,Larix kaempferi e Sorbus commixta.
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imperturbabile, bastava a trasmettere il senso di un intendimento
profondo. Restituire ora in lettere quella lezione non sarà facile. Mi
scalderò con un breve excursus botanico sugli aceri giapponesi e il
loro uso in Giappone, così da chiarire alcuni degli aspetti pratici con
un poco di teoria.
Sebbene in Giappone la compagine di aceri nativi sia folta (22 specie
in Flora of Japan di Jisaburo Ohwi, 24 secondo Book of Maples di Ma-
sayoshi Yano), nella testa del giardiniere giapponese c’è spazio solo
per due nomi, momiji e kaede. Momiji, all’anagrafe botanica Acer pal-
matum, è il gruppo degli aceri giapponesi per antonomasia; il nome è
traducibile con “mani di fanciullo”, con riferimento alla fragile grazia
delle foglie lobate. (Vi è anche una seconda radice, etimologicamen-
te forse più affascinante, il verbo arcaico momizu “l’arrossarsi delle fo-
glie”.) Kaede dal canto suo significa “mano di rana” e, in associazione
con altri epiteti più o meno elegiaci, compone il nome comune di gros-
somodo tutti gli altri aceri palmati nativi. Non sfiderò ora la vertigine
della lista di quei nomi aggluttinanti, ma la tentazione di una enumera-
tio botanica dei palmati giapponesi è troppo forte - eccola: Acer buer-
gerianum, A. capillipes, A. cissifolium, A. crataegifolium, A. diaboli-
cum, A. japonicum, A. micranthum, A. miyabei, A. morifolium, A.
nipponicum, A. pictum (il fu A. mono), A. pseudosieboldianum, A. pyc-
nanthum, A. rufinerve, A. shirasawanum, A. sieboldianum e le rispet-
tive variabili sottospecie e forme.
Gli aristocratici aceri sono statiintrodotti da tempo immemore neigiardini giapponesi.
A fianco sopra. Komyozen-ji,presso Dazaifu. A fianco sotto.
Giardini botanici di Manyo, Nara.Sopra a sinistra. Tempio diKasagutaisha, Nara Sopra a
destra. Dazaifu Tenmangu.
Pagine successive.
Al lavoro con il team Dragon Gate, aSendai.
A sinistra sopra. Ken Saitou e suofiglio Yasushi alle prese con i rami diun acero. A sinistra sotto. Takayukischerza con una piccola rana. A destra sopra. Monemaflavescens, una specie di bruco-sella asiatico, sembra apprezzare lefoglie d’acero. A destra sotto.
Tutto il gruppo insieme al lavoro,sotto la direzione di Ken Saitou.
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dell’inafferabilità del mondo naturale, egli preferirà gli imprevedibili
cangiamenti della specie vera al carattere più codificato dei cultivar di
ottenimento artificiale. Sofisticherie da laboratorio siano relegate fra
le mura dei giardini botanici o nelle aiuole delle rare collezioni private.
Cosicché, passeggiando per i templi e i giardini, uno si chiede dove
mai siano coltivate le centinaia di cultivar di A. palmatum che il Giap-
pone ha regalato al mondo. Personalmente continua a stupirmi la
scarsità delle foglie incise del gruppo ‘Dissectum’, così esemplarmen-
te “giapponesi” in Europa e America. (Questa tendenza naturalista è
riscontrabile in molte delle piante emblematiche dell’orticultura giap-
ponese. Selezioni dalle forme o colori troppo coraggiosi non sono re-
putati idonei allo stile misurato dei giardini tradizionali e vengono spe-
diti all’estero. Tali abdicazioni non devono stupire; del resto, da un
popolo che per primo ha commercializzato i compact disc, ma anco-
ra usa le cassette a nastro ci si può aspettare questo e altro.)
