Post on 18-Feb-2019
Accertamento
Redditi adeguati e comportamenti economici, il giusto mix per prevenire gli accertamenti
fiscali
di Maurizio Tozzi 3
Accertamento società a base ristretta: il caso particolare dell’ex socio che non partecipa al
contraddittorio
di Giovanna Greco 13
Riscossione
L’evasore fiscale seriale, “socialmente pericoloso”: le considerazioni espresse dalla Guardia
di Finanza
di Gianfranco Antico 20
Il modello F24 a saldo zero può essere prodotto anche in giudizio
di Giovanni Valcarenghi 32
Istituti deflattivi
Effetti connessi all’Iva erroneamente addebitata dal fornitore
di Marco Peirolo 38
Le diverse ferie del Fisco: dal 1° al 31 agosto la sospensione dei termini feriali e dal 1°
agosto al 4 settembre la sospensione di specifici adempimenti e pagamenti
di Gianfranco Antico 52
Contenzioso amministrativo e tributario
L’onere della prova in relazione all’emissione di fatture generiche
di Luigi Ferrajoli 64
L’opposizione all’esecuzione nel processo tributario: incostituzionale il divieto di
promuovere il procedimento ex articolo 615, c.p.c.
di Luigi Ferrajoli 72
1 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
Contenzioso penale tributario
Prescrizione e frodi Iva: la Consulta sancisce il primato della normativa interna
di Antonio Castiello e Sara Mecca 81
Falso in bilancio: il dolo fa la differenza
di Erika De Luca e Gianrocco Rossetti 89
Osservatorio
L’osservatorio di giurisprudenza
di Mara Pilla 97
2 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
Accertamento
3 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
Accertamento e contenzioso n. 42/2018
Redditi adeguati e comportamenti
economici, il giusto mix per prevenire
gli accertamenti fiscali di Maurizio Tozzi - dottore commercialista, revisore legale e condirettore scientifico della rivista
Accertamento e Contenzioso
La Corte di Cassazione si è recentemente pronunciata, in diverse occasioni, sulla necessità
che gli importi dichiarati siano compatibili sia con le manifestazioni di ricchezza del
contribuente, sia con le ordinarie logiche economiche che dovrebbero indirizzare le scelte
imprenditoriali. La tematica è particolarmente delicata soprattutto all’approssimarsi
dell’adempimento dichiarativo, onde contenere “le spinte” che spesso inducono alla ricerca,
a ogni costo, del risparmio fiscale, con conseguenze che alla lunga possono essere nefaste.
Si rende necessaria un’adeguata riflessione, da condividere con il cliente, cui far comprendere
che la prevenzione dell’attività di controllo transita anche e soprattutto per una corretta
dichiarazione dei redditi.
Premessa
Il mese di luglio è oltremodo delicato sul piano degli adempimenti fiscali, posto che la stragrande
maggioranza delle dichiarazioni dei redditi raggiunge “la quadra” ed emergono gli ammontari che
devono essere corrisposti a titolo di imposte. La coincidenza con il periodo estivo e le meritate vacanze
pone il contribuente di fronte al grande dilemma del come e se affrontare i pagamenti oppure andare
in vacanza e in una situazione di tale sensibilità, l’attrazione per il miraggio del risparmio fiscale da
raggiungere a tutti i costi è sin troppo elevata. A porre un freno (o almeno, si ritiene che dovrebbe
fungere da freno), provvede la giurisprudenza della Corte di Cassazione, che ricorda a tutti come le
situazioni fortemente anomale giustificano gli accertamenti fiscali pur a fronte di adempimenti e
scritture contabili formalmente ineccepibili. Al che appare del tutto inutile il tentativo di azzerare i
propri redditi, con alchimie più o meno (il)logiche se non (il)legali, se poi si hanno manifestazioni di
ricchezza talmente evidenti da rendere un accertamento redditometrico inattaccabile; o ancora, è fuori
luogo avere risultanze contabili tali da far apparire apertamente antieconomiche (e dunque non
credibili) le scelte imprenditoriali.
Accertamento
4 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
Il risparmio fiscale può essere raggiunto solo mediante il corretto sfruttamento della normativa
esistente e transita per un’adeguata pianificazione, non esistendo formule magiche alternative.
Ogni tentativo ulteriore poggia solo su un principio: la speranza di farla franca. Chi si inventa
costi, omette di dichiarare redditi, fruisce di regimi fiscali pur non avendone i requisiti, forza la
mano in riferimento a determinate fattispecie per aggirare i blocchi del Legislatore, si avventura
in percorsi sconosciuti alla ricerca dell’eldorado mostrando uno spirito avventuriero e sportivo; al
che è bene segnalare a costoro che, con altrettanta sportività, devono mettere in preventivo il
rischio di essere intercettati e controllati dall’Amministrazione finanziaria, senza poi urlare al
mondo di essere dei perseguitati.
La ricerca del risparmio fiscale al di fuori dei legittimi parametri normativi deve risiedere nel principio
di “sportività” dianzi formulato. Nulla di più e nulla di meno. Quando qualcuno compra e legge un testo
che rivela “come risparmiare imposte”, deve avere la totale consapevolezza che quel testo: o racconta
cosa scontate, posto che non può che fare riferimento a disposizioni normative che tutti possono
conoscere e applicare (si pensi ad esempio al mondo degli oneri deducibili e detraibili, laddove sarebbe
sufficiente leggere, da ultimo, la circolare n. 7/E/2018); ovvero in alternativa evidenzia la possibilità di
ricorrere a escamotage, guardandosi bene dal “suggerirli” e anzi mettendo in guardia il lettore che
trattasi di tentativi “border line”, derivanti dal “sentito dire” (della serie: sembrerebbe che qualcuno da
qualche parte ha pensato di agire in questo modo…) e che in caso di controllo potrebbero condurre a
contestazioni di vario genere.
A fronte di un cliente “desideroso” di risparmio fiscale e magari indottrinato a soluzioni “sportive”, il
consulente ha un ruolo delicato. Deve ovviamente essere in grado di prospettare le soluzioni
legittimamente fruibili per ottenere una riduzione del carico fiscale e allo stesso tempo deve illustrare
al proprio cliente quali sono i limiti oltre i quali non andare, nonché i relativi pericoli. Inoltre, per la
propria salvaguardia personale, deve avere la totale consapevolezza di non farsi coinvolgere in
“iniziative improbabili” del proprio cliente. Da questo punto di vista la giurisprudenza di carattere
penale sulla responsabilità del professionista non consente sconti: se questi, consapevolmente, mette
al servizio “dell’evasione” le proprie competenze, organizzando il piano del proprio cliente, la correità
è inevitabile, con tutte le conseguenze del caso. A questo si aggiunga, peraltro, la responsabilità
amministrativa del saper applicare, secondo correttezza deontologica, le regole fiscali, non potendo egli
far finta di ignorare determinate circostanze (come, ad esempio, nel caso della non corretta imputazione
dei costi dei veicoli), essendo altrimenti esposto a eventuali richieste di risarcimento per il danno
cagionato (quale l’irrogazione delle sanzioni).
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L’assunto fondamentale da tener presente e da illustrare al proprio cliente è che il risparmio
fiscale transita per un’idonea pianificazione e programmazione, non potendo “inseguirlo” in sede
di dichiarazione dei redditi. La consulenza deve essere svolta prima (rendendosi necessaria anche
da parte del cliente la consapevolezza dell’importanza della stessa, anche in termini di adeguata
remunerazione), altrimenti non potrà che tradursi in tentativi raffazzonati di contenere
l’imponibile.
Insomma, il professionista si trova in una situazione delicata, soprattutto in sede di dichiarazione dei
redditi, dovendo trovare un giusto equilibrio tra attese (non pretese) del cliente e doveri/obblighi
professionali, facendo sempre presente al cliente che la dichiarazione rappresenta non soltanto lo
strumento grazie al quale si liquidano le imposte dovute, ma anche il prioritario riferimento per
selezionare quei soggetti che sulla base delle complessive informazioni presenti in Anagrafe tributaria
presentano delle anomalie meritevoli di approfondimento: il vero problema della dichiarazione non è
rappresentato dalle imposte dovute, ma dalle segnalazioni che dalla stessa il Fisco ritrae.
Due principalmente sono i “campi” di azione del Fisco in tale direzione, rappresentati dal redditometro
e dalla valutazione di comportamenti antieconomici. La giurisprudenza sul punto è severa e le sentenze
sopraggiunte negli ultimi mesi lo attestano inequivocabilmente.
Il “giusto” reddito
In diverse occasioni si invoca, anche e soprattutto in ottica difensiva, la necessità di determinare il
“giusto reddito”, concetto costituzionalmente garantito dall’articolo 53. Almeno in linea teorica, in sede
accertativa l’Amministrazione finanziaria dovrebbe avere la sensibilità di non giungere ad accertamenti
sproporzionati, così come, altrettanto in linea teorica, le Commissioni tributarie dovrebbero farsi carico
del rispetto del richiamato principio. Questo sul piano dottrinale, poi le esperienze professionali di
ognuno di noi insegnano che la realtà è ben distante. Ciò non toglie, però, che utile strumento
preventivo è proprio la dichiarazione del “giusto” reddito, perché se lo stesso è determinato in
applicazione delle disposizioni fiscali ed è immune da contestazioni in rapporto a ulteriori elementi,
quali la ricchezza manifestata o le scelte che paiono antieconomiche, è altamente probabile che il Fisco
si disinteressi a una posizione che rientra nei canoni della “normalità”.
Quanto sopra non toglie, ovviamente, che adeguate giustificazioni agli accadimenti che
potrebbero sembrare anomali possono comunque essere offerte, ma si rammenta che anche ciò
transita per una completa prevenzione e raccolta documentale. In termini pratici, essendo il
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processo tributario di tipo documentale, laddove ad esempio dovessero registrarsi manifestazioni
di ricchezza eccessive rispetto ai redditi dichiarati, sarà fondamentale tracciare tutte le risorse
utilizzate, dando completa spiegazione della loro origine (risparmi, prestiti di familiari, mutui, etc).
Ancora, in caso di scelte imprenditoriali che possono apparire antieconomiche, bisognerà
documentare la validità strategica e imprenditoriale delle stesse.
Procedendo in tal modo, si sarà pronti nell’illustrare all’Amministrazione finanziaria la propria posizione,
con un duplice obiettivo:
1. in via prioritaria, chiarire il tutto ed evitare contestazioni;
2. in via subordinata, comunque appesantire l’onere probatorio dell’Amministrazione finanziaria, che
dovrà anche motivare circa la mancata condivisione delle tesi del contribuente.
La Corte di Cassazione ha “cristallizzato” tali assunti in più occasioni, anche di recente. Tra le tante, può
richiamarsi l’ordinanza n. 12257/2018, particolarmente interessante perché attribuisce validità a un
accertamento induttivo da parte dell’Amministrazione finanziaria, evidenziando come la carenza di
giustificazione circa l’improvvisa manifestazione di ricchezza dei soci, palesata tramite “finanziamenti”
eseguiti a vantaggio della società, possa invero celare un’evasione della società stessa, confluita ai soci
e poi da questi riversata. Il concetto è semplice: se i soci non hanno redditi sufficienti e non dimostrano
da dove hanno attinto le risorse per poi eseguire i finanziamenti societari, è valida la presunzione del
Fisco di ritenere tali finanziamenti, in realtà, lo storno dell’avvenuta evasione. Anche i passaggi logici
sono semplici: la società evade eseguendo lavori/prestazioni non fatturate; i soldi sono incassati dai
soci; per evitare che la società possa avere saldi negativi di cassa (posto che esegue i pagamenti dei
costi sostenuti), è necessario reintrodurre i soldi; ciò accade per il tramite dei finanziamenti. Queste le
chiare conclusioni del Supremo consesso:
“anche la motivazione concernente la diversa somma versata a titolo di finanziamento soci è
decisamente insufficiente. La CTR non pare avere colto la sostanza dell'atto di appello, che sottolineava
che i versamenti dei soci potevano nascondere un reddito della società percepito e non dichiarato: la
motivazione secondo cui "se i versamenti dei soci rivelavano una maggiore capacità reddituale, i
maggiori redditi presunti avrebbero dovuto essere accertati nei confronti dei soci finanziatori e non
della società finanziata" mostra eloquentemente la mancata comprensione delle censure mosse
dall'Agenzia delle entrate alla sentenza della CTP; l'appellante sottolineava che "il problema nasce
quando il socio non sia in grado di provare l'origine della ricchezza utilizzata per effettuare il
finanziamento. Infatti, in mancanza di questa prova, è legittimo e fondato ritenere che questa
disponibilità finanziaria tragga origine da ricchezza realizzata dalla stessa società e sfuggita a
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tassazione". A ben vedere, il passo della motivazione sopra riportato dà per risolto del tutto
apoditticamente, proprio il quesito che l'appellante poneva: i versamenti dei soci alla società, con
denaro la cui provenienza non era in alcun modo chiarita, nascondevano somme ricavate dalla società
e fatte rientrar n suoi conti mediante un artificio contabile? Eppure l'Agenzia aveva indicato elementi
nient’ affatto esclusivamente presuntivi: l'importo delle somme versate, la mancata loro giustificazione
sulla base delle dichiarazioni dei redditi dei soci, l'attività della società (compravendite immobiliari)
che, per le regole fiscali, poteva determinare una differenza tra le somme dichiarate negli atti pubblici
e quelle effettivamente versate. Restano del tutto ignorate, poi, le regole in materia di onere della prova
ricavabili dall'articolo 32, D.P.R. 600/1973; in particolare la CTR non si è posta il problema dell'onere
della società di dimostrare l'estraneità all'attività di impresa delle movimentazioni provenienti dai
conti dei soci nonché la riferibilità o non riferibilità delle specifiche movimentazioni alle operazioni
dell'impresa”.
Inutile dire che la sentenza è oltremodo attuale soprattutto in rapporto alle ordinarie casistiche
di manifesta antieconomicità dei risultati raggiunti e dei relativi comportamenti imprenditoriali
(il)logici della compagine societaria, ponendosi dunque in maniera trasversale tra “redditometro”
e “accertamento antieconomico”, evidenziando le principali discrasie che emergono in
dichiarazione dei redditi.
Il caso non è infrequente: società che dichiara scarsi redditi e soci che non hanno altre entrate sia non
i proventi societari, dichiarando a loro volta redditi scarni. Si è ottenuto un risparmio fiscale? Risultato
effimero, bisogna solo sperare che il Fisco non venga a controllare. In caso di verifica, infatti,
emergerebbero immediatamente le seguenti anomalie:
− la società ha bassi risultati economici, ma continua ad attrarre finanziamenti da parte dei soci e
continua soprattutto imperterrita ad acquistare prodotti, che se non venduti gonfiano le rimanenze.
Qualsiasi profano capisce che qualcosa non funziona e comprende altresì che mancano i ricavi
dichiarati, poiché i prodotti vengono venduti a nero: la prova del nove, peraltro, viene dal controllo del
conto cassa, laddove “nettizzando” gli interventi dei soci si scoprono, inesorabili, dei saldi negativi.
Inutile dire che una simile situazione rappresenta il caso classico della contabilità inattendibile, con
tutte le implicazioni conseguenti;
− i soci non hanno redditi sufficienti eppure sono in grado di finanziare la società. Da dove giungono
tali risorse? Sono documentate? Sì sottolinea solo che nei casi in cui qualcuno ha osato spingersi a dire
che le risorse erano il frutto della presunta attività più antica del mondo, comunque la Corte di
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Cassazione ha fatto notare che trattasi pur sempre di proventi che dovevano essere dichiarati, in quanto
ottenuti in controprestazione di un’obbligazione di fare, non fare o permettere;
− i soci adottano un comportamento illogico e antieconomico, sia come gestori della società sia come
investitori. Da un lato non gestiscono bene, perché continuano a comprare pur avendo (contabilmente),
risultati negativi. Dall’altro, pur non avendo risorse proprie e ritorni validi dall’attività societaria svolta,
continuano ad apportare finanziamenti (che si ripete, di origine sconosciuta). La domanda ovvia è per
quale arcano motivo non interrompono questo circolo vizioso.
Vale la pena inseguire un ridotto risparmio fiscale di tal guisa, che espone solo a un elevato rischio di
controllo? Inutile rispondere.
Le adeguate risorse
Come anticipato, nulla vieta che il contribuente possa giustificare le proprie risorse in maniera
adeguata. Da questo assunto non si sfugge, come in maniera chiara evidenziato dalla sentenza della
Corte di Cassazione n. 13602/2018 depositata lo scorso 30 maggio. Il caso analizzato riguardava una
manifestazione di ricchezza del contribuente palesata mediante forti investimenti mobiliari, rispetto ai
quali si era già pronunciata la CTC ritenendo che era onere dell’Amministrazione finanziaria supportare
l’accertamento con ulteriori presunzioni. La tesi è stata totalmente ribaltata dalla Suprema Corte, che
ha evidenziato:
“La Commissione centrale, quindi, dopo aver ritenuto esistente l'elemento "certo" costituito
dall'investimento mobiliare per la somma di lire 565.000.000,00 nell'anno 1975, ha erroneamente
affermato che fosse ancora onere dell’uffico "integrare" tale elemento certo con "altri elementi che
rendano plausibile un'evasione fiscale per l'anno di riferimento nell'ammontare
dell'Investimento...dovendo integrare detto indizio con altri elementi comprovanti una evasione
fiscale". È evidente, allora, che la Commissione ha violato la norma che distribuisce l'onere della prova
tra le parti ex articolo 2697, cod. civ…. in tema di presunzioni. Da un lato, quindi, si rileva che anche
un unico indizio, se preciso e grave, può integrare fa fattispecie di cui all'articolo 2729, cod. civ. ….
Pertanto, gli "elementi certi", di cui all’accertamento sintetico, devono essere provati e motivati
dall'ufficio, anche a mezzo di presunzioni gravi, precise e concordanti. Al tal fine rilevano l'acquisto di
beni immobili (Cassazione civ., n. 19647/2009) e la titolarità di azioni societarie (Cassazione civ., n.
5599/1992; Cassazione civ., n. 6222/2012). Dall'altro, si rileva che era onere del contribuente fornire
la prova contraria, in ordine alla provenienza delle disponibilità per effettuare il suddetto investimento,
provenienti da redditi esenti, o soggetti a ritenuta alla fonte, o derivanti da finanziamenti di terzi o da
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altre fonte …. Peraltro, per la Suprema Corte il contribuente, che deve fornire la prova contraria, deve
dimostrare l'esistenza e l'entità di una pregressa e legittima disponibilità finanziaria, oltre alla durata
del possesso della stessa …. in quanto l’articolo 38, comma 6, D.P.R. 600/1973 prevede anche che
"l’entità di tali redditi e la durata del loro possesso devono risultare da idonea documentazione". La
norma, dunque, chiede qualcosa in più della mera prova della disponibilità di ulteriori redditi (esenti
ovvero soggetti a ritenute alla fonte) e, pur non prevedendo esplicitamente la prova che detti ulteriori
redditi sono stati utilizzati per coprire le spese contestate, chiede tuttavia espressamente una prova
documentale su circostanze sintomatiche del fatto che ciò sia accaduto o sia potuto accadere”.
Al che la Corte di Cassazione giunge ad affermare il seguente principio di diritto: "In materia di
accertamento sintetico, una volta che l'amministrazione ha dimostrato la divergenza tra il reddito
risultante attraverso la determinazione analitica e quello attribuibile al contribuente in base a elementi
certi, anche in presenza di un unico elemento certo, è a carico del contribuente l'onere della prova che
l'imponibile così accertato è costituito in tutto in parte da redditi soggetti a ritenute alla fonte o da
redditi esenti o da finanziamenti di terzi".
In termini pratici, l’onere probatorio deve essere soddisfatto in maniera adeguata da parte del
contribuente; senza ripercorrere tutte le tappe della giurisprudenza e le principali interpretazioni
amministrative, appare sufficiente ricordare che:
− la prova difensiva è la più ampia possibile, potendo dimostrare l’intervento di soggetti terzi, gli aiuti
familiari, le vincite, l’utilizzo di risparmi accumulati, il possesso di redditi esenti o tassati
forfettariamente etc. Ovviamente deve trattarsi di disponibilità legittimamente detenute;
− deve rispettarsi il principio del c.d. “nesso eziologico”, secondo cui per il contribuente non è necessaria
la prova della provenienza delle risorse disponibili e il relativo effettivo impiego, essendo sufficiente
dimostrarsi la disponibilità economica e la relativa durata utile fino al sostenimento delle spese.
I due assunti precedenti sono stati recentemente confermati dalla Suprema Corte, potendosi fare
riferimento a:
− ordinanza n. 12026/2018, secondo cui: “Detto onere probatorio non deve ritenersi particolarmente
oneroso per il contribuente, in quanto, non solo la prova non è tipizzata e può essere offerta “con qualsiasi
elemento idoneo a fornire adeguata certezza circa la natura non reddituale dell’elemento preso in
considerazione” (Cassazione, n. 7258/2017), ma, in particolare, ben può “essere fornita con l’esibizione degli
estratti dei conti correnti bancari facenti capo al contribuente” (Cassazione, n. 12214/2017), idonei a
dimostrare l’entità e la durata del possesso dei redditi in esame. La mera produzione di documentazione
bancaria, in considerazione della natura di estratto di scrittura contabile, fornisce tutte le indicazioni
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sull’entità dei redditi, sulle date dei movimenti, sull’eventuale addebito di assegni circolari usati per taluni
acquisti, rientrando a pieno titolo nella “documentazione idonea” richiesta dall’articolo 38 cit., antecedente
alle modifiche apportate con la L. 122/2010, la cui esibizione è in grado di scalfire le risultanze a cui è
pervenuto l’uffico (Cassazione, n. 7258/2017)”;
− sentenza n. 12396/2018, che afferma: “Nel caso di specie, falsamente applicando le norme di diritto
sostanziale invocate dal Fisco, la CTR elude la dimostrazione che il contribuente non ha saputo documentare
che la maggior capacità reddituale provenisse da disponibilità economiche non dichiarate perché esenti 0
soggette a ritenuta alla fonte, ma da redditi "in nero" che non avevano scontato l'imposta (la stessa CTR
afferma che: pur vero che molti dei negozi in forza dei quali il Sig. C ha acquistato parte dei redditi non
risultano corretti sotto i' profilo fiscale..."), e di cui aveva avuto la disponibilità in un periodo risalente rispetto
all'anno in contestazione, ed, inoltre, non aveva saputo documentarne la durata del relativo possesso fino
all'anno oggetto d'accertamento sintetico; il che, contrariamente all'assunto della parte controricorrente,
costituisce questione giuridica e non di fatto”.
La logicità delle scelte economiche
L’ultimo assunto da tener ben presente in sede di dichiarazione dei redditi è stato evocato in
precedenza: è necessario che emerga una complessiva attendibilità del modus operandi. Chi svolge
un’attività è assolutamente libero nella gestione, accollandosi in toto i relativi rischi. Ciò nondimeno, è
abbastanza evidente che atteggiamenti che sembrano completamente illogici e irreali possono
legittimamente far sorgere il sospetto e la presunzione che in realtà si occulta qualcosa. È il caso
classico delle rimanenze e dei relativi “accorgimenti a fine anno, in un inutile tentativo di riequilibrare
l’imponibile fiscale, o inizialmente troppo basso per il marcato atteggiamento di omissione dei ricavi
nel corso dell’anno, oppure elevato e con relativo peso delle imposte ritenuto eccessivo.
Il contraltare della “movimentazione artefatta delle rimanenze” è l’effetto che si genera sul costo
del venduto e sui ricarichi che almeno contabilmente risultano essere stati praticati: infatti, in
caso di incremento delle rimanenze finali, sul piano contabile si attesta che i prodotti utilizzati
per l’attività sono stati pochi, con conseguente ricarico elevatissimo; di contro, con rimanenze
ribassate, si ha un elevato costo del venduto e il ricarico tende a divenire particolarmente basso.
In entrambi i casi, ciò che emerge è un’anomalia di risultati (in termini anche di rotazione del
magazzino), che rende poco credibile l’assetto contabile del contribuente e manifesta l’antieconomicità
della conduzione aziendale, con relativa esposizione al rischio accertativo. Tale conclusione è ben
Accertamento
11 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
fotografata dalla sentenza della Corte di Cassazione, sentenza n. 12416/2018, che nell’affrontare una
casistica di bassi ricarichi praticati, evidenzia come:
“….è consentito all’ufficio dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate e desumere, sulla base
di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, maggiori ricavi o minori costi, ad esempio
determinando il reddito del contribuente utilizzando le percentuali di ricarico, con conseguente
spostamento dell’onere della prova a carico del contribuente (cfr. Cassazione, n. 7871/2012) e ciò
indipendentemente dalla riscontrata regolarità formale delle scritture contabili, atteso che la grave
incongruità o abnormità del dato economico esposto in dichiarazione priva le stesse scritture contabili
di qualsiasi attendibilità (cfr. Cassazione, n. 20201/2010; id. Cassazione, sentenza n. 26167/2011,
secondo cui in tema di Iva, la circostanza che un’impresa commerciale dichiari per più annualità un
volume di affari di molto inferiore agli acquisti e applichi modestissime percentuali di ricarico sulla
merce venduta costituisce una condotta commerciale anomala, di per sé sufficiente a giustificare, da
parte dell’Amministrazione, una rettifica della dichiarazione….. Ne consegue che una volta contestata
dall’Erario l’antieconomicità di una operazione posta in essere dal contribuente che sia imprenditore
commerciale, perché basata su contabilità complessivamente inattendibile in quanto contrastante con
i criteri di ragionevolezza, diviene onere del contribuente stesso dimostrare la liceità fiscale della
suddetta operazione e il giudice tributario non può, al riguardo, limitarsi a constatare la regolarità
della documentazione cartacea”.
Osservazioni conclusive
L’analisi delle sentenze dianzi richiamate non lascia molto spazio a commenti di tipo variegato. In sede
di dichiarazione, limitare la prospettiva semplicemente alla determinazione delle imposte da pagare (e
soprattutto alla volontà di contenerle) non può che essere errata e foriera di ulteriori problematiche. Il
cliente deve essere consapevole che l’adempimento non attiene solo a un livello formale, ma
soprattutto è utile all’Amministrazione finanziaria per effettuare un’adeguata attività di analisi e
selezione ai fini dell’eventuale controllo. Il risparmio fiscale transita solo per la corretta applicazione
delle disposizioni esistenti, facendo tesoro dei chiarimenti offerti dall’Amministrazione finanziaria, dei
precedenti giurisprudenziali consolidati e della preparazione del consulente di fiducia. Altri escamotage
appartengono solo a meri tentativi, da cui peraltro è bene che il consulente si tenga lontano, per evitare
guai e implicazioni. In tale direzione sia sufficiente richiamare l’ultima pronuncia della Corte di
Cassazione, sezione penale, in materia di coinvolgimento del professionista (sentenza n. 14007/2018),
che ha sancito la responsabilità penale del professionista che contribuisce alla pianificazione, nonché
Accertamento
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alla realizzazione di una fattispecie criminosa tesa a eludere il Fisco e ha legittimato l’utilizzo delle
intercettazioni telefoniche e ambientali che mirano a dimostrare la condotta fraudolenta posta in essere
dal professionista (Il caso riguarda un dottore commercialista il quale, così come è risultato dalle
intercettazioni a suo carico, suggeriva escamotage ai suoi clienti per sottrarsi al pagamento delle
imposte sul reddito). Non sembrano necessari ulteriori commenti, essendo preferibile attenersi ai
suggerimenti appena evidenziati, per passare una serena estate e non avere pensieri nefasti in futuro.
Accertamento
13 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
Accertamento e contenzioso n. 42/2018
Accertamento società a base ristretta: il
caso particolare dell’ex socio che non
partecipa al contraddittorio di Giovanna Greco - dottore commercialista e revisore legale
La verifica fiscale effettuata nei confronti di una società di capitali a ristretta base
proprietaria, laddove si concluda con la ricostruzione di maggiori ricavi rispetto a quelli
contabilizzati e dichiarati, si estende, in forza di un consolidato trend giurisprudenziale,
anche nei confronti dei soci atteso l’operare di una presunzione di distribuzione dell’utile
extra-bilancio in proporzione alla rispettiva quota di partecipazione. Con un recente
giudicato della CTR di Milano, sentenza n. 4660/XIII/2017, oggetto del presente
approfondimento, è stato aggiunto un tassello innovativo alla procedura in esame,
prevedendosi che nei confronti dell’ex socio deve necessariamente essere esteso il
contraddittorio preventivo riguardante la rettifica della dichiarazione presentata dalla
società, pena la nullità dell’atto impositivo.
Premessa
Nelle società a ristretta base partecipativa, in caso di accertamento per presunti maggiori ricavi o a
fronte di costi inesistenti (senza pensare alle fatture false, la fattispecie si registra anche in caso, ad
esempio, di errati ammortamenti), è usuale l’attribuzione al socio degli utili extra-bilancio accertati alla
società, fattispecie invece che non trova esplicitazione nel caso di contestazione di costi non inerenti o
non di competenza (posto, appunto, che trattandosi di costi effettivamente sostenuti, seppur non
deducibili, non si configura la realizzazione di utili extra-bilancio). Un problema particolare è sorto
nell’analisi di una casistica riguardante un ex socio, laddove deve prendersi atto della sentenza n.
4660/XIII/2017 della CTR di Milano, secondo cui:
l’ex socio deve necessariamente essere parte del contraddittorio preventivo riguardante la rettifica
della dichiarazione presentata dalla società, pena la nullità dell’atto impositivo emesso a suo carico
fondato sulla presunzione di distribuzione di utili extra-contabili.
La vertenza prendeva le mosse dalla notifica di un avviso di accertamento diretto a una persona fisica,
in qualità di socio di una società di capitali a sua volta sottoposta ad accertamento e caratterizzata,
Accertamento
14 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
appunto, dalla c.d. ristretta base partecipativa. Nel caso di specie, il contribuente raggiunto
dall’accertamento rendeva noto di aver ceduto le proprie quote prima dell’inizio della verifica fiscale:
ragion per cui non aveva potuto partecipare alla stessa, non aveva presenziato al contraddittorio e a
tutta la fase istruttoria. Tuttavia, l’accertamento veniva emesso a suo carico poiché nell’annualità
d’imposta sottoposta a verifica egli risultava ancora socio. L’atto veniva opposto con ricorso dinanzi alla
competente CTP di Milano. Le Commissioni tributarie meneghine hanno dato respiro alla tesi difensiva,
sottolineando in particolare la mancata partecipazione del contribuente al contraddittorio preventivo,
principio risaltato dalla CTR di Milano nella conferma della decisione della CTP già favorevole alla parte
ricorrente. Detto principio, spiegano i giudici regionali, è recepito nell’ordinamento con l’articolo 12,
comma 7, L. 212/2000 e deve ritenersi norma imperativa, in quanto volta a dare attuazione a un
principio comunitario inderogabile.
La tematica delle società “a ristretta base partecipativa”: applicazione, criticità e spunti
difensivi
Prima di analizzare il caso affrontato dalla CTR di Milano, è opportuno eseguire alcune riflessioni sullo
stato dell’arte per quanto concerne la società “a ristretta base partecipativa”. In estrema sintesi,
rammentando che nell’ordinamento tributario non sussiste una disposizione che rende automatico in
capo ai soci la distribuzione di eventuali utili accertati alla società di capitali, tale assunto è stato fatto
proprio dalla giurisprudenza di legittimità, che appunto sostiene che il maggior reddito, contestato in
sede di verifica fiscale nei confronti della società, si presume distribuito tra i soci della stessa
proporzionalmente alla quota di partecipazione, alla luce dei rapporti di complicità, solidarietà e
reciproco controllo che caratterizzano le compagini a ristretta base societaria.
In pratica, secondo tale ragionamento presuntivo, “i pochi soci di queste società di capitali” si
sarebbero “spartiti di comune accordo il maggior reddito evaso”. L’unico elemento noto che innesca
il meccanismo presuntivo è costituito dalla base societaria circoscritta, elemento sufficiente posto
che, secondo un principio più volte ribadito dalla Suprema Corte: “nel caso di società di capitali a
ristretta base azionaria ovvero a base familiare, pur non sussistendo, a differenza di una società di
persone, una presunzione legale di distribuzione degli utili ai soci, non può considerarsi illogica la
presunzione (semplice) di distribuzione degli utili extracontabili ai soci”.
Trattandosi di “interpretazione di derivazione giurisprudenziale”, è evidente che i relativi confini
applicativi non sono ben marcati. Anzitutto deve sottolinearsi che non sussiste un “numero dei soci”
Accertamento
15 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
prestabilito al di sotto del quale una Srl possa definirsi “a ristretta base sociale”. La Suprema Corte non
provvede a dare un parametro, arrivando a considerare “a ristretta base sociale” persino una Srl con 6
soci appartenenti a 3 nuclei familiari estranei tra loro, nonché una Srl con 5 soci senza legami di
parentela e finanche una società partecipata a sua volta da altra società a ristretta base (una sorta di
catena partecipativa). L’elemento che contraddistingue la “ristretta base” è proprio la solidarietà e
complicità che lega i soci nelle decisioni e, inevitabilmente, nella eventuale suddivisione anche degli
utili occulti.