Tutta questa teoria io la avevo ripassata sull’aereo per Sendai. Ora
che avevo di fronte un acero da potare, ero bramoso di avventarmi
sui rami e mostrare le mie capacità. Con un cenno gentile ma peren-
torio Ken mi ha fermato. Mi ha chiesto di arretrare di qualche metro
e di osservare la pianta. Ken stesso non si è mosso: resta in statico
confronto con l’acero, cerca di consultarne il silenzio; inizia cauta-
mente a camminare attorno alla pianta, interrogandone le angolatu-
re, i movimenti, i desideri inespressi; tenta di immaginare le future me-
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Mostrati ad occhi occidentali, entrambi momiji e kaede paiono a buon
diritto “aceri giapponesi”, particolarmente per via della foglia palma-
ta che - più delle sfumature autunnali - demarca il tratto diagnostico
dei tipi asiatici. (Si tenga presente che le 11 specie della serie Palma-
ta sono tutte asiatiche tranne l’americano circinatum, il quale non a
caso è spesso adottato come “giapponese” da orticulturisti e vivai-
sti.) Nel cuore dei giapponesi tuttavia, momiji è la pianta esemplare,
vera regina del gruppo. Le ammiratissime foglie autunnali sono an-
cora chiamate dai vecchi i “fiori” dell’acero, con un moto poetico di
immaginazione che va al di là della mera precisione scientifica. Que-
sta pluricentenaria affezione ha determinato che la maggioranza dei
cultivar giapponesi è stata e continua a essere ottenuta da A. palma-
tum, con sporadiche concessioni a A. japonicum e A. shirasawanum.
Questo favoritismo si spiega anche in ragione della notevole variabi-
lità genetica di A. palmatum, di gran lunga la specie più mutevole del
genere. Tal caratteristica ha permesso non solo l’immemore prolife-
razione di ibridi, incroci, variazioni e mutazioni variegatissime, ma an-
che la conseguente babele tassonomica, causa di irrisolta costerna-
zione tra gli amanti del genere e ICRA, l’autorità internazionale per la
registrazione dei cultivar.
Costernazione che sembra non tangere il giardiniere giapponese, il
quale è ben contento di vedere i momiji crescere nel decorso promi-
scuo delle loro linfe. Secondo il gusto intrinsecamente giapponese
In queste pagine.
La grazia e bilanciamento delleramificazioni (edaburi in giapponese)è fra le caratteristiche di certi aceriasiatici.
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una forma troppo perfettamente densa e geometrica. Gli aceri che si
vedono dalle nostre parti spesso sembrano ombrelloni da spiaggia.
(Questo soprattutto per via dell’uso e naturale postura di ‘Dissec-
tum’, a dire il vero.) In Giappone alcune specie decidue sono mante-
nute in modo formale e quasi siepato (un esempio è Zelkova serrata,
albero emblema della città di Sendai), ma per gli aceri è richiesto un
grado ulteriore di artificio.
Tradizionalmente in Giappone gli aceri si potano tra la fine dell’autun-
no e l’inizio dell’inverno, quando la struttura è ben manifesta e il pro-
cesso linfatico è fermo. Nel mio caso eravamo un poco in anticipo,
ma è stata fatta una concessione, a titolo dimostrativo.
Secondo Ken gli aceri si possono iniziare a potare dal giorno in cui
l’ultima foglia si è staccata dal ramo. Questa è una regola empirica
per alberi e arbusti decidui, la teoria è che in questo periodo la mag-
gior parte degli amidi è tornata nel legno, ma le linfe non hanno ini-
ziato la risalita per la produzione delle foglie in primavera. Potature
precoci o tardive sono comunque lecite, magari evitando le settima-
ne fra gennaio e maggio, quando i geli possono minacciare le pian-
te o le linfe sono in movimento per la creazione delle foglie nuove.
L’altra regola aurea è evitare tagli di diametro troppo grosso (secon-
do i manuali non oltre la metà del ramo madre), cosa che per la sua
natura riguardosa e conservatrice il giardiniere giapponese raramen-
te azzarderà fare. Egli applicherà piuttosto aggiustamenti radi e oc-
Sopra. Rosso scarlatto nel fogliamedi un acero selvatico pressoHonyabakeimachi Atoda, prefetturadi Oita.