Assodata la necessità di verificare caso per caso se ricorrono gli estremi per l’accertamento in capo ai
soci, sovviene poi uno dei problemi più dibattuti, ancora oggi oggetto di contrasto di vedute da parte
della giurisprudenza, relativamente alla portata probatoria della presunzione e alla relativa idonea
difesa da parte del contribuente. In base all’articolo 2727, cod. civ.:
“Le presunzioni sono le conseguenze che il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignoto”.
Ciò posto, in virtù del divieto di doppia presunzione, il fatto ignoto a cui si risale tramite la presunzione
può essere desunto solo partendo da uno o più fatti noti, e non invece da un’altra presunzione.
Nella fattispecie in esame, però, sembrerebbe essersi innanzi a una violazione del richiamato divieto,
posto che l’accertamento appare essere basato su due distinte presunzioni concatenate:
3. l’esistenza di un maggior reddito della società rispetto a quello dichiarato, accertato di regola
induttivamente;
4. l’avvenuta distribuzione ai soci di tale maggior reddito accertato induttivamente in capo alla società.
Se così fosse, essendosi in presenza di una presunzione di secondo grado, si sarebbe innanzi a una
tecnica accertativa non valida. Tuttavia, secondo la prevalente giurisprudenza della Suprema Corte:
“la presunzione di distribuzione ai soci degli utili non contabilizzati non viola il divieto di presunzione
di secondo grado in quanto il fatto noto non è costituito dalla sussistenza dei maggiori redditi
induttivamente accertati nei confronti della società ma dalla ristrettezza della base sociale e dal
vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci” (Cassazione, sentenza n. 26428/2010).
La posizione assunta ha suscitato non poche polemiche, pur se deve sottolinearsi che trattasi della
interpretazione dominante. Ciò nondimeno vi sono state diverse posizioni, sia della medesima Corte di
Cassazione, sia della giurisprudenza di merito, che non hanno condiviso appieno tale assunto,
richiedendo un onere probatorio maggiore all’Amministrazione finanziaria. La tesi opposta, di fatto, è
che si è in presenza di una presunzione semplice, che necessita di ulteriori elementi probatori, tesi a
dimostrare in particolare che effettivamente gli utili siano stati percepiti dai soci e in proporzione alla
Accertamento
16 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
loro quota di partecipazione: se così non fosse, il socio si ritroverebbe oberato di una prova difensiva
quasi diabolica, dovendo dimostrare “di non aver percepito l’utile occulto”.
Interessante, in tale direzione, è la recente posizione della Corte di Cassazione nella ordinanza n.
923/2016, che di fatto sembra individuare anche una idonea suddivisione dell’onere probatorio,
attribuendo al Fisco il compito di fornire ulteriori elementi e, di contro, sottolineando quando può dirsi
convincente lo sforzo difensivo del socio:
“nel mentre l'Agenzia appellante non aveva documentato che la R. avesse di fatto incassato la quota
dei maggiori ricavi corrispondente alla sua quota sociale, la contribuente aveva - per contro - prodotto
in atti prove sufficienti a dimostrare di non avere giammai ricevuto gli utili extracontabili, e cioè:
movimenti bancari personali e del coniuge a partire dal 2005; estratti conto bancari donde risultava
l'assenza di qualsiasi movimentazione finanziaria di importi consistenti; relazione di notaio attestante
che il patrimonio non aveva subito in quegli anni alcun incremento…….. la parte ricorrente si duole del
fatto che la CTR abbia ritenuto imputabili al socio gli utili extra-contabili societari "solo in quanto vi
sia prova dell'effettiva distribuzione", senza dare rilievo alla presunzione legale di avvenuta
distribuzione fondata sull'esistenza di una ristretta base…….……Ciò posto, il giudicante ha fatto
certamente uso dei propri poteri di selezione delle fonti di prova e di libero convincimento allorchè ha
raffrontato il difetto, a carico dell'uffico appellante, di elementi positivi di dimostrazione dell'avvenuta
distribuzione (ulteriori, ovviamente, rispetto alla sola presunzione) con l'avvenuta integrazione di fonti
di prova "sufficientemente valide" da parte della contribuente, e cioè quelle che sono state dettagliate
nelle premesse della presente relazione. In questo quadro ricostruttivo della ratio decidendi adottata
dal giudice del merito, appare distonica la censura formulata dalla parte ricorrente perchè essa - sotto
le spoglie della erronea applicazione nelle norme citate in rubrica - chiede alla Corte di accertare che
la prova, alla luce della quale il giudicante si è orientato ai fini di ritenere integrato l'onere probatorio
gravante sulla parte contribuente per effetto dell'inversione determinata dalla presunzione legale, "non
è stata affatto fornita" ovvero che le fonti di prova offerte dalla parte contribuente "non costituiscono
la prova che i maggiori utili accertati sono stati accantonati o non reinvestiti”.
Trattasi, si ribadisce, di una posizione minoritaria, che però inizia a farsi strada nella giurisprudenza,
anche perchè sembra condivisibile il principio di un’idonea ripartizione dell’onere probatorio tra Fisco
e contribuente.
Nel frattempo, un ulteriore limitazione, in questo caso più diffusa, è stata individuata sempre dalla
giurisprudenza nella necessità che si sia in presenza quantomeno di un accertamento divenuto
Accertamento
17 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
definitivo nei confronti della società, ossia di un atto non impugnato ovvero di una sentenza
passata in giudicato: nell’attesa che ciò accada, deve sospendersi il giudizio nei confronti dei soci.
Al riguardo è possibile fare riferimento all’ordinanza n. 25556/2017 secondo cui la sospensione del
procedimento nei confronti dei soci deve intendersi come necessaria ex articolo 295, c.p.c., nonché alla
luce del novellato articolo 39, D.Lgs. 546/1992, laddove, a opera del D.Lgs. 156/2015, a decorrere dal
1° gennaio 2016, è stato aggiunto il comma 1-bis che testualmente recita:
“La commissione tributaria dispone la sospensione del processo in ogni altro caso in cui essa stessa o
altra commissione tributaria deve risolvere una controversia dalla cui definizione dipende la decisione
della causa”.
Per la Suprema Corte
“In tema di contenzioso tributario, in caso di pendenza separata di procedimenti relativi
all’accertamento del maggior reddito contestato a una società di capitali e di quello di partecipazione
conseguentemente contestato al singolo socio, quest’ultimo giudizio deve essere sospeso, ai sensi del
combinato disposto degli articolo 1, D.Lgs. 546/1992 e articolo 295 c.p.c., in attesa del passaggio in
giudicato della sentenza emessa nei confronti della società, costituendo l’accertamento tributario nei
confronti della società un indispensabile antecedente logico-giuridico di quello nei confronti dei soci,
in virtù dell’unico atto amministrativo da cui entrambe le rettifiche promanano, e non ricorrendo, com’è
per le società di persone, un’ipotesi di litisconsorzio necessario”.
Va da sè, ovviamente, che l’annullamento dell’avviso di accertamento in capo alla società, facendo
venire meno il “fatto noto”, rende del tutto infondato l’avviso di accertamento in capo ai soci
(conclusione ribadita varie volte dalla Corte di Cassazione, tra cui recentemente le sentenze n.
29162/2017 e n. 13084/2017). Di contro, nel caso di validazione dell’accertamento societario,
spetterà poi al socio resistere, sia invocando l’assenza di un’idonea prova di attribuzione dell’utile
(come in precedenza specificato), sia procedendo alla difesa di merito.
Nel merito della vicenda, in particolare, resta ovviamente salva la facoltà del contribuente di fornire in
giudizio la prova che i maggiori ricavi non sono mai stati distribuiti nei suoi confronti, o perché
riutilizzati dalla società (è il caso classico del sostenimento di costi non fatturati), o in quanto appropriati
solo da parte di alcuni dei soci. In tale ultima direzione, in diversi giudicati è emersa come valida tesi
difensiva la possibilità di dimostrare l’estraneità del singolo socio alla gestione, ovvero (ancora più
efficacemente) il dissidio sussistente con i soci “di riferimento”, essendo verosimile che chi possiede
una partecipazione di scarso rilievo e chi si sia negli anni opposto alle scelte di gestione non abbia
Accertamento
18 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
avuto alcun ruolo nella “spartizione” di un eventuale utile extracontabile, destinato alle tasche dei soci
“dominanti”. Particolare, ad esempio, è quanto emerge dalla sentenza n. 311/2017, CTR Sardegna che,
ha annullato l’avviso di accertamento nei confronti del socio essendosi in presenza di un mero
“prestanome”, solo apparentemente socio ma, in realtà, completamente estraneo alla gestione e dunque
impossibilitato ad appropriarsi dell’eventuale utile extracontabile.
La Sentenza n. 4660/XIII/2017, CTR Lombardia
Con un recente giudicato della CTR di Milano, sentenza n. 4660/XIII/2017 è stato aggiunto un tassello
innovativo alla tematica in esame, prevedendosi che nei confronti dell’ex socio deve necessariamente
essere esteso il contraddittorio preventivo riguardante la rettifica della dichiarazione presentata dalla
società, pena la nullità dell’atto impositivo fondato sulla presunzione di distribuzione di utili extra-
contabili.
Nel giudizio sottoposto all’attenzione dei giudici meneghini, l’ex socio aveva proposto ricorso contro
l’avviso di accertamento emesso a suo carico ai fini Irpef per il presunto utile extra-contabile ricevuto,
facendo presente di avere ceduto la propria partecipazione prima dell’inizio della verifica alla società
e, dunque, di essere rimasto estraneo all'attività istruttoria, lamentando, tra le altre eccezioni, la
mancanza di contraddittorio preventivo. Il ricorso del socio è stato accolto dalla CTP di Milano e la CTR
della Lombardia ha confermato la statuizione di primo grado, respingendo l’eccezione dell’appellante
Agenzia delle entrate relativa alla violazione di legge in riferimento all’articolo 12, comma 7, L.
212/20001. Le Commissioni tributarie meneghine hanno dato respiro alla tesi difensiva, sottolineando
in particolare la mancata partecipazione del contribuente al contraddittorio preventivo, principio
invocato a grande forza dalla CTR di Milano, nella conferma della decisione della CTP già favorevole
alla parte ricorrente. Nell’atto di appello, infatti, l’Agenzia delle entrate, ha lamentato l'inesatta
interpretazione dell'articolo 12, comma 7, L. 212/2000 (St. Contribuente), rinviando all’insegnamento
delle SS.UU., sentenza n. 24823/20152.
1 Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, l’articolo 12, L. 212/2000, si riferisce espressamente agli “accessi,
ispezioni e verifiche fiscali nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali”, sicché la norma
delimita esplicitamente il perimetro applicativo delle disposizioni poste a tutela del contribuente, di cui al comma 7, alle visite ispettive in
loco. Il contribuente sottoposto a verifiche fiscali, l'articolo 12, comma 7, L. 212/2000, deve essere interpretato nel senso che l'inosservanza
del termine dilatorio di sessanta giorni per l'emanazione dell'avviso di accertamento, termine decorrente dal rilascio al contribuente, nei cui
confronti sia stato effettuato un accesso, un'ispezione o una verifica nei locali destinati all'esercizio dell'attività, della copia del processo
verbale di chiusura delle operazioni, determina di per sé, salvo che ricorrano specifiche ragioni di urgenza, la illegittimità dell'atto impositivo
emesso ante tempus, poiché detto termine è posto a garanzia del pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale, il quale costituisce
primaria espressione dei principi, di derivazione costituzionale, di collaborazione e buona fede tra amministrazione e contribuente ed è diretto
al migliore e più efficace esercizio della potestà impositiva. 2 Sentenza n. 24823/2015. Diversamente dal diritto dell'Unione Europea, il diritto nazionale, allo stato della legislazione, non pone in capo
all'Amministrazione fiscale che si appresti ad adottare un provvedimento lesivo dei diritti del contribuente, in assenza di specifica prescrizione,
un generalizzato obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, comportante, in caso di violazione, l'invalidità dell'atto. Ne deriva che, in
Accertamento
19 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
La tesi non è stata accolta dalla CTR, che ha invece sottolineato che l’attività di verifica era stata
svolta nel 2012 nei confronti dei nuovi soci, che certamente non potevano riferire in ordine
all’anno in contestazione, 2009, essendo essi subentrati nel 2011. A tale attività era dunque
rimasto del tutto estraneo l’ex socio, in palese violazione del principio del contraddittorio.
I giudici milanesi hanno in particolare evidenziato come la Suprema Corte, con le pronunce n. 406/2015,
nonché quella a SS.UU. n. 351/2009, in linea con la sentenza della Corte di Giustizia dell’UE, del 18
dicembre 2008, abbia ripetutamente ribadito la necessità di garantire al contribuente la partecipazione
attiva alla fase dell’accertamento del tributo, producendo documenti e formulando osservazioni,
anticipando in tal modo l’esercizio del diritto di difesa, da esercitarsi poi eventualmente nella fase
processuale: ne deriva che il mancato rispetto, nel caso esaminato, del principio del contraddittorio non
poteva che riverberarsi sull’atto impositivo, da ritenersi invalido, in quanto emesso in contrasto con
l’articolo 12, comma 7, L. 212/2000, da ritenersi norma imperativa, poiché volta a dare attuazione a un
principio comunitario inderogabile.
tema di tributi "non armonizzati", l'obbligo dell'Amministrazione di attivare il contraddittorio endoprocedimentale, pena l'invalidità dell'atto,
sussiste esclusivamente in relazione alle ipotesi, per le quali detto obbligo risulti specificamente sancito (NdR è il caso dell’articolo 12, comma
7, L. 212/2000); mentre in tema di tributi "armonizzati", avendo luogo la diretta applicazione del diritto dell'Unione, la violazione dell'obbligo
del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell'Amministrazione comporta in ogni caso, anche in campo tributario, l'invalidità dell'atto,
purché, in giudizio, il contribuente assolva l'onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio
fosse stato tempestivamente attivato, e che l'opposizione di dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio),
si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede e al principio di lealtà
processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell'interesse sostanziale, per le quali è stato
predisposto.
Riscossione
20 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
Accertamento e contenzioso n. 42/2018
L’evasore fiscale seriale, “socialmente
pericoloso”: le considerazioni espresse
dalla Guardia di Finanza di Gianfranco Antico - pubblicista
Gli effetti distorsivi dell’evasione fiscale, sull’allocazione delle risorse economiche, sul
normale funzionamento del mercato, sull’equità e progressività del sistema tributario, hanno
indotto il Legislatore, al fine di contrastare i fenomeni evasivi ed elusivi più pericolosi, a
prevedere diversi strumenti di carattere preventivo e repressivo, sia in campo amministrativo
sia penale. Attraverso le precise indicazioni fornite dalla Guardia di Finanza, con il manuale
operativo in materia di contrasto all’evasione e alle frodi fiscali, circolare n. 1/2018, ci
occupiamo delle misure di prevenzione, per l’importanza crescente che hanno assunto,
soffermandosi sulla nuova figura del contribuente evasore, “socialmente pericoloso”.
Premessa
L’evasione fiscale determina effetti distorsivi sull’allocazione delle risorse economiche, interferisce con
il normale funzionamento del mercato, altera l’equità e la progressività del sistema tributario, è
sinergica alla corruzione e alla criminalità economico/organizzata, in palese violazione dei principi
fondamentali sanciti dagli articoli 2, 3, comma 2, e 53 della Costituzione1.
Ai fini del contrasto delle fenomenologie evasive ed elusive, in considerazione dell’abitualità e della
rilevanza degli illeciti tributari, il Legislatore ha fatto ricorso, nel tempo, a diversi strumenti di carattere
preventivo e repressivo, sia in campo amministrativo sia penale.
In questo contesto, importanza crescente hanno assunto, da ultimo, le misure di prevenzione
patrimoniale, la cui applicazione prescinde dall’accertamento dei reati, basandosi unicamente sulla
previsione di futuri comportamenti criminosi (c.d. “criterio di probabilità”).
Le misure “ante delictum” sono oggi organicamente disciplinate nel Codice delle Leggi Antimafia, D.Lgs.
159/2011, recentemente oggetto di riforma a opera della L. 161/2017.
1 Sul tema cfr. A. Marcheselli, S.M. Ronco, “L’evasore fiscalmente pericoloso: prevenzione patrimoniale e contrasto agli illeciti fiscali”, in Corriere
Tributario, n. 13/2018, pag. 1000.
Riscossione
21 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
Osserva la Guardia di Finanza, nella circolare n. 1/2018, che il concetto di “pericolosità sociale”,
rimasto presupposto soggettivo indefettibile per l’applicazione delle misure di prevenzione, “ben
si presta a ricomprendere anche reati (o condotte illecite) non strettamente di criminalità organizzata,
come quelle di evasione fiscale”.
Ne deriva un ulteriore e più efficace strumento di aggressione patrimoniale nei confronti del c.d.
“evasore fiscale socialmente pericoloso”, ovvero “ quel soggetto dedito alla commissione di traffici delittuosi,
che vive con i proventi di evasione fiscale e delitti connessi, anche mediante il loro reinvestimento, nei cui
confronti potrà applicarsi la misura del sequestro, prodromico alla confisca preventiva dei beni illecitamente
detenuti, a seguito della accertata abitualità a delinquere e della rilevanza degli illeciti tributari commessi”.
Il presupposto soggettivo
La “pericolosità comune”, secondo il Codice Antimafia, è riferibile alle persone che, sulla base di elementi
di fatto, debbano ritenersi dedite abitualmente a traffici delittuosi ovvero che vivono abitualmente, per
la condotta e il tenore di vita, anche in parte, dei proventi di attività delittuose.
Per il carattere aperto del dettato normativo – che parla genericamente di “delitti”, la nozione in
questione risulta estensibile ai reati tributari, tra cui, in via esemplificativa, le fattispecie di cui al D.Lgs.
74/2000, pur se non accertate.
Ai fini dell’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali non è comunque sufficiente la
sistematica violazione di norme tributarie, essendo necessario che le condotte realizzate, oltre che avere
il carattere dell’abitualità, rientrino nell’area dell’illecito penale2.
Il presupposto oggettivo
Accertata la sussistenza del presupposto soggettivo, per procedere al sequestro e alla successiva
confisca dei beni, deve ricorrere, alternativamente, uno dei sottonotati requisiti, riferiti alla disponibilità,
diretta o indiretta, di beni da parte del prevenuto (articoli 20 e 24, D.Lgs. 159/2011):
− tali beni devono risultare in valore sproporzionato rispetto al reddito dichiarato o all’attività
economica svolta;
− devono ricorrere sufficienti indizi per desumere che essi siano frutto di attività illecite o ne
costituiscano il reimpiego.
2 Cassazione, sentenza n. 6067/2017.
Riscossione
22 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
Per i beni intestati a terzi soggetti è necessario che sussistano indizi gravi, precisi e concordanti circa
la fittizietà dell’intestazione e l’effettiva riconducibilità al proposto dei cespiti patrimoniali oggetto di
indagine.
La norma ha introdotto una presunzione legale relativa in merito a determinati trasferimenti
patrimoniali. Si presumono fittizi, fino a prova contraria:
− i trasferimenti e le intestazioni, anche a titolo oneroso, effettuati nei 2 anni antecedenti alla
proposta della misura di prevenzione, nei confronti dell’ascendente, del discendente, del coniuge
o della persona stabilmente convivente, nonché dei parenti entro il sesto grado e degli affini
entro il quarto grado;
− i trasferimenti e le intestazioni, a titolo gratuito o fiduciario, effettuati nei 2 anni antecedenti
alla proposta della misura di prevenzione.
Osserva la GdF che
“non assume alcuna rilevanza un’eventuale giustificazione fornita dall’interessato secondo cui la
disponibilità dei beni possa trovare origine in un’evasione fiscale, anche solo parziale”.
In caso di incoerenza, tra patrimonio e reddito o attività economica esercitata, in capo al proposto e al
suo nucleo familiare, sarà valutata la c.d. “sperequazione economica”, ossia l’incongruità tra il patrimonio
dell’indiziato e la propria lecita capacità reddituale.
Le regole procedurali
La prerogativa di proporre l’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali nei confronti dei
soggetti a “pericolosità comune” è di competenza oltre che del Procuratore della Repubblica presso il
Tribunale del capoluogo del distretto “anche” del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale nel
cui circondario dimora la persona.
Alle autorità titolari del potere di proposta sulle misure di prevenzione patrimoniali è data anche la
possibilità di accedere al Sistema di interscambio flussi dati (SID) dell’Agenzia delle entrate e di
richiedere quanto ritenuto utile ai fini investigativi.
Le indagini patrimoniali, a mente dell’articolo 19, comma 3, Codice Antimafia, vengono eseguite nei
confronti dell’indiziato, del coniuge, dei figli e di coloro che, nell’ultimo quinquennio, abbiano
convissuto con il proposto, nonché nei confronti delle persone fisiche o giuridiche, società, consorzi o
associazioni, del cui patrimonio i soggetti medesimi risultino poter disporre, in tutto o in parte,
direttamente o indirettamente.
Riscossione
23 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
L’esito positivo delle indagini deve essere posto alla base della richiesta di applicazione della misura
di prevenzione patrimoniale reale.
Le misure di prevenzione patrimoniali introdotte dal Codice delle Leggi Antimafia possono essere
applicate:
− disgiuntamente dalle misure di carattere personale;
− indipendentemente dalla pericolosità sociale, al momento della richiesta, del soggetto proposto per
la loro applicazione;
− anche con riguardo a beni già sequestrati nel corso di un procedimento penale.
I provvedimenti cautelari finalizzati ad anticipare e ad assicurare gli effetti della confisca (rispetto alla
quale, dunque, essi assumono natura strumentale), sono il sequestro, il sequestro anticipato e il
sequestro urgente da convalidare entro 30 giorni, pena la perdita della sua efficacia.
Oltre al sequestro di valori ingiustificati, il decreto del Tribunale può disporre:
− l’Amministrazione giudiziaria di aziende nonché di beni strumentali all’esercizio delle relative attività
economiche;
− il controllo giudiziario dell'azienda.
La confisca, invece, consiste in un provvedimento di natura ablativa che comporta la devoluzione allo
Stato dei beni (mobili, immobili, mobili registrati, crediti, etc.).
Il Codice delle Leggi Antimafia contempla, inoltre, l’applicazione del provvedimento ablativo (sequestro
e confisca) nella forma per equivalente.
I rapporti fra procedimento penale e procedimento di prevenzione
In forza di quanto prescritto dall’articolo 29, D.Lgs. 159/2011, il procedimento di prevenzione può essere
avviato indipendentemente dall’esercizio di un’azione penale nei confronti del proposto.
Il successivo articolo 30, D.Lgs. 159/2011 disciplina i rapporti fra sequestro e confisca disposti in ambito
penale e in sede di applicazione della misura di prevenzione.
I due procedimenti possono coesistere, anche simultaneamente. Sul punto, a conferma, la Corte
di Cassazione, con sentenza n. 40552/2017, ha affermato la piena autonomia dei 2 tipi di
procedimenti, quello penale e quello di prevenzione.
Gli stessi giudici hanno ritenuto irrilevante, ai fini della confisca di prevenzione, la circostanza che il
soggetto indagato fosse incensurato ed estraneo a contesti mafiosi, essendo sufficiente, ai fini
dell’applicazione delle misure preventive, solo che il soggetto si sia dedicato in modo sistematico e
Riscossione
24 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
professionale ad attività delinquenziali, realizzando ingenti evasioni fiscali, sempre rientranti nell’area
dell’illecito penale.
L’evasore fiscale socialmente pericoloso
La ricorrenza dei presupposti soggettivi, vale a dire la riconducibilità della persona a una delle categorie
soggettive che consentano l’applicabilità della misura preventiva, prima ancora della presenza dei
presupposti oggettivi, caratterizzanti la figura dell’evasore fiscale socialmente pericoloso, non può
essere desunta da condotte isolate, ma deve essere il frutto di un comportamento illecito ripetuto e/o
seriale, idoneo a configurare uno dei reati previsti dal D.Lgs. 74/2000, pur se non accertati.
Rileva la GdF nel corpo della circolare n. 1/2018 che occorre
“una condotta abitudinaria, non occasionale, reiterata nel tempo, tale da far ritenere che il soggetto
sia pericoloso e, pertanto, assoggettabile a forme di controllo finalizzate a prevenire la commissione di
futuri illeciti, soprattutto mediante la sottrazione dei beni illecitamente acquisiti nella manifestazione
di tale pericolosità. In aggiunta, le condotte illecite devono riguardare, come nel caso dei reati fiscali,
diversi periodi d’imposta, anche se segnalate in seno a un’unica comunicazione di notizia di reato”.
L’accertamento della pericolosità implica un giudizio globale sulla personalità del proposto, alla cui
formazione concorrono i precedenti penali e fiscali, specie se confluiti in provvedimenti giudiziali o di
accertamento e riscossione, ma anche tutta una serie di ulteriori comportamenti (anche penalmente
irrilevanti), purtuttavia sintomatici, unitamente ad altri elementi e opportuni riscontri, della pericolosità
sociale del soggetto3.
Il Comando Generale della GdF detta ai propri reparti precise indicazioni: la formulazione di una
richiesta di applicazione di misura patrimoniale preventiva nei confronti di un evasore fiscale deve
essere strutturata
“su un quadro indiziario compendiante ogni notizia o elemento utile a dimostrare, sotto il profilo
soggettivo, con un giudizio prognostico, la tendenza delinquenziale del soggetto proposto preordinata
a commettere gravi condotte illecite quali, a titolo esemplificativo e non esaustivo, l’omessa
presentazione delle dichiarazioni fiscali per consistenti importi o la presentazione di dichiarazioni
fiscali fraudolente/infedeli, l’emissione di fatture per operazioni inesistenti, l’indebita sottrazione di
beni alla pretesa erariale, delitti contro il patrimonio e in materia di diritto fallimentare, l’utilizzo di
schemi societari fondati sul ricorso a soggetti giuridici sottoposti a giurisdizioni off-shore, violazioni in
3 Sono valorizzabili anche le condotte di evasione non più aggredibili sul piano amministrativo, a causa dell’intervenuta decadenza dei termini
dell’accertamento.
Riscossione
25 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
materia di lavoro e di contribuzione, fattispecie di riciclaggio e di circolazione di attività finanziarie,
anche mediante l’appartenenza ad associazioni per delinquere finalizzate alla commissione di reati”,
dimostrando inoltre, la sproporzione patrimonio/reddito o, in alternativa, la presenza di sufficienti
indizi tali da ritenere che il patrimonio sia frutto o reimpiego di attività illecite.
L’orientamento giurisprudenziale
Se chi evade in maniera abituale, al pari di chi realizza altre condotte delittuose, può essere considerato
socialmente pericoloso e, dunque, sottoposto a misure di prevenzione, sia personali sia patrimoniali4,
gli orientamenti maturati con riguardo alla confisca di prevenzione, non ammettono l’evasione a titolo
giustificativo dell’accertata sproporzione redditi-patrimonio, essendo sufficiente ai fini della sua
applicazione la mera dimostrazione dell’illecita provenienza (a qualsiasi titolo) dei beni5.
L’irrilevanza dell’esistenza di redditi non dichiarati al fine di escludere l'operatività delle misure
preventive poggia, da ultimo, sulla sentenza n. 33451/2014 della Corte di Cassazione, a SS.UU.,
secondo cui:
− l’evasione fiscale, indipendentemente dai suoi riflessi penali, è sempre un’attività illecita;
− i redditi non dichiarati, pur se prodotti a seguito dello svolgimento di attività legali, non possono
mai essere presi in considerazione ai fini della dimostrazione della coerenza del patrimonio
posseduto;
− la provvista finanziaria formatasi per effetto della mancata denuncia all’Erario costituisce
sempre un provento ottenuto illegalmente.
Nella stessa pronuncia, viene, tra l’altro, definitivamente risolta la questione della “scorporabilità” tra
proventi leciti e illeciti: l’evasione fiscale, specie se sistematicamente ripetuta negli anni e per importi
rilevanti, comporta sempre e inevitabilmente il reimpiego dei suoi proventi nel circuito economico
dell’evasore, generando così una “confusione”, destinata a moltiplicarsi nel tempo, tra ciò che è di origine
lecita (attività d’impresa) e ciò che, invece, non lo è (provento non dichiarato), “con una sorta di
«anatocismo dell'illecito» per l'inevitabile effetto moltiplicatore”.
Ne consegue che:
- “laddove la quota (di evasione fiscale) indebitamente trattenuta venga successivamente reinvestita
in attività di tipo commerciale, è al contempo evidente che i profitti di tale attività risultano inquinati
dalla metodologia di reinvestimento della frazione imputabile alle pregresse attività elusive”;
4 Sentenze dei Tribunali di Chieti del 12 luglio 2012 e di Cremona del 22 gennaio 2013. 5 Cfr. Cassazione, sentenza n. 27037/2012.
Riscossione
26 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
- “non ha senso, né giuridicamente né tanto meno economicamente, stabilire quale sia la quota
confiscabile dei beni in cui è avvenuto tale reinvestimento, anche perché, per legge economica, è ovvio
che ove non vi fosse stato l’impiego dei capitali illeciti non si sarebbero ottenuti i risultati così
raggiunti” (cfr. Cassazione, SS.UU. n. 33451/2014).
In definitiva, i giudici di legittimità hanno evidenziato che i proventi oggetto di evasione
determinano un “inquinamento, per definizione e per legge logico-economica, omnipervasivo e
travolgente”.
La circolare n.1/2018 della GdF ha ricordato che l’orientamento giurisprudenziale formatosi nel tempo
circa l’irrilevanza dell’esistenza di redditi non dichiarati al Fisco, ai fini dell’esclusione delle misure
preventive, ha trovato formale ingresso normativo nel nuovo articolo 24, come modificato dalla Legge
di riforma al Codice Antimafia. Viene, infatti, chiarito ex lege che:
“in ogni caso il proposto non può giustificare la legittima provenienza dei beni adducendo che il denaro
utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell'evasione fiscale”.
Con riguardo al tema relativo ai rapporti tra le misure di prevenzione patrimoniali e le disposizioni
normative, nel tempo intervenute, volte a favorire la regolarizzazione/reimpatrio di somme non
dichiarate all’Erario e/o detenute illecitamente all’estero (relative ai cc.dd. “condoni fiscali, previdenziali
e valutari”), facendo leva su precedenti pronunce giurisprudenziali6, la GdF ha affermato che “il rientro
di capitali dall’estero, pertanto, anche quando sia in linea con i requisiti previsti da una sanatoria fiscale, non
è sic et simpliciter immune dall’applicazione degli istituti del sequestro e della confisca di prevenzione”, e
tale assunto appare suscettibile di estensione interpretativa anche con riferimento alla procedura di
collaborazione volontaria (c.d. “voluntary disclosure”), introdotta dalla L. 186/2014, e prorogata dal D.L.
193/2016.
Particolarmente interessante appare l’analisi operata – con l’ausilio della giurisprudenza – della
compatibilità tra la confisca di prevenzione e ulteriori, diversi istituti deflattivi del contenzioso
tributario, tra i quali, in particolare, l’accertamento con adesione e il ravvedimento operoso c.d.
“allargato”. Nello specifico contesto, viene richiamata la sentenza del Tribunale di Milano 9 febbraio
2015, divenuta definitiva, nei confronti degli eredi di un proposto, il quale aveva definito le proprie
pendenze fiscali attraverso l’istituto dell’accertamento con adesione. La difesa aveva eccepito che, nella
valutazione della pericolosità sociale del de cuius, evasore fiscale seriale, sarebbero dovute essere
6 Cassazione n. 2181/1999 e n. 36762/2003. L’adesione a un condono fiscale, in sostanza, non esclude, di per sé, la provenienza illecita del
patrimonio, né elide ex post la “illiceità originaria” consistente nell’evasione fiscale. Su tali posizioni si è attestato il citato pronunciamento
delle Sezioni Unite n. 33451/2014.
Riscossione
27 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
considerate le condotte risarcitorie poste in essere dal medesimo in sede di adesione e la restituzione
di parte delle somme evase effettuata nell’ambito del procedimento penale. A riscontro, il Tribunale ha
rilevato che
“le condotte collaborative/riparatorie non risultano dirimenti nel giudizio di pericolosità sociale, sia
perché ai fini dell’applicazione della confisca è sufficiente accertare la cosiddetta pericolosità sociale
storica, che ben può esistere solo in un periodo della vita di una persona, sia perché la tempistica di
tali scelte porta a ritenerle frutto di una strategia difensiva certamente legittima, ma non valorizzabile
anche quale segno di sincero distacco dal precedente operato”.