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tamorfosi del colore, come il luccicare delle gemme rosse sugli arti
ancora nudi, preludio del divampare dei giorni maturi, o i verdi turgi-
di e inconsci nella primavera, o il cedimento graduale nella terra
d’ombra durante l’inverno.
Ken era interessato non solamente alla pianta individuale, ma anche
al profilarsi di quella nel contesto più vasto del giardino. Il fine ultimo
era inserirla in una posizione di equilibrio asimmetrico e intuitivamen-
te calcolato, come una pedina di scacchi nel mezzo di una partita si-
lenziosamente manovrata. Tutti gli elementi di questa scacchiera na-
turale – forma, dimensione, struttura, colore – sono chiamati a
bilanciare quest’ordine che deve essere asimmetrico e naturale, co-
me episodica ed intuitiva è la sua comprensione.
Ken mi raccontava che gli aceri sono stati tradizionalmente accolti nei
giardini giapponesi non solo per l’effetto autunnale, ma anche per la
nobile struttura. (Non vi è dubbio che le specie giapponesi si carat-
terizzino per una ramificazione naturale articolata ed elegantissima,
che li distingue rispetto ai cugini americani, alberi da legna imponen-
ti ma talvolta allampanati come A. macrophyllum, A. rubrum e A. sac-
charum.) La potatura è l’artificio umano con la quale si rivelano ed en-
fatizzano queste ramificazioni, scolpendole nello spazio vuoto. Ken
significamente parlava di edaburi, la “vibrazione dei rami”.
Ne consegue che uno degli errori classici che il giardiniere occiden-
tale può compiere potando “alla giapponese” è modellare la pianta in
Sopra. Diverse tonalità d’autunno inAcer palmatum.A sinistra. Montagne diHonyabakei, prefettura di Oita.A destra. Giardino interno aKomyozen-ji, presso Dazaifu.
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casionali, nella convinzione che non siano tanto i mesi, quanto l’affi-
latura delle lame ad autorizzare il momento delle potature. (Assunzio-
ne per altro forse troppo estensiva, poichè vista la loro incredibile
qualità, le lame giapponesi saranno sempre affilate.)
L’acero che ci stavamo accingendo a potare aveva perso un anno
di potatura e alcuni rami apparivano leggermente sovradimensio-
nati. Secondo Ken questa accresciuta statura non rappresentava
uno sbaglio da correggere, ma piuttosto lo stato della naturale cre-
scita della pianta e del suo legittimarsi negli equilibri nel giardino. In
fin dei conti, egli mi diceva, alcune crescite troppo protese e vitali,
se lasciate, si piegheranno da sole nell’arco delle stagioni trovando
una propria naturale forma, che sarà impareggiabilemente più “bel-
la” di quella imposta dalla mano umana. Ascoltando Ken mi rende-
vo conto che l’apparente permissivismo con la quale il giardiniere
giapponese opera non è pubescenza tecnica (o blanda pigrizia, co-
me a volte ho pensato), ma cosciente reverenza della natura, e as-
sistenza di quella.
Questa tesi mi è stata successivamente comprovata osservando i
continui casi di non-manutenzione del verde nei templi giapponesi.
Alberi e arbusti (non a caso sempre autoctoni) sono lasciati crescere
in uno spazio ristretto quando non costipato, fino a ricavare, magari
nell’alleanza del muschio, una dignità legittima e rustica. Allo stesso
modo, legno decaduto o vecchi tronconi sono mantenuti (spesso ad-
dirittura protretti o idolatrati, come nel caso della Zelkova a Gokura-
In queste pagine.
Altre due viste del giardino interno aKomyozen-ji. Rocce e ghiaia siintegrano splendidamente con ilmuschio e le foglie degli aceri.
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va il movimento del tronco principale dai giovani elastici butti basali e
dalle foglie sparute. Una cernita era fatta anche tra i rami incrocianti
o troppo paralleli. L’aggetto dei rami principali andava bilanciato, ma
in una simmetria non troppo rigorosa. Una branca laterale si esten-
deva in modo troppo spiccato. Ken la ha recisa in profondità, in cor-
rispondenza di un ramo secondario giudicato adatto a diventare il
nuovo leader.