La GdF ritiene che simili conclusioni potrebbero essere formulate, in attesa di una maggiore
sedimentazione giurisprudenziale avuto riguardo a taluni, ulteriori istituti previsti dal D.Lgs. 74/2000 e,
segnatamente, all’impegno assunto dal contribuente imputato a versare all’erario il debito tributario
per evitare la confisca in sede giudiziaria (articolo 12-bis, comma 2, D.Lgs. 74/2000), al suo integrale
assolvimento al fine di scongiurare la punibilità da specifiche fattispecie ovvero di vedersi riconoscere
un’attenuante speciale, anche in caso di prescrizione o decadenza della pretesa erariale (articoli 13, 13-
bis e 14, D.Lgs. 74/2000).
Il necessario nesso di prossimità logico temporale tra l’arricchimento patrimoniale, oggetto della
richiesta di sequestro, e le condotte che provano la pericolosità del proposto, richiesto per i casi di
“pericolosità comune”, secondo la Suprema Corte deriva
“dall’apprezzamento dello stesso presupposto giustificativo della confisca di prevenzione, ossia dalla
ragionevole presunzione che il bene sia stato acquistato con i proventi dell’attività illecita (restando
così, affetto da illiceità per così dire genetica o, come si è detto in dottrina, «patologia ontologica») ed
è, dunque, pienamente coerente con la ribadita natura preventiva della misura in esame”
(Cassazione, SS.UU., n. 4880/2015).
Osserva la GdF che “per l’evasore fiscale, quindi, si rende sempre necessario tracciare una
perimetrazione cronologica delle acquisizioni dei beni rispetto al momento della commissione dei reati,
in mancanza della quale lo strumento ablatorio della confisca di prevenzione potrebbe trasformarsi in
una vera e propria sanzione, in evidente contrasto con le finalità perseguite dal Legislatore. In ogni
caso, fermo restando che l’ambito cronologico dell’esplicazione della pericolosità è “misura”
dell'ablazione e che la proiezione temporale di tale condizione non sempre è circoscrivibile a un
determinato arco temporale, nell'ipotesi in cui detta pericolosità investa l’intero percorso esistenziale
del proposto e ricorrano i requisiti di legge, sarà pienamente legittima l’apprensione di tutte le
Riscossione
28 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
componenti patrimoniali ed utilità, di presumibile illecita provenienza, delle quali non risulti, in alcun
modo, giustificato il legittimo possesso”.
A margine del contesto giurisprudenziale osservato, la GdF dà il giusto risalto alla sentenza del 23 febbraio
2017 della Grande Camera della Corte Europea (application n. 43395/09, caso De Tommaso contro Italia),
che ha esaminato l’applicazione della misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale con
obbligo di soggiorno nei confronti di un soggetto a pericolosità generica, in relazione alla quale l’organo
adito (per la prima volta) ha ritenuto che gli articoli 1, 3 e 5, L. 1423/1956 (norme in parte riprese dal
D.Lgs. 159/2011), violassero l’articolo 2 del IV Protocollo Addizionale CEDU (che garantisce la libertà di
circolazione). Come evidenziato dagli estensori della circolare n.1/2018 della GdF,
“l’eccezione sollevata dalla Corte è basata non sulla conformità ai principi CEDU del sistema delle
misure di prevenzione o del procedimento posto alla base della loro applicazione (orientamento già
consolidato), ma sul fatto che la norma riferita ai soggetti a pericolosità generica, pur essendo
accessibile, non garantirebbe la prevedibilità della misura, la cui applicazione sarebbe rimessa
all’eccessiva discrezionalità del giudice. In particolare, la Corte EDU lamenta la mancanza di tassatività
della normativa nel determinare le categorie dei destinatari nonché lo stesso contenuto della misura
di prevenzione personale”.
La questione sollevata dalla Corte Europea ha registrato, in sede nazionale, posizioni differenti: la Corte
di Appello di Napoli (ordinanza 14 marzo 2017) lo ha ritenuto un precedente cui uniformarsi, mentre di
diverso avviso la posizione espressa da altra giurisprudenza di merito (Tribunale di Milano, 7 marzo
2017).
Ancora su tali aspetti va registrata la successiva pronuncia della Cassazione n. 53003/2017, che è
intervenuta proprio sui presupposti della c.d. pericolosità sociale generica, attraverso una pronuncia
complessa e articolata. In particolare, per la Corte, a prescindere dalla natura tributaria dei reati, l’aver
ritenuto sussistente la pericolosità generica dell’imputato, sulla base di mere risultanze di indagini
afferenti a procedimenti penali pendenti, costituisce applicazione distorta ed erronea del concetto di
pericolosità generica. Inoltre, il concetto di abitualità rilevante ai fini della pericolosità generica non
può prescindere dal pregresso accertamento in sede penale dell’avvenuta commissione di fatti
integranti delitti che danno luogo a proventi illeciti o implicanti l’esercizio di traffici parimenti connotati
da modalità illecite, sulla scia della decisione della sentenza De Tommaso, che ha posto in risalto la
necessità di una “valutazione oggettiva delle prove che rivelino il comportamento e lo standard di vita
dell’individuo” o la messa in evidenza di “segni specifici esteriori” delle sue tendenze criminali.
Riscossione
29 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
La Corte, quindi, ha ritenuto di aderire a un precedente orientamento di legittimità7 secondo l’essere
semplicemente evasore fiscale non è sufficiente ai fini del giudizio di pericolosità generica che legittima
l’applicazione della confisca, atteso che sono necessari i requisiti di cui agli articoli 1 e 4, D.Lgs.
159/2011, che concernono i soggetti abitualmente dediti a traffici delittuosi e che vivono abitualmente,
anche in parte, con i proventi di attività delittuose. Requisiti che possono essere presenti nell’evasore
fiscale ma che non lo sono automaticamente e necessariamente.
Un percorso operativo
La circolare n. 1/2018 GdF delinea, altresì, un possibile percorso operativo, del tutto indicativo, di ausilio
ai militari del Corpo, che è comunque di interesse per tutti gli addetti ai lavori, per comprendere i
ragionamenti che vengono effettuati in questi casi.
Nell’esecuzione degli accertamenti economico-patrimoniali finalizzati all’eventuale proposta di
applicazione di una misura preventiva patrimoniale, i militari procedono preliminarmente alla
ricostruzione del profilo soggettivo e oggettivo dell’indiziato.
Proposta di applicazione di misura preventiva patrimoniale
Profilo
soggettivo
Profilazione anagrafica, ricognizione dei precedenti penali e di polizia,
acquisizione di ulteriori elementi di contesto, anche da fonti aperte
Profilo oggettivo Redditi dichiarati, attività economiche esercitate, partecipazioni e incarichi
societari, cointeressenze, proprietà immobiliari e mobiliari
Successivamente, verrà verificato il requisito della sperequazione economica ovvero quello del
reimpiego.
Per la ricostruzione del profilo soggettivo dell’indiziato, i militari potranno, a titolo esemplificativo:
− eseguire accertamenti anagrafici nei confronti del proposto, dei familiari e dei conviventi nell’ultimo
quinquennio, estendendola anche agli altri familiari non conviventi (padre, madre, fratelli e sorelle);
− acquisire i precedenti penali e di Polizia, mediante la consultazione del casellario giudiziale,
dell’archivio dei carichi pendenti e dello schedario del Reparto, nonché mediante l’interrogazione delle
diverse banche dati disponibili.
L’obiettivo principale dell’indagine è, infatti, quello di far emergere la pericolosità sociale
dell’indiziato, intesa quale attitudine a commettere illeciti, “che si esprime con comportamenti di
7 Sentenza n. 6067/2016.
Riscossione
30 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
varia natura, non definiti tassativamente, ma che inducano a ritenere come probabile la futura
commissione di reati”.
Il manuale sui controlli rileva che significativi saranno
“gli accertamenti sui precedenti fiscali, penali e di polizia, anche se i procedimenti penali nei quali
l’indiziato sia stato coinvolto si fossero conclusi con assoluzioni (non nel merito) o con pronunce di
non punibilità, ad esempio: in ragione dell’intervenuta prescrizione, posto che l’applicazione delle
misure di prevenzione non richiede, come detto, la necessità di una condanna”.
Per delineare il profilo oggettivo dell’indiziato, invece, i militari procedono, in via esemplificativa:
− a rilevare il profilo reddituale, mediante la consultazione delle banche dati;
− ad acquisire le informazioni sulle attività economiche esercitate, sulle cointeressenze societarie, sulla
titolarità di licenze e sui ruoli societari ricoperti dal proposto e dai propri familiari e/o conviventi,
incrociando i dati estrapolati dalle banche dati Anagrafe Tributaria, Serpico Profilato e Telemaco;
− a censire le informazioni di natura finanziaria;
− a individuare il patrimonio immobiliare;
− a ricostruire il patrimonio mobiliare registrato.
Ulteriormente, al fine di verificare l’eventuale incoerenza tra redditi e patrimonio in capo al proposto,
possono essere acquisiti dati concernenti la capacità di spesa riportati nel c.d. “spesometro” e potrà
essere rilevato il c.d. “consumo medio mensile” (alimentari e non alimentari) di una famiglia italiana
(relativo all’arco temporale oggetto di indagine).
Osserva la GdF che,
“l’obiettivo delle indagini patrimoniali non va perseguito mediante il ricorso esclusivo alle banche dati,
pur di indubbia utilità ma, deve essere espressione di una più ampia attività estensibile anche ad
acquisizioni documentali presso terzi, ad assunzioni testimoniali ed al sequestro delegato di quanto
ritenuto utile a dimostrare la sproporzione fra patrimonio e redditi/attività dichiarate”.
L’insieme di tutte le informazioni raccolte deve essere utilizzato per la redazione del “prospetto della
coerenza/incoerenza patrimoniale”, al fine di verificare, alternativamente:
− l’eventuale sperequazione economica esistente fra i redditi lecitamente dichiarati dal proposto, dai
membri del proprio nucleo familiare (conviventi dell’ultimo quinquennio) e da terzi (di cui il proposto
abbia la titolarità per interposta persona) rispetto agli investimenti effettuati;
− il ricorrere di sufficienti indizi per desumere che essi siano frutto di attività illecite o ne costituiscono
il reimpiego.
Riscossione
31 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
L’angolo pratico
In sintesi, indichiamo, i punti salienti sulle misure di prevenzione, tese all’ablazione dei beni
illecitamente acquisiti
Misure di prevenzione
Evasore fiscale socialmente pericoloso Orientamenti giurisprudenziali Il percorso operativo
pericolosità
sociale
pericolosità
comune
regole procedurali;
avvio del
procedimento di
prevenzione
indipendentemente
dall’esercizio
dell’azione penale
l’evasione non giustifica
l’accertata sproporzione redditi-
patrimonio, essendo sufficiente
la mera dimostrazione
dell’illecita provenienza (a
qualsiasi titolo) dei beni
compatibilità o meno tra la
confisca di prevenzione e
ulteriori, diversi istituti deflattivi
del contenzioso tributario
(accertamento con adesione e
ravvedimento operoso)
ricostruzione del
profilo soggettivo e
oggettivo dell’indagato
spesometro
consumo medio
mensile
acquisizione di ogni
elemento utile
Riscossione
32 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
Accertamento e contenzioso n. 42/2018
Il modello F24 a saldo zero può essere
prodotto anche in giudizio di Giovanni Valcarenghi - ragioniere commercialista, revisore legale e pubblicista
La Cassazione, con ordinanza 13931 dello scorso 31 maggio, ha affermato che il
contribuente può sempre opporsi, anche in sede contenziosa, alla maggiore pretesa tributaria
dell'Amministrazione finanziaria, allegando errori, di fatto o di diritto, commessi nella
redazione della dichiarazione, incidenti sull'obbligazione tributari. Pertanto, tale sanatoria
consente anche di far valere l’omessa presentazione di un modello F24 a saldo zero, qualora
il credito non sia contestato dall’Agenzia delle entrate.
L’omessa presentazione del modello di versamento F24 con saldo zero può essere sanata anche in sede
contenziosa, resistendo alla pretesa dell’Amministrazione finanziaria che contesta il mancato
versamento del tributo senza avere disconosciuto l’esistenza del credito che si presume essere stato
compensato.
Questo l’importante insegnamento ritraibile dall’ordinanza 13931/2018, con la quale la Corte di
Cassazione ha accolto il ricorso di un contribuente (inizialmente soccombente in CTR) che, pur avendo
a disposizione un credito da compensare, non ha presentato il modello F24 a saldo zero.
Non è possibile, al momento, stabilire se sia corretto trascurare l’adempimento di segnalazione della
compensazione. Certamente, appare evidente che dietro all’input della Suprema Corte si può leggere
chiaro un messaggio: l’Amministrazione finanziaria dovrebbe evidenziare, dalla liquidazione
automatizzata delle dichiarazioni, sia i debiti non versati sia le eccedenze di credito non utilizzate in
compensazione, non limitandosi a una visione “parziale” (in tutti i sensi) delle informazioni presenti in
Anagrafe tributaria.
Probabilmente, da una tale analisi potrebbero derivare solo irrogazioni di sanzioni nell’importo minimo
previsto, circostanza sicuramente maggiormente accettata dai contribuenti.
Il modello F24 con saldo zero: panoramica generale
L’articolo 19, D.Lgs. 241/1997 tratta delle modalità di versamento mediante delega irrevocabile a una
banca convenzionata, in relazione all’importo di imposte, contributi, premi previdenziali e assistenziali
e delle altre somme, al netto della compensazione.
Riscossione
33 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
La banca rilascia al contribuente un'attestazione dalla quale, aggiunge la norma, si deve evincere
l’indicazione dei crediti per i quali il contribuente si è avvalso della facoltà di compensazione.
In particolare, il comma 3 del citato articolo precisa che la delega deve essere conferita dal contribuente
anche nell'ipotesi in cui le somme dovute risultano totalmente compensate ai sensi dell'articolo 17.
La previsione è ampiamente soddisfatta dalla struttura del modello di versamento F24 e dalle
prescritte modalità di manifestare la compensazione; esistono delle colonne destinate ad
accogliere gli importi a debito e altre per quelli a credito, con tanto di spazi dedicati alla specifica
del periodo di imposta di riferimento e del codice tributo.
Non pare in dubbio, dunque, che esista un preciso obbligo per il contribuente di presentare la delega a
saldo zero; anzi potremmo aggiungere che una simile modalità di pagamento della delega risulta
particolarmente “delicata” per i controlli dell’Amministrazione, tanto che si è imposto, a decorrere dal
2014, l’onere dell’utilizzo dei soli canali telematici (il tutto ai fini di consentire un continuo
monitoraggio dei crediti utilizzati in compensazione, per prevenire le numerose frodi che si sono
riscontrate nel tempo).
In più, per maggiore chiarimento, va anche detto che l’articolo 15, D.Lgs. 471/1997, comma 2-bis1,
prevede che per l'omessa presentazione del modello di versamento contenente i dati relativi alla
eseguita compensazione, si applica la sanzione di 100 euro, ridotta a 50 euro se, il ritardo non è
superiore a 5 giorni lavorativi (potendosi altresì applicare le riduzioni delle sanzioni in caso di corretta
applicazione delle regole sul ravvedimento operoso).
In definitiva, va concluso che il modello F24 con saldo zero (per compensazione) va comunque
presentato (anzi, inviato telematicamente per il tramite dei canali dell’Agenzia delle entrate) e
l’omissione di certo determina l’applicazione di una sanzione fissa.
Non si desume invece direttamente dalla norma quale sia la sorte della delega non presentata,
argomento sul quale è intervenuta la giurisprudenza, come di seguito dettagliato.
La vicenda in analisi
L’ordinanza n. 13931/2018 in commento riguarda il caso di un contribuente che impugnava una cartella
esattoriale, notificata nel 2006, per il recupero delle imposte Irpef, Irap e addizionali del 2002. Da
quanto sostenuto nella difesa, si evince che il credito risultante dalla originaria dichiarazione era
superiore al debito; quindi, probabilmente non fu in allora presentata alcuna delega a saldo zero.
1 Nella versione come modificata a decorrere dal 2015.
Riscossione
34 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
Non si comprende, però, se i crediti emergenti dal modello fossero stati successivamente utilizzati a
riporto o in compensazione; circostanza questa che, correttamente, la Corte non considera, in quanto
non risulta vi sia stata alcuna contestazione dell’Amministrazione in merito all’esistenza e
all’ammontare di tali crediti.
In definitiva, il contrasto alla pretesa era fondato sul fatto che l'omessa compilazione del modello
F24 per la compensazione non configurasse un omesso versamento in termini sostanziali.
La CTP di Agrigento sposava la tesi del contribuente accogliendo il ricorso, mentre la CTR di Palermo,
di parere totalmente opposto, sovvertiva l’esito sulla base delle doglianze dell’appello dell’ufficio,
motivando la propria decisione sul fatto che la compensazione non poteva aver luogo, non avendo il
contribuente presentato il modello F24 da cui si sarebbe potuto evincere che egli intendeva compensare
un debito d'imposta con una parte del credito.
Potremmo dire che, nella fase del merito, si sono contrapposte una tesi sostanzialista (se esiste il credito
può esistere la compensazione anche in assenza di delega) e una formalista (la compensazione esiste
in quanto esposta sul modello di pagamento e, se questo manca, non si può individuare una
compensazione); beninteso, parlando sempre di comportamenti da definirsi “patologici”, stanti le
indicazioni del precedente paragrafo.
In sede di ricorso per Cassazione, il contribuente sosteneva la propria tesi con tre argomentazioni:
1. il D.Lgs. 241/1997 non prevederebbe esplicitamente l’obbligo di presentare la delega anche nel caso
in cui il modello di pagamento rechi un saldo pari a zero; quindi, la mancanza del modello F24 non
potrebbe essere ritenuta ostativa ai fini della compensazione dei crediti d'imposta;
2. il D.Lgs. 472/1997, articolo 6, comma 5-bis, prevede la non punibilità in caso di violazioni che non
incidono sulla determinazione della base imponibile e non arrecano pregiudizio all'esercizio dell'azione
di controllo. Ed, ovviamente, si qualifica l'omessa presentazione del modello F24 come violazione
meramente formale;
3. la CTR non avrebbe esplicitato le ragioni per le quali ha ritenuto sussistente l'obbligo della
presentazione del modello F24 anche nel caso in cui il saldo di imposta sia pari a zero.
L’ordinanza considera solo il primo dei 3 motivi di doglianza, ritenendo gli altri assorbiti.
Peraltro, l’iniziale approccio non sembra positivo, in quanto si afferma (correttamente, come abbiamo
già dimostrato) che la delega irrevocabile a una banca convenzionata deve essere conferita dal
contribuente anche nell'ipotesi in cui le somme dovute risultano totalmente compensate ai sensi
dell'articolo 17, D.Lgs. 471/1997; ne deriva che il contribuente aveva l'obbligo di presentare il modello
di versamento F24 ancorché, per la sussistenza del credito di imposta, il saldo fosse pari a zero.
Riscossione
35 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
Dall’omissione della presentazione del modello deriverebbe, dunque, l'impossibilità di far valere il
credito di imposta.
Poi però arriva la sterzata, corroborata dal contenuto della sentenza n. 13378/2016, pronunciata dalle
SS.UU., Cassazione il 7 giugno 2016.
In particolare, i giudici della Suprema Corte richiamano il seguente principio di diritto, che riportiamo
per la sola parte di interesse2
“Il contribuente, indipendentemente dalle modalità e termini di cui alla dichiarazione integrativa
prevista dal D.P.R. 322/1998, articolo 2 e dall'istanza di rimborso di cui al D.P.R. 602/1973, articolo 38
in sede contenziosa, può sempre opporsi alla maggiore pretesa tributaria dell'Amministrazione
finanziaria, allegando errori, di fatto o di diritto, commessi nella redazione della dichiarazione, incidenti
sull'obbligazione tributaria".
Richiamato tale principio, il percorso risulta in discesa: poiché, nel caso che occupa, l'Amministrazione
non ha contestato l'esistenza del credito portato in compensazione, la pretesa del contribuente fatta
valere in giudizio è fondata, benché egli non abbia dichiarato con l'apposito modello l'esistenza del
credito stesso3.
Quindi, il ragionamento svolto dai giudici può essere nuovamente schematizzato come segue:
− non deve essere in discussione l’esistenza del credito;
− il mancato assolvimento dell’onere di esposizione della compensazione sul modello F24 non
determina una violazione capace di rendere inesistente la compensazione (come invece sostenuto dalla
sentenza della CTR Sicilia). Questo appare certamente l’aspetto maggiormente degno di nota;
− se il credito esiste e il contribuente può dimostrare il suo utilizzo in compensazione, il versamento
“presunto” deve essere considerato come effettuato, anche se l’indicazione delle intenzioni emerge
solamente in sede contenziosa e non in altro modo.
Considerazioni finali
Accogliamo bonariamente le indicazioni della Cassazione che, in linea di massima, consentono una
maggiore forma di difesa a beneficio del contribuente.
Riscontriamo, però, come la vigente normativa:
2 Quella omessa attiene alle modalità di correzione della dichiarazione ai sensi dell’articolo 2, D.P.R. 322/1998. 3 L’affermazione della Corte, con il massimo rispetto, non è totalmente corretta; infatti, il contribuente non dichiara certamente con il modello
F24 l’esistenza del credito che, invece, deriva dal contenuto della dichiarazione dei redditi. Quindi, presumibilmente, ciò cui si riferiscono i
giudici è la mancata dichiarazione dell’utilizzo del credito, l’esternazione – cioè – dell’atto medesimo con esposizione sulla delega irrevocabile
di pagamento.
Riscossione
36 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
− preveda un esplicito obbligo di presentazione della delega anche se avente saldo zero per
compensazione, circostanza che la medesima Suprema Corte inizialmente sottolinea e ribadisce;
− commini una esplicita sanzione per il mancato adempimento di tale obbligo, sia pure in misura fissa
(quindi non commisurata all’importo del tributo dovuto o del credito compensato).
Nel caso in analisi, peraltro, l’Agenzia delle entrate è rimasta ferma sulle proprie pretese contestando
l’assenza di versamento, senza considerare l’esistenza del credito; ovviamente, questa era l’unica
modalità per mantenere in vita la cartella esattoriale per il proprio importo, pur se a onor del vero si
ritiene criticabile una simile posizione. In applicazione del chiaro principio dell’articolo 53, Costituzione,
non si comprende per quale motivo l’Amministrazione finanziaria debba ignorare una posizione a
credito, peraltro non fruita in altra maniera, chiedendo sostanzialmente una duplicazione del prelievo
fiscale.
Vi è da attendersi per il futuro, almeno in linea di principio, che il comportamento dell’Agenzia delle
entrate possa mutare, almeno se si consolidasse tale filone giurisprudenziale. All’atto pratico, invero,
deve essere sottolineato che vengono emessi anche preavvisi di irregolarità nelle ipotesi in cui il credito
viene intercettato e si verifica il suo mancato utilizzo o riporto a nuovo; ma, tale credito, non viene
considerato valido se non confermato da contribuente e, di più, da qualche tempo non può nemmeno
essere oggetto di utilizzo immediato, salvo che non sia riferito all’ultima annualità che precede quella
in dichiarazione.
Ci pare dunque più corretto evocare un precedente di giurisprudenza di merito (peraltro proveniente
dalla stessa CTR di Palermo che, nella vicenda della Cassazione, aveva condizionato l’esistenza della
compensazione all’avvenuta presentazione della delega a saldo zero) che, per sua natura, ha la
possibilità di entrare nell’ambito fattuale, “sporcandosi” le mani con le vicende relative agli
adempimenti pratici.
La casistica analizzata dalla CTR di Palermo, sentenza n. 48/XXX/2016 del 11 gennaio 2016, è (per la
parte qui di interesse) assolutamente sovrapponibile: infatti, una società non aveva provveduto a
presentare tempestivamente il modello F24 in compensazione a saldo zero, contrapponendo un debito
Irap con un capiente credito Ires. La presentazione della delega è stata effettuata, sia pure
abbondantemente oltre i termini.
Ma, nonostante ciò, l’Amministrazione ha preteso l’applicazione della sanzione proporzionale del
30% oltre, ovviamente, al versamento del tributo omesso.
I giudici al riguardo sono trancianti nel riscontrare che:
Riscossione
37 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
− il versamento in compensazione del tributo è avvenuto, anche se la delega con saldo zero è
stata presentata tardivamente (ovviamente, in tale ipotesi, non si tratta di omessa presentazione
della delega a saldo zero, bensì esclusivamente di un ritardo);
− in tal caso, la sanzione applicabile è quella in misura fissa, in allora prevista in misura pari a
154,94 euro, oggi ridotta a 100 euro (con riduzione alla metà nel caso di ritardo non superiore a
5 giorni).
Trattasi di una posizione chiaramente ragionevole e che ci sembra di poter condividere, posto che
proprio questo precedente giurisprudenziale consente di chiudere il cerchio del ragionamento: il
modello di versamento F24 a zero deve essere certamente presentato, anche se tardivamente (con
possibilità di aderire al ravvedimento).
Nel caso in cui non si fosse provveduto e l’ufficio richieda il tributo e la sanzione piena proporzionale,
si potrà evocare l’ordinanza della Cassazione, con l’avvertenza di verificare la spettanza del detto credito
che, come evidente, non dovrà essere stato riportato a nuovo nella successiva dichiarazione né
diversamente utilizzato in compensazione. In caso positivo (ossia di mancato utilizzo alternativo del
credito disponibile), in abbinata con la sentenza n. 48/XXX/2016 dianzi richiamata della CTR di Palermo,
si potrà richiedere la sola applicazione della sanzione riferita alla ritardata presentazione del modello
F24 a saldo zero.
Infine, per completezza di argomento, si ritiene rammentare che sul versante operativo, si può invocare
la mancata presentazione della delega con saldo zero solo ed esclusivamente nel caso in cui il credito
che si intende compensato fosse già esistente e utilizzabile alla data di originaria scadenza del
pagamento: in pratica, il credito deve essere disponibile, non potendosi provvedere a un ipotetico
modello di versamento a saldo zero utilizzando un credito postumo all’obbligazione tributaria da
adempiere.
Istituti deflattivi
38 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
Accertamento e contenzioso n. 42/2018
Effetti connessi all’Iva erroneamente
addebitata dal fornitore di Marco Peirolo - Dottore commercialista e componente del Fiscal Committee della Confédération
Fiscale Européenne
La circolare Assonime n. 12 del 31 maggio 2018, nell’illustrare le modalità di recupero
dell’Iva erroneamente addebitata dal fornitore alla luce delle novità introdotte dalla Legge
europea 2017 e della Legge di Bilancio 2018, rappresenta l’occasione per esaminare le
novellate disposizioni, vale a dire l’articolo 30-ter, D.P.R. 633/1972 e l’articolo 6, comma 6,
secondo e terzo periodo, D.Lgs. 471/1997, che disciplinano, rispettivamente, il rimborso da
parte del fornitore dell’Iva indebitamente applicata in fattura e la sua detrazione da parte
del cliente.
Rimborso dell’Iva non dovuta
L’articolo 8, comma 1, L. 167/2017 (Legge Europea 2017) ha introdotto il nuovo articolo 30-ter, D.P.R.
633/1972 al fine di disciplinare il rimborso dell’Iva non dovuta.
In base al primo comma, che corrisponde al contenuto dell’articolo 21, comma 2, D.Lgs. 546/1992,
avente per oggetto il c.d. “rimborso anomalo”, “il soggetto passivo presenta la domanda di
restituzione dell’imposta non dovuta, a pena di decadenza, entro il termine di due anni dal versamento
della medesima ovvero, se posteriore, dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione”.
Il successivo secondo comma stabilisce che, “nel caso di applicazione di un’imposta non dovuta ad una
cessione di beni o ad una prestazione di servizi, accertata in via definitiva dall’Amministrazione
finanziaria, la domanda di restituzione può essere presentata dal cedente o prestatore entro il termine di
due anni dall’avvenuta restituzione al cessionario o committente dell’importo pagato a titolo di rivalsa”.
Infine, il terzo comma pone un limite più generale al diritto di rimborso, disponendo che “la
restituzione dell’imposta è esclusa qualora il versamento sia avvenuto in un contesto di frode fiscale”.
Rimborso dell’Iva non dovuta in funzione della natura del rapporto tra le parti
Come anticipato, in merito alla possibilità, per il cedente/prestatore, di chiedere il rimborso dell’imposta
indebitamente versata direttamente nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, il novellato primo
Istituti deflattivi
39 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
comma dell’articolo 30-ter, D.P.R. 633/1972 ha trasposto il contenuto dell’articolo 21, comma 2, del
D.Lgs. 546/1992, disponendo che “il soggetto passivo presenta la domanda di restituzione dell’imposta
non dovuta, a pena di decadenza, entro il termine di due anni dal versamento della medesima ovvero,
se posteriore, dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione”.
Riguardo all’ambito applicativo di questa previsione, valgono pertanto le indicazioni formulate, in
particolar modo, dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, che traggono origine dalla natura del
rapporto tra le parti dell’operazione che ha dato luogo all’addebito dell’Iva non dovuta.
Secondo il consolidato orientamento dei giudici di legittimità, in tema di Iva, la corretta lettura degli
articoli 17 e 18, D.P.R. 633/1972 consente di identificare nel cedente del bene o nel prestatore del
servizio il soggetto1:
− da un lato, legittimato a pretendere il rimborso dall’Amministrazione finanziaria;
− dall’altro, obbligato a restituire al cessionario o al committente la somma pagata a titolo di rivalsa.
Dall’effettuazione dell’operazione imponibile discende un triplice rapporto, rispettivamente tra:
− l’Amministrazione finanziaria e il cedente/prestatore, per il pagamento dell’imposta;
− il cedente/prestatore e il cessionario/committente, in ordine alla rivalsa dell’imposta;
− l’Amministrazione finanziaria e il cessionario/committente, per ciò che attiene alla detrazione
dell’imposta assolta in via di rivalsa.
I suddetti rapporti, pur essendo collegati, non interferiscono tra di loro, con la conseguenza che:
− il cedente/prestatore non può opporre al cessionario/committente, il quale agisca nei suoi
confronti per la restituzione dell’indebito ex articolo 2033, cod. civ., l’avvenuto versamento
dell’imposta, il cui obbligo è previsto dall’articolo 21, comma 7, D.P.R. 633/1972, con il quale è
stato trasposto il principio di cartolarità dell’Iva stabilito dall’articolo 203 della Direttiva
2006/112/CE;
− il cessionario/committente non può opporre all’Amministrazione finanziaria che, escluda la
detrazione dell’imposta erroneamente liquidata in fattura, che l’imposta è stata assolta in via di
rivalsa e versata all’Erario;
− solo il cedente/prestatore ha titolo ad agire per il rimborso nei confronti dell’Amministrazione
finanziaria, in applicazione dell’articolo 21, comma 2, D.Lgs. 546/1992, la quale pertanto, essendo
estranea al rapporto tra cedente/prestatore e cessionario/committente, non può essere tenuta a
rimborsare direttamente a quest’ultimo quanto dallo stesso versato in via di rivalsa.
1 Cfr. Cassazione sentenza n. 4020/2012, n. 14933/2011, n. 24794/2006, n. 6632/2003 e n. 6419/2003.
Istituti deflattivi
40 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
A quest’ultimo riguardo, è necessario, però, tenere conto di un ulteriore e specifico orientamento della
giurisprudenza della Corte di Cassazione2, in base al quale il principio enunciato riflette un’impostazione
“statica” dei rapporti in questione, che devono essere riguardati considerando che il
cessionario/committente, di norma, è al tempo stesso anche soggetto passivo d’imposta in relazione
alle operazioni attive dallo stesso realizzate.
Occorre, infatti, ricordare, quanto alla pretesa di rimborso dell’Iva pagata in rivalsa dal
cessionario/committente, che la stessa può essere diversamente diretta in considerazione della
differente angolazione con la quale viene prospettata. In proposito:
− il rapporto di natura privatistica tra cedente/prestatore e cessionario/committente, dà luogo alla
giurisdizione del giudice ordinario, venendo meno la connotazione tributaria del rapporto controverso
–si configura laddove il cessionario/committente rivesta la posizione di “consumatore finale”,
identificandosi nel soggetto definitivamente inciso dall’imposta3;
− diversamente riemergendo il rapporto tributario, con conseguente legittimazione del
cessionario/committente ad agire nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, tutte le volte in cui
l’indebita applicazione dell’Iva versata in rivalsa sull’acquisto di beni e servizi destinati all’esercizio
dell’attività economica, venga a riflettersi sulla liquidazione dell’imposta nella dichiarazione annuale
del contribuente, qualora l’uffico contesti, in tutto o in parte, la detrazione dell’Iva in rivalsa, in quanto
relativa ad una operazione esente o imponibile, ma soggetta ad una aliquota inferiore rispetto a quella
indicata erroneamente in fattura4.
In base a questa impostazione, il rapporto tributario tra il cessionario/committente e
l’Amministrazione finanziaria, in relazione al rimborso dell’imposta indebitamente versata in
rivalsa al cedente/prestatore, viene a ravvisarsi non per il solo fatto che i beni e servizi acquistati
“a monte” siano impiegati nell’attività svolta dal cessionario/committente, ma nel caso in cui la
suddetta attività dia luogo ad operazioni imponibili, atteso che solo in tale ipotesi può trovare
applicazione il principio di neutralità dell’Iva volto a traslare l’onere economico dell’imposta sul
consumatore finale.
Diversamente, nel caso in cui l’operatore economico abbia acquistato beni e servizi destinati in
via esclusiva alla realizzazione di operazioni esenti o non imponibili, tale soggetto assume la
stessa posizione, ai fini fiscali, del consumatore finale, non insorgendo a suo favore il diritto alla
2 Cfr., da ultimo, Cassazione, n. 24923/2016. Nello stesso senso, anche: Cassazione n. 17169/2015, n. 18425/2012, n. 355/2010, n. 9107/2009
e n. 20752/2008. 3 Cfr. Cassazione, SS.UU., n. 1146/2000 e n. 2686/2007. 4 Cfr. Cassazione, SS.UU., n. 20752/2008 e sentenza n. 12433/2011.
Istituti deflattivi
41 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
detrazione e né, tantomeno, al rimborso dell’Iva liquidata nella fattura passiva e versata in rivalsa
al cedente/prestatore, venendo pertanto a gravare definitivamente a suo carico l’imposta.
Come rilevato da Assonime nella circolare n. 12/2018 (§ 1), “tale doppia modalità di recupero
dell’imposta può sollevare dei problemi operativi, posto che il fornitore potrebbe non essere a
conoscenza della richiesta di rimborso avanzata dall’acquirente: se quest’ultimo dovesse tentare di
recuperare l’imposta due volte, nei confronti sia del fornitore che dell’erario, si verificherebbe una
situazione di abuso che dovrebbe risolversi mediante il diniego del rimborso all’acquirente o alla
ripetizione di quanto fosse stato già rimborsato”.
Rimborso dell’Iva non dovuta dopo la scadenza del termine biennale
Nella nuova disciplina del rimborso dell’Iva non dovuta trova specifica regolamentazione l’ipotesi in cui
il cedente/prestatore non possa più chiedere all’Amministrazione finanziaria la restituzione dell’imposta
versata per decorso del termine biennale di decadenza, ma si trovi esposto all’azione di ripetizione del
cessionario/committente in considerazione del maggior termine prescrizionale a sua disposizione, pari
a dieci anni dal pagamento dell’imposta in rivalsa.
La soluzione è individuata dal secondo comma dell’articolo 30-ter, D.P.R. 633/1972, secondo cui, “nel
caso di applicazione di un’imposta non dovuta ad una cessione di beni o ad una prestazione di servizi,
accertata in via definitiva dall’Amministrazione finanziaria, la domanda di restituzione può essere
presentata dal cedente o prestatore entro il termine di due anni dall’avvenuta restituzione al cessionario
o committente dell’importo pagato a titolo di rivalsa”.
Superamento del termine biennale solo in caso di provvedimento coattivo di rimborso
a favore del cliente
Sulla questione dell’applicazione in fattura di Iva o una maggiore Iva non dovuta, è noto che il fornitore
ha, a pena di decadenza, 2 anni di tempo dal pagamento dell’imposta per attivare la richiesta di rimborso
nei confronti dell’Amministrazione finanziaria (articolo 21, D.Lgs. 546/1992) a fronte del termine
decennale di prescrizione a disposizione del cliente per l’azione di ripetizione nei confronti
dell’operatore (articoli 2033 e 2946 cod. civ.).
La Corte di Giustizia, nella causa C-427/2010, relativa al caso Banca Antoniana Popolare Veneta,
ha ritenuto che il disallineamento dei termini di rimborso a disposizione, rispettivamente, del
fornitore e del cliente non sia, di per sé, incompatibile con l’ordinamento unionale. La tutela dei
Istituti deflattivi
42 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
principi di effettività e di equivalenza esige, tuttavia, che sia garantita la restituzione dell’Iva al
fornitore se esposto all’azione di ripetizione del cliente.
La convivenza delle due disposizioni configgenti persegue, quindi, l’obiettivo, già indicato dall’avvocato
generale, di non rendere impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio del diritto di rimborso
dell’imposta non dovuta.
Giunto al vaglio della Corte di Cassazione il tema della coesistenza del doppio termine di
rimborso, i giudici di legittimità hanno recepito in modo alquanto rigoroso le indicazioni della
Corte Europea, ritenendo che, per la restituzione dell’imposta al fornitore, non sia sufficiente la
mera richiesta di rimborso avanzata dal cliente, essendo necessario un provvedimento coattivo
che disponga l’obbligo di pagamento a suo favore5.
Non è, tuttavia, lecito teorizzare che la Corte di Giustizia, nel rapporto “tributario” tra il fornitore e
l’Amministrazione finanziaria, abbia inteso escludere il rimborso nel caso in cui l’imposta sia stata
restituita al cliente “spontaneamente”, anziché a seguito di un provvedimento coattivo, siccome la
particolare “cautela” imposta dai giudici nazionali, vale a dire il richiamo al “dovere” di rimborso, risulta
esclusivamente finalizzata a garantire che gli effetti dell’indebito pagamento dell’Iva e, dunque, del
recupero, non ricadano in danno dell’Erario.
In pratica, il cliente al quale venga disconosciuta la detrazione operata in ragione della natura indebita
dell’imposta si rivolgerà al proprio fornitore per ottenerne la restituzione, per cui è logico ritenere che
se quest’ultimo ha provveduto al relativo rimborso, in modo spontaneo o coattivo, avrà diritto, anche
oltre il termine biennale di decadenza previsto dall’articolo 21, D.Lgs. 546/1992, a essere reintegrato
dall’Amministrazione finanziaria; in caso contrario, l’Erario trarrebbe un indebito arricchimento a danno
del fornitore, sul quale finirebbe per gravare il tributo con una evidente violazione del principio di
neutralità.
Si tratta, pertanto, di tutelare una duplice esigenza: da un lato, quella dell’Erario, che non deve subire
la perdita di gettito che si concretizzerebbe qualora al fornitore fosse restituita un’imposta che il cliente
ha detratto e che, eventualmente, l’Amministrazione non ha più potere di recuperare a tassazione in
ragione dell’intervenuta decadenza dell’azione di accertamento e, dall’altra, quella del fornitore, che si
trova esposto a un “doppio fuoco”, cioè alla richiesta di restituzione dell’Iva al proprio cliente senza
5 Cfr. sentenza n. 12666/2012. Tale principio è stato ribadito nelle successive pronunce in materia (Cassazione n. 1426/2016, n. 3627/2015, n.
25988/2014 e n. 6605/2013).
Istituti deflattivi
43 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
essere più in grado di rivalersi nei confronti dell’Amministrazione finanziaria stante l’intervenuto
decorso del termine biennale.
Ed è proprio questo l’elemento sul quale occorre focalizzare l’attenzione per raggiungere un risultato
in linea con i princìpi sanciti a livello unionale.
È vero che la Corte UE riconosce il diritto di rimborso una volta eliminato completamente il rischio di
perdita di gettito6.
Dagli arresti giurisprudenziali in rassegna si desume, in particolare, che l’obbligo di versare l’Iva indicata
in fattura, previsto dall’articolo 203, Direttiva 2006/112/CE e, nella normativa nazionale, dall’articolo
21, comma 7, D.P.R. 633/1972, è volto ad evitare che l’Erario, a fronte della detrazione operata dal
cliente, non abbia la certezza di riscuotere l’imposta dovuta dal fornitore.
L’applicazione “a contrariis” di tale principio richiede, secondo l’interpretazione offerta dai giudici
europei, che l’imposta versata e non dovuta sia rimborsata al fornitore se al cliente è stata
definitivamente negata la detrazione, salvaguardando così la neutralità dell’imposta.
Per esemplificare, si possono verificare due situazioni:
− nel primo scenario, il cliente si attiva per il recupero dell’imposta non dovuta in tutto o in parte
“in autonomia”, cioè senza il preventivo impulso dell’Agenzia delle entrate: questo può essere il
caso in cui l’imposta non sia stata detratta perché indetraibile oggettivamente o soggettivamente.
In tale evenienza, non avendo l’ufficio ripreso a tassazione l’imposta addebitata in fattura dal
fornitore, può avere senso il controllo giudiziale indicato dalla Corte di Cassazione negli interventi
richiamati, in quanto finalizzato ad evitare una perdita di gettito dell’Erario ed al fine di evitare
che le parti private raggiungano un accordo in frode agli interessi erariali;
− nel secondo scenario, il cliente ha proceduto alla detrazione dell’imposta addebitata (in tutto o
in parte illegittimamente) e, dunque, non ha motivo, neanche sotto il profilo civilistico, di
richiederne il riversamento al fornitore se non a seguito e in dipendenza di una successiva
contestazione da parte dell’Agenzia delle entrate. Quindi, in una situazione nota alla parte
pubblica del rapporto.
E a maggior ragione, laddove il cliente abbia accettato la rettifica e riversato il tributo contestato
all’Erario, la prospettiva è completamente diversa: l’Amministrazione finanziaria è al riparo da situazioni
di perdita di gettito e non vi è motivo di imporre un controllo giudiziale all’azione di rimborso da parte
6 Cfr. sentenza causa C-138/2012 dell’11 aprile 2013 e sentenza causa C-111/2014 e 23 aprile 2015, cit..
Istituti deflattivi
44 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
del fornitore che, a questo punto, può anche essere “spontaneo”, cioè a semplice domanda del proprio
cliente.
Come conseguenza, il fornitore ha diritto di richiedere il rimborso dell’Iva all’Erario, senza ulteriori
formalità, essendo ad esso noto che la parte passiva, cioè il riversamento dell’imposta da parte del
cliente, è già intervenuto.
Non risulta allora condivisibile la conclusione raggiunta dalla CTP di Firenze nella sentenza n.
1339/4/2016, che esclude l’applicazione del termine decadenziale previsto per il rimborso a favore del
fornitore sulla base della sola assenza di danno erariale, avendo il cliente accertato riversato l’imposta
detratta.
Il riconoscimento del rimborso oltre il biennio è, infatti, preordinato a evitare non solo l’indebito
arricchimento dell’Erario, ma anche quello dello stesso fornitore. Sicché, in definitiva, deve ritenersi
ammesso sotto condizione che al cliente sia stata ripagata l’imposta, anche se spontaneamente e non
in forza di un provvedimento giudiziario che obblighi il fornitore a ripetere quanto indebitamente
addebitato a titolo di rivalsa, purché l’Erario sia stato preventivamente ristorato da parte del cliente
attraverso il riversamento dell’Iva originariamente applicata (versata e detratta) e non dovuta.
Differimento del termine biennale in caso di restituzione dell’imposta al cliente
Con l’obiettivo di evitare che il rimborso dell’imposta non dovuta risulti, di fatto, impossibile o
eccessivamente difficile quando il cedente/prestatore risulti esposto all’azione di ripetizione del
cessionario/committente, il nuovo secondo comma dell’articolo 30-ter, D.P.R. 633/1972 non
subordina la restituzione dell’imposta all’esistenza di un provvedimento coattivo, rivolto al
cedente/prestatore, considerando ugualmente rilevante la situazione in cui quest’ultimo abbia
rimborsato l’imposta alla propria controparte in modo spontaneo.
In tal modo si scongiura la possibilità che l’Erario tragga un indebito arricchimento a danno del
cedente/prestatore, sul quale graverebbe in via definitiva l’imposta, in violazione del principio di
neutralità.
Questa evenienza non è sfuggita alla Commissione Europea, che nell’ambito della procedura EU Pilot
9164/17/TAXU, ha chiesto informazioni all’Italia sui riflessi dell’interpretazione della sentenza della
Corte di Giustizia relativa al caso Banca Antoniana Popolare Veneta in merito alle condizioni di rimborso
dell’Iva versata e non dovuta.
Istituti deflattivi
45 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
La nuova norma stabilisce, come detto, che,
“nel caso di applicazione di un’imposta non dovuta ad una cessione di beni o ad una prestazione di
servizi, accertata in via definitiva dall’Amministrazione finanziaria, la domanda di restituzione può
essere presentata dal cedente o prestatore entro il termine di due anni dall’avvenuta restituzione al
cessionario o committente dell’importo pagato a titolo di rivalsa”.
In pratica, il cedente/prestatore può chiedere la restituzione dell’imposta all’Erario, dopo che sia
scaduto il termine biennale di decadenza, anche se ha provveduto spontaneamente al rimborso a
favore del cessionario/committente. A prescindere, infatti, dal carattere coattivo o spontaneo del
rimborso, viene previsto che il termine per la domanda rivolta all’Amministrazione finanziaria dal
cedente/prestatore sia differita dal giorno del versamento all’Erario a quello dell’avvenuta
restituzione al cessionario/committente dell’imposta indebitamente addebitata in fattura.
Come osservato da Assonime nella circolare n. 12/2018 (§ 2), “l’accertamento definitivo cui la norma fa
riferimento potrebbe essere effettuato tanto nei confronti del fornitore, quanto nei confronti dell’acquirente”,
come accade, per esempio, nell’ipotesi in cui le parti abbiano qualificato un insieme di cessioni come
ordinarie cessione di beni, mentre l’Amministrazione finanziaria abbia ritenuto che le stesse configurino
il trasferimento a titolo oneroso di un ramo d’azienda, non soggetto a Iva, ma ad imposta proporzionale
di registro.
In situazioni simili, laddove l’ufficio contesti la corretta applicazione dell’Iva nei confronti del
cedente o del cessionario e l’accertamento sia divenuto definitivo, il riequilibrio tra le posizioni
delle parti e tra queste e l’Amministrazione finanziaria può avere luogo secondo le seguenti
modalità alternative:
− l’acquirente chiede il rimborso direttamente all’Amministrazione finanziaria, con la
conseguenza che la posizione del fornitore resta immutata, in quanto il cliente non ha più titolo
di rivalersi nei suoi confronti e il debito Iva sorto a seguito dell’erroneo addebito in fattura
dell’imposta si consolida;
− l’acquirente chiede il rimborso al proprio fornitore, con la conseguenza che quest’ultimo
provvede alla relativa restituzione, ma ha titolo per chiederne il rimborso all’Erario entro due anni
dall’avvenuta restituzione al cliente.
Detrazione dell’Iva non dovuta
L’articolo 6, comma 6, D.Lgs. 471/1997 dispone che
Istituti deflattivi
46 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
“chi computa illegittimamente in detrazione l’imposta assolta, dovuta o addebitatagli in via di rivalsa,
è punito con la sanzione amministrativa pari al novanta per cento dell’ammontare della detrazione
compiuta”.
L’articolo 1, comma 935, L. 205/2017 (Legge di Bilancio 2018) ha integrato tale disposizione con la
previsione che,
“in caso di applicazione dell’imposta in misura superiore a quella effettiva, erroneamente assolta dal
cedente o prestatore, fermo restando il diritto del cessionario o committente alla detrazione ai sensi
degli articolo 19, e s.s., D.P.R. 633/1972, il cessionario o il committente anzidetto è punito con la
sanzione amministrativa compresa fra 250 euro e 10.000 euro. La restituzione dell’imposta è esclusa
qualora il versamento sia avvenuto in un contesto di frode fiscale”.
Ne discende che, se l’Iva è applicata in misura superiore a quella effettiva, il
cessionario/committente è legittimato a operare la detrazione, sempreché ne sussistano i requisiti
e a condizione che il cedente/prestatore abbia versato l’imposta all’Erario. L’errore dà luogo
all’applicazione della sanzione, compresa fra 250 euro e 10.000 euro, nei confronti del
cessionario/committente, senza responsabilità solidale in capo al cedente/prestatore.
Con il passaggio alla nuova disciplina, risulta superato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui
l’Iva non dovuta non è detraibile7, peraltro avallato dalla stessa Agenzia delle entrate, che nella circolare
n. 8/E/2009 (riposta 6.9), ha precisato che
“il cessionario/committente nei cui confronti il cedente/prestatore abbia erroneamente esercitato la
rivalsa per un’operazione oggettivamente non soggetta a Iva o esente, non ha titolo per esercitare il
diritto alla detrazione. In argomento, si evidenzia che sia la Corte di Giustizia europea (cfr. sentenza C-
n. 342/1987, Genius Holding) sia la Corte di Cassazione (cfr. sentenze n. 12547/2001 e n. 1607/2008),
ritengono che l’esercizio del diritto di detrazione contemplato dalla VI Direttiva per le merci ed i servizi
acquistati deve limitarsi alle sole imposte dovute, vale a dire alle imposte corrispondenti ad
un’operazione soggetta a Iva o versate in quanto effettivamente dovute, e non si estende all’imposta
addebitata solo perché indicata in fattura. In particolare la Corte di Giustizia ha escluso che per il
cessionario/committente il diritto alla detrazione dell’imposta derivi, come automatica conseguenza,
dall’obbligo di pagare l’Iva indicata in fattura dal cedente/prestatore”.
7 Cfr., per tutte, Cassazione, n. 9942/2015, n. 3448/2015 e n. 18764/2014.
Istituti deflattivi
47 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
Ratio della norma e rapporti con la disciplina del rimborso dell’Iva non dovuta
La Legge di Bilancio 2018 ha inteso tutelare la posizione del cessionario/committente, a tal fine
equiparando le ipotesi derivanti dall’applicazione di un’imposta in misura superiore a quella dovuta ai
casi di violazione del regime del reverse charge, nel rispetto del principio di equivalenza tutelato dalla
giurisprudenza comunitaria8, con sanzione parametrata all’effettiva gravità dell’infrazione commessa,
di regola priva di danno erariale9.
L’articolo 6, comma 6, D.Lgs. 471/1997, così come integrato, risulta infatti speculare all’articolo 6,
comma 9-bis2, D.Lgs. 471/1997, secondo cui,
“in deroga al comma 1, qualora, in assenza dei requisiti prescritti per l’applicazione dell’inversione
contabile l’imposta relativa a una cessione di beni o a una prestazione di servizi di cui alle disposizioni
menzionate nel primo periodo del comma 9-bis, sia stata erroneamente assolta dal cessionario o
committente, fermo restando il diritto del cessionario o committente alla detrazione ai sensi degli
articolo 19 e s.s., D.P.R. 633/1972, il cedente o il prestatore non è tenuto all’assolvimento dell’imposta,
ma è punito con la sanzione amministrativa compresa fra 250 e 10.000 euro. Al pagamento della
sanzione è solidalmente tenuto il cessionario o committente. Le disposizioni di cui ai periodi precedenti
non si applicano e il cedente o prestatore è punito con la sanzione di cui al comma 1 quando
l’applicazione dell’imposta mediante l’inversione contabile anziché nel modo ordinario è stata
determinata da un intento di evasione o di frode del quale sia provato che il cedente o prestatore era
consapevole”.
Se, quindi, il cessionario/committente mantiene il diritto alla detrazione per un’operazione
erroneamente assoggettata al sistema dell’inversione contabile e il cedente/prestatore, che avrebbe
dovuto applicare l’imposta in fattura, beneficia di una sanzione attenuata rispetto a quella ordinaria
(dal 90% al 100% dell’imposta), allo stesso modo il cessionario/committente che abbia assolto in rivalsa
l’imposta erroneamente addebitata dalla controparte deve avere il diritto ad operare la detrazione,
ferma in tal caso l’applicazione nei suoi confronti della sanzione ridotta (da 250 a 10.000 euro).
Il nuovo intervento legislativo si pone come rimedio in tutti quei casi in cui il recupero in sede
civilistica dell’imposta sia impossibile o eccessivamente difficile (es. fornitore sottoposto a
fallimento), ma che la giurisprudenza, tanto “euro-unionale”10 quanto nazionale11, ha inteso
comunque tutelare consentendo al cessionario/committente, soggettivo passivo Iva, di chiedere
8 Cfr. Corte di Giustizia, causa C-231/1996, Edilizia Industriale Siderurgica e Id., causa C-260/1996, Spac. 9 Cfr. Corte di Giustizia, causa C-272/2013, Equoland. 10 Cfr. Corte di Giustizia, causa C-564/2015, Farkas. 11 Cfr. Cassazione, sentenza n. 24923/2016.
Istituti deflattivi
48 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
il rimborso direttamente all’Amministrazione finanziaria, anziché alla propria controparte. È noto,
infatti, che il rapporto di rivalsa, cioè quello tra il fornitore e il cliente, ha carattere privato, con
la conseguenza che l’addebito in fattura di un’imposta non dovuta espone il fornitore all’azione
di indebito oggettivo promossa dal proprio cliente, volta a ottenere la restituzione dell’imposta
da quest’ultimo corrisposta in via di rivalsa a fronte di un’operazione detassata o soggetta a Iva
con un’aliquota inferiore a quella applicata dal fornitore.
Sotto questo profilo, la novellata disposizione, nell’ottica di semplificare i rapporti discendenti
dall’erroneo addebito dell’imposta in fattura, riconosce la detrazione in capo al
cessionario/committente a fronte del debito Iva nei confronti del cedente/prestatore, evitando
che il cessionario/committente, ove esposto al recupero dell’Iva detratta da parte
dell’Amministrazione finanziaria, debba rivolgersi all’Amministrazione stessa per ottenere la
restituzione dell’imposta assolta in via di rivalsa12.
È nella prospettiva evidenziata che, se confermata in via ufficiale dall’Agenzia delle entrate, deve essere
individuato il rapporto tra la nuova previsione dell’articolo 6, comma 6, D.Lgs. 471/1997 e l’articolo 30-
ter, D.P.R. 633/1972, che l’articolo 8, L. 167/2017 (Legge europea 2017) ha introdotto al fine di archiviare
la procedura di infrazione avviata dalla Commissione Europea nei confronti dello Stato italiano13.
Come già anticipato, la Legge Europea 2017 ha disciplinato il rimborso dell’Iva non dovuta, prevedendo:
− al primo comma dell’articolo 30-ter, che corrisponde al contenuto dell’articolo 21, comma 2, D.Lgs.
546/1992, avente per oggetto il c.d. “rimborso anomalo”, che “il soggetto passivo presenta la domanda di
restituzione dell’imposta non dovuta, a pena di decadenza, entro il termine di due anni dal versamento della
medesima ovvero, se posteriore, dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione”;
− al secondo comma dell’articolo 30-ter che, “nel caso di applicazione di un’imposta non dovuta ad una
cessione di beni o ad una prestazione di servizi, accertata in via definitiva dall’Amministrazione finanziaria,
la domanda di restituzione può essere presentata dal cedente o prestatore entro il termine di due anni
dall’avvenuta restituzione al cessionario o committente dell’importo pagato a titolo di rivalsa”;
− al terzo comma dell’articolo 30-ter che “la restituzione dell’imposta è esclusa qualora il versamento sia
avvenuto in un contesto di frode fiscale”.
12 La nuova norma è perfettamente in linea con la recente ordinanza della Corte UE di cui alla causa C-314/2017, (Geocycle Bulgaria), secondo
cui “les principes de neutralité fiscale et d’effectivité du système commun de la TVA doivent être interprétés en ce sens qu’ils s’opposent à ce qu’un
État membre refuse au destinataire d’une livraison le droit de déduire la TVA acquittée en amont, lorsque, pour une seule et même livraison, la TVA
est perçue une première fois auprès du fournisseur, étant donné qu’il l’a mentionnée dans la facture qu’il a émise, puis une seconde fois auprès du
destinataire, dans les cas où la législation nationale ne prévoit pas la possibilité de rectifier la TVA lorsqu’il existe une décision de redressement
fiscal”. 13 Cfr. caso EU Pilot 9164/17/TAXU.
Istituti deflattivi
49 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
Dal secondo comma dell’articolo 30-ter, D.P.R. 633/1972, si desume che la posizione oggetto di specifica
tutela è quella del cedente/prestatore che, se provvede a rifondere (spontaneamente o a seguito del
provvedimento dell’autorità giudiziaria) il cessionario/committente dell’Iva indebitamente applicata in
fattura, deve avere la possibilità di ottenere dall’Erario la restituzione dell’imposta anche se è decorso
il termine biennale di decadenza avente, come “dies a quo”, quello previsto dal primo comma
dell’articolo 30-ter, agganciato alla data del versamento dell’imposta ovvero, se successivo, al giorno in
cui si è verificato il presupposto per la restituzione.
La norma ha, quindi, come presupposto l’indetraibilità dell’Iva in capo al cessionario/committente,
discendente dall’“applicazione di un’imposta non dovuta ad una cessione di beni o ad una prestazione di
servizi”.
Il conflitto tra il secondo comma dell’articolo 30-ter, D.P.R. 633/1972 e la nuova previsione del sesto
comma dell’articolo 6, D.Lgs. 471/1997, è solo apparente, perché, come evidenziato, sono diverse le
posizioni soggettive che le rispettive disposizioni hanno inteso tutelare, vale a dire, rispettivamente:
− quella del fornitore, con il secondo comma dell’articolo 30-ter, D.P.R. 633/1972; e
− quella del cliente, con il sesto comma dell’articolo 6, D.Lgs. 471/1997.
Ambito oggettivo di applicazione
In attesa dei necessari chiarimenti ufficiali, la norma novellata dalla Legge di Bilancio 2018
dovrebbe intendersi riferita non solo ai casi di applicazione di un’aliquota superiore a quella
corretta, ma anche alle ipotesi in cui l’operazione sia stata erroneamente considerata imponibile,
anziché esente, non imponibile o non soggetta.
In tal senso, oltre alla circolare della GdF n. 114153 del 13 aprile 2018, si è espressa Assonime nella
circolare n. 12/2018 (§ 3), escludendo che l’ambito applicativo della nuova norma sia limitato ai casi in
cui l’imposta è dovuta, ma ne è stata errata, per eccesso, la quantificazione.
Tale interpretazione restrittiva non viene ritenuta rispondente alla ratio e alla logica della norma, in
quanto – ove confermata dall’Agenzia delle entrate,
“sarebbe difficile trovare una giustificazione sistematica al principio secondo cui sia detraibile l’imposta
applicata in misura superiore a quella dovuta, e non anche quella non dovuta per altri motivi, ad
esempio perché, l’operazione in questione è esente o non imponibile, o addirittura esclusa, come nel
caso considerato … della cessione di azienda. Anche in tali situazioni, infatti, risulta applicata
un’imposta superiore a quella effettivamente dovuta secondo la disciplina del tributo …”.
Istituti deflattivi
50 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
Regolarizzazione dell’operazione ad opera dell’acquirente
Come puntualizzato dalla circolare Assonime n. 12/2018 (§ 3), il cessionario/committente può non
applicare la nuova disposizione se provvede a regolarizzare l’operazione secondo la modalità prevista
dall’articolo 6, comma 8, lettera b), D.Lgs. 471/1997, secondo cui;
“il cessionario o il committente che, nell'esercizio di imprese, arti o professioni, abbia acquistato beni
o servizi senza che sia stata emessa fattura nei termini di legge o con emissione di fattura irregolare
da parte dell'altro contraente, è punito, salva la responsabilità del cedente o del commissionario, con
sanzione amministrativa pari al 100% dell’imposta, con un minimo di 250 euro, sempreché non
provveda a regolarizzare l’operazione con le seguenti modalità: (…) b) se ha ricevuto una fattura
irregolare, presentando all’ufficio indicato nella lettera a), entro il trentesimo giorno successivo a quello
della sua registrazione, un documento integrativo in duplice esemplare recante le indicazioni
medesime, previo versamento della maggior imposta eventualmente dovuta”.
A ben vedere, la nuova sanzione dovrebbe essere applicabile solo nell’ipotesi in cui l’acquirente
che non abbia provveduto alla regolarizzazione abbia esercitato la detrazione, nel qual caso
l’applicazione della sanzione intende riequilibrare la posizione dell’operatore con quella
dell’Erario.
Qualora l’acquirente non effettuasse la regolarizzazione, ma non operasse neppure la detrazione, la
nuova sanzione non troverà applicazione. Resta, tuttavia, da chiarire se, in tale ipotesi, si applichi la
sanzione di cui all’articolo 6, comma 8, D.Lgs. 471/1997, e in senso affermativo si è espressa Assonime,
specificando che,
“non essendo dovuta alcuna imposta – in quanto l’imposta risultante dalla fattura regolare è inferiore
a quella della fattura irregolare – la misura della sanzione sarà limitata alla misura minima di 250
euro”.
Ambito applicativo e “favor rei”
Trova, inoltre, applicazione il “favor rei”, di cui all’articolo 3, comma 2, del D.Lgs. n. 472/1997,
secondo cui, “salvo diversa previsione di legge, nessuno può essere assoggettato a sanzioni per
un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce violazione punibile. Se la sanzione è
già stata irrogata con provvedimento definitivo il debito residuo si estingue, ma non è ammessa
ripetizione di quanto pagato”.
Istituti deflattivi
51 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
Come conseguenza, il recupero dell’Iva nei confronti del cessionario/committente viene
automaticamente meno, al pari della sanzione prevista dall’articolo 5, comma 4, D.Lgs. 471/1997
per l’infedele dichiarazione Iva.
La novellata disposizione dovrebbe avere carattere interpretativo, intendendo adeguare la normativa
nazionale a quella comunitaria, in coerenza con il principio di effettività tutelato dalla stessa
giurisprudenza della Corte di Giustizia. Più in dettaglio, la volontà espressa dal Legislatore italiano di
salvaguardare il diritto di detrazione nel caso di errore commesso dal fornitore in sede di fatturazione
costituisce la risposta alle indicazioni della giurisprudenza comunitaria, ove si precisa che:
“gli Stati membri devono dunque prevedere gli strumenti e le modalità procedurali necessari per
consentire a detto acquirente di recuperare l’imposta indebitamente fatturata, in modo da rispettare il
principio di effettività …”14.
14 Così Corte di Giustizia, causa C-564/2015, cit. e causa C-35/2005/2007, Reemtsma Cigarettenfabriken.
Istituti deflattivi
52 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
Accertamento e contenzioso n. 42/2018
Le diverse ferie del Fisco: dal 1° al 31
agosto la sospensione dei termini feriali
e dal 1° agosto al 4 settembre la
sospensione di specifici adempimenti e
pagamenti di Gianfranco Antico - pubblicista
L’iniziale e unica pausa feriale del Fisco, dal 1° agosto al 15 settembre è stata
sostanzialmente modificata ed integrata. Da una parte, infatti, l’articolo 1, comma 1, L.
742/1969, come modificato dall’articolo 16, D.L. 132/2014, convertito, con modificazioni, in
L. 162/2014, dispone la sospensione dei termini processuali relativi alle giurisdizioni
ordinarie ed a quelle amministrative dal 1° agosto al 31 agosto di ciascun anno, dall’altra
parte, l’articolo 7-quater, commi 16 e 17, D.L. 193/2016, inserito in sede di conversione in L.
225/2016, ha introdotto la c.d. moratoria estiva, prevendo la sospensione per la trasmissione
della documentazione e la sospensione dei termini per il pagamento delle somme dovute a
seguito dei controlli automatici e formali, dal 1° agosto al 4 settembre.
Premessa
Il titolo dato a questo intervento vuole far rilevare, con immediatezza, le diverse modalità previste dal
Legislatore per la pausa estiva.
La diversità è assai di rilevo, e quindi va attentamente valutata dagli operatori del settore, atteso che
la sospensione dei termini giurisdizionale ha inizio il 1° agosto e termina il 31 agosto, mentre l’altra, la
sospensione di specifici adempimenti e pagamenti, pur iniziando sempre il 1° agosto si allunga di un
paio di giorni, per arrivare al 4 settembre.
Vediamo, di fare il punto sulle 2 questioni poste alla nostra attenzione.
La sospensione dei termini feriali
Come è noto, l’articolo 16, D.L. 132/2014 (cd. Decreto giustizia), convertito, con modificazioni, in L.
162/2014, intervenendo sull’articolo 1, L. 742/1969 che, per ius receptum, si applica anche al rito
Istituti deflattivi
53 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
tributario, ha ridotto la pausa estiva, che continua ad avere inizio il 1° agosto ma cessa il 31 dello stesso
mese (e non più il 15 settembre).
La sospensione dei termini feriali
La norma
“Il decorso dei termini processuali relativi alle giurisdizioni ordinarie ed a quelle
amministrative è sospeso di diritto dal 1° agosto al 31 agosto di ciascun anno e riprende
a decorrere alla fine del periodo di sospensione”. Ove il decorso abbia inizio durante il
periodo di sospensione, l’inizio stesso è differito alla fine di detto periodo”
Pertanto, durante questi 31 giorni, tutte le scadenze processuali si interrompono e, nel caso in cui
la decorrenza del termine abbia avuto inizio prima del 1° agosto, il tempo assegnato dal
Legislatore per il compimento dell’adempimento (presentazione del ricorso, deposito di atti, etc.)
riprenderà a decorrere alla fine del periodo di sospensione, con ciò determinandosi una parentesi
temporale.