A questo punto Ken ci ha invitato a muoverci tre passi indietro. La
struttura della pianta appariva immediatamente più leggibile, erano
enfatizzati i chiaroscuri delle diramazioni e la brillantezza della cortec-
cia. Per il momento non erano state sfiorate le cesoie, ma solo deter-
minati 4 o 5 tagli con un seghetto pieghevole.
Insieme a un accresciuto grado di leggibilità, l’acero si stava arric-
chendo anche di una certa “sincerità”, disvelazione graduale della
sua struttura inerente. La mia mente andava alla storia di Louis Kahn
che parla coi mattoni, la quale, pur nella distanza antipodiale, è pa-
rabola in fondo affine all’atmosfera zen che stavo respirando. Tutta-
via – è bene precisare – nella potatura degli aceri in Giappone non vi
è nulla di surreale o esoterico: indipendentemente dalle regioni o re-
ligioni di appartenenza, Acer palmatum ha una naturale tendenza ad
impalcarsi in modo forbitamente ritorto e delicatamente cadente.
Il trucco è rivelare questa declinante orizzontalità dei rami, separan-
doli in strati distinti che non si tocchino. Ken mi ha invitato a immagi-
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kuzan Saiho-ji) così evocando quel gusto estetico di impermanenza
che i giapponesi chiamano wabi-sabi. Pertanto oggi, superato un pri-
mo periodo di shock orticulturale, sono ormai della convinzione che il
giardino giapponese vada inteso non come domicilio del giardiniere,
ma palestra spirituale del monaco.
Ora che Ken aveva temperato il mio latino rattrappito nella distesa
poetica delle sue parole, ero finalmente pronto per iniziare a toccare
la pianta. Tutti abbiamo preso a lavorare sullo stesso acero, ognuno
seguendo e imitando Ken, secondo quel mutuo vincolo maestro-di-
scepolo (senpai-kohai) che ancora permea ogni ambito società giap-
ponese, dalle scuole buddiste di Nara agli uffici delle multinazionali di
Tokyo. Ken ci parlava di intenzione innata delle piante, di ascolto del
loro silenzio, di accoglimento del vuoto.
Il nostro compito non era creare ma “svelare” la bellezza che era in
potenza nelle linfe della pianta. Mi sono tornate in mente le parole di
Michelangelo sulla scultura “per forza di levare”. La differenza tecni-
ca è che in quell’arte plastica il processo inizia ovviamente dall’ester-
no, mentre per gli aceri giapponesi le sottrazioni si applicano in pri-
mo luogo dall’interno delle piante, scalando dal legno più vecchio a
quello più giovane.
Dopo aver asportato il legno morto, Ken si è concentrato sui diame-
tri maggiori della pianta, con l’intenzione di rilevare muscoli e fascia-
ture degli arti più interessanti. Progressivamente egli isolava e rivela-
In queste pagine.
La percezione della luce si esaltaattraverso il fogliame degli aceri,quasi come un sipario tra la terra e ilcielo.
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creare una immediata apertura e ariosità, questo avrebbe portato a
una struttura più compatta e una più corta distanza dei nodi.
Il lavoro si era fatto gradatamente più spicciolo e tutti quanti abbiamo
preso a lavorare attorno all’acero. Un grado di casualità è ora intro-
dotto e ammesso per via del lavoro contemporaneo di più persone.
Il risultato non sarebbe stato scientificamente controllabile, ma que-
sto non aveva eccessiva rilevanza, per le stesse leggi di inerente
asimmetria che regolavano il componimento del giardino stesso.
Progressivamente ci siamo spostati verso le terminazioni dei rami,
dove il fogliame formava belle serie alternate di ventagli distesi. Dalle
cesoie siamo quindi passati all’uso delle dita, spiccando via i ramet-
ti troppo obliqui o addensati. Anche le singole foglie erano sbarbate
a mano dai rami, cercando ove possibile di mantenere ambo le cop-
pie opposte. (Anche in questa pratica era il segno di un’istintiva os-
servanza dell’assetto naturale della pianta, dal momento che le cop-
pie opposte sono forse l’unica caratteristica diagnostica del genere
Acer, che ha altrimenti morfologia piuttosto variabile.)