Il periodo di sospensione è computato tenendo conto del calendario comune, “secondo l’unità di misura
del giorno”1 (Cassazione, sentenze n. 8850/2003 e n. 3223/2007). In particolare, secondo l’articolo 155,
c.p.c., nel computo dei termini a giorni, si esclude il giorno iniziale mentre va considerato il giorno
finale2.
Ese
mp
i
Avviso di accertamento notificato il 25
giugno 2018
Termine ultimo per impugnare 24 settembre
2018
Avviso di accertamento notificato il 2 agosto
2018
Termine ultimo per impugnare 30 ottobre 2018
Gli atti del contenzioso tributario
Il periodo di sospensione feriale dei termini vale per tutte le liti tributarie e quindi sono soggetti alla
sospensione tutti gli atti indicati all’articolo 19, D.Lgs. 546/1992, che identifica gli atti impugnabili
nonchè l’oggetto del ricorso.
In particolare (cfr. circolare n. 98/1996) la sospensione opera per:
− avvisi di accertamento, di rettifica o di liquidazione del tributo;
− provvedimento di irrogazione di sanzioni e atto di contestazione;
− ruolo, cartella di pagamento e avviso di mora;
− provvedimento di diniego di agevolazioni o di rigetto di domande di definizione agevolata;
1 Cfr. Cassazione, sentenza n .3223/2007. 2 Cfr. Evolution, “La sospensione feriale dei termini processuali”, in ECnews, edizione del 31 luglio 2017.
Istituti deflattivi
54 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
− rifiuto - espresso o tacito - di restituzione di tributi;
− ogni altro atto impugnabile davanti ai giudici tributari.
La sospensione feriale, inoltre, comporta lo slittamento dei termini di pagamento degli atti
impugnabili ex articolo 19, D.Lgs. 546/1992, generalmente legati al termine per proporre ricorso.
La sospensione trova applicazione per tutti gli adempimenti processuali cui sono tenuti sia il ricorrente
(contribuente) sia la parte resistente (uffici finanziari, ente locale, concessionario per la riscossione) e
precisamente:
− proposizione del ricorso introduttivo;
− costituzione in giudizio del ricorrente;
− deposito di documenti e di memorie illustrative;
− proposizione dell’atto di appello;
− proposizione del ricorso per Cassazione;
− riassunzione della causa rinviata dalla Corte di Cassazione alla Commissione tributaria di merito;
− eventuali adempimenti conseguenti ad avvenimenti che possono causare l’interruzione o sospensione
del processo, secondo quanto previsto dagli articoli 39 e 40, D.Lgs. 546/1992.
Esempio
Scadenza del termine per impugnare la
sentenza nel periodo feriale (5 agosto 2018) Il termine per impugnare “slitta” oltre l’intervallo di
tempo costituito dai 31 giorni di sospensione
Per effetto di quanto disposto dall’articolo 3, L. 742/1969, la sospensione non si applica, fra l’altro, ai
procedimenti cautelari3. Infatti almeno una sezione, nel periodo di sospensione feriale dei termini
processuali, assicurerà lo svolgimento delle udienze sulle domande relative alla concessione di ipoteca
o l'autorizzazione al sequestro conservativo, a garanzia del credito fiscale emergente in base al pvc,
all’atto di accertamento, all'atto di contestazione delle violazioni o al provvedimento di irrogazione
della sanzione.
Sul punto, rileviamo che, con la sentenza n. 7854/2011 la Corte di Cassazione ha confermato che
“le opposizioni all’esecuzione o agli atti esecutivi sono escluse dalla sospensione feriale…”.
3 L’articolo 92, comma 1, R.D. 12/1941 (Ordinamento giudiziario) dispone che: “Durante il periodo feriale dei magistrati le corti di appello ed i
tribunali ordinari trattano le cause civili relative ad alimenti, alla materia di lavoro, ai procedimenti cautelari, ai procedimenti per l'adozione di
provvedimenti in materia di amministrazione di sostegno, di interdizione, di inabilitazione, ai procedimenti per l'adozione di ordini di protezione
contro gli abusi familiari, di sfratto e di opposizione all'esecuzione, nonché quelle relative alla dichiarazione ed alla revoca dei fallimenti, ed in genere
quelle rispetto alle quali la ritardata trattazione potrebbe produrre grave pregiudizio alle parti.”
Istituti deflattivi
55 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
La mediazione
Come è noto, l’articolo 39, comma 9, D.L. 98/2011, convertito, con modificazioni, dalla L. 111/2011, ha
inserito nel D.Lgs. 546/1992, l’articolo 17-bis, rubricato “Il reclamo e la mediazione”, per le controversie
di valore non superiore a 20.000 euro, relative ad atti dell’Agenzia delle entrate, notificati a decorrere
dal 1° aprile 2012.
Dal 1° gennaio 2018, la mediazione tributaria, per effetto della c.d. manovra correttiva 2017, articolo
10, D.L. 50/2017, convertito con modifiche, L. 96/2017, ha ampliato il proprio raggio d’azione, con
l’innalzamento a 50.000 euro del valore della lite.
Ai fini della precisa delimitazione della nuova soglia di applicazione della procedura risulta essenziale
la corretta determinazione del valore della controversia. Sul punto, la circolare n. 30/E/2017, ha
richiamato i consueti criteri normativi e di prassi, già descritti con la circolare n. 9/E/2012.
Valore della lite
Articolo 12, comma 2,
D.Lgs. 546/1992
"Per valore della lite si intende l'importo del tributo al netto degli interessi e delle
eventuali sanzioni irrogate con l'atto impugnato; in caso di controversie relative
esclusivamente alle irrogazioni di sanzioni, il valore è costituito dalla somma di
queste".
Il reclamo/mediazione si applica anche qualora, in sede di autotutela parziale, l'Amministrazione
finanziaria riduca l'ammontare del tributo accertato al di sotto della soglia dei 50.000 euro, purché ciò
avvenga in pendenza dei termini per la proposizione del ricorso (cfr. circolare n. 33/E/2012, § 5.1);
l'istituto non trova, invece, applicazione qualora tale riduzione abbia luogo dopo la notifica del ricorso
(cfr. circolare n. 33/E/2012, § 5.2).
Per effetto di quanto oggi previsto dal comma 1, articolo 17-bis, D.Lgs. 546/1992,
“il ricorso produce anche gli effetti di un reclamo e può contenere una proposta di mediazione con
rideterminazione dell’ammontare della pretesa”.
Pertanto, nelle controversie in questione, la proposizione dell’impugnazione produce, oltre agli effetti
sostanziali e processuali tipici del ricorso, anche quelli del reclamo/mediazione (cfr. circolare n. 38/E/2015).
Art
ico
lo 1
7-b
is, c
om
ma
2
La proposizione del ricorso
apre una fase amministrativa
di durata pari a 90 giorni
entro la quale deve svolgersi
il procedimento di
reclamo/mediazione
Tale fase, che si colloca temporalmente tra l’avvio dell’azione
giudiziaria (coincidente con la notifica del ricorso) e
l’eventuale instaurazione del giudizio (i termini per la
costituzione del ricorrente restano sospesi durante il
procedimento), è finalizzata all’esame del reclamo e
dell’eventuale proposta di mediazione, con l’obiettivo di
evitare, in caso di esito positivo, che la causa sia portata a
conoscenza del giudice
Istituti deflattivi
56 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
Il termine di 90 giorni va
computato dalla data di
notifica del ricorso all’ente
impositore
Se la notifica del ricorso è effettuata a mezzo del servizio
postale, il predetto termine decorre dalla data di ricezione
del ricorso da parte dell’ente destinatario, in analogia con
quanto accade per la decorrenza del termine per la
costituzione in giudizio del ricorrente
Esempio
Reclamo a mezzo R.R. partita il 14 luglio 2018 ma
ricevuta dall’ufficio il 19 luglio 2018
Il termine dei 90 giorni decorre dal 19 luglio 2018
Il termine di 90 giorni è soggetto alla sospensione dei termini processuali nel periodo feriale, come
esplicitato dal comma 2, ultimo periodo, articolo 17-bis, D.Lgs. 546/1992.
L’accertamento con adesione di cui al D.Lgs. 218/1997
La presentazione dell’istanza prevista dall’articolo 6, comma 2, D.Lgs. 218/1997, genera, fra l’altro, la
sospensione per 90 giorni dei termini di impugnazione dell’atto.
L'istanza del contribuente, contenente l'indicazione del recapito anche telefonico e deve essere
presentata all'ufficio che ha emesso l'avviso mediante consegna diretta o avvalendosi del servizio
postale. La circolare n. 28/E/2002 ha considerato tempestiva la domanda spedita per posta entro il
termine di 60 giorni dalla notifica dell'atto di accertamento, purché vengano rispettate dal contribuente
le modalità prescritte dall'articolo 20, D.Lgs. 546/1992 (plico raccomandato senza busta, con avviso di
ricevimento).
Va, inoltre, rilevato in questa sede l’ultimo orientamento espresso dall’Agenzia delle entrate, nel
corso del forum dell’Esperto risponde del maggio 2018, secondo cui le istanze di accertamento
con adesione disciplinate dall’articolo 6, D.Lgs. 218/1997 possono essere presentate mediante
pec (posta elettronica certificata) alla Direzione provinciale dell’Agenzia delle entrate che ha
emesso l’atto impositivo4.
4 Per l’Agenzia delle entrate, sulla base del contesto normativo previsto all’articolo 38, D.P.R. 445/2000 e articolo 65, D.Lgs. 82/2005 - “le
istanze inviate telematicamente tramite pec hanno lo stesso valore giuridico di un’istanza sottoscritta con firma autografa apposta in presenza del
dipendente addetto al procedimento o notificata per mezzo della posta ordinaria”, e pertanto, “considerato che l’articolo 6, D.Lgs. 218/1997 non
prevede specifiche e tassative modalità di presentazione della domanda di accertamento con adesione, la quale per prassi amministrativa può essere
presenta mediante consegna diretta o a mezzo posta, non sembrano esserci ostacoli all’inoltro dell’istanza di adesione mediante pec alla casella di
posta elettronica certificata della Direzione provinciale (o regionale per i cd. grandi contribuenti) competente ad emettere l’avviso di accertamento.
L’istanza dovrà essere firmata digitalmente o, in alternativa, sottoscritta con firma autografa e accompagnata dalla copia del documento d’identità”.
Istituti deflattivi
57 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
Per dar modo all’ufficio e al contribuente di valutare con la dovuta attenzione il contenuto dell’atto di
accertamento cui l’istanza di adesione si riferisce, il Legislatore delegato ha, infatti, disposto una
sospensione di 90 giorni dei termini per ricorrere, decorrenti dalla data di presentazione dell’istanza da
parte del contribuente. Più precisamente, la relazione al D.Lgs. 218/1997 chiarisce che:
“se la definizione non si formalizza nel lasso di tempo intercorrente fra la notifica dell'accertamento e
il termine di scadenza per la relativa impugnazione, la proposizione di quest'ultima comporta rinuncia
all'istanza di accertamento con adesione”.
Indicazioni di prassi
Circolare n. 235/1997 (§ 2.4) Risoluzione n. 159/1999 Circolare n. 65/E/2001
Per i termini di impugnazione
si deve ovviamente
considerare anche la
sospensione feriale, prevista
dalla L. 742/1969
Il periodo di sospensione di
90 giorni, rientra, per logica
connessione con i termini
processuali nell’ambito
applicativo dell’articolo 1,
secondo periodo, L.
742/1969
Il periodo di sospensione di 90 giorni,
non costituisce termine di riferimento
per la conclusione del procedimento di
accertamento con adesione, atteso che
la sottoscrizione dell'atto può
"…validamente intervenire entro il
termine ultimo d'impugnazione",
comprensivo sia dei 90 concessi dal
D.Lgs. 218/1997, sia oggi dei 31 giorni
per la sospensione feriale
In pratica, il termine feriale è collegato al periodo in cui ricadono i termini processuali, mentre quello
dei 90 giorni è connesso, invece, a un proficuo esercizio del contraddittorio in sede di concordato e tali
distinti periodi di sospensione non possono che applicarsi cumulativamente, così che il periodo di
sospensione feriale opera ogni qual volta il periodo di sospensione di 90 giorni venga a ricadere, come
termine iniziale o come termine finale, nell’arco temporale che va dal 1° al 31 agosto, come anche
nell’ipotesi in cui il periodo feriale sia ricompreso nel periodo dei 90 giorni.
Si tratta di effetti di sospensione automatica, i quali si verificano a prescindere dall’esito del
contraddittorio e dell’eventuale perfezionamento o meno dell’adesione.
Pur se in genere, la massima giurisprudenza di legittimità si è attestata sulle posizioni
dell’Amministrazione finanziaria, atteso che si sono registrati interventi di segno opposto, il Legislatore
ha ritenuto di chiudere la questione, nell’ambito del D.L. 193/2016, articolo 7-quater, comma 18,
introdotto in sede di conversione in L. 225/2016, disponendo che
“i termini di sospensione relativi alla procedura di accertamento con adesione si intendono cumulabili
con il periodo di sospensione feriale dell’attività giurisdizionale”.
Istituti deflattivi
58 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
Il procedimento di computo delle perdite in sede di accertamento con adesione
L’articolo 25, D.Lgs. 158/2015, è intervenuto sugli articoli 42 e 36-bis, D.P.R. 600/1973 e 7 D.Lgs.
218/1997, per regolare, a partire dal 1° gennaio 2016, il procedimento di computo in diminuzione delle
perdite in accertamento, per i periodi d’imposta per i quali, alla predetta data, sono ancora pendenti i
termini di cui all’articolo 43, D.P.R. 600/1973.
La novella normativa comporta che l’ufficio, già in sede di accertamento o di adesione provvederà, in
automatico, a computare in diminuzione le perdite “di periodo”, mentre l’utilizzo delle perdite
“pregresse” potrà avvenire solo su richiesta del contribuente.
Al fine di poter computare le perdite pregresse, il contribuente, ricevuto l’avviso di accertamento, deve,
nel caso in cui intenda utilizzare le perdite pregresse presentare un'apposita istanza (modello IPEA)
all'ufficio che ha emanato l'avviso di accertamento, entro il termine di proposizione del ricorso, di cui
all’articolo 21, D.Lgs. 546/1992.
La presentazione di tale istanza determina la sospensione dei termini per l'impugnazione dell'atto per
un periodo di 60 giorni.
Circolare n. 12/E/2016
La sospensione del termine di impugnazione, prevista dal nuovo comma 4,
articolo 42, D.P.R. 600/1973, vale per ogni ricorso, a prescindere dalla
circostanza che l’impugnazione sia soggetta o meno al procedimento di
mediazione
La presentazione del modello IPEA non preclude la possibilità di presentare istanza di accertamento
con adesione. Nell’ipotesi di istanza di adesione ai sensi dell’articolo 6, comma 2, D.Lgs. 218/1997, dopo
la notifica dell’avviso di accertamento, il modello IPEA, finalizzato a ottenere lo scomputo delle perdite
in sede di adesione, deve essere presentato entro i termini di impugnazione ex articolo 21, D.Lgs.
546/1992, tenuto conto del periodo di sospensione di 90 giorni previsto dall’articolo 6, comma 3, D.Lgs.
218/1997.
La presentazione del modello IPEA sospende il termine per l’impugnazione per un periodo di 60
giorni ulteriore rispetto al periodo di sospensione ex lege, previsto dall’articolo 6, comma 3, D.Lgs.
218/1997.
Qualora il modello IPEA venga presentato nel corso del contraddittorio avviato ai sensi del
comma 2, articolo 6, D.Lgs. 218/1997, il termine di impugnazione è sospeso per un ulteriore
periodo di 60 giorni.
Istituti deflattivi
59 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
Esempio
Avviso di
accertamento
Termine
ordinario
Presentazione
modello IpEC
Presentazione
istanza di
adesione
Eventuale
sospensione
feriale
Totale
giorni
disponibili
60 giorni Sospensione
di 60 giorni
Sospensione 90
giorni
31 giorni 241 giorni
Definizione agevolata delle sanzioni e acquiescenza
Strettamente dipendenti e connessi alla sospensione dei termini processuali sono anche gli istituti della
definizione agevolata delle sanzioni e della rinuncia all’impugnazione, rispettivamente disciplinati
dall’articolo 17, comma 2, D.Lgs. 472/1997 e, articolo 15, D.Lgs. 218/1997, norme che riconnettono gli
effetti premiali ivi contenuti alla circostanza che il pagamento intervenga “entro i termini di proposizione
del ricorso”.
Pertanto, la sospensione dei termini processuali e il conseguente “slittamento” dell’eventuale
proposizione del gravame, consente al contribuente di disporre di ulteriori 31 giorni per effettuare i
pagamenti utili alla definizione della controversia.
Vale la pena rammentare che la definizione agevolata (articolo 17, D.Lgs. 472/1997) è riferita
esclusivamente alle sanzioni e non comporta acquiescenza rispetto al tributo mentre la rinuncia
all’impugnazione (articolo 15, D.Lgs. 218/1997), comporta oltre la riduzione a 1/3 delle sanzioni, la
definitività del provvedimento di accertamento e gli ulteriori effetti previsti dall’articolo 2, commi 3, 4
e 5 dello stesso decreto.
Sempre in tema di definizione agevolata delle sanzioni, la sospensione dei termini feriali si applica
anche al procedimento di irrogazione delle sanzioni, disciplinato dall’articolo 16, D.Lgs. 472/1997 (come
modificato dall’articolo 2, D.Lgs. 99/2000), che consente al trasgressore e agli obbligati in solido di
definire la controversia con il pagamento di un importo pari a 1/3 della sanzione indicata, qualora tale
pagamento intervenga “entro il termine di proposizione del ricorso”.
Le memorie difensive dello Statuto del contribuente
A mente del comma 7, articolo 12, L. 212/2000, il contribuente sottoposto a verifica ha il diritto di
formulare osservazioni e richieste entro 60 giorni dalla consegna del processo verbale di constatazione
da parte degli organi di verifica: le osservazioni formulate saranno oggetto di valutazione da parte degli
uffici dell’Amministrazione finanziaria, imponendo all’attività di accertamento dell’ufficio una battuta
d’arresto della durata di almeno 60 giorni.
Istituti deflattivi
60 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
Il fine del Legislatore è quello di imporre una riflessione all’ufficio e di modificare gli elementi di
accertamento eventualmente errati o carenti, sulla base di precisi imput forniti dal contribuente.
Tuttavia, il riferimento ai termini processuali, contenuto nell’articolo 1, L. 742/1969, ci fa propendere
per la soluzione negativa: inapplicabilità della sospensione feriale.
La chiusura degli esercizi
Come è noto, l’articolo 12, comma 2, D.Lgs. 471/1997, prevede che qualora siano state contestate ai
sensi dell'articolo 16, D.Lgs. 472/1997, nel corso di un quinquennio, 4 distinte violazioni in giorni diversi
dell'obbligo di emettere la ricevuta fiscale o lo scontrino fiscale, anche se non sono state irrogate
sanzioni accessorie in applicazione delle disposizioni del citato D.Lgs. 472/1997, è disposta la
sospensione della licenza o dell'autorizzazione all'esercizio dell'attività ovvero dell'esercizio
dell'attività medesima per un periodo da 3 giorni a 1 mese.
In deroga all'articolo 19, comma 7, D.Lgs. 472/1997, il provvedimento di sospensione è
immediatamente esecutivo. Se l'importo complessivo dei corrispettivi oggetto di contestazione eccede
la somma di 50.000 euro la sospensione è comminata per un periodo da 1 mese a 6 mesi.
La sospensione è disposta dalla DRE competente per territorio in relazione al domicilio fiscale del
contribuente.
Gli atti di sospensione devono essere notificati, a pena di decadenza, entro 6 mesi da quando è stata
contestata l’ultima violazione.
L'esecuzione e la verifica dell'effettivo adempimento delle sospensioni è effettuata dall'Agenzia delle
entrate, ovvero dalla GdF.
La chiusura degli esercizi potrà comunque avvenire anche d’estate, in quanto non trattasi di termini
processuali.
La sospensione dei termini per la trasmissione dei documenti
Il comma 16, articolo 7-quater, D.L. 193/2016, convertito con modifiche in L. 225/2016, intervenendo
sull’articolo 37, comma 11-bis, D.L. 223/2006, convertito, con modifiche in L. 248/2006, norma che
aveva introdotto la cd. moratoria estiva, prevedendo che gli adempimenti fiscali e il versamento delle
somme di cui agli articoli 17 e 20, comma 4, D.Lgs. 241/1997, che hanno scadenza dal 1º al 20 agosto
di ogni anno, possono essere effettuati entro il giorno 20 dello stesso mese, senza alcuna
maggiorazione, ha aggiunto un nuovo periodo di sospensione per la trasmissione di documenti e
informazioni.
Istituti deflattivi
61 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
La sospensione dei termini per la trasmissione dei documenti
La norma
"I termini per la trasmissione dei documenti e delle informazioni richiesti ai contribuenti
dall'Agenzia delle entrate o da altri enti impositori sono sospesi dal 1º agosto al 4 settembre,
esclusi quelli relativi alle richieste effettuate nel corso delle attività di accesso, ispezione e
verifica, nonchè delle procedure di rimborso ai fini dell'imposta sul valore aggiunto"
Trasmissione modello TR per il
rimborso/compensazione dell’Iva trimestrale;
versamento dell’Iva periodica
Il termine per la trasmissione gode della pausa
estiva, ex D.L. 223/2006
Richiesta di documentazione notificata al
contribuente in data 1° agosto Il termine per la consegna inizia a decorrere dal
5 settembre, ex D.L. 193/2016
Richiesta di documentazione notificata al
contribuente in data 1° luglio, con termine di
consegna di 15 giorni dalla data di notifica
Il contribuente non beneficia della sospensione
dei termini, ex D.L. 193/2016
La generica e ampia formulazione normativa induce a ritenere che tutte le richieste di documenti e
informazioni ai contribuenti godono della sospensione, fatte salve le esclusioni debitamente previste
(attività di controllo esterna e procedure di rimborso Iva).
Esemplificazione di atti sospesi
Richieste
relative alle
indagini
finanziarie
Inviti a esibire o
trasmettere atti e
documenti rilevanti
ai fini
dell'accertamento
Questionari
relativi a dati e
notizie nei
confronti di altri
contribuenti
Dati, notizie e
documenti relativi
ad attività svolte
in un determinato
periodo d'imposta
Inviti ad esibire o
trasmettere, atti o documenti
fiscalmente rilevanti
concernenti specifici rapporti
intrattenuti con il
contribuente e a fornire i
chiarimenti relativi
La sospensione feriale dei pagamenti per i controlli automatici e formali
Il Legislatore ha, inoltre, introdotto, attraverso, l’articolo 7-quater, comma 17, D.L. 193/2016 inserito in
sede di conversione in L. 225/2016, la sospensione, sempre dal 1° agosto al 4 settembre, dei termini di
Istituti deflattivi
62 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
30 giorni previsti per il pagamento delle somme dovute, rispettivamente, a seguito dei controlli
automatici, dei controlli formali e della liquidazione delle imposte sui redditi assoggettati a tassazione
separata.
La sospensione feriale dei pagamenti per i controlli automatici e formali
La norma
“Sono sospesi dal 1° agosto al 4 settembre i termini di 30 giorni previsti dagli articoli 2, comma
2, e 3, comma 1, D.Lgs. 462/1997, e dall'articolo 1, comma 412, L. 311/2004, per il pagamento
delle somme dovute, rispettivamente, a seguito dei controlli automatici effettuati ai sensi degli
articoli 36-bis, D.P.R. 600/1973 e articolo 54-bis, D.P.R. 633/1972, e a seguito dei controlli
formali effettuati ai sensi dell'articolo 36-ter, D.P.R. 600/1973 e della liquidazione delle
imposte sui redditi assoggettati a tassazione separata”
I termini di pagamento che godono della sospensione sono, quindi:
− comunicazioni/avvisi bonari relativo alle liquidazioni delle dichiarazioni, ex articoli 36-bis,
D.P.R. 600/1973 e 54-bis, D.P.R. 633/1972;
− comunicazioni relative al controllo formale della dichiarazione, ex articolo 36-ter, D.P.R.
600/1973;
− esiti relativi alla liquidazione delle imposte sui redditi assoggettati a tassazione separata.
Come rilevato in sede dottrinaria
“non pare possa ingannare la previsione che la sospensione riguardi il termine di 30 giorni; certamente,
la disposizione trova applicazione anche nel caso di preavviso telematico inviato all’intermediario,
poiché in tale caso la norma prevede che siano concessi (a tale ultimo soggetto) 60 giorni di tempo per
controllare la contestazione ed ulteriori 30 giorni di tempo al contribuente per effettuare il versamento.
Pertanto, la proroga troverà applicazione qualora tali ultimi 30 giorni vengano a cadere nel periodo
dal 1° agosto al 4 di settembre” 5.
Atti interessati
Liquidazione Controllo formale
Avviso bonario notificato il 1° agosto Il termine per il pagamento inizia a decorrere dal 5 settembre
Avviso bonario notificato il 26 luglio Il termine per il pagamento scadrà il 29 settembre
5 G. Valcarenghi, C. Facchetti, “Le semplificazioni fiscali riscrivono il tax day e inseriscono la tregua estiva”, in Il fisco, n. 1/2017, pag. 17.
Istituti deflattivi
63 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
Resta ferma la possibilità di utilizzare, una volta terminato il periodo di sospensione, il c.d. lieve
inadempimento, previsto dall’articolo 15-ter, comma 3, D.P.R. 602/1973, che oltre a escludere la
decadenza in caso di lieve inadempimento dovuto a insufficiente versamento della rata, per una
frazione non superiore al 3% e, in ogni caso, a 10.000 euro, fa salvo il tardivo versamento della 1^ rata,
se non sfora i 7 giorni.
Contenzioso amministrativo e tributario
64 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
Accertamento e contenzioso n. 42/2018
L’onere della prova in relazione
all’emissione di fatture generiche di Luigi Ferrajoli - avvocato patrocinante in Cassazione, dottore commercialista, revisore legale, titolare
Studio Ferrajoli Legale Tributario e condirettore scientifico della rivista Accertamento e Contenzioso
Con l’ordinanza n. 13882/2018 la Corte di Cassazione, aderendo a principi già sanciti dalla
giurisprudenza europea, ha affermato che, in sede di compilazione delle fatture, alla
violazione di alcuni obblighi formali non consegue necessariamente l’indetraibilità dell’Iva
o il disconoscimento del regime di non imponibilità, dovendosi comunque considerare anche
elementi ulteriori che emergano da documentazione diversa dalla fattura.
Le caratteristiche della fattura e le fatture c.d. generiche
La corretta compilazione delle fatture è un tema sempre attuale e oggetto di dibattito dato che
eventuali errori o imprecisioni possono avere conseguenze, anche gravi, in caso di verifica da parte
dell’Amministrazione finanziaria.
Anche in caso di compilazione parziale o di descrizione troppo generica dell’oggetto si può incorrere in
contestazioni, pertanto è bene prestare particolare attenzione a tale aspetto.
In particolare, dal punto di vista delle imposte dirette l’Amministrazione finanziaria potrebbe ravvisare
una violazione dell’articolo 109, Tuir, con disconoscimento del costo portato dalla fattura; dal punto di
vista dell’Iva, invece, potrebbe essere contestata la non detraibilità dell’Iva per la violazione dell’articolo
21, comma 2, lettera g), D.P.R. 633/1972, che prescrive espressamente che la fattura deve contenere le
seguenti indicazioni: “natura, qualità e quantità dei beni e dei servizi formanti oggetto dell'operazione”, con
possibile irrogazione della sanzione amministrativa prevista dall’articolo 9, D.Lgs. 471/1997, (sanzione da
1.000 a 8.000 euro): la fattura generica infatti non permette di identificare l’oggetto della prestazione e
non soddisfa i requisiti di trasparenza e conoscibilità, funzionali all’attività di controllo e verifica del Fisco.
I casi concreti di fatture generiche affrontati dalla giurisprudenza e l’ultimo approdo
della Cassazione
In concreto, sono frequenti gli accertamenti in cui il contribuente si vede negare il diritto alla detrazione
dell’Iva con riferimento a fatture riportanti descrizioni generiche quali, ad esempio “servizi vari di
consulenza”, “servizi vari amministrativi“, “servizi di segreteria“, “canoni di locazione“.
Contenzioso amministrativo e tributario
65 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
La Corte di Cassazione si è occupata in diverse occasioni della problematica in esame; tra le molteplici
pronunce sull’argomento si ricordano la sentenza n. 15177/2016 che ha statuito l’indetraibilità dell’Iva
delle fatture aventi generiche descrizioni, quali quelle sopra indicate; peraltro, i giudici hanno altresì
precisato che la genericità delle fatture non può essere integrata con la documentazione giustificativa
prodotta in giudizio dal contribuente; ancora, la Suprema Corte, con la sentenza n. 21980/2015, ha
ritenuto legittima l’irrogazione, da parte dell’Amministrazione finanziaria, della sanzione prevista
dall’articolo 9, D.Lgs. 471/1997, per l’irregolare compilazione delle fatture, stante la generica
indicazione del loro oggetto descritto con la locuzione “servizi professionali, magazzinaggio, trasporto,
tenuta contabile, marketing e promozione vendite“; nella sentenza n. 7878/2016 sono stati ritenuti invece
indeducibili i costi riportati in una fattura riportante la descrizione generica di servizi di trasporto, senza
l’indicazione degli estremi dei relativi ddt né del periodo a cui si riferivano le prestazioni.
La sentenza n. 13882/2018 della Corte di Cassazione
Recentemente la Corte di Cassazione è tornata sull’argomento fornendo un’interpretazione più
garantista delle norme in commento e più aderente a quello che è l’orientamento della giurisprudenza
comunitaria.
Con l’ordinanza n. 13882/2018 i giudici di legittimità hanno precisato che l'inosservanza degli obblighi
formali non comporta l'automatica indetraibilità dell'Iva; di conseguenza, l'Amministrazione finanziaria
non si può limitare all’esame della sola fattura, ma deve tener conto anche delle informazioni
complementari fornite dal contribuente.
Nella fattispecie oggetto della pronuncia, l’Agenzia delle entrate aveva contestato nei confronti di una
società, con 2 distinti avvisi di accertamento, l’indebita deduzione di costi con conseguente richiesta di
maggiori Iva e Irap; con ulteriori avvisi di accertamento era altresì stata contestata ai 3 soci una
maggiore Irpef. La società e 2 dei soci hanno impugnato gli atti e la CTP di Brescia, previa riunione dei
ricorsi, li ha annullati.
La sentenza era stata riformata dalla CTR che aveva ritenuto la legittimità degli atti impositivi.
Avverso questa decisione la società e i due soci hanno proposto ricorso per cassazione; i ricorrenti
hanno, tra l’altro, dedotto l’omessa motivazione circa un fatto controverso, in relazione all'articolo 360,
c.p.c., comma 1, numero 5), lamentando che la motivazione sarebbe stata carente in ordine al riscontro
che, sarebbe stato necessario anche a fronte di lacunosità delle fatture, dell'effettiva mancata
dimostrazione dell'esecuzione dei servizi acquistati; a tal uopo, i ricorrenti affermavano di aver prodotto
documentazione probante, quale un estratto di pvc redatto a carico di uno dei fornitori delle prestazioni,
Contenzioso amministrativo e tributario
66 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
da cui si sarebbe evinto il riconoscimento da parte dell'Agenzia delle entrate, dell'effettività della
prestazione.
I ricorrenti hanno inoltre dedotto la violazione dell’articolo 109, Tuir, in relazione all'articolo 360 c.p.c.,
comma 1, numero 3, dolendosi della erronea interpretazione di tale norma da parte della CTR, che
avrebbe ritenuto necessaria la connessione dei costi agli specifici ricavi, invece che semplicemente
sufficiente la correlazione di essi con attività, oggetto dell'impresa, potenzialmente idonee a produrre
utili.
La Cassazione ha accolto tali doglianze, riguardanti il concetto di inerenza dei costi documentati dalle
fatture e lo standard di motivazione della sentenza tributaria circa la prova dell'inerenza stessa.
La Suprema Corte ha innanzitutto ricordato che il tema del rapporto tra il contenuto letterale delle
fatture e la possibilità di provare aliunde la natura delle operazioni, rilevante sia ai fini Iva quanto alla
detrazione della stessa imposta per prestazioni normalmente documentate da detti atti contabili, sia ai
fini delle imposte sui redditi quanto alla deduzione dei costi nei medesimi atti rappresentati, ha ricevuto
specifica trattazione giurisprudenziale in ambito Iva, nel quale la fattura è normativamente disciplinata;
secondo la Suprema Corte, le soluzioni ivi raggiunte sarebbero idonee anche ai fini delle imposte sui
redditi.
L’articolo 21, D.P.R. 633/1972, al comma 2, lettera g), prescrive che la fattura debba indicare, tra l'altro,
la "natura, qualità e quantità dei beni e servizi oggetto dell'operazione"; tale norma è in linea con il principio
contenuto nell'articolo 226, punto 6, Direttiva 2006/112/CE del Consiglio UE (di contenuto analogo alla
corrispondente norma della VI Direttiva 77/388/CEE del Consiglio, del 17 maggio 1977), che prescrive
l'indicazione della quantità e natura dei beni ceduti o l'entità e la natura dei servizi resi, in uno con la
specificazione della data (di cui all'articolo 226, punto 7): ciò al fine di consentire alle amministrazioni
finanziarie di controllare l'assolvimento dell'imposta dovuta e, se del caso, la sussistenza del diritto alla
detrazione.
Sezione 4 - Contenuto delle fatture - Articolo 226
Salvo le disposizioni speciali previste dalla presente direttiva, nelle fatture emesse a norma degli
articoli 220 e 221 sono obbligatorie ai fini dell'Iva soltanto le indicazioni seguenti:
1) la data di emissione della fattura;
2) un numero sequenziale, con una o più serie, che identifichi la fattura in modo unico;
3) il numero di identificazione Iva, di cui all'articolo 214, con il quale il soggetto passivo ha effettuato
la cessione di beni o la prestazione di servizi;
Contenzioso amministrativo e tributario
67 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
4) il numero d'identificazione Iva dell'acquirente o del destinatario, di cui all'articolo 214, con il quale
ha ricevuto una cessione di beni o una prestazione di servizi per la quale è debitore dell'imposta o una
cessione di beni di cui all'articolo 138;
5) il nome e l'indirizzo completo del soggetto passivo e dell'acquirente o del destinatario;
6) la quantità e la natura dei beni ceduti o l'entità e la natura dei servizi resi;
7) la data in cui è effettuata o ultimata la cessione di beni o la prestazione di servizi o la data in cui è
corrisposto l'acconto di cui all'articolo 220, punti 4) e 5), sempreché tale data sia determinata e diversa
dalla data di emissione della fattura;
8) la base imponibile per ciascuna aliquota o esenzione, il prezzo unitario al netto dell'Iva, nonché gli
eventuali sconti, riduzioni o ristorni se non sono compresi nel prezzo unitario;
9) l'aliquota Iva applicata;
10) l'importo dell'Iva da pagare, tranne in caso di applicazione di un regime speciale per il quale la
presente direttiva escluda tale indicazione;
11) in caso di esenzione o quando l'acquirente o il destinatario è debitore dell'imposta, il riferimento
alla disposizione applicabile della presente direttiva o alla disposizione nazionale corrispondente o ad
altre informazioni che indichino che la cessione di beni o la prestazione di servizi è esente o soggetta
alla procedura dell'inversione contabile;
12) in caso di cessione di mezzi di trasporto nuovi effettuata alle condizioni di cui all'articolo 138, § 1,
e § 2, lettera a), i dati elencati all'articolo 2, § 2, lettera b);
13) in caso di applicazione del regime speciale delle agenzie di viaggio, il riferimento all'articolo 306,
o alle corrispondenti disposizioni nazionali, o ad altre informazioni che indichino che è stato applicato
tale regime;
14) in caso di applicazione di uno dei regimi speciali applicabili ai beni d'occasione e agli oggetti
d'arte, d'antiquariato o da collezione, il riferimento all'articolo 313, articolo 326 o articolo 333, o alle
corrispondenti disposizioni nazionali, o ad altre informazioni che indichino che è stato applicato uno
di tali regimi;
15) se il debitore dell'imposta è un rappresentante fiscale ai sensi dell'articolo 204, il numero
d'identificazione Iva del rappresentante fiscale, di cui all'articolo 214, corredato del nome e
dell'indirizzo completo.
Ciò posto e fermo restando che neanche la fattura regolarmente compilata rappresenta prova
inconfutabile della sussistenza dell'operazione effettuata, ma solo elemento per consentire le verifiche
da parte dell'Amministrazione finanziaria, la giurisprudenza comunitaria ha dovuto affrontare la
Contenzioso amministrativo e tributario
68 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
questione della portata dell'inosservanza di tali norme impositive degli obblighi formali, di solito
concretizzate nell'incompleta, imprecisa o parzialmente erronea descrizione in fattura.
Argomentando in base al diritto dei soggetti passivi di detrarre l'Iva dovuta o versata a monte per i beni
acquistati o per i servizi loro prestati, così come sancito dall'articolo 178, Direttiva 2006/112/CE, che
costituisce un principio fondamentale del sistema e al principio di neutralità dell'Iva, che esige che la
sua detraibilità a monte sia accordata se gli obblighi sostanziali sono soddisfatti, anche quando taluni
obblighi formali siano stati omessi dai soggetti passivi, la Corte di Giustizia UE ha concluso nel senso
che l'inosservanza di tali obblighi formali non comporta l'automatica indetraibilità dell'Iva.
Secondo la giurisprudenza europea l'Amministrazione finanziaria non si può limitare all'esame della
sola fattura, ma deve tener conto anche delle informazioni complementari fornite dal soggetto passivo,
come emerge, d'altronde, dall'articolo 219, Direttiva 2006/112/CE, che assimila alla fattura tutti i
documenti o messaggi che modificano e fanno riferimento in modo specifico e inequivocabile alla
fattura iniziale.
Articolo 219
Sono assimilati a una fattura tutti i documenti o messaggi che modificano e fanno riferimento in modo
specifico e inequivocabile alla fattura iniziale.
Incombe, tuttavia, su colui che chiede la detrazione dell'Iva, l'onere di dimostrare di soddisfare le
condizioni per fruirne e, per conseguenza, di fornire elementi e prove, anche integrativi e succedanei
rispetto alle fatture, che l'amministrazione ritenga necessari per valutare se si debba riconoscere o no
la detrazione richiesta (così Corte di Giustizia UE, 15 settembre 2016, causa C-516/14, Barlis 06 -
Investimentos Imobiliarios e Turisticos SA v Autoridade Tributaria e Aduaneira).
La Corte di Cassazione ha quindi rilevato che, in relazione a ciò, la CTR, accertata ritualmente la
genericità delle fatture (o di alcune di esse), avrebbe poi dovuto valutare se, per una o più di esse, la
documentazione in questione, se fornita nelle forme di rito all'Amministrazione finanziaria, potesse
supplire alla genericità della descrizione delle fatture medesime al fine di evidenziare entità, natura ed
epoca delle operazioni; di conseguenza, la sentenza di secondo grado meritava di essere cassata sul
punto, dovendo procedere la commissione regionale in sede di rinvio a rinnovato esame fornendo
congrua motivazione, fermo restando che,
“come per le fatture formalmente regolari, anche le fatture carenti ma integrate nel loro contenuto da
elementi ulteriori, non forniscono ex se la prova dell'effettività delle operazioni e che incombe su colui che
chiede la detrazione dell'Iva, o la deduzione dei costi, l'onere di dimostrare di soddisfare, attraverso idonei
elementi probatori aggiuntivi rispetto alle fatture, anche di natura presuntiva, le condizioni per fruirne”.
Contenzioso amministrativo e tributario
69 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
La Cassazione ha, inoltre, avuto modo di approfondire anche il concetto di inerenza dei costi; ha, infatti,
rilevato anche che nel caso di specie la CTR, oltre a non aver fornito la motivazione, aveva anche
affermato che la descrizione era necessaria al fine di valutare l'inerenza dei costi, presupposto della
deducibilità, in tale contesto ritenendo che,
"l'inerenza intesa in senso tecnico, sul piano tributario, non ha bisogno di interpretazioni logiche...
bensì di constatazioni oggettive di natura qualitativa e quantitativa, tali da evidenziare sia sul piano
contabile che gestionale-amministrativo il nesso stretto che concorre alla... formazione di ricavi di
impresa"; ha chiarito anche che il costo, per essere inerente, dovrebbe "concorrere in modo diretto e
chiaro alla determinazione dei ricavi".
Tuttavia, secondo la Suprema Corte, tale interpretazione si discostava da quella adottata dalla
medesima Cassazione; in particolare, secondo i giudici di legittimità, deve escludersi che la nozione di
inerenza si desuma adeguatamente dall'articolo 109, comma 5, Tuir, (ex articolo 75, D.P.R. 917/1986),
per effetto del quale
"Le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali,
contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni
da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in
quanto esclusi. Se si riferiscono indistintamente ad attività o beni produttivi di proventi computabili e
ad attività o beni produttivi di proventi non computabili in quanto esenti nella determinazione del
reddito sono deducibili per la parte corrispondente al rapporto tra l'ammontare dei ricavi e altri
proventi che concorrono a formare il reddito d'impresa o che non vi concorrono in quanto esclusi e
l'ammontare complessivo di tutti i ricavi e proventi".
Ebbene, dalla lettura di tale disciplina si ricaverebbe in via diretta, infatti, esclusivamente il diverso
principio della correlazione tra costi deducibili e ricavi tassabili (escludendosi la deducibilità dei costi
relativi a ricavi esenti), ciò che non afferisce alla nozione di inerenza come interpretato dalla Cassazione.
Infatti, secondo la Corte, al di là di tale correlazione, il principio di inerenza traduce la diversa necessità
(sul piano logico-giuridico, quindi in via derivata sul piano probatorio) di un nesso di riferibilità delle
operazioni comportanti costi, che si assumono sostenuti nell'attività d'impresa all'esercizio dell'attività
stessa. In tal senso, la possibilità di deduzione dei soli costi inerenti si ricava dalla nozione di reddito
d'impresa.
I giudici hanno così espresso il seguente principio di diritto:
“In quanto funzionalmente riferibili all'attività imprenditoriale, sono in tal senso inerenti, secondo un
giudizio che deve essere di natura qualitativa e oggettiva parametrato alle regole di mercato, anche
Contenzioso amministrativo e tributario
70 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
costi attinenti ad atti di impresa che si collocano in un nesso di programmatica, futura o potenziale
proiezione normale dell'attività stessa, senza correlazione necessaria con ricavi o redditi immediati,
mentre non sono inerenti, secondo il medesimo giudizio qualitativo e oggettivo di pertinenza del
giudice del merito, le operazioni comportanti costi che, siano o meno idonee a recare vantaggio
all'attività imprenditoriale, incrementandone ricavi o redditi (secondo un giudizio utilitaristico e
quantitativo precedentemente accolto in giurisprudenza, v. da ultimo Cassazione n. 10269/2017), si
riferiscano a una sfera non coerente o addirittura estranea all'esercizio dell'impresa”.
La Cassazione ha quindi accolto anche il relativo motivo di diritto, con rinvio alla CTR per l’applicazione
del principio di diritto esposto.
Spunti pratici dalla giurisprudenza comunitaria
Nella sentenza della Corte di Giustizia UE C-516/14 del 15 settembre 2016, citata dalla Cassazione, è
stato chiarito che le fatture riportanti solamente l’indicazione “servizi giuridici forniti [da una certa data]
sino ad oggi”, non sono conformi, a priori, ai requisiti di cui al punto 6, articolo 226, Direttiva 2006/112.
Tuttavia, questo è il principio pienamente attuato dalla nostra Suprema Corte, è stato ritenuto che le
autorità tributarie nazionali non possano negare
“il diritto alla detrazione dell’Iva per il solo motivo che il soggetto passivo esibisce una fattura che non
soddisfa i requisiti di cui all’articolo 226, punti 6 e 7, della menzionata direttiva, laddove tali autorità
dispongano di tutte le informazioni necessarie per accertare che i requisiti sostanziali relativi
all’esercizio del diritto in parola siano soddisfatti”.
Conclusione: necessità di compilare correttamente la fattura
Pertanto, alla luce dei principi sopra esposti, è evidente come la sussistenza di una descrizione più
dettagliata possibile, o quanto meno idonea a consentire all’Amministrazione finanziaria di verificare
l’entità e la quantità delle prestazioni ricevute, è fondamentale sia in relazione all’Iva, sia con
riferimento alle imposte dirette, soprattutto nei casi in cui si tratta di prestazioni che non possono essere
provate con documentazione diversa.
Si pensi ad esempio alla vendita di beni che può essere provata anche tramite i ddt o le bolle di
consegna relativi al recapito dei beni; oppure alle prestazioni professionali di un avvocato che possono
essere documentate per mezzo dei contratti di incarico, dalle nomine a difensore e dagli atti redatti: in
tali casi anche una fattura generica ha più possibilità di essere ritenuta sufficiente. Al contrario,
Contenzioso amministrativo e tributario
71 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
prestazioni quali la resa di una mera consulenza più difficilmente possono contare su documentazione
aggiuntiva a supporto della fattura.
In sintesi:
Una carente descrizione dell’oggetto della fattura può comportare conseguenze sia in relazione alle
imposte dirette che con riferimento all’Iva
In particolare può essere contestata la violazione dell’articolo 109, Tuir, con disconoscimento del
costo portato dalla fattura; la violazione dell’articolo 21, comma 2, lettera g), D.P.R. 633/1972 con
conseguente indetraibilità dell’Iva, nonché la violazione dell’articolo 21, comma 2, lettera g), D.P.R.
633/1972 e irrogazione della sanzione amministrativa ex articolo 9, D.Lgs. 471/1997 da 1.000 a 8.000
euro
Con l’ordinanza n. 13882/2018 la Cassazione ha precisato che l'inosservanza degli obblighi formali
non comporta l'automatica indetraibilità dell'Iva e che l'Amministrazione finanziaria non si può
limitare all’esame della sola fattura, ma deve tener conto anche delle informazioni complementari
fornite dal contribuente
In ogni caso, date le conseguenze derivanti da una compilazione poco precisa della fattura, è bene
curare anche tale aspetto riportando nell’oggetto una descrizione il più possibile precisa e dettagliata
delle prestazioni fatturate
Contenzioso amministrativo e tributario
72 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
Accertamento e contenzioso n. 42/2018
L’opposizione all’esecuzione nel
processo tributario: incostituzionale il
divieto di promuovere il procedimento
ex articolo 615, c.p.c. di Luigi Ferrajoli - avvocato patrocinante in Cassazione, dottore commercialista, revisore legale, titolare
Studio Ferrajoli Legale Tributario e condirettore scientifico della rivista Accertamento e Contenzioso
La Corte Costituzionale ha recentemente stabilito che la speciale procedura di riscossione
coattiva tributaria prevista dall’articolo 57, comma 1, lettera a), D.P.R. 602/1973, posta a
favore dell’Amministrazione finanziaria non permette di tutelare il contribuente intenzionato
a contestare il diritto erariale di procedere con l’esecuzione forzata.
Di seguito, si analizzeranno i principi affermati dalla Consulta con la pronuncia n. 114/2018
e le relative conseguenze discendenti dalla conseguente declaratoria d’incostituzionalità del
richiamato articolo 57.
Premessa
Con la sentenza n. 114/2018, la Corte Costituzionale si è pronunciata in tema di esecuzione forzata
tributaria e ha rimosso la preclusione a promuovere l’opposizione all’esecuzione ex articolo 615, c.p.c.,
sino a oggi consentita solo per contestare le questioni concernenti la pignorabilità dei beni.
In forza dell’anzidetta pronuncia la Consulta ha, difatti, dichiarato l’incostituzionalità dell’articolo 57,
comma 1, lettera a), D.P.R. 602/1973
“nella parte in cui non prevede che, nelle controversie che riguardano gli atti dell’esecuzione forzata
tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento o all’avviso di cui all’articolo 50, D.P.R.
602/ 1973, sono ammesse le opposizioni regolate dall’articolo 615 del codice di procedura civile”,
facendo così cadere il divieto di promuovere la generale opposizione all’esecuzione.
La fattispecie esaminata dalla Corte Costituzionale
La pronuncia oggetto del presente elaborato prende le mosse da due ordinanze dell’11 dicembre 2013
e del 31 dicembre 2013, con cui il giudice dell’esecuzione del Tribunale di Sulmona aveva sollevato la
Contenzioso amministrativo e tributario
73 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
questione di legittimità costituzionale in riferimento al menzionato articolo 57, comma 1, lettera a),
D.P.R. 602/1973, nella parte in cui limita la
“facoltà di proporre le opposizioni di cui agli articoli 615 e 617 c.p.c., solo a quelle riguardanti la
pignorabilità dei beni e alle opposizioni agli atti esecutivi concernenti le patologie del titolo e del
precetto”, non contemplando invece “la facoltà di proporre opposizione nei confronti delle patologie
riguardanti il pignoramento o il procedimento di notificazione di detto atto, quand’anche si trattasse
dell’inesistenza della notificazione”.
Articolo 57 D.P.R. 602/1973: opposizione all'esecuzione o agli atti esecutivi
1. Non sono ammesse:
a) le opposizioni regolate dall'articolo 615, c.p.c., fatta eccezione per quelle concernenti la
pignorabilità dei beni;
b) le opposizioni regolate dall'articolo 617, c.p.c., relative alla regolarità formale e alla
notificazione del titolo esecutivo.
2. Se è proposta opposizione all'esecuzione o agli atti esecutivi, il giudice fissa l'udienza di
comparizione delle parti avanti a sé con decreto steso in calce al ricorso, ordinando al
concessionario di depositare in cancelleria, cinque giorni prima dell'udienza, l'estratto del ruolo
e copia di tutti gli atti di esecuzione.
Due distinte ordinanze di analogo contenuto rese dal giudice dell’esecuzione del Tribunale di Trieste il
19 agosto 2015 e il 28 marzo 2017 avevano parimenti sollevato la questione di legittimità non solo del
medesimo articolo 57, ma anche dell’articolo 3, comma 4, lettera a), D.L. 203/2005, convertito, con
modificazioni, in L. 248/2005, in relazione alla riscossione erariale, obiettando della loro
costituzionalità con riferimento agli articoli 3, 24, 111 e 113, Costituzione, perché costringono
“il contribuente a subire in ogni caso l'esecuzione, ancorché ingiusta; con la sola possibilità di
presentare ex post una richiesta di rimborso di quanto ingiustamente percetto dalla pubblica
amministrazione, o suo concessionario per la riscossione, ovvero di agire per il risarcimento del danno”.
Ebbene, riunite in un unico giudizio le questioni di costituzionalità proposte con le separate ordinanze,
la Corte Costituzionale ha, preliminarmente, dichiarato inammissibili le questioni oggetto dei due
provvedimenti di rimessione del Tribunale di Sulmona per carenza di motivazione in ordine alla loro
rilevanza e, invece, ritenuto apprezzabili quelle sollevate dal Tribunale di Trieste, specificando, tuttavia,
come oggetto della questione di legittimità costituzionale fosse unicamente l’articolo 57, D.P.R.
602/1973 e non anche l’articolo 3, comma 4, lettera a), D.L. 203/2005.
Contenzioso amministrativo e tributario
74 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
Focalizzata, quindi, l’attenzione esclusivamente sull’articolo 57, D.P.R. 602/1973, la Consulta ha
ulteriormente delimitato il proprio raggio d’azione, osservando che per le opposizioni agli atti esecutivi
previste dal disposto normativo di cui all’articolo 617, c.p.c., non si sarebbe posto alcun problema di
legittimità, in ragione del fatto che la tutela a favore del contribuente per le fattispecie ivi contemplate
risulterebbe assicurata dalla giurisdizione del giudice tributario.
Le opposizioni all’esecuzione nel processo civile
Prima di entrare nel vivo della pronuncia oggetto dell’odierno esame, grazie all’accenno alla
disposizione di cui all’articolo 617, c.p.c., concernente l’opposizione agli atti esecutivi compiuto dalla
Corte, occorre effettuare una breve analisi alle opposizioni all’esecuzione previste dal Titolo V del Libro
III del codice di procedura civile, come richiamate dall’articolo 57, comma 1, lettera a), D.P.R. 602/1973.
Articolo 617, c.p.c.: forma dell'opposizione
Le opposizioni relative alla regolarità formale del titolo esecutivo e del precetto si propongono,
prima che sia iniziata l'esecuzione, davanti al giudice indicato nell'articolo 480, terzo comma, con
atto di citazione da notificarsi nel termine perentorio di venti giorni dalla notificazione del titolo
esecutivo o del precetto.
Le opposizioni di cui al comma precedente che sia stato impossibile proporre prima dell'inizio
dell'esecuzione e quelle relative alla notificazione del titolo esecutivo e del precetto e ai singoli
atti di esecuzione si propongono con ricorso al giudice dell'esecuzione nel termine perentorio di
venti giorni dal primo atto di esecuzione, se riguardano il titolo esecutivo o il precetto, oppure
dal giorno in cui i singoli atti furono compiuti.
Diversa considerazione meritano le opposizioni all’esecuzione di cui all’articolo 615, c.p.c..
Articolo 615 c.p.c.: forma dell'opposizione
Quando si contesta il diritto della parte istante a procedere a esecuzione forzata e questa non è
ancora iniziata, si può proporre opposizione al precetto con citazione davanti al giudice
competente per materia o valore e per territorio a norma dell'articolo 27. Il giudice, concorrendo
gravi motivi, sospende su istanza di parte l'efficacia esecutiva del titolo. Se il diritto della parte
istante è contestato solo parzialmente, il giudice procede alla sospensione dell'efficacia esecutiva
del titolo esclusivamente in relazione alla parte contestata.
Contenzioso amministrativo e tributario
75 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
Quando è iniziata l'esecuzione, l'opposizione di cui al comma precedente e quella che riguarda la
pignorabilità dei beni si propongono con ricorso al giudice dell'esecuzione stessa. Questi fissa
con decreto l'udienza di comparizione delle parti davanti a sé e il termine perentorio per la
notificazione del ricorso e del decreto. Nell'esecuzione per espropriazione l'opposizione è
inammissibile se è proposta dopo che è stata disposta la vendita o l'assegnazione a norma degli
articoli 530, 552, 569, salvo che sia fondata su fatti sopravvenuti ovvero l'opponente dimostri di
non aver potuto proporla tempestivamente per causa a lui non imputabile.
Come noto, l’opposizione di tale ultima natura consente al debitore di contestare il diritto del creditore
a procedere con l'esecuzione, così mettendo in discussione la legittimità, e, quindi, il titolo esecutivo a
fondamento della stessa.
In questi termini, le contestazioni possono avere natura processuale e avere a oggetto:
− l’inesistenza del titolo esecutivo ab origine;
− la nullità del titolo per sopravvenuta caducazione;
− l’idoneità del titolo a fondare l'esecuzione da parte o nei confronti di un soggetto determinato o, in
generale, a fondare l'esecuzione stessa;
− la corrispondenza tra la misura richiesta con l’esecuzione e il contenuto del titolo.
L'opposizione all'esecuzione può inoltre trovare il proprio presupposto in ragioni di carattere
sostanziale, che concernono quindi il merito e, che si verificano ogniqualvolta si contesti il diritto del
creditore a procedere esecutivamente, allegando fatti impeditivi o estintivi della pretesa.
Ciò detto, si evidenzia come l’esecuzione forzata esattoriale di cui al D.P.R. 602/1973 sia connotata da
profili di marcata specialità rispetto a quella ordinaria, chiaramente giustificati da esigenze di celerità,
posto che la prima è finalizzata a preservare il benessere finanziario dello Stato.
Si consideri, a tal proposito, il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice tributario sancito
dal combinato disposto di cui all’articolo 2, D.Lgs. 546/1992, da un lato, e articolo 57, D.P.R. 602/1973,
dall’altro.
Articolo 2, comma 1, D.Lgs. 546/1992: oggetto della giurisdizione tributaria
Appartengono alla giurisdizione tributaria tutte le controversie aventi a oggetto i tributi di ogni
genere e specie comunque denominati, compresi quelli regionali, provinciali e comunali e il
contributo per il Servizio sanitario nazionale, le sovrimposte e le addizionali, le relative sanzioni
nonché gli interessi e ogni altro accessorio. Restano escluse dalla giurisdizione tributaria soltanto
le controversie riguardanti gli atti della esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della
cartella di pagamento e, ove previsto, dell'avviso di cui all'articolo 50, D.P.R. 602/1973, per le
Contenzioso amministrativo e tributario
76 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
quali continuano ad applicarsi le disposizioni del medesimo decreto del Presidente della
Repubblica.
Abbiamo però visto che l’articolo 57, comma 1, D.P.R. 602/1973 non ammette le opposizioni regolate
dall’articolo 615, c.p.c., fatta eccezione per quelle concernenti la pignorabilità dei beni, nonché le
opposizioni ex articolo 617, c.p.c., relative alla regolarità formale e alla notificazione del titolo
esecutivo.
Da ciò non può che discendere come, per le controversie aventi a oggetto gli atti relativi alla pretesa
tributaria e, quindi, concernenti l’an e il quantum della pretesa stessa, sia competente il giudice
tributario, mentre per gli atti prettamente caratterizzanti la riscossione coattiva (pignoramenti, istanze
di vendita, etc.) la cognizione debba appartenere al giudice ordinario a cui dovranno essere sottoposte
le questioni concernenti le modalità dell’esazione1.
L’innovativa decisione della Corte Costituzionale sull’articolo 57, comma 1, lettera a),
D.P.R. 602/1973
Come sopra accennato, con la sentenza n. 114/2018 la Corte Costituzionale ha sancito l’illegittimità
costituzionale dell’articolo 57, comma 1, lettera a), D.P.R. 602/1973,
“nella parte in cui non prevede che, nelle controversie che riguardano gli atti dell’esecuzione forzata
tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento o all’avviso di cui all’articolo 50, D.P.R.
602/1973, sono ammesse le opposizioni regolate dall’articolo 615, c.p.c.”.
In buona sostanza, ritenendo illegittimo consentire al contribuente di proporre l’opposizione
all’esecuzione ex articolo 615, c.p.c., esclusivamente per questioni inerenti la pignorabilità dei beni, la
Consulta ha eliminato tale preclusione consentendo così all’opponente di procedere con detto
procedimento in tutti i casi contemplati dalla norma.
È stato, infatti, stabilito che
“laddove la censura della parte assoggettata a riscossione esattoriale non radichi una controversia
devoluta alla giurisdizione del giudice tributario e quindi sussista la giurisdizione del giudice ordinario,
l'impossibilità di far valere innanzi al giudice dell'esecuzione l'illegittimità della riscossione mediante
opposizione all'esecuzione, essendo ammessa soltanto l'opposizione con cui il contribuente contesti la
mera regolarità formale del titolo esecutivo o degli atti della procedura e non anche quella con cui egli
contesti il diritto di procedere alla riscossione, confligge frontalmente con il diritto alla tutela
1 G. Glendi, “sub articolo 2”, in C. Consolo, C. Glendi, “Commentario breve alle leggi del Processo tributario”, Milano, 2017, pag. 24; A. Carinci, “La
consulta rimuove il divieto all’opposizione all’esecuzione: cade una (altra) specialità dell’esecuzione esattoriale”, in Il Fisco, 2018, 27, 2642.
Contenzioso amministrativo e tributario
77 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
giurisdizionale riconosciuto in generale dall'articolo 24 Cost. e nei confronti della pubblica
amministrazione dall'articolo 113 Cost., dovendo essere assicurata in ogni caso una risposta di giustizia
a chi si oppone alla riscossione coattiva”.
Sostanziandosi in una vera e propria “ingiustificata limitazione di tutela giurisdizionale”, la Corte ha
sancito che
“la possibilità di attivare il sindacato del giudice su atti immediatamente lesivi appartiene al diritto,
inviolabile e quindi fondamentale, di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi
(articolo 24 Cost.), senza che contro gli atti della pubblica amministrazione la tutela giurisdizionale
possa essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti
(articolo 113 Cost.)”.
Così facendo, grazie a tale pronuncia le opposizioni previste dall’articolo 615, c.p.c., fanno
compiutamente ingresso nel novero dei mezzi di tutela contro l’esecuzione tributaria, superando i
limitati casi previsti dalla lettera dall’articolo 57, D.P.R. 602/1973.
Ragionando però sul citato articolo 615 c.p.c. che, come detto, consente al contribuente di contestare
“il diritto della parte istante a procedere”, occorre evitare che la declaratoria d’incostituzionalità appena
emanata non porti a una duplicazione di giudizi, in considerazione del fatto che il processo tributario,
essendo impugnazione di merito, ha a oggetto la legittimità degli atti di imposizione (tra cui il titolo
esecutivo tipico dell’esecuzione esattoriale).
Ebbene, a mente dell’articolo 2, D.Lgs. 546/1992, in forza del quale
“appartengono alla giurisdizione tributaria tutte le controversie aventi a oggetto i tributi di ogni genere
e specie comunque denominati”,
è necessario che siano tenute distinte le 2 giurisdizioni in esame, devolvendo al giudice tributario tutte
le controversie riguardanti la determinazione del debito fiscale.
In buona sostanza, il novello insegnamento della Consulta non può che portarci a concludere come
l’opposizione all’esecuzione sia destinata ad avere una portata residuale.
Quest’ultima potrà quindi essere una strada percorribile solo per contestare accadimenti sopravvenuti
in grado di far venir meno la legittimazione all’esecuzione esattoriale, che non si sono potuti far valere
tempestivamente innanzi al giudice tributario in sede d’impugnazione dell’atto di imposizione.
Così facendo, rimane fermo il principio per cui ogni vizio del provvedimento tributario deve essere
contestato nella deputata sede (il giudizio tributario): il giudice dell’opposizione all’esecuzione non
potrà quindi essere chiamato a conoscere degli stessi vizi già dedotti o che solo il giudice della
cognizione avrebbero potuto valutare.
Contenzioso amministrativo e tributario
78 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
È così definitivamente posta una linea di confine tra le 2 giurisdizioni, data dalla cartella di pagamento
(o comunque dall’eventuale successivo avviso d’intimazione ad adempiere): fino a tale momento, la
cognizione spetta al giudice dell’erario; solo successivamente, al giudice dell’esecuzione (civile).
Perché le contestazioni innanzi al giudice dell’esecuzione siano considerate legittime, le stesse
dovranno concernente circostanze insorte a seguito della scadenza del termine per sollevarle nel
procedimento tributario.
Ciò in quanto, nell’opposizione all’esecuzione, l’opponente non può sollevare eccezioni che può o
avrebbe potuto rilevare nel giudizio di cognizione, ma solo dedurre fatti, estintivi o modificativi del
rapporto sostanziale, verificatisi successivamente al momento in cui l’ultimo atto impugnabile innanzi
alle Commissioni tributarie è divenuto definitivo (cfr. Cassazione n. 24750/2008, secondo cui
“Il potere di cognizione del giudice dell'opposizione all'esecuzione è limitato all'accertamento della
portata esecutiva del titolo posto a fondamento dell'esecuzione stessa, mentre le eventuali ragioni di
merito incidenti sulla formazione del titolo devono essere fatte valere unicamente tramite
l'impugnazione della sentenza che costituisce il titolo medesimo” e Cassazione Civ. n. 27159/2006,
secondo cui “In sede di opposizione all'esecuzione (articolo 615, c.p.c.) avverso un decreto ingiuntivo
dichiarato esecutivo, in quanto non opposto (articolo 647 c.p.c.), il debitore non può contestare il diritto
del creditore per ragioni che avrebbe potuto, e dovuto, far valere nel giudizio a opposizione al decreto
ingiuntivo, ma può far valere esclusivamente fatti modificativi o estintivi sopravvenuti”)2.
Conseguenze a livello pratico nel processo tributario
Il criterio di riparto rivisto dalla Corte Costituzionale dovrebbe offrire al contribuente quella garanzia
giurisdizionale “a trecentosessanta gradi” che la stessa Consulta non aveva, sin ora, riconosciuto
sussistente in relazione agli articoli 24 e 113, Costituzione.
Dalla lettura della sentenza, sembrerebbe innanzitutto sia venuto meno un profilo di specialità del
processo tributario rispetto a quello ordinario.
Ciò posto, è sentita tuttavia l’esigenza di un adeguamento dal punto di vista normativo in grado di
coordinare le disposizioni al momento vigenti con la sentenza in esame e con le pronunce della Corte
di legittimità.
Sul punto, quest’ultima ha già avuto modo di pronunciarsi in materia di esecuzione forzata tributaria,
ritenendo che
2 A. Carinci, cit.
Contenzioso amministrativo e tributario
79 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
“l’opposizione agli atti esecutivi riguardante l’atto di pignoramento, che si assume viziato per l’omessa
o invalida notificazione della cartella di pagamento (o degli altri atti presupposti dal pignoramento), è
ammissibile e va proposta, ai sensi degli articoli 2, comma 1, secondo periodo 19, D.Lgs. 546/1992 e
57, del D.P.R. 602/1973 e 617 c.p.c., davanti al giudice tributario”.