Il primo acero era finito. Il portamento naturale della pianta era rivela-
to, per grazia di criteri insieme spontanei e calcolatissimi. Nel suo cor-
po era ora accordato un grado elusivo di naturalezza che pareva
competere con la natura stessa.
Noi avevamo iniziato a spostarci di acero in acero, intendendoci or-
mai per sguardi e cenni reciproci come una squadra ben affiatata.
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nare questi livelli come le onde progressive di una sorgente. Il classi-
co motivo grafico giapponese sei-gai-ha (letteralmente, “l’onda del-
l’oceano blu”) raffigura con suggestiva efficacia questo movimento.
(Nell’illuminante libro Niwaki, Jake Hobson descrive la sua iniziazione
alla potatura degli aceri sotto la guida di un collega giapponese. L’au-
tore racconta che questi gli mostrò la mano distesa orizzontalmente,
con le dita aperte: quella doveva essere la forma finale dei rami po-
tati. Quindi il giardiniere giapponese iniziò a contorcere le dita in alto
e in basso: l’orizzontalità era persa e con essa il senso di sereno equi-
librio.)
L’importanza dello spazio negativo fra gli strati è fondamentale. Svuo-
tando le chiome, si invita negli aceri una ariosità e luminosità che evi-
denzieranno i colori autunnali, quando la filigrana delle foglie brillerà
in controloce. Ken si serviva di questo vuoto non solo per enucleare
la struttura della pianta, ma anche per prendere in prestito, incorni-
ciandoli, gli elementi del paesaggio, come il risalto di certi semprever-
di o il fondale del cielo. Mi accorgevo che egli stava modellando il vuo-
to per impossessarsi dello spazio.
Ken è passato alle cesoie ed era impegnato a sottrarre arbitrariamen-
te gli strati intermedi o conflittuali. Anche i rami diretti all’interno della
pianta erano rimossi, per favorire l’estensione dell’acero verso l’ester-
no. Egli procedeva sicuro sfruttando la naturale tripartizione dei rami,
privilegiando le coppie laterali e tagliando il ramo centrale. Oltre a
In queste pagine.
Due viste panoramiche del giardinointerno a Komyozen-ji.
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Rade voci e risa punteggiavano il silenzio, come cerchi sull’acqua in
un lago levigato di calma. Io procedevo assorto, alternando l’uso del-
la sega, cesoie e dita della mano. Guardavo alle foglie, ma senza per-
dere di vista il giardino – e viceversa. Sentivo progressivamente di po-
tare insieme ai rami, anche parte dei miei preconcetti e
fraintendimenti sui giardini giapponesi.
Soprattutto intendevo che l’abilità orticulturale da sola non basta per
potare gli aceri alla giapponese: è richiesta una profonda sensibilità ar-
tistica. Il giardinaggio in Giappone è l’arte preposta all’osservazione
della natura nelle stagioni e all’immaginazione di quella nella scala ri-
dotta del giardino. Il principio fondamentale è che un intero paesaggio
possa essere descritto in un albero o in una roccia, esattamente co-
me avviene in un bonsai o un suiseki, rispetto ai quali solo la scala di
miniaturizzazione cambia. La conoscenza tecnica è ovviamente es-
senziale, ma in ultima analisi subordinata alla forza immaginativa.
La contemplazione degli aceri vibranti insegna che – mentre il giardi-
no occidentale è troppo spesso scritto in solida prosa – i giardini giap-
ponesi sono poesia senza parole, sono dipinti a tre dimensioni.
BIBLIOGRAFIA
Hobson, J. (2007). Niwaki. 110-111. Ohwi, J. (1965). Flora of Japan. 607-611. Vertrees, J.D. et al. (2009). Japanese Maples. Yano, M. et. al. (2003). Book of Maples.
In queste pagine.
La caduta delle foglie dagli aceri inautunno è emblematica dellasensibilità estetica giapponese,inscindibilmente connessa al sensodella transitorietà ed impermanenzadelle stagioni.