In buona sostanza, a parere della Suprema Corte, l’omessa o viziata notifica dell’atto presupposto
all’azione esecutiva può essere contestata attraverso l’impugnazione dell’atto di pignoramento innanzi
al giudice tributario che, in ogni caso, non sarebbe stata esperibile innanzi al giudice ordinario, posto
che ai sensi dell’articolo 57, comma 1, lettera b), D.P.R. 602/1973 non sono ammesse le opposizioni agli
atti esecutivi, di cui all’articolo 617, c.p.c. “relative alla regolarità formale e alla notificazione del titolo
esecutivo”.
Ciò vuol dire che l’articolo 57, D.P.R. 602/1973 deve essere
“raccordato con l’articolo 2, D.Lgs. 546/1992, che demanda alla giurisdizione del giudice tributario le
contestazioni del titolo (normalmente la cartella di pagamento) su cui si fonda la riscossione
esattoriale”, sicché, nel caso in cui la controversia inerisca al titolo della riscossione coattiva, la
medesima non può che appartenere alla cognizione del giudice tributario e l’atto processuale di
impulso dovrà essere “il ricorso ex articolo 19, D.Lgs. 546/1992, proponibile avverso il “ruolo e la
cartella di pagamento”, e non già l’opposizione all’esecuzione ex articolo 615 c.p.c.”.
Tale orientamento appare evidentemente rivoluzionario posto che, stravolgendo i criteri di riparto tra
giurisdizione ordinaria e tributaria, disattende il dato normativo di cui all’articolo 2, D.Lgs. 546/1992 e,
supera finanche quella giurisprudenza costituzionale che pur di rispondere “all'esigenza di pronta
realizzazione del credito fiscale”, poteva comportare “preclusioni nelle opposizioni” e “limiti probatori” ai
danni del contribuente (Corte Costituzionale ordinanza n. 455/2000, sentenze n. 351/1998, n. 415/1996,
n. 444/1995 e n. 358/1994).
Ciò vuol dire che le pretese tributarie non possono arrivare a giustificare il differimento della tutela
giurisdizionale.
Conclusioni
La sentenza n. 114/2018 porta inevitabilmente a far riflettere sulla portata dell’articolo 57, D.P.R.
602/1973, comma 1, lettera b), che, in forza della declaratoria di incostituzionalità esaminata, non può
che apparire evidentemente ridotta.
Contenzioso amministrativo e tributario
80 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
Da ciò si ricava però la necessità di recepire urgenti interventi normativi, stante l’inadeguatezza della
struttura e l’impostazione delineata dal D.Lgs. 546/1992 e dal D.P.R. 602/1973, chiaramente datate e
concepite per offrire tutela nella fase dell’accertamento e non anche in quella della riscossione.
E’ vero, infatti, che sino al 30 maggio 2018, se il contribuente subiva un pignoramento fiscale, poteva
procedere con l’opposizione all’esecuzione ex articolo 615, c.p.c., solamente nel caso in cui fosse
intenzionato a contestare la pignorabilità dei beni.
Ma alla luce della pronuncia della Corte Costituzionale del 31 maggio, ci si trova ancora nella situazione
che, qualora il contribuente dovesse venire a conoscenza di un suo presunto debito tributario, egli non
potrà agire preventivamente, ad esempio, contestando l’avvenuto pagamento o la prescrizione delle
pretese –, dovendo solo attendere il successivo pignoramento.
E’ chiaro che un ampliamento normativo dei diritti di difesa sarebbe sicuramente opportuno.
In sintesi:
Con la sentenza n. 114/2018 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità dell’articolo 57, comma
1, lettera a), D.P.R. 602/1973 nella parte in cui non ammette le opposizioni regolate dall’articolo 615, c.p.c.,
fatta eccezione per quelle concernenti la pignorabilità dei beni
Le opposizioni previste dall’articolo 615, c.p.c. fanno così ingresso nel novero dei mezzi di tutela contro
l’esecuzione tributaria, superando i limitati casi previsti dalla lettera dall’articolo 57, D.P.R. 602/1973
A mente dell’articolo 2, D.Lgs. 546/1992 in forza del quale “appartengono alla giurisdizione tributaria tutte le
controversie aventi a oggetto i tributi di ogni genere e specie comunque denominati”, è tuttavia necessario che sia
tenuta distinta la giurisdizione civile da quella tributaria. A quest’ultima sono infatti devolute tutte le
controversie riguardanti la determinazione del debito fiscale
La Consulta afferma in ogni caso che l’opposizione all’esecuzione è destinata ad avere una portata residuale
Quest’ultima potrà essere una strada percorribile solo per contestare accadimenti sopravvenuti in grado di far
venir meno la legittimazione all’esecuzione esattoriale, che non si sono potuti far valere tempestivamente
innanzi al giudice tributario in sede d’impugnazione dell’atto di imposizione
Contenzioso penale tributario
81 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
Accertamento e contenzioso n. 42/2018
Prescrizione e frodi Iva: la Consulta
sancisce il primato della normativa
interna di Antonio Castiello - avvocato
Sara Mecca - avvocato
Lo scorso 31 maggio, la Corte Costituzionale, con la pronuncia n. 115, si è espressa in
riferimento alla regola “Taricco”, ponendo fine (almeno si spera), alla lunga diatriba
giurisprudenziale che si era registrata sul tema, stabilendo l’impossibilità di disapplicare
nell’ordinamento italiano la disciplina della prescrizione dei reati tributari, altrimenti
essendosi in presenza della violazione del principio di determinatezza in materia penale. È
il caso di ripercorrere i tratti salienti della vicenda e le conclusioni raggiunte dai giudici
Costituzionali.
Premessa
La violazione del principio di determinatezza in materia penale vieta l’ingresso della regola Taricco nel
nostro ordinamento.
E’ questa la conclusione a cui è giunta la Corte Costituzionale con la recente pronuncia n. 115/2018,
che sembrerebbe aver posto fine alla diatriba sorta in tema di gravi frodi Iva.
La sentenza della Corte di Giustizia UE 8 settembre 2015, in causa Taricco, aveva delineato l’obbligo
per il giudice nazionale di disapplicare la normativa sulla prescrizione penale che avrebbe comportato,
a causa del termine troppo breve, l’impunità delle gravi frodi Iva.
La Corte Europea, sollecitata dalla Corte Costituzionale con ordinanza n. 24/2017, era poi tornata sul
tema, salvando formalmente la “regola Taricco”, ma riconoscendo che essa non potesse trovare
applicazione ove entrasse in conflitto con principi fondamentali dello Stato membro.
Con l’ordinanza 115/2018, la Consulta ha statuito che non è disapplicabile la disciplina della
prescrizione dei reati tributari: l’ingresso della regola Taricco nell’ordinamento italiano sarebbe sempre
e comunque in violazione del principio di determinatezza in materia penale.
Il presente contributo ripercorre le tappe della querelle, conclusasi (verosimilmente) con la pronuncia
dello scorso 31 maggio.
Contenzioso penale tributario
82 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
Brevi cenni sull’istituto della prescrizione
La prescrizione è una causa di estinzione del reato, o meglio, come stabilito dall’articolo 2934, cod. civ.,
è la modalità di estinzione del diritto per il mancato esercizio dello stesso da parte del titolare per il
tempo determinato dalla legge.
L’istituto della prescrizione, nel diritto penale, trova il suo fondamento nell’attenuarsi dell’interesse
dello Stato a punire quei reati il cui “ricordo sociale” si è affievolito per il decorso del tempo. Risponde,
altresì, all’esigenza di garantire all’imputato una durata ragionevole del processo, secondo quanto
stabilito dall’articolo 6, CEDU.
Gli unici limiti all’operatività dell’effetto estintivo della prescrizione sono rappresentati dalla
commissione di un delitto punito con la pena dell’ergastolo in considerazione della sua gravità1, e
dall’esistenza di una sentenza di condanna irrevocabile intervenuta prima della decorrenza del termine
di prescrizione.
Occorre ricordare poi che la prescrizione opera per tutta la durata del processo penale: ciò
significa che, tranne nel caso in cui si verifichi una causa interruttiva2, la sentenza definitiva deve
intervenire entro il termine di prescrizione, altrimenti il reato non sarà più perseguibile.
Nel termine di prescrizione, oltre a quello previsto per l’interruzione si deve, di conseguenza,
necessariamente giungere a una sentenza irrevocabile.
Il D.Lgs. 74/2000, in tema di reati tributari, nella sua originaria formulazione, non dava specifiche
indicazioni riguardo la prescrizione, limitandosi semplicemente a integrare, con l’articolo 17, l’articolo
160, c.p. che, disciplina l’interruzione del corso della prescrizione stessa.
Pertanto, anche in materia tributaria, era necessario prendere in considerazione gli articoli 157-161 del
c.p. relativi appunto all’istituto in parola: il tempo necessario a prescrivere si ricavava, dunque,
1 L’articolo 157, ultimo comma, c.p. dispone infatti che “La prescrizione non estingue i reati per i quali la Legge prevede la pena dell'ergastolo,
anche come effetto dell'applicazione di circostanze aggravanti”. 2 L’interruzione della prescrizione si ha ogni qual volta viene in essere uno degli atti elencati dall’articolo 160, c.p., integrato, per i reati
tributari, dalla notifica del verbale di constatazione (pvc) o dell'atto di accertamento delle relative violazioni.
Da sottolineare che, nella pressoché totalità dei casi, le violazioni tributarie vengono rilevate con verbale di constatazione o avviso di
accertamento.
Le uniche eccezioni potrebbero essere rappresentate dai delitti di omesso versamento scoperti in sede di liquidazione delle dichiarazioni e
pertanto senza la redazione di pvc, né di avviso di accertamento.
Ne consegue che, nella maggior parte dei reati tributari, al termine prescrizionale base deve essere aggiunto l’aumento di 1/4 causato
dall’interruzione.
In nessun caso, ai sensi dell’articolo 161 c.p., l’interruzione può comportare l’aumento di più di 1/4 del tempo necessario a prescrivere (fatta
eccezione per le ipotesi di recidiva o di delinquenza abituale e/o professionale e alcune ipotesi di reato espressamente previste).
Contenzioso penale tributario
83 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
dall’articolo 157 con la conseguenza che tutti gli illeciti previsti dal D.Lgs. 74/2000 si prescrivevano in
sei anni che, a seguito di eventuale interruzione, diventavano 7 anni e mezzo3.
La riforma del 2011
L’articolo 2, comma 36-vicies semel, lettera l), L. 148/2011, ha, tuttavia, modificato i termini
prescrizionali per i delitti tributari. Esso ha, in particolare, previsto l’aggiunta di un nuovo comma 1-bis,
articolo 17, D.Lgs. 74/2000:
“i termini di prescrizione per i delitti previsti dagli articoli da 2 a 10 del presente decreto sono elevati
di un terzo”.
Ciò significa che il termine di 6 anni deve essere aumentato di 1/3: il tempo necessario a prescrivere è
diventato, così, di 8 anni (10 con l’interruzione che, si ricorda, per i reati tributari è causata anche da pvc
o atto di accertamento delle violazioni) per gli illeciti fiscali commessi a partire dal 17 settembre 2011.
Rimangono fuori dalla modifica gli articoli 10-bis, 10-ter, 10-quater e 11, D.Lgs. 74/2000
(rispettivamente omesso versamento delle ritenute, omesso versamento di Iva, indebita compensazione
e sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte) per i quali, quindi, il termine prescrizionale
continuerà a essere di 6 anni (sette e mezzo con l’interruzione).
Sospensione del corso della prescrizione
Il corso della prescrizione è sospeso, ai sensi dell’articolo 159, c.p., in ogni caso in cui è imposta da una
particolare previsione normativa la sospensione del procedimento, del processo penale o dei termini di
custodia cautelare, oltre che nei casi di:
− autorizzazione a procedere;
− deferimento della questione ad altro giudizio;
− sospensione del procedimento o del processo penale per ragioni di impedimento delle parti e dei
difensori ovvero su richiesta dell’imputato o del suo difensore.
Inoltre, la riforma Orlando4 ha introdotto all’articolo 159 c.p. ulteriori ipotesi di sospensione del corso
della prescrizione, le quali hanno senza dubbio effetti anche per gli illeciti fiscali.
3 Anche per quanto concerne la decorrenza della prescrizione, per i reati tributari trova applicazione la disciplina generale prevista dal codice
penale. A tal proposito, l’articolo 158, c.p., stabilisce che “il termine della prescrizione decorre, per il reato consumato, dal giorno della
consumazione…”.
Pertanto, in estrema sintesi, per i reati connessi alla dichiarazione, i quali si intendono consumati al momento della presentazione della
dichiarazione medesima, la prescrizione inizia a decorrere da quel momento. Per i delitti relativi alla emissione di documenti, rileva il momento
in cui il documento viene emesso. 4 L. 103/2017.
Contenzioso penale tributario
84 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
In concreto, il corso della prescrizione è ora sospeso fino al deposito della sentenza di appello, e
comunque per un tempo non superiore a 1 anno e 6 mesi; dopo la sentenza di condanna in
appello, il termine resta sospeso fino alla pronuncia della sentenza definitiva e comunque per un
tempo non superiore a 1 anno e 6 mesi.
Ne deriva, così, che in caso di condanna dell’imputato in primo grado il termine prescrizionale si
allungherà verosimilmente di 3 anni in totale, considerando il giudizio di appello e la Cassazione.
Va da sé che in ipotesi di sentenza assolutoria l’incremento del termine non si verifica.
Nel caso di sospensione, la prescrizione riprende poi il suo normale corso dal giorno in cui cessa la
causa della sospensione e, il termine si andrà a sommare con quello precedentemente trascorso.
Attuale disciplina della prescrizione degli illeciti fiscali
Riassumendo, l’attuale regime prescrizionale degli illeciti fiscali previsti dagli articoli da 2 a 10, D.Lgs.
74/2000 è il seguente.
Per i reati di cui agli articoli 2 (dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per
operazioni inesistenti), 3 (dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici), 8 (emissione di fatture o altri
documenti per operazioni inesistenti) e 10 (occultamento o distruzione di documenti contabili), per i
quali è disposta la pena massima edittale di anni 6 di reclusione, il termine di prescrizione è di 8 anni,
elevato a 10 in caso di interruzione e fino a un massimo di anni 13 in caso di sospensione.
Nonostante per i reati di cui all’articolo 4, (dichiarazione infedele) e all’articolo 5, (omessa dichiarazione)
sia disposta una pena massima edittale più lieve rispetto ai reati sopra elencati (rispettivamente di anni
3 e anni 4 di reclusione), il regime prescrizionale è lo stesso.
Discorso diverso, invece, va fatto per i reati tributari esclusi dal regime speciale previsto dall’articolo
17, D.Lgs. 74/2000. Infatti, per i reati di cui agli articoli 10-bis, 10-ter, 10-quater e 11, il termine di
prescrizione è di 6 anni, elevato a 7 anni e mezzo in caso di interruzione e fino a un massimo di anni 10
e mesi 6 in caso di sospensione.
Prescrizione in tema di frodi Iva: la giurisprudenza europea critica la disciplina italiana
La disciplina della prescrizione, così come prevista dal nostro ordinamento, è stata oggetto di critiche
da parte della giurisprudenza comunitaria. In particolare, secondo i giudici europei, tale disciplina
potrebbe ledere gli interessi finanziari dell’Unione Europea, impedendo, nei casi di frode grave in
materia Iva, l’inflizione effettiva e dissuasiva di sanzioni, a causa di un termine complessivo di
prescrizione troppo breve.
Contenzioso penale tributario
85 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
La questione ruota intorno alla ormai nota sentenza Taricco5, con cui la Corte UE aveva
denunciato l’insostenibilità del sistema italiano della prescrizione nella misura in cui il
meccanismo dell’interruzione, e il limite massimo di 1/4 concesso per la prescrizione in presenza
di cause interruttive, può determinare la sistematica impunità delle gravi frodi in tema di Iva,
lasciando così senza una tutela adeguata non solo gli interessi del fisco italiano ma anche,
essendo l’Iva un tributo comunitario, quelli dell’Unione Europea.
La Corte di Giustizia aveva dunque affermato l’obbligo per il giudice italiano di disapplicare gli articoli
160 e 161, c.p., laddove tale normativa impedisse allo Stato di adempiere agli obblighi di tutela effettiva
degli interessi finanziari dell’UE. Questo in virtù del primato del diritto comunitario rispetto a quello
nazionale (compreso il diritto penale).
Il termine ordinario di prescrizione, anche in caso di illeciti fiscali, doveva quindi ricominciare a
decorrere da capo dopo ogni atto interruttivo.
Il caso Taricco: le ordinanze di rimessione
La sentenza Taricco, all’indomani della sua pubblicazione, ha suscitato reazioni contrastanti in seno alla
giurisprudenza italiana6, la quale ha richiesto l’intervento della Corte Costituzionale.
La Corte d’Appello di Milano, con un’ordinanza del 18 settembre 2015, ha ritenuto i principi stabiliti
dalla sentenza europea in contrasto con il principio di legalità previsto dall’articolo 25, comma 27,
Costituzione, e ha sollevato questione di legittimità costituzionale sulla base del fatto che il principio
di legalità costituirebbe un “controlimite” all’ingresso del diritto comunitario nel nostro ordinamento.
Medesima questione è stata sollevata dalla Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 28346/2016. In
particolare, viene rimesso al giudice delle leggi il compito di stabilire se dall’applicazione della
normativa comunitaria, nell’interpretazione fornita dalla sentenza Taricco, discenda l’obbligo per il
giudice nazionale di disapplicare gli articoli 160, comma 3, e 161, comma 2, c.p., allorquando ne derivi
la sistematica impunità delle gravi frodi in materia di Iva, nonostante dal conseguente prolungamento
del termine di prescrizione discendano effetti sfavorevoli per l’imputato.
5 Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Grande Sezione Taricco e altri, 8 settembre 2015. 6 Vi sono state alcune sentenze che hanno ritenuto di dare concreta applicazione ai principi della sentenza europea, altre invece che ne hanno
preso le distanze.
In particolare, con la sentenza n. 2210/2016, la Cassazione ha disapplicato la disciplina dettata dagli articoli 160 e 161, c.p., affermando che
in tema di gravi frodi Iva il termine ordinario di prescrizione deve ricominciare da capo a decorrere dopo ogni atto interruttivo.
Viceversa, invece, con la pronuncia n. 7914/2016, la Corte ha ritenuto non applicabili tali principi per 2 motivi. Anzitutto, la questione principale
attiene alla gravità della frode e del danno per l’Erario. In particolare, i giudici hanno sottolineato che se la frode Iva non è grave, la prescrizione
rimane confermata calcolando il termine massimo causato dall’interruzione. Inoltre, la eventuale disapplicazione degli articoli 160 e 161 c.p.,
deve essere valutata con riferimento ai soli fatti non ancora prescritti alla data della pubblicazione della pronuncia Taricco. 7 “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”.
Contenzioso penale tributario
86 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
La prima pronuncia della Consulta
La Corte Costituzionale, con una prima decisione8, ha ritenuto di non pronunciarsi sul punto e di
sottoporre alla Corte Europea alcune questioni.
Anzitutto, evidenzia che il riconoscimento del primato del diritto dell’Unione è un dato acquisito nel
nostro sistema costituzionale, ai sensi dell’articolo 11, Cost.; tuttavia l’osservanza dei principi supremi
dell’ordine costituzionale italiano e dei diritti inalienabili della persona è condizione perché il diritto
dell’Unione possa essere applicato in Italia. Ciò significa, in estrema sintesi, che la normativa europea
non può comunque porsi in contrasto con i principi supremi del nostro ordinamento costituzionale9.
A tal proposito, il principio di legalità in materia penale esprime un principio supremo
dell’ordinamento, posto a presidio dei diritti inviolabili dell’individuo, per la parte in cui esige che
le norme penali siano determinate e non abbiano in nessun caso portata retroattiva.
L’ordinanza evidenzia, poi, che il regime della prescrizione italiano è soggetto senza dubbio al principio
di legalità: ne deriva, così, che occorre valutare se la regola tratta dalla sentenza Taricco soddisfi il
requisito della determinatezza, che per la Costituzione deve caratterizzare le norme di diritto penale
sostanziale10.
La verifica deve quindi svolgersi su 2 piani:
1. stabilire se la persona potesse ragionevolmente prevedere, in base al quadro normativo vigente al
tempo del fatto, che il diritto dell’Unione Europea avrebbe imposto al giudice di non applicare la
disciplina della prescrizione nel caso di sussistenza di una frode Iva grave;
2. verificare se la regola enunciata dalla sentenza Taricco sia idonea a delimitare la discrezionalità del
giudice nazionale.
Secondo la Consulta la sentenza Taricco non rispettava tali requisiti, ed è stato così sollecitato un altro
intervento della Corte Europea, al fine di stabilire se, nonostante tale sentenza confliggesse con un
principio supremo dell’ordinamento, la stessa andasse comunque applicata.
La sentenza Taricco-bis
La Corte Europea si è così pronunciata nuovamente sulla questione con la c.d. sentenza Taricco-bis11,
che sembrerebbe un pochino più aperta rispetto alla precedente.
8 Ordinanza n. 24/2017. 9 Che rappresentano i c.d. “controlimiti”. 10 Queste ultime devono essere formulate in termini chiari, precisi e stringenti, sia allo scopo di consentire alle persone di comprendere quali
possono essere le conseguenze della propria condotta sul piano penale, sia allo scopo di impedire l’arbitrio applicativo del giudice. 11 Sentenza della Corte UE relativa alla causa C-42/17 del 5 dicembre 2017.
Contenzioso penale tributario
87 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
Con tale pronuncia, la Corte di Giustizia ha ribadito l’interpretazione che all’articolo 325, TFUE12 aveva
dato nella precedente sentenza dell’8 settembre 2015, ma, nello stesso tempo, ha dato ragione alla
Corte Costituzionale che, con la predetta ordinanza n. 24/2017, aveva opposto a quella interpretazione
il possibile contrasto con il principio di legalità penale. A questo risultato essa è pervenuta per effetto
della sola precisazione che la prima sentenza Taricco non si applica per il passato, e cioè ai reati
commessi anteriormente alla sua emanazione; ma ha prospettato una diversa posizione per il futuro, e
cioè per i reati commessi successivamente.
In sostanza, il contrasto del diritto nazionale con l’articolo 325, TFUE (come interpretato dalla
stessa Corte) non può determinare la disapplicazione del diritto interno (effetto conseguente al
primato del diritto Europeo) se questa disapplicazione “comporti una violazione del principio di
legalità dei reati e delle pene”.
Il dispositivo della seconda sentenza, in termini chiari “impone al giudice nazionale di
disapplicare…disposizioni interne sulla prescrizione” che siano in contrasto con l’articolo 325, TFUE, come
interpretato dal giudice europeo. Ma, ecco l’aggiunta, essa può essere effettuata solo nel rispetto del
principio di legalità.
La espressa salvezza di tale principio è essenziale per la decisione sui reati commessi prima della
sentenza Taricco dell’8 settembre 2015, ma non esclude la possibilità, per i reati commessi
successivamente, di disapplicare le disposizioni interne sulla prescrizione. Il problema, pertanto,
rimaneva sostanzialmente aperto.
L’ultima pronuncia della Corte Costituzionale
In un tale panorama sicuramente confuso e poco uniforme, la Corte Costituzionale, con la sentenza n.
115/2018, sembrerebbe aver definitivamente risolto la diatriba.
La Consulta, dopo aver ripercorso tutte le ultime pronunce sul tema, ha concluso che il giudice
nazionale non può applicare la regola Taricco, perché essa è in contrasto con il principio di
determinatezza in materia penale, consacrato dall'articolo 25, comma 2, Costituzione.
Un istituto che incide sulla punibilità della persona, riconnettendo al decorso del tempo l'effetto di
impedire l'applicazione della pena, come è quello della prescrizione, rientra nell'alveo costituzionale
12 L'articolo 325, TFUE (Trattato sul funzionamento dell’Unione europea) dispone che gli Stati membri e l'Unione condividano la responsabilità
di adottare misure di lotta contro la frode, che lede gli interessi finanziari dell'Unione stessa. L'articolo stabilisce che gli Stati membri devono
coordinare l'azione diretta a tutelare gli interessi finanziari dell'Unione contro la frode. A tal fine essi organizzano, assieme alla Commissione,
una stretta e assidua cooperazione fra le autorità competenti.
Contenzioso penale tributario
88 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
del principio di legalità penale sostanziale, enunciato dal predetto articolo 25 con formula di particolare
ampiezza.
“La prescrizione pertanto” – si legge in sentenza – “deve essere considerata un istituto sostanziale,
che il Legislatore può modulare attraverso un ragionevole bilanciamento tra il diritto all'oblio e
l'interesse a perseguire i reati fino a quando l'allarme sociale indotto dal reato non sia venuto meno
(potendosene anche escludere l'applicazione per delitti di estrema gravità), ma sempre nel rispetto di
tale premessa costituzionale inderogabile”.
Ciò premesso, i giudici costituzionali ricordano che il § 1, articolo 325, Tfue, su cui si basa la regola
Taricco, è indeterminato nella definizione del numero considerevole di casi in presenza dei quali può
operare, perché il giudice penale non dispone di alcun criterio applicativo della Legge che gli consenta
di trarre da questo enunciato una regola sufficientemente definita.
Inoltre, prosegue la sentenza, una sufficiente determinazione non è rintracciabile neppure nella
sentenza Taricco, in merito ai “casi di frode che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro
interessato”, per i quali sono stabiliti “termini di prescrizione più lunghi di quelli previsti per i casi di frode
che ledono gli interessi finanziari dell’Unione”. È un enunciato generico che non soddisfa il principio di
determinatezza della legge penale e non assicura una sua sicura percezione.
Ne consegue che l’inapplicabilità della regola Taricco ha la propria fonte non solo nella Costituzione,
ma nello stesso diritto dell’Unione e quindi le varie questioni sollevate non sono fondate, perché, a
prescindere dagli ulteriori profili di illegittimità costituzionale, la violazione del principio di
determinatezza in materia penale sbarra la strada senza eccezioni all’ingresso della regola Taricco nel
nostro ordinamento.
Contenzioso penale tributario
89 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
Accertamento e contenzioso n. 42/2018
Falso in bilancio: il dolo fa la differenza di Maria Erika De Luca - avvocato
Gianrocco Rossetti - avvocato
Quando si configura il falso in bilancio? Si tratta di un tema particolarmente delicato,
soprattutto per le implicazioni che possono derivarne. La Cassazione, con la sentenza n.
21672/2018, ha affrontato la questione, sottolineando che l’elemento fondamentale affinchè
possa ritenersi concretizzato il reato è la prova del dolo specifico, posto in essere per
rappresentare in maniera distorta la reale situazione dell’azienda. È il caso dunque di
analizzare gli aspetti salienti come configurati dalla Suprema Corte.
Premessa
Il bilancio di impresa è il documento aziendale di sintesi, di derivazione contabile, che rappresenta in
termini consuntivi e con periodicità annuale le modalità di determinazione del reddito prodotto e la
consistenza del patrimonio di funzionamento. La sua redazione è un compito estremamente delicato
perché un bilancio di esercizio mendacio può comportare importanti conseguenze per chi ha fornito ai
soci e ai terzi una rappresentazione distorta della situazione economica e finanziaria dell’azienda,
arrecando loro un danno economico e patrimoniale. Secondo l’attuale orientamento della Corte di
Cassazione, però, ciò che conta ai fini della configurabilità del reato previsto dell’articolo 2621, cod.
civ., è la prova dei raggiri e del profitto, ovvero la prova del dolo specifico.
La sentenza n. 21672/2018 e il ruolo dell’elemento soggettivo del reato
Il reato di falso in bilancio, previsto e disciplinato dall’articolo 2621, cod. civ., è stato spesso oggetto di
decisione da parte della Suprema Corte in ragione soprattutto dei numerosi e frequenti procedimenti
penali a carico di amministratori, sindaci e dirigenti che si occupano della redazione dei documenti
contabili di istituti di credito e importanti società. Con la sentenza n. 21672/2018, la V sezione penale
della Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi proprio sul predetto reato a seguito del ricorso
presentato da un manager abruzzese.
Nello specifico il legale rappresentate di una Srl immobiliare, era stato giudicato e assolto dal Tribunale
di Lanciano nonostante non avesse indicato informazioni imposte dalla legge in situazione economica,
patrimoniale e finanziaria nei bilanci della società, così da indurre in errore i destinatari delle predette
Contenzioso penale tributario
90 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
comunicazioni societarie e conseguire un ingiusto profitto. In particolare, alla voce “fondo rischi vari”,
veniva contestata l’omissione nel conto d’ordine in calce allo Stato patrimoniale dell’importo di
1.106.389 di euro, corrispondente al prezzo di una vendita di appartamenti effettuata tra gli anni 2000
e 2004.
La Corte d’Appello, pronunciandosi sulle impugnazioni proposte dal PM e dalle parti civili avverso la
sentenza di assoluzione del Tribunale di Lanciano, dichiarava non doversi procedere nei confronti
dell’imputato per il reato già ascrittogli in quanto da ritenersi prescritto ma, considerata l’importante
entità del dato contabile oggetto di omissione da parte dell’imprenditore, lo condannava comunque a
un ingente risarcimento del danno. La decisione del giudice di seconde cure si basava non solo sulla
violazione dell’obbligo dell’iscrizione dell’elevato importo derivante della vendita degli appartamenti
ma, anche e soprattutto, su come l’omissione di tale dato contabile fosse, in considerazione della sua
entità, da ritenersi di per sé dolosa.
Proprio su tale punto i legali del manager nel ricorrere dinanzi agli Ermellini, eccepivano un difetto di
motivazione da parte del giudice territoriale. In particolare la difesa dell’imputato deduceva il vizio per
cui la Corte territoriale si fosse limitata ad affermare genericamente come la peculiare connotazione
del dolo richiesto dalla fattispecie, non poteva desumersi unicamente dalla rilevante entità economica
dell’importo riferibile al dato contabile taciuto.
L’eccezione sollevata dal ricorrente trovava riscontro positivo negli Ermellini i quali, richiamando un
principio di diritto già enunciato dalla giurisprudenza della stessa Corte di Cassazione, ribadiva che:
“in tema di falso in bilancio, dove l’elemento soggettivo presenta una struttura complessa
comprendendo il dolo generico (avente a oggetto la rappresentazione del mendacio), il dolo specifico
(profitto ingiusto) e il dolo intenzionale di inganno dei destinatari, il predetto elemento soggettivo non
può ritenersi provato - in quanto “in re ipsa” - nella violazione di norme contabili sulla esposizione
delle voci in bilancio, né può ravvisarsi nello scopo di far vivere artificiosamente la società, dovendo,
invece, essere desunto da inequivoci elementi che evidenzino, nel redattore del bilancio, la
consapevolezza del suo agire abnorme o irragionevole attraverso artifici contabili”.
La presente pronuncia, in linea con l’attuale orientamento giurisprudenziale in tema di falso in bilancio,
è diretta conseguenza della riforma che ha interessato la condotta in esame; non va dimenticato, infatti,
che il reato di false comunicazioni sociali da sempre ha rappresentato una fattispecie caratterizzata da
una estrema indeterminatezza dei relativi contenuti normativi, i quali sono spesso stati oggetto di
divergenti interpretazioni che hanno prodotto risultati del tutto antitetici, passando da una restrizione
eccessiva dell’area di punibilità della norma, riducendola a casi per lo più marginali, al ricomprendervi
Contenzioso penale tributario
91 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
qualunque fattispecie fosse apparentemente riconducibile allo schema tipico del reato.
L’evoluzione normativa
In passato il nodo della questione è stato rappresentato dal significato normativo da attribuire
all’avverbio “fraudolentemente” nella struttura della norma incriminatrice. Al centro del dibattito
dottrinale, infatti, vi è sempre stata l’esatta connotazione dell’elemento psicologico del reato e quindi
l’identificazione degli specifici contenuti del dolo.
Le posizioni assunte dalla giurisprudenza in ordine alla definizione del contenuto dell’elemento
soggettivo del delitto di false comunicazioni sociali, sono state generalmente mosse dalla necessità di
garantire la più ampia capacità ed estensione punitiva della norma incriminatrice ma nonostante ciò,
negli anni, dottrina e giurisprudenza non sono riuscite a proporre una soluzione concorde e condivisibile
in ordine alla precisa definizione del significato normativo da riconoscere all’avverbio
“fraudolentemente”, con la conseguenza che le aspettative di avvalersi dell’elemento psicologico del
reato ai fini della selezione delle condotte concretamente punibili a norma dell’articolo 2621, cod. civ.
sono state deluse.
La svolta è arrivata con la riforma operata nel 2015 allorquando il Legislatore ha cercato di prendere le
distanze dalla precedente disciplina introducendo significativi fattori di novità soprattutto sotto il
profilo psicologico della condotta.
La condotta in esame, precedentemente sanzionata come contravvenzione, a seguito della
riforma è tornata a essere considerata come delitto e quindi punito con la pena della reclusione
da 1 a 5 anni.
Attualmente, infatti, il dettato normativo si presenta con questa nuova veste:
“fuori dai casi previsti dall'articolo 2622, gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla
redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, i quali, al fine di conseguire per sé
o per altri un ingiusto profitto, nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali dirette ai
soci o al pubblico, previste dalla legge, consapevolmente espongono fatti materiali rilevanti non
rispondenti al vero ovvero omettono fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge
sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa
appartiene, in modo concretamente idoneo a indurre altri in errore, sono puniti con la pena della
reclusione da 1 a 5 anni. La stessa pena si applica anche se le falsità o le omissioni riguardano beni
posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi”.
Contenzioso penale tributario
92 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
I tratti salienti della nuova formulazione del falso in bilancio
La prima scelta è stata quella di sopprimere il dolo intenzionale eliminando la locuzione previgente
“con l’intenzione di ingannare i soci o il pubblico” in quanto considerato un elemento ridondante e
ripetitivo giacché, come affermato da autorevole dottrina, l’intenzione di ingannare i soci è già
contenuta nel momento soggettivo che presiede alla realizzazione di modalità idonee a indurre in
errore.
È stato inserito, invece, l’avverbio “consapevolmente” ritenuto maggiormente idoneo a descrivere
il necessario coefficiente di partecipazione psicologica dell’autore alle condotte tipiche.
Dunque, eliminando l’inciso “con l’intenzione di ingannare i soci o il pubblico”, la norma attualmente si
presenta caratterizzata dall’avverbio “consapevolmente” e dal dolo specifico di “conseguire per sé o per
altri un ingiusto profitto”. Certamente il dolo richiesto è un dolo generico che si estrinseca nella
consapevole esposizione od omissione di fatti materiali di particolare rilevanza non rispondenti al vero,
la cui comunicazione è imposta dalla legge, ma a questo la disposizione normativa aggiunge anche un
dolo specifico di ingiusto profitto “per sé o per altri” come elemento al cui risultato è orientata la
condotta dell’agente.
La nuova formulazione, nonché l’utilizzo del nuovo avverbio “consapevolmente”, è stata motivata
altresì dalla volontà da parte del Legislatore di operare una scelta ben precisa per ciò che attiene alla
struttura della fattispecie. Nella nuova formulazione, infatti, non assume più alcun rilievo il c.d. “dolo
eventuale” ma è necessario che il soggetto agente sia pienamente consapevole della concreta
idoneità decettiva della sua condotta ma soprattutto delle conseguenze dirette del suo agire. Nel
dolo eventuale, invece, l’agente ha la coscienza e la volontà di attuare un evento lesivo e, pur di
raggiungere tale scopo, accetta anche la possibilità che le conseguenze della sua condotta possano
essere più gravi di quanto non sia strettamente necessario per ottenere lo scopo primario.
L’esclusione del dolo eventuale si pone, anche e soprattutto, come strumento a garanzia di tutti coloro
che, facendo parte di organi collegiali, possono trovarsi nella condizione di adottare delibere nelle quali
è contenuta un’informazione falsa. Dunque, nella nuova formulazione permane il dolo specifico di
profitto ingiusto ma occorre sottolineare che deve essere un profitto di natura patrimoniale.
In quest’ottica, pertanto, la finalità di perseguire uno specifico fine di lucro attraverso una
condotta in cui si attesta il mendacio, fa sì che ogni altra condotta che sia tesa allo specifico scopo
di ottenere un vantaggio di tipo non patrimoniale, cioè non economicamente valutabile, perda
valore ai fini del perfezionamento del reato in oggetto.
Contenzioso penale tributario
93 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
Ma attenzione anche al concetto di profitto e al suo significato in quanto vi è conformità di parere
nell’affermare che lo stesso non deve necessariamente rappresentare un incremento patrimoniale
ma può essere anche rappresentato da un semplice risparmio di spesa ma soprattutto il profitto
dovrà essere rappresentato e voluto come conseguenza del fatto e non come possibilità o
probabilità.
Insomma il profitto dovrà fungere da stimolo ovvero da movente per la condotta dell’agente, a esso
intenzionalmente rivolta. Alla luce di tali innovazioni appare evidente che la decisione della Cassazione
in esame si conformava a quell’orientamento giurisprudenziale in cui il ruolo predominante è assunto
proprio dal dolo e quindi dall’elemento soggettivo che, essendo a struttura complessa, dovrà
necessariamente essere provato ai fini del reato contestato in quanto la funzione peculiare del dolo
specifico è proprio quella di contraddistinguere tutti quei reati che apparirebbero identici quanto a
materialità e dolo generico.
A titolo esemplificativo l’omissione di un dato all’interno di un bilancio potrebbe essere determinata
dalla necessità di salvare la società e per impedire che la reale esposizione delle condizioni sociali
possano provocare un grave e maggior danno ai creditori, ovvero dallo scopo di frodare il Fisco,
essendo questo comportamento criminoso previsto da altre specifiche norme poste a tutela
dell’Erario, ma ciò che fa la differenza è l’elemento soggettivo. È il dolo specifico, ovvero la volontà
di trarre in inganno i titolari degli interessi protetti dall’articolo 2621, cod. civ., accompagnata dal
proposito di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, a far sì che quella condotta possa essere
inglobata nell’alveo di applicazione del reato di false comunicazioni sociali e punito con la pena per
esso prevista.
Infine, e per completezza di argomento, tornando alla casistica sottoposta all’attenzione della Suprema
Corte nella dapprima commentata sentenza n. 21672/2018, posto che il motivo principale di ricorso è
basato sul dolo quale elemento indefettibile del reato in esame, si ritiene necessario anche spostare
l’attenzione brevemente su un altro e differente motivo del medesimo ricorso incentrato, stavolta, sulla
prescrizione del reato addebitato al ricorrente, eccezione disattesa, però, dalla stessa Corte di
Cassazione.
A tal proposito, infatti, la difesa del ricorrente evidenziava che
“la contravvenzione di cui all’articolo 2621, cod. civ. - applicabile in quanto norma più favorevole in
riferimento al fenomeno di successione normativa verificatosi per effetto della L. 69/2015 - dovesse
considerarsi un reato istantaneo, suscettibile di consumarsi in relazione a ciascun esercizio al momento
Contenzioso penale tributario
94 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
del deposito del bilancio (e quindi entro il 30 aprile dell’anno successivo rispetto a quello cui si riferisce
il bilancio), con la conseguenza che, poiché le vendite avevano avuto luogo sino al 2004, l’ultimo dei
fatti in contestazione si era consumato”.
Inoltre, sempre a parere del ricorrente, nel caso di specie, in ossequio a una precedente giurisprudenza,
doveva asserirsi che le successive dichiarazioni essendo state di conferma della comunicazione falsa
non potessero integrare una nuova violazione della medesima disposizione di legge, né, tantomeno,
rilevano agli effetti della continuazione o della permanenza. Conseguenza di siffatto ragionamento era
l’asserita prescrizione del reato contestato.
In questo caso, però, la Cassazione, discostandosi dalla tesi difensiva propugnata in atti, evidenziava
che il precedente giurisprudenziale a cui la difesa attanagliava la propria tesi non era assolutamente
rapportabile al caso in esame.
In particolare, la Suprema Corte sottolinea che le informazioni societarie che hanno a oggetto
dati contabili riferibili a entità economicamente valutabili, suscettibili di incidere sulla situazione
patrimoniale dell’azienda anche negli anni di esercizio successivi a quello in cui l’entità è venuta
a esistenza, devono essere necessariamente riportate nei documenti societari che si rivolgono ai
soci e al pubblico, onde consentire ai predetti destinatari di compiere consapevolmente le proprie
scelte nei rapporti con l’impresa.
Sicché, l’omissione di dati contabili imposti dalla legge, in grado, anche in linea potenziale, di incidere
sulla consistenza del patrimonio dell’impresa può dare luogo a tanti singoli reati istantanei di falso in
bilancio, con ripercussioni sui termini prescrizione. Nel caso in esame, pertanto, il reato di mendacio
bilancistico per omissione, relativo almeno all’esercizio 2010, con deposito del corrispondente
documento in data prossima al 30 aprile 2011, non era certamente estinto per prescrizione al momento
della pronuncia della sentenza di primo grado.
Conclusioni
Le problematiche sottese alla sentenza in commento hanno evidenziato come il reato di false
comunicazioni sociali sia sempre stato fonte di numerosi problemi. Certamente quello relativo
all’elemento soggettivo ha trovato una risposta nel D.Lgs. 139/2015, con il quale il Legislatore ha voluto
conferire una nuova forza prescrittiva a una norma ormai svuotata nei suoi contenuti. La finalità posta
alla base di siffatto intervento normativo è stata rappresentata dalla volontà, nonché dalla necessità, di
Contenzioso penale tributario
95 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
ripristino della forza di dissuasione da certi comportamenti di falsificazione dei conti dei profitti e delle
perdite attraverso una rivalutazione complessiva di tutto il settore.
Alla base di tale scelta un ruolo importante è stato svolto dalla presa di coscienza che ormai il falso in
bilancio è considerato un reato spia di possibili dinamiche corruttive essendo spesso lo strumento in
grado di realizzare o coprire con alchimie contabili la creazione del “rapporto di provvista” alla base
delle transazioni illecite. Tuttavia, se da un lato si è cercato di dare nuova dignità normativa all’articolo
2621, cod. civ. punendo la condotta come reato e non più come contravvenzione, al contempo, essendo
previsto un inasprimento del trattamento giuridico a carico del reo, l’elemento soggettivo ha assunto
un ruolo determinante.
Invero, nella formulazione testuale previgente ciò che assurgeva a elemento indefettibile era la
specifica ed esclusiva intenzione, da parte degli amministratori o comunque da parte degli altri
potenziali soggetti attivi del reato, di trarre in inganno alcuno dei destinatari qualificati delle
comunicazioni. Attualmente, invece, la norma, che ha subito delle radicali se pur apparentemente
innocue trasformazioni, richiede una differente consapevolezza dell’attività delittuosa. La condotta,
infatti, deve essere assistita da una specifica volontà di nuocere, che si estrinseca in una chiara
intenzione di “esporre fatti materiali non rispondenti al vero” oppure di sottrarsi alla indicazione di “fatti
materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge”.
Da una lettura iniziale della norma la prima sensazione è che il Legislatore abbia voluto abbandonare
la punibilità di condotte meramente “colpose” a favore di una tendenza quanto più garantista possibile.
In quest’ottica il dolo si configura come chiara e inequivocabile manifestazione di adesione volontaria
all’accadimento antigiuridico, non solo previsto ma anche perseguito e accettato dall’autore dell’illecito.
Lo stesso rafforzativo utilizzato dall’avverbio “consapevolmente” sembra quasi voler suggerire un
regime più accondiscendente verso i presunti autori dell’illecito in esame i quali, potranno essere
considerati rei delle condotte loro ascritte, solo laddove sia dimostrata una chiara e diretta
intenzionalità ai fini della concreta realizzazione del fatto.
Tradotto in termini più pratici, così come è accaduto nel caso sottoposto all’esame della Corte di
Cassazione con la pronuncia n. 21671/18, la punibilità del fatto discenderà dall’esclusivo accertamento
di una piena rappresentazione e volizione da parte dell’imputato nella realizzata alterazione delle
scritture contabili volta a conseguire un profitto per sé o per altri.
Contenzioso penale tributario
96 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
Diversamente, laddove non dovesse essere riscontrato o provato il dolo specifico che, come detto,
caratterizza il reato in oggetto, il comportamento dovrà essere ricondotto ad altra ed eventuale
norma.
Si può concludere, allora, che attualmente la norma, individuando nel dolo l’elemento differenziale, fa
sì che non potranno sussistere gli estremi del reato ogniqualvolta la falsa comunicazione sia stata
soggettivamente orientata dagli amministratori al salvataggio dell’impresa sociale, al recupero di una
immagine positiva e di una competitività sui mercati o ancora alla salvaguardia dei posti di lavoro. In
questi casi, ormai sempre più frequenti a causa della crisi economica che da tempo affligge soprattutto
le pmi nostrane, lo scopo sarà tutt’altro che disapprovato dall’ordinamento e certamente le condotte
non potranno essere qualificabili in termini di ingiusto profitto.
Osservatorio
97 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
Accertamento e contenzioso n. 42/2018
L’osservatorio di giurisprudenza di Mara Pilla - dottore commercialista
Diritto tributario - Parte generale
Iva – Principi generali
La solidarietà di cui all’articolo 60-bis, D.P.R. 633/1972, nel procedimento e nel processo
La Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 17171/2018, chiarisce il ruolo del coobbligato solidale,
soggetto passivo Iva, cessionario in operazioni per le quali il cedente non versi l’imposta, ove il prezzo
di cessione sia inferiore al valore normale e il bene ceduto rientri nell’elenco di cui al D.M. 22 dicembre
2005 (tra i quali rientrano le autovetture usate). Si tratta della disposizione introdotta nell’ordinamento
con il fine di contrastare le frodi carosello, che prevede per il caso di mancato versamento dell'imposta
da parte del cedente, relativa a cessioni effettuate a prezzi inferiori al valore normale, in relazione a
specifici beni risultanti in un decreto del Mef, la solidarietà del cessionario per il pagamento dell’Iva. La
norma concede al cessionario la possibilità di contestare l’inferiorità del prezzo rispetto al valore
normale, adducendo e documentando eventi o situazioni di fatto oggettivamente rilevabili o specifiche
disposizioni di legge, non connessi con il mancato pagamento dell'imposta. La Suprema Corte esamina
la fattispecie sotto il profilo procedimentale e processuale, illustrando lo strumento con il quale
l’Agenzia delle entrate deve opporre la contestazione al cessionario, preteso solidalmente coobbligato
al versamento dell’imposta, nonché l’azione di cui costui è titolare, per l’ipotesi in cui si renda
necessario, nel pieno esercizio del diritto di difesa, sottoporre al vaglio giurisdizionale l’opposta
solidarietà. La vicenda sottoposta ai giudici di piazza Cavour riguardava compravendite di automobili,
in relazione alle quali il cessionario aveva ricevuto una cartella di pagamento, recante l’iscrizione a
ruolo di Iva ex articolo 60-bis, D.P.R. 633/1972. La CTP aveva accolto il ricorso del contribuente, mentre
la CTR aveva accolto l’appello dell’Agenzia delle entrate, ritenendo che sul piano procedimentale, ai
fini di integrare le garanzie del diritto di difesa del contribuente, non fosse necessario né un processo
verbale di constatazione né un avviso di accertamento presupposto rispetto all’iscrizione a ruolo recata
dalla cartella di pagamento di cui era causa. La norma, insisteva il contribuente nel grado di legittimità,
non disciplina la riscossione e, pertanto, necessita di una prodromica attività accertativa a carico della
contribuente, cosicché nell’istruttoria il preteso coobbligato solidale possa contraddire sulla sussistenza
Osservatorio
98 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
dei presupposti per la solidarietà. Ulteriore conseguenza, sul piano processuale, invece, sarebbe per il
preteso coobbligato solidale la possibilità di impugnare un atto impositivo, anziché riscossivo. La Corte
rammenta che “l'introduzione del D.P.R. 633/1972, articolo 60-bis avvenuta nel 2004, è diretta attraverso la
solidarietà dal lato passivo dell'obbligazione tributaria, al contrasto alle frodi carosello. Ciò è avvenuto in
conformità dell'articolo 21, n. 3 della VI Direttiva, come interpretato dalla Corte di Giustizia, nella sentenza
dell'11 maggio 2006 nella causa C-384/04, Commissioners of Customs & Excise e Attorney General contro
Federation of Technological Industries e altri, secondo cui la disciplina permette ad uno Stato membro di
adottare una normativa ai sensi della quale un soggetto passivo, a favore del quale sia stata effettuata una
cessione di beni o una prestazione di servizi e che era a conoscenza del fatto o aveva ragionevoli motivi per
sospettare che la totalità o parte dell'imposta sul valore aggiunto dovuta per tale cessione o tale prestazione,
ovvero per qualsiasi altra cessione o qualsiasi altra prestazione precedente o successiva, non sarebbe stata
versata, può essere obbligato a versare tale imposta in solido con il debitore … L'articolo 60-bis, Decreto Iva,
in tema di solidarietà nel pagamento dell'imposta, in luogo del disconoscimento della detrazione a monte,
prevede l'obbligo autonomo di pagare quanto dovuto e non versato dal cedente. La disciplina pertanto non
implica la rettifica della posizione del cessionario e trova applicazione l'obbligazione solidale per il semplice
fatto giuridico dell'omesso versamento del dovuto da parte del cedente, senza alcuna necessità di attività
accertativa Infine, nessun pregiudizio deriva dalla mancata impugnabilità dell'avviso di coobbligazione
solidale, per la possibilità di reagire impugnando la cartella, come in concreto ha fatto la contribuente".
Potrebbe lasciare perplessi la statuizione, laddove si consideri che le iscrizioni a ruolo sono disciplinate
dal D.P.R. 602/1973, ove non risulta una disposizione che sorregga la legittimità del recupero dell’Iva
in capo al cessionario solidalmente responsabile, in applicazione del più volte citato articolo 60-bis.
L’articolo 14, D.P.R. 602/1973, infatti, stabilisce che siano iscritti a titolo definitivo nei ruoli le imposte
e le ritenute alla fonte liquidate ai sensi degli articoli 36-bis e 36-ter, D.P.R. 600/1973, con estensione
all’Iva liquidata ai sensi dell’articolo 54-bis dello stesso decreto; le imposte, le maggiori imposte e le
ritenute alla fonte liquidate in base ad accertamenti definitivi; i redditi dominicali dei terreni e i redditi
agrari determinati dall'ufficio in base alle risultanze catastali; i relativi interessi, soprattasse e pene
pecuniarie. Non pare che l’iscrizione a ruolo in argomento possa assimilarsi ad una derivante dal
controllo ai sensi dell’articolo 54-bis, D.P.R. 602/1973, giacché questo può esplicarsi soltanto per ipotesi
tassative, tutte frutto di procedure automatizzate: errori materiali e di calcolo commessi dai contribuenti
nella determinazione del volume d'affari e delle imposte; errori materiali commessi dai contribuenti nel
riporto delle eccedenze di imposta risultanti dalle precedenti dichiarazioni; mancata rispondenza con
la dichiarazione e la tempestività dei versamenti dell'imposta risultante dalla dichiarazione annuale a
Osservatorio
99 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
titolo di acconto e di conguaglio nonché dalle liquidazioni periodiche di cui agli articoli 27, 33, comma
1, lettera a), e 74, comma 4. Le residue ipotesi di iscrizione a ruolo, disciplinare dal D.P.R. 602/1973
concernono gli accertamenti non definitivi (articolo 15); i ruoli straordinari (articolo 15-bis); i ruoli per
somme dovute a seguito dell'attività di controllo dell'Agenzia delle entrate in relazione a rateazioni
(articolo 15-ter).
Per vincere la perplessità, si può richiamare l’orientamento giurisprudenziale in punto di coobbligazione
solidale in materia di imposta di registro, sviluppatosi in relazione alla norma di cui all’articolo 57, D.P.R.
131/1986, laddove prescrive che le parti contraenti sono, tra le altre, solidalmente obbligate al
pagamento dell'imposta. L’Agenzia delle entrate, ritiene la Suprema Corte, può chiedere
indifferentemente l’intero pagamento o all’uno o all’altro dei coobbligati in solido, “la norma prevede
una mera coobbligazione solidale, per modo che l'amministrazione non è vincolata né dal beneficio
dell'ordine, né, tanto meno, dal beneficio di previa escussione” (Cassazione, sentenza n. 9126/2014; nello
stesso senso Cassazione, sentenza n. 13248/2017, secondo qualcuno smentita, ancorché isolatamente,
da Cassazione, sentenza n. 29845/2017, che però è resa in relazione alla successiva cartella di
pagamento, come a dire che una cosa è la notificazione dell’atto presupposto, altra è quella dell’atto
derivato). Rimane, pertanto, non risolta alla luce delle norme la questione trattata dalla Corte nella
sentenza in commento, nonostante l’impiego del parallelo con le notificazioni al coobbligato, in materia
di imposta di registro. Con riferimento a questo profilo, tuttavia, si attende il consolidamento
dell’orientamento emerso nel corso dell’anno 2017, che riconosce come la notifica al coobbligato non
trasformi la decadenza in prescrizione (Cassazione, sentenza n. 29845/2017, seguita da qualche
conferma nel corso dell’anno 2018). L’inapplicabilità del principio di conversione della decadenza in
prescrizione (c.d. actio judicati) all’atto amministrativo divenuto definitivo, giusta la distinzione
ontologica di questo rispetto al giudicato sostanziale, potrebbe risolvere in radice la tematica, atteso
che indurrebbe l’amministrazione alla notificazione dell’atto presupposto a tutti i coobbligati, onde
evitare di incorrere in decadenze.
Riscossione
Rimborsi
Lo jus superveniens in punto di innovazione del procedimento amministrativo di rimborso non incide sui
giudizi in corso, a meno che non sia prevista una disciplina transitoria
La Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 17574/2018, nell’ambito delle norme procedimentali,
distingue quella che innovi il procedimento amministrativo di rimborso e, dopo aver chiarito che - in
Osservatorio
100 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
ogni caso - esula dalla competenza della Corte ogni questione attinente all’esecuzione o
all’ottemperanza dei rimborsi, esclude che lo jus superveniens sia idoneo ad incidere sui giudizi in corso,
eccetto il caso di esplicita previsione transitoria. La questione sottoposta ai giudici di piazza Cavour
riguardava il rimborso di una quota di Irpef, relativa al 1990, versata da un residente in zona riconosciuta
sismica, in eccedenza rispetto all’agevolazione prevista per la calamità occorsa. Nelle more della
controversia, tuttavia, una novella del 2017 aveva introdotto un limite alla spesa erariale e stabilito ex
post il rimborso parziale, nella misura del 50%, per l’ipotesi di superamento di tale eccedenza. La Corte
qualifica la novella tra le norme di disciplina del procedimento amministrativo di rimborso,
implicitamente ritenute né sostanziali, ossia non afferenti al presupposto del diritto al rimborso (nel
qual caso, l’irretroattività sarebbe stata scontata), né procedimentali in senso lato (nel qual caso la
retroattività sarebbe stata astrattamente possibile). Nella specie, la norma in questione è consultabile
all’articolo 16-octies, comma 1, D.L. 91/2017, che demanda al direttore dell'Agenzia delle entrate
l'emanazione di un provvedimento che stabilisca "le modalità e le procedure finalizzate ad assicurare il
rispetto dei limiti di spesa". Osserva la Suprema Corte che “il delineato jus superveniens, attuato con il sopra
citato provvedimento direttoriale, per nulla incide sulla questione, della quale è investita la Corte con il ricorso
in esame, del diritto al rimborso spettante ai soggetti colpiti dal sisma del 1990, qual è il controricorrente,
operando i limiti delle risorse stanziate e venendo in rilievo eventuali questioni sui consequenziali
provvedimenti liquidatori emessi dall'Agenzia delle entrate soltanto in fase esecutiva e/o di ottemperanza.
Inoltre, costituisce jus receptum l'affermazione che, in mancanza di disposizioni transitorie, non incida sui
giudizi in corso l'introduzione, con legge sopravvenuta, di un diverso procedimento amministrativo di
rimborso (es. tra le tante Cassazione, n. 8373/2015, in tema di Iva). Il che rende complessivamente tuttora
operanti e pienamente attuali i principi di diritto già enunciati in materia da questa Corte”.
Riscossione
Rimborsi
Non serve il modello VR
La Corte di Cassazione con la sentenza n. 17151/2018, conferma l’ininfluenza dell’omessa
presentazione del modello VR, ai fini del riconoscimento della spettanza del rimborso Iva nonché della
decorrenza dei relativi interessi sul credito vantato dal contribuente. La vicenda oggetto della sentenza
in commento riguardava un credito Iva esposto in dichiarazione, per il quale la CTR aveva riconosciuto
il diritto al rimborso degli interessi nonché aveva condannato l’Agenzia delle entrate a erogarli al tasso
legale, con decorrenza dal novantesimo giorno successivo a quello in cui era stata presentata la
Osservatorio
101 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
dichiarazione medesima. Lamentava nel grado di legittimità l’Agenzia delle entrate la falsa applicazione
degli articoli 30 e 38-bis, D.P.R. 633/1972, per avere la sentenza impugnata riconosciuto gli interessi
sul credito, con decorrenza dallo scadere del termine per la presentazione della dichiarazione,
applicabile solo laddove il contribuente avesse presentato il modello VR, anziché dalla presentazione
dell'istanza di rimborso. Osservano i giudici di piazza Cavour: “questa Sezione ha ripetutamente affermato
che l'istanza di rimborso non integra il fatto costitutivo del diritto, ma solo il presupposto di esigibilità del
credito per dare inizio al procedimento di esecuzione del rimborso stesso (cfr., ex multis, Cassazione n.
4559/2017, n. 19115/2016 e n. 7223/2016) … per la domanda di rimborso dell'eccedenza d'imposta è
sufficiente la manifestazione di una volontà diretta all'ottenimento del rimborso mediante la compilazione
nella dichiarazione annuale del quadro "RX4", anche se non accompagnata dalla presentazione del modello
ministeriale "VR", cui è subordinata l'esigibilità del credito (cfr. Cassazione n. 20255/2015 e n. 9941/2015).
Siffatta impostazione è coerente con la giurisprudenza formatasi con riferimento alle imposte sui redditi, in
base alla quale qualora il contribuente abbia evidenziato nella dichiarazione un credito d'imposta non
occorre, da parte sua, al fine di ottenerne il rimborso, alcun altro adempimento, ma egli deve solo attendere
che l'Amministrazione finanziaria eserciti, sui dati esposti in dichiarazione, il potere-dovere di controllo
secondo la procedura di liquidazione delle imposte, prevista dal D.P.R. 600/1973, articolo 36-bis, ovvero,
ricorrendone i presupposti, secondo lo strumento della rettifica della dichiarazione (cfr. Cassazione n.
20039/2011). L'interpretazione seguita è, altresì, coerente con la disciplina unionale secondo cui le misure
adottate dagli Stati membri per l'adempimento degli obblighi di dichiarazione e di pagamento, nonché per
assicurare l'esatta riscossione dell'imposta e per evitare frodi non possono mai porre in discussione il diritto
alla detrazione dell'Iva (cfr. Corte di Giustizia UE dell’8 maggio 2008, Ecotrade)”.
La pronunzia è d’interesse anche sotto il profilo procedimentale e processuale, giacché manifesta uno
spunto della Corte di distanza rispetto alla scuola di pensiero dell’insufficienza del decorso del tempo
ai fini del consolidamento del credito. Si allude alla discussa pronunzia delle SS.UU., Cassazione
sentenza n. 5069/2016, resa in materia di imposte dirette, con la quale le Sezioni Unite avevano ritenuto
non lesivo del diritto di difesa l’onere del contribuente di presentare un’istanza di rimborso “ulteriore”
rispetto alla manifestazione della volontà espressa in sede di dichiarazione dei redditi, in presenza di
un importo a credito: “appare cioè preferibile la soluzione accolta nella pregressa giurisprudenza e secondo
cui i termini decadenziali in questione sono apposti solo alle attività di accertamento di un credito della
Amministrazione e non a quelle con cui la Amministrazione contesti la sussistenza di un suo debito. Ancorché
simile soluzione susciti una certa disarmonia nel sistema in quanto, decorso il termine per l'accertamento,
alla Amministrazione viene consentito di contestare il contenuto di un atto del contribuente solo nella misura
Osservatorio
102 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
in cui tale contestazione consente alla Amministrazione di evitare un esborso e non invece sotto il profilo in
cui la medesima contestazione comporterebbe la affermazione di un credito della Amministrazione. In
sostanza, si tratta, per altro, di una applicazione del principio secondo cui "quae temporalia ad agendum
perpetua ad excipiendum" (articolo 1442, cod. civ.)”. Con tale statuizione, la Corte si era discostata dal
precedente costante orientamento del consolidamento (Cassazione n. 9339/2012, n. 26318/2010, n.
1154/2008, n. 3718/2005 e n. 11830/2002), al quale ora apre uno spiraglio per un nuovo approdo.
Accertamento - Tipologie accertative
Ristretta base azionaria
La sentenza che ponga a fondamento della decisione sulla presunzione di distribuzione di utili extra
bilancio la quantificazione degli stessi utili contenuta in un'altra sentenza non ancora passata in
giudicato non viola il divieto di doppia presunzione, potendo essere eventualmente censurata per
violazione dell'articolo 295, c.p.c. in materia di sospensione necessaria della causa pregiudicata
La Corte di Cassazione con la sentenza n. 18643/2018, conferma l’applicabilità dell’articolo 295, c.p.c.
al caso tipico della presunzione di distribuzione di utili extra contabili, valorizzando il profilo della
doverosità della sospensione necessaria da parte del giudice dell’accertamento a carico del socio. Il
caso riguardava un accertamento molto risalente, deciso in primo e in secondo grado con sentenza
favorevole al contribuente. La CTC, interpellata dal contribuente resistente sull’omessa dimostrazione
da parte dell'Ufficio della definitività dell’accertamento a carico della società partecipata, ribaltava le
due precedenti pronunzie. Conseguentemente, il contribuente sottoponeva la decisione della CTC alla
Suprema Corte, in particolare per quel che attiene alla motivazione della conferma dell'operato
dell'Ufficio, afferente al riconoscimento della validità della presunzione in ordine ai maggiori redditi di
capitale (sotto forma di utili non contabilizzati) derivanti dalla partecipazione ad alcune società,
qualificata dalla Commissione Centrale come presunzione iuris tantum, senza necessità di ulteriori
elementi di prova. I giudici di piazza Cavour, operati i distinguo del caso sull’evoluzione
giurisprudenziale in tema di presunzione di distribuzione di utili extra bilancio, affermano che “la
sentenza che - pronunciandosi sull'impugnativa di un atto impositivo emesso nei confronti dei soci per il
recupero dell'Irpef sui dividendi di una società a ristretta base azionaria, o emesso nei confronti della stessa
società per il recupero della ritenuta alla fonte su detti dividendi - ponga a fondamento della propria decisione
la quantificazione degli utili extracontabili della società contenuta in un'altra sentenza non ancora passata
in giudicato non viola il divieto di doppia presunzione, potendo essere eventualmente censurata, ove ciò non
sia precluso dalla situazione processuale concretamente verificatasi nel giudizio di secondo grado, per
Osservatorio
103 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
violazione dell'articolo 295, c.p.c.”. Ricordiamo che la norma codicistica richiamata dalla Corte di
Cassazione stabilisce che il giudice, nel caso in cui egli stesso o altro giudice debba risolvere una
controversia, dalla cui definizione dipende la decisione della causa, dispone che il processo sia sospeso
(c.d. sospensione necessaria).
Accertamento - Tipologie accertative
Indagini finanziarie
Non serve allegare l’autorizzazione, è sufficiente che l’autorizzazione esista
La Corte di Cassazione con la sentenza n. 17142/2018, depositata il 28 giugno 2018, torna sul tema
dell’autorizzazione per le indagini bancarie, per escludere la necessità che questa sia allegata all’avviso
di accertamento, bastando per l’utilizzabilità il fatto che il controllo sia stato a suo tempo autorizzato.
La CTR, infatti, aveva rigettato l’appello del contribuente ed, in parziale riforma della decisione della
CTP, aveva confermato la legittimità in toto dell'avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle
entrate sulla base delle risultanze delle indagini finanziarie. In particolare, era stata affrontata la
questione dell’omessa allegazione dell'autorizzazione della Direzione regionale delle entrate a svolgere
indagini bancarie, ritenuta non necessaria, posto che parte privata non ne aveva contestato l’esistenza.
Osserva la Corte, nuovamente sollecitata dal contribuente sul punto, come la censura concernente la
mancata allegazione all'avviso di accertamento dell'autorizzazione della Direzione regionale delle
entrate all'espletamento delle indagini bancarie non sia meritevole di accoglimento: “in tema di
accertamento dell'Iva, l'autorizzazione prescritta dal D.P.R. 633/1972, articolo 51, comma 2, n. 7 (nel testo,
applicabile "ratione temporis", risultante dalle modifiche introdotte dalla L. 413/1991, articolo 18, comma 2,
lettera c) e d)) ai fini dell'espletamento delle indagini bancarie risponde a finalità di mero controllo delle
dichiarazioni e dei versamenti d'imposta e non richiede alcuna motivazione; pertanto, la mancata esibizione
della stessa all'interessato non comporta l'illegittimità dell'avviso di accertamento fondato sulle risultanze
delle movimentazioni bancarie acquisite dall'ufficio o dalla Guardia di Finanza, potendo l'illegittimità essere
dichiarata soltanto nel caso in cui dette movimentazioni siano state acquisite in materiale mancanza
dell'autorizzazione, e sempre che tale mancanza abbia prodotto un concreto pregiudizio per il contribuente"
(Cassazione n. 15807/2015 e n. 16874/2009).
104 Accertamento e contenzioso n. 42/2018
